Selvaggio e primitivo Madagascar
Non abbiamo usufruito di agenzie italiane in quanto poco “adattabili” alle nostre esigenze e con preventivi troppo cari per una famiglia di cinque persone come la nostra. La ricerca via web, ci ha permesso di trovare la soluzione ideale: un ragazzo italiano che vive da anni in Madagascar e che organizza viaggi con la possibilità di tour individuali con jeep. Fa proprio per noi! Per ovvi motivi lo chiamerò G.
Il nostro lungo viaggio comincia molto presto la mattina del primo settembre con il volo Bologna – Parigi e poi Parigi – Antananarivo che ci fa atterrare all’aeroporto della capitale malgascia alle 22 e 10.
Lo scenario che si presenta è demenziale: veniamo disposti su più “file” davanti ai front office al cui interno vi sono diversi funzionari. Il controllo ha inizio con il ritiro del passaporto e del visto da parte di un addetto, poi si ruota tutti attorno allo stesso front office, sempre in “fila” chilometrica a serpentina (lo spazio è ristretto), dove un altro funzionario controlla e timbra i documenti che nel frattempo si sono accatastati in pile alte quasi un metro e che verranno poi passati ad un altro addetto, il quale, prima di riconsegnare il passaporto, vuole assicurarsi che fotografia e dati combacino con la persona giusta. Risultato: caos totale, in quanto dopo la consegna del documento si perde di vista la propria posizione nella pila di documenti accatastati e nel frattempo arrivano i bagagli proprio dietro ai front office. Tra l’altro chi arriva tra i primi si ritrova fra gli ultimi e dopo gli iniziali minuti la “fila” si dissolve trasformandosi in folla, dove ognuno urla il proprio nome quando vede il funzionario aprire un passaporto.
La tranquillità degli addetti regna sovrana; non è lo stesso per le centinaia di persone, tra l’altro stanche, che ruotano intorno.
Abbiamo notato alcuni turisti che in pochissimo tempo erano già al di fuori dell’aeroporto: il “percorso privilegiato”, ci è stato poi spiegato, è correlato alla particolare attenzione da parte dei malgasci verso il denaro.
Riusciamo finalmente a riappropriarci dei documenti e di tutti i bagagli e ci dirigiamo verso l’uscita costituita da un muro di persone che cercano di prenderti i bagagli e di trascinarti verso i loro pulmini. Eravamo preparati a ciò e sicuri, senza guardare nessun’altro, ci dirigiamo verso un uomo con un cartello dove è scritto il nome della struttura che ci ospiterà per la prima notte e che si occupa del nostro transfert. Il pulmino, con la metà dei vetri sporchi e l’altra metà dei finestrini mancanti, ha un sistema di eliminazione dei gas di scarico che sicuramente non inquina l’ambiente in quanto questi entrano direttamente nell’abitacolo … per fortuna i chilometri che ci separano dall’hotel sono pochi.
Arrivati, ci accorgiamo di seguito che saremo allocati nella “dependance”, poichè la struttura principale non ha più posto. In effetti le recensioni lette non erano quelle della dependance. Tra le lenzuola c’erano dei capelli e peli di varia natura che mi hanno convinta a dormire vestita, mentre il “bagno” non ha convinto nessuno di noi a fare la doccia. Il colore dell’acqua che fuoriusciva dal lavandino ci ha invece convinti tutti a lavarci con l’acqua delle bottiglie.
La mattina seguente la guest house ci propone la colazione tipica che ci accompagnerà per quasi tutto il viaggio: megabaguette, burro, marmellate e succo di frutta. Dopo aver fatto il vantaggioso cambio moneta direttamente dalla proprietaria dell’hotel, arriva finalmente la nostra guida. Devo ammettere che eravamo un po’ apprensivi perchè organizzare un viaggio via internet non dà la sicurezza che tutto fili liscio e la materializzazione del nostro unico punto di riferimento ci ha alquanto sollevati.
G. ha un po’ fretta, quindi carichiamo i nostri borsoni sulla jeep e partiamo verso il sud per allacciarci alla strada n°7, direzione Antsirabe. In effetti impieghiamo circa due ore ad uscire dal caos della capitale, nelle cui strade transita di tutto, dagli onnipresenti zebù che trainano merci, ai numerosi carrettini spinti a mano che sbucano ovunque.
Ci siamo subito resi conto delle condizioni di estrema povertà in cui vivono gli abitanti.
I sobborghi di Antananarivo (Tana) sono costituiti da migliaia di fornaci. Per diversi chilometri si vedono delle specie di paludi abitate, i cui argini sono ricoperti da mattoni accatastati ed alternati a vestiti e lenzuoli stesi sull’erba: in mezzo al paesaggio il vestiario forma una serie di chiazze colorate, che, oltre ad asciugarsi per essere utilizzato, può anche essere venduto al momento.
Durante il tragitto attraversiamo diversi villaggi caratterizzati tutti da una specialità artigianale: c’è il paese che lavora e vende la raffia, quello del legno, quello che produce piante, quello dell’ananas, ecc… con le bancarelle che si estendono lungo la strada principale. Molto bello e colorato quello che lavora la raffia, i cui prodotti sono anche presenti nei principali mercati delle grandi città.
Dopo circa 3 ore giungiamo nei paraggi di Antsirabe, per incontrarci con una persona che ci porterà in una delle principali mete del viaggio: assistere ad una cerimonia “famadihana”. Essa è caratterizzata da un rituale che si svolge di solito negli altopiani tra Tana ed Ambositra da giugno a settembre, in cui vi è l’esumazione e la risepoltura dei cadaveri dei propri defunti. Viene celebrata all’incirca ogni sette anni da ogni famiglia.
Mentre G. prende accordi con un conducente di pousse-pousse (assomiglia al risciò, ma molto più colorato), che ci porterà alla”famadihana”, noi “pranziamo” in una specie di pasticceria. Ci incamminiamo in mezzo agli altopiani per raggiungere il luogo della cerimonia e da lontano vediamo, su un cucuzzulo, quella che sembra una chiesetta, con intorno diverse persone. Arrivati sul luogo sembra di essere in una tipica sagra paesana: persone vestite a festa che banchettano tra rurali tavolini su cui viene disposto cibo e bevande, mentre a terra sono disseminate delle piccole botti termiche al cui interno vi sono delle specie di ghiaccioli. Notiamo che regna un clima gioioso e che la maggior parte dei maschi presenti è alquanto “alticcia”.
Alcune persone iniziano a scavare alla base di una collinetta vicino a quella che sembrava una chiesetta e che in realtà era la tomba di famiglia: altro abbaglio, la collinetta era l’antica tomba di famiglia ricoperta ormai di terra ed erba. I più anziani del gruppo dettano le coordinate e le modalità di scavo e dopo circa un’ora viene raggiunta la pietra che funge da porta. E’ giunto il momento di far partire la cerimonia e da una collina vicina arrivano numerose persone capeggiate da una banda che suona una musica festosa.
Nel frattempo vengono abbattute sia la pietra che chiude l’antica tomba che la porta murata dell’attuale tomba di famiglia. Possiamo fare le foto da fuori, ma non possiamo entrare. La gente ora è tutta riunita: il capofamiglia ed il “capo del villaggio” fanno un discorso che ci fa capire l’importanza di questo rituale per la popolazione malgascia. Vediamo numerose stuoie di colore chiaro che vengono portate all’interno delle tombe … dopo pochi minuti escono arrotolate intorno ai cadaveri, quest’ultimi avvolti in diversi teli e lenzuoli. La musica ricomincia a sentirsi per tutta la vallata, i corpi dei defunti vengono ripetutamente toccati, tenuti in alto e fatti passare tra le braccia di parenti ed amici, tra la folla, per poi essere posati a terra. Nella concitazione generale, Giannetto, mio marito, viene “schiaffeggiato” da un cadavere. Tra balli e canti c’è però anche chi piange. Due delle stuoie arrotolate sono molto piccole.
L’alitosi alcolica e l’enfasi di alcuni partecipanti nei nostri confronti si fa sentire. E’ giunto il momento di andarcene. La cerimonia è sicuramente suggestiva, unica nel suo genere e assolutamente da fare.
Ci dirigiamo verso Antsirabe, detta la città dei pousse- pousse, dove vive la guida con la sua famiglia. Ci incontriamo con la moglie e facciamo un bel giro in pousse-pousse per la città, fino al Petit Marchè.
Ci fermiamo per assistere alle diverse fasi della lavorazione del corno di zebù e per visitare un negozio di oggettistica tutta a base di … corno di zebù. Visitiamo anche la zona della città famosa per la vendita di pietre, dove acquistiamo un meraviglioso pezzo di feci fossili.
Arriviamo fino all’Hotel des Thermes, una volta il più lussuoso della zona, da cui si vede gran parte della città e ritorniamo alla jeep che ci porterà alla struttura dove alloggeremo. Durante il tragitto vediamo un gruppetto di persone particolarmente concitato sul lato della strada, che sta assistendo alla lotta tra due galli. Decidiamo di fermarci. Era appena iniziata ed i galletti erano vispi e sembravano giocosi, ma dopo poco hanno iniziato a beccarsi sul serio e a macchiare di sangue tutta la zona. Al minimo cedimento del primo gallo ce ne siamo andati. Non avevo mai visto la lotta fra galli e sinceramente non la consiglio.
La sera ceniamo in un locale della città e finalmente assaggiamo per la prima volta le specialità malgascie: zebù, riso, verdure e pollo. Capiamo da subito che durante questo viaggio non ingrasseremo.
Al ritorno in hotel, riusciamo a fare la prima doccia, solo perché c’è l’acqua calda … in effetti il bagno, anche qui, è un bel po’ fatiscente.
La mattina seguente ripartiamo, nonostante qualche problema della jeep, che ogni tanto si spegne. Direzione Ranomafana. Il percorso è caratterizzato da altipiani con risaie e case di argilla rossa e da gruppetti di persone ai lati della strada che spaccano pietre. Ci fermiamo e vediamo che anche i bambini, come nelle fornaci, lavorano e così decidiamo di cimentarci nell’attività, procurando le risa soprattutto dei piccoli, molto più capaci di noi. Spargiamo un po’ di giochini e ripartiamo alla ricerca di un fusibile, probabile responsabile del guasto che continua a fermare la jeep.
Attraversiamo diversi villaggi Zafimaniry, con le tipiche casette di legno, famosi per la lavorazione artigianale della raffia e del legno. La sosta ci farà invece comprare una specie pregiata di pepe, appena raccolto, che alcune donne stanno pulendo ai lati della strada.
Raggiungiamo Sandrandahy, dove visitiamo il mercato e ci facciamo trascinare da alcune persone nel loro laboratorio familiare della lavorazione della seta. Entriamo in una casa dove ci fanno vedere tutte le diverse fasi: dalla nascita del baco da seta, al bozzolo secco che ci fanno toccare, alla trasformazione della seta attraverso la tessitura … fino all’obiettivo finale che consiste nella vendita di teli e sciarpe. Ne producono di qualità più o meno pregiata ed alcune sono veramente belle. Ne acquistiamo un paio.
Dopo aver pranzato, partiamo per Ambositra dove viene risolto il problema del fusibile. Incontriamo per strada diverse mandrie di zebù che ci costringono a fermarci e vediamo anche il primo di una lunga serie di roghi. In Madagascar la popolazione cresce a ritmi esorbitanti e si crea lo spazio bruciando le foreste, sempre più limitate, le quali, oltre a trasformarsi in zone abitative vengono poi sfruttate per l’agricoltura.
Lungo il percorso vedremo spesso intere colline o altipiani neri, completamente bruciati e numerosi venditori di carbone, il quale viene sistemato in grandi sacchi e poi messo in bella mostra sulla strada.
Decidiamo di visitare la zona dei cercatori d’oro e mentre affrontiamo una strada molto sterrata sentiamo un rumore provenire dal semiasse… ma continuiamo e raggiungiamo un territorio pieno di profonde buche dove affiora l’acqua ed al cui interno alcune donne, immerse con i piedi nel fango, con delle specie di vassoi tondi, filtrano il fondale alla ricerca di polvere dorata. I numerosi bambini presenti, tutti scalzi, impolverati ed infangati, ovviamente aiutano a raccogliere il ricavato della giornata: pochi e minuscoli microgranelli dorati.
Spargiamo un po’ di giochini e ripartiamo, ma dalla jeep il rumore da sospetta rottura del semiasse si fa sempre più preoccupante e dopo una telefonata della guida ad un meccanico di fiducia della zona facciamo un rendez-vous in un incrocio in mezzo al nulla. Tranquillizzati sull’entità del problema che verrà risolto il giorno seguente, andiamo a visitare il villaggio dei fabbri. E’ ormai buio, ma giunti in paese, c’è ancora una famiglia che sta lavorando… si sente. Gli uomini che battono il ferro sono tutti sudati, muscolosi e … probabilmente sordi. Stanno forgiando delle pale per lavorare la terra. I bambini hanno la responsabilità di portare la legna e non fare abbassare la fiamma del fuoco. Qui i bambini sono veramente tanti, i più grandi portano sulle spalle i più piccoli e sono tutti sporchi, vestiti con degli stracci, scalzi, con il moccolo … ci guardano e ci seguono incuriositi. Alcuni giocano con un pallone fatto di stracci arrotolati tenuti assieme dallo spago. Spargiamo molti giochini e Giannetto compra una pala appena fatta.
Arriviamo a Ranomafana e pernottiamo in una bella struttura vicina ad un fiume, immersa in una foresta tropicale piena di vari insetti e ranocchi, dove abbiamo visto il primo “albero del viaggiatore”, una specie di palma, tipica del Madagascar, alla cui base si convoglia l’acqua piovana. Ceniamo in un vicino hotel, dove Edoardo gusta degli ottimi gamberi di fiume mentre noi preferiamo il tipico cibo malgascio. Sia il ristorante che la zona è deserta, fuori fa parecchio fresco e decidiamo di ritirarci subito nelle stanze.
Per tutta la notte ho sentito un rumore tipo maxitarma gigante al lavoro, provenire da dietro la spalliera del letto che non mi ha fatto riposare. C’è chi dice che fosse un geco, ma l’inutile ricerca notturna non ha confermato il sospetto.
La mattina partiamo per il parco di Ranomafana, il primo ed anche il meno entusiasmante tra tutti quelli visitati. Il contesto assomigliava ad un film di Fantozzi dove tutti i gruppi di turisti venivano chiamati con concitazione dalle rispettive guide per vedere qualche lemure su un albero. Tutti saltellavamo come cavallette in mezzo agli arbusti verso chi ci chiamava, guardando in alto alla ricerca spasmodica dei cinque lemuri o dei due camaleonti presenti nel parco, tra inciampi e scivolate. Giannetto e Ludovica, nel tentativo di fare delle foto dal basso, sono anche stati colpiti dagli escrementi verdastri dei lemuri. Nonostante la bravura delle guide è un parco che non consiglio.
Finalmente si riparte, direzione Fianatantsoa, dove c’è un interessante mercato. Incontriamo parecchie persone a piedi, che percorrono chilometri per recarsi al mercato, c’è chi ha un maiale al guinzaglio, chi ha i suoi zebù, chi trasporta qualsiasi tipo di merce sulla testa, chi scende con carrettini carichi di sacchi a 60 chilometri all’ora giù per la discesa (il freno è costituito da un pezzo di legno che viene fatto strisciare sull’asfalto); quest’ultimo mezzo di trasporto merci è maggiormente utilizzato dai bambini, anche 7 o 8 per carretto, che sfrecciano come saette sulle strade tortuose degli altipiani.
Raggiungiamo Fianar e pranziamo in un particolare ristorante gestito da cinesi: alle pareti sono appesi diversi quadri che raffigurano dei panda durante l’accoppiamento ed anche numerose pelli di coccodrillo. Qui assaggeremo il coccodrillo ed il pipistrello (per la prima ed ultima volta). Il coccodrillo ha una carne che per aspetto, consistenza e sapore assomiglia a una miscela di pollo/pesce mentre il pipistrello, più dolciastro, si accosta maggiormente al coniglio. Il primo a cadere, risucchiato dalla patologica sindrome gastroenterica sarà Giannetto, che tra l’altro aveva avidamente spolpato le ali del pipistrello insieme ad Edoardo, il quale ne subirà le conseguenze più tardi.
Ripartiamo, direzione Ambavalao, attraversando distese chilometriche di altipiani terrazzati a risaie, per visitare il mercato degli zebù più grande del Madagascar che c’è ogni mercoledì e giovedì. E’ un posto molto suggestivo, in mezzo alle montagne, sembra di essere sul set di un film western, con terreni polverosi, case vecchie e fatiscenti, enormi recinti di legno al cui interno ci sono centinaia di zebù. Il mercato si era appena concluso, per fortuna domani è giovedì.
La guida ci fa visitare l’enorme mercato del paese, con le bancarelle di legno, dove si può trovare di tutto. Ovviamente la carne è spolpata e appesa come fosse biancheria, solo quando si fanno volare via le centinaia di mosche che si sono posate sul pezzo si riesce a capire che tipo e che parte di animale sia. Molte sono le bancarelle che vendono pesce, quasi sempre essicato. Interessante la zona dei guaritori che vendono “pozioni”, con le loro erbe, radici e “altro” e alcuni artigiani che hanno creato delle lampade a olio dalle vecchie lampadine a incandescenza e altri oggetti di “uso comune”. Ci sarei stata altre tre ore, ma ormai è tardi. Mentre ce ne andiamo notiamo una casa con insegna “Video Slem”, ha la porta aperta da cui pende una tenda scura e dalla finestra si vedono tanti bambini e ragazzini intenti a guardare qualcosa: ci sono le uniche due televisioni del paese, in una, circa 30 bambini stanno guardando dei cartoni, mentre nel vicino schermo i ragazzini più grandi giocano ad un antico videogioco.
Ci dirigiamo in un vicino hotel, gestito da una coppia di francesi che ne cura i minimi particolari e che ci ospiterà per la notte. Unica pecca l’acqua della doccia che fuoriesce a piccoli fiotti, per cui ci vuole un po’ di tempo per lavarsi. Consigliatissimo, anche per il cibo che offre.
La mattina seguente ci rechiamo al frizzante mercato degli zebù dove assistiamo alle strategie di vendita da parte degli allevatori e anche alla fuga di alcuni zebù che venivano inseguiti per chilometri tra i monti, per poi essere riportati faticosamente nel recinto. Da fare.
Partiamo per l’Anja Reserve, terra del lemure catta, detto maki, che è un simbolo del Madagascar. Durante il percorso facciamo una sosta per vedere le fasi di lavorazione della carta Antaimoro, nei pressi di un hotel pieno di meravigliose bougainville in fiore, che vengono utilizzate per decorare la carta. Interessante.
Il tour per il parco dell’Anja si rivela più coinvolgente di quello di Ranomafana. Qui i lemuri con la coda ad anelli sono tantissimi e si possono ammirare da vicino e inoltre abbiamo incontrato i primi camaleonti giganti.
Pranziamo per strada in un hotely, tipici locali a conduzione familiare, che propongono piatti a base di zebù e riso. Prezzo: circa 3 euro a testa compreso di bevande.
Il pomeriggio ci aspetta un bel viaggetto di qualche ora verso l’Isalo attraversando fiumiciattoli dove scorgiamo cercatori d’oro al lavoro e notiamo che il paesaggio diventa sempre più brullo. Le strade sono piene di buche che ci costringono quasi a fermarci, in alcune di queste i bambini si arrabattano per riempirle di sassi e sabbia, chiedendo poi le mance agli autisti; Il nostro autista, gran dispensatore, vediamo che in questo caso non elargisce, spiegandoci che se dà i soldi ai bambini dopo questi non andranno più a scuola. Giungiamo all’hotel che ci ospiterà per un paio di notti, una struttura un po’ vecchiotta ma ancora in buono stato e con una grandissima e bella piscina. Siamo stanchi, ma decidiamo di andare a vedere, in jeep, il famoso tramonto alla “finestra della regina” che dista qualche chilometro. In effetti questa roccia traforata, situata su una specie di collinetta, quando cala il sole è molto suggestiva.
Il giorno seguente ci aspetta il tour del parco dell’Isalo, decidiamo di fare un percorso intermedio. Tra canyon desertici e rocce vediamo anche dei luoghi sacri in cui gli abitanti del posto seppelliscono i loro morti nelle grotte. Raggiungiamo una delle principali mete turistiche, la “Piscine Naturelle” che compare improvvisamente nel fondo di un canyon scosceso. Il paesaggio è incantevole, la vegetazione è lussureggiante, l’acqua di un verde chiaro contornato da piante, sembra di essere arrivati in paradiso. Valentina si immerge, ma l’acqua è veramente fredda. Ripartiamo con la guida della riserva per canyon sempre più aridi e pareti di roccia a strapiombo, fermandoci alla ricerca di insetti stecco molto ben mimetizzati, fotografando enormi termitai e fiori coloratissimi che sembrano sperduti in mezzo all’interminabile savana. Il percorso è abbastanza faticoso e fa parecchio caldo … finalmente raggiungiamo l’area sosta dove ci aspetta un sostanzioso pic-nic. Mentre gustiamo l’ananas, sentiamo tutto ad un tratto dei versi terrificanti: un gruppo di circa 20 lemuri fulvi ci attacca strillando e saltando sul nostro tavolo, facendo razzia di quello che era rimasto. Ludovica inizia ad urlare e gli uomini che ci avevano preparato il pasto si alzano e corrono verso di noi per mandarli via. Pranzo ottimo e divertente.
Ripartiamo per un nuovo sentiero che segue il corso di un torrente, attraverso delle profonde gole, che ci condurrà ad un paio di cascate veramente belle, dal colore blu intenso e verde smeraldo. Sono oasi spettacolari.
Ritorniamo verso la jeep, dove ci aspetta l’autista, siamo dilaniati dalla stanchezza. Per strada attraversiamo un villaggio dove si possono trovare dei fossili. Ci fermiamo, la guida parla con delle persone che poi ci portano nel retro di una casa e ci fanno vedere 6 o 7 uova fossili, alcune di queste spaccate a metà dove si vede lo scheletro, anch’esso fossilizzato, di alcuni animali. Questi reperti vengono trovati dagli abitanti della zona nel parco roccioso dell’Isalo; il problema è che non si riescono a portare fuori dal Madagascar a meno che non si acquistino in alcuni negozi che rilasciano particolari certificati. Rischiamo e prendiamo il più piccolo, dove c’è un bel pesce fossile, alla cifra di circa 10 euro, che riusciremo a portare a casa.
Il giorno dopo partiamo per Ilakaka, un paese sorto grazie alla scoperta, nelle vicinanze, di giacimenti di pietre preziose. Andiamo a visitare la zona mineraria, molto suggestiva. Dobbiamo seguire un percorso guidato perché la presenza di buche molto profonde nascoste in mezzo alla sterpaglia potrebbe essere fatale (per noi). Noto però parecchi bimbi anche piccoli che giocano proprio nella zona ritenuta pericolosa e mi viene detto che loro sono abituati e sanno dove camminare. Le buche, larghe poche decine di centimetri ma profonde almeno 30 metri sono tutte le varie “prove” in cui veniva fatto calare un uomo alla ricerca di ciottoli, i quali indicano l’esistenza di un antico letto fluviale e quindi la possibile presenza di zaffiri. A volte queste buche franano inghiottendo il malcapitato di turno.
Se la ricerca ciottoli è positiva, i minatori scavano un secondo pozzo molto più ampio, con l’ausilio di pale e secchi. Abbiamo visto le diverse fasi di questa miniera a cielo aperto, dove i minatori sono disposti in una fila lunghissima, lavorando incessantemente per tutto il giorno, con paghe irrisorie. Più il pozzo diventa profondo, più minatori servono e la fila si allunga … impressionante. I secchi colmi di ciottoli vengono portati nella zona lavaggio e selezione, sotto il controllo dell’imprenditore (o chi per esso) che ha comprato l’appezzamento di terra, quasi sempre un riccone del Bangladesh. Dopo una prima selezione, ve ne è una seconda ad opera dei bambini che a volte trovano delle minuscole pietruzze. Il capo della miniera ci ha fatto vedere il ricavato della mattina: due piccoli zaffiri. La terza selezione veniva fatta da una donna in avanzato stato di gravidanza con un bimbo fissato alla schiena, che passava al setaccio l’acqua del lavaggio alla ricerca della polvere d’oro.
Ci fermiamo a Ilakaka, una nevrotica cittadina in mezzo al deserto, per visitare un prestigioso negozio di lavorazione e vendita di zaffiri, dove acquistiamo un pezzo di copale, una resina simile all’ambra, ma più giovane, da cui traspaiono alcuni insetti ed un sacchettino di pietre “preziose” grezze. Ci sono dei gioielli veramente belli, colorati e luccicanti.
La cittadina pullula di negozi e commercianti di pietre preziose anche ai lati delle strade; da qui in poi notiamo le donne con le facce vistosamente dipinte. La crema giallina, ricavata dalla radice di una pianta, viene spalmata sul viso offrendo una protezione solare naturale.
Ci dirigiamo verso Toliara e vediamo le tipiche tombe delle etnie locali costituite da mausolei dai colori vivaci che ritracciano la vita e la personalità del defunto (a forma di barca, multicolor, con statue di animali a grandezza naturale …). Ad un certo punto notiamo del fumo e numerose botti ai lati della strada. E’ una distilleria a cielo aperto. Ovviamente ci fermiamo e guardiano le fasi di produzione della grappa, prodotta con tamarindo e canna da zucchero: dalla macerazione, alla bollitura e filtrazione. La sporcizia regna, ma il colore del distillato è limpidissimo … l’odore del luogo e della grappa è pungente, così come il sapore del liquore che coraggiosamente assaggiamo: è veramente forte, quasi imbevibile e ne compriamo una bottiglia. Alcuni ragazzi hanno puntato insistentemente Ludovica e chiedono quanto costa … siamo riusciti ad andarcene lasciando delle bottiglie di plastica vuote, per loro molto preziose.
Ripartiamo e poco prima del paese ci ferma, per l’ennesima volta, la polizia locale. E’ una costante per chi viaggia in auto per le strade del Madagascar. I posti di blocco sono numerosi, ma in media solo 5 o 6 volte al giorno ci fermano e l’autista, dopo un breve scambio di parole (?), elargisce la mancia che ci consente di proseguire il viaggio. La corruzione regna, anche perché le guardie fermano spessissimo e solo una volta ci hanno chiesto i documenti.
Arrivati a Toliara mangiamo in una pizzeria, proprietà di un italiano, ormai anziano, residente da molti anni in Madagascar. Finalmente mangiamo pasta e pizza, ne avevamo veramente voglia. Dopo aver fatto un po’ di shopping in questa grande cittadina, ci dirigiamo verso un piccolo mercato dove vedo per la prima volta ciò che cercavo ardentemente, l’uovo di Aepyornis, un uccello gigante, simile a un enorme struzzo, estinto da qualche centinaia di anni. I resti di queste uova si possono trovare nelle estreme spiagge a sud dell’isola: i pezzi vengono raccolti e messi insieme con della specie di stucco fino a riprodurre l’uovo nelle sue dimensioni reali. Bellissimi. In Italia costano circa 2000 euro, lì 30, ma non si possono esportare.
La guida ci richiama, dobbiamo raggiungere l’hotel che dista poche decine di chilometri percorrendo una pista di sabbia molto sconnessa, sulla costa ovest, che non permette di fare più di 10 chilometri all’ora.
Il percorso è veramente impegnativo e a metà pista ci fermiamo per una sosta, ammirando le mangrovie al tramonto. Arriviamo finalmente all’hotel, a Ifaty. E’ una zona molto ventilata e il posto, solo a prima vista, sembra carino. Il vento fa entrare qualsiasi cosa nella stanza e perfino nel letto: sabbia, insetti ed erba sono dappertutto, anche perché il tetto è sollevato dalle pareti. In più, nel bagno, una blatta gigante ci fa compagnia durante il nostro breve soggiorno. La struttura in generale è fatiscente, solo il locale adibito a ristorante è in condizioni decenti, inoltre non c’è la spiaggia.
La sera, la guida ci porta in un locale particolare, dove c’è anche uno spettacolo dal vivo con ballerine/cantanti e suonatori che hanno strumenti musicali artigianali molto coreografici. E’ stata una bella serata ed abbiamo mangiato veramente bene.
La notte dormo vestita e il giorno dopo diciamo all’autista che ce ne vogliamo andare. Mentre la guida si organizza, noi decidiamo di fare snorkeling e con la piroga arriviamo vicino alla barriera corallina. L’acqua è freddina ed il mare mosso dei giorni precedenti ha mascherato il fondale. Avendo visto la barriera corallina del Mar Rosso, questa ci ha un po’ deluso. Rientriamo all’hotel dove pranziamo per poi trasferirci in un’altra struttura, più a nord, dove soggiorneremo quattro giorni. E’ vicina ad un villaggio di pescatori e ci sono due lemuri catta, chiamati da noi Meggy e Stronzino che saltano addosso alle persone ed ai tavoli, facendo man bassa di quello che trovano.
Il pomeriggio lo trascorriamo finalmente in spiaggia, dove veniamo subito avvicinati dagli abitanti del villaggio che vendono souvenir e Valentina si fa convincere a fare le treccine.
La sera decidiamo di mangiare aragoste ed altri pesci, che i pescatori hanno appena portato all’hotel. E’ la prima volta che mangio un’aragosta appena pescata, veramente squisita. In questi giorni mangeremo prevalentemente pesce fresco.
Il giorno dopo visitiamo la foresta dei baobab, ripercorrendo la pista sabbiosa, dove, tra la polvere, gli abitanti del luogo vendono cibo appena cotto su traballanti tavolini.
Ci chiedono se vogliamo fare il giro del parco su un carro trainato da zebù o a piedi e decidiamo di farlo sul carro. Salutiamo G. che rivedremo solo tra quattro giorni, a Tana. Dopo un po’ di concitazione generale, arriva il carro e dopo circa 10 minuti di attesa vediamo arrivare, da lontano, un ragazzo che corre, frustando uno zebù. Assemblano i pezzi e ci caricano sul carretto, la guida invece ci accompagna a piedi. E’ stato un tour molto interessante in mezzo a baobab di diverse grandezze e forme e altre piante tipiche del luogo. Abbiamo visto scorpioni, una blatta gigante grande come una mano, delle specie di ricci che salgono sul tronco degli alberi, cavallette colorate, gechi ed infine abbiamo visitato il Villaggio delle Tartarughe. Quest’ultimo è un parco che si occupa della protezione di oltre un migliaio di tartarughe, è veramente carino.
C’erano problemi per il ritorno all’hotel, ma ad un tratto arriva una jeep … è il proprietario del Mangily che ci carica nel cassone e ci porta nel suo hotel, scorazzando a velocità sostenuta sulla pista sabbiosa, facendoci saltare come capretti. Arrivati ci aspetta una piacevole sorpresa: dal Mangily era stato preparato il ritorno al nostro hotel tramite piroga. E’ stato bellissimo, un giro stupendo in mezzo all’acqua azzurra: l’ora e mezza del tragitto è praticamente volata.
Il giorno dopo decidiamo di fare il giro in quad: partenza da un hotel vicino, dove il figlio dei proprietari si occupa di diverse attività, dalle immersioni subacquee al whale watching … è un ragazzo gentilissimo, ci accompagnerà in un bel tour per le spiagge, le dune, l’antico cimitero ed i villaggi della zona. Entusiasmante il rotolamento da una gigantesca duna di sabbia, meno la risalita.
Giro stupendo che si è prolungato fino al tramonto … sul mare … semplicemente meraviglioso.
L’unico momento sconcertante è stato il passaggio attraverso villaggi sperduti e molto poveri, dove tutti salutavano, ma alcuni bambini ci lanciavano i sassi. Abbiamo notato altre reazioni strane.
Quando i vasà (turisti bianchi) non hanno più nulla da donare, cresce una sorta di rabbia, soprattutto da parte di alcuni bambini. Ho avuto, tra l’altro, la pessima idea di dare tutto quello che avevamo ai ragazzini che si erano radunati di fronte al nostro bungalow. Tutti i giorni seguenti, fin dal mattino, c’era un costante pellegrinaggio di bambini che chiedevano qualcosa e che tiravano la sabbia se non ricevevano nulla. Sono dovuti intervenire i custodi dell’hotel.
L’indomani visitiamo con Lantu, una frizzante ragazza del posto che lavora nell’hotel, il villaggio dei pescatori: la gente vive veramente con poco, sono tutti scalzi e i due “negozi” vendono solo i beni di estrema necessità come pasta, sapone, pile per torce, qualche farmaco … . C’è l’artigiano che fabbrica piroghe, quello che trita il caffè con il mortaio, chi cucina strani intrugli e li vende in incrostati tegami smaltati …il pesce ovviamente abbonda ovunque. Abbiamo conosciuto il capo del villaggio, il più grasso fra tutti. Lantu ci ha detto che non è ben visto perché non fa nulla per migliorare la situazione locale, come ad esempio curarsi dei rifiuti che continuano ad impegnare i lati della strada.
L’ultimo giorno assistiamo al ritorno di centinaia di pescatori che con le loro piroghe occupano l’intero orizzonte marino; è uno spettacolo … man mano che si avvicinano a riva c’è un crescente scompiglio tra le donne e i bambini che aspettano in spiaggia, in attesa di vedere il pescato più o meno sostanzioso.
Facciamo gli ultimi giri in spiaggia, attenti ad evitare alcuni escrementi umani disseminati qua e là. Altra particolarità del Madagascar è l’estrema serenità con la quale adulti e bambini, sia ai lati della strada che sulla spiaggia, rilasciano gli sfinteri, anche in presenza di persone sconosciute, come fosse la cosa più naturale del mondo. I cani randagi sono trattati malissimo dalla popolazione perché si cibano di questi escrementi e sono considerati gli animali più sporchi in assoluto. Anche per le strade della capitale occorre fare veramente attenzione a dove si mettono i piedi!
E’ già il 12 settembre e ci aspetta l’aereo che da Toliara ci porterà ad Antananarivo. Ripercorriamo la pista polverosa piena di camion adibiti al trasporto di cose e persone e notiamo alcuni caseggiati dove producono la Spirulina, un’alga ricca di principi nutritivi.
Arrivati ad Antananarivo, ci aspetta G., che riconosciamo da lontano, in mezzo alla folla, per il suo cappello chiaro. Ripartiamo in jeep, breve sosta in una pizzeria sulla route di Ivato, probabile responsabile delle sindromi gastrointestinali che animeranno le giornate seguenti e poi proseguiamo per il caratteristico mercato della Digue, in cui troviamo tutti gli articoli dell’artigianato del paese, alcuni veramente particolari e dove ho rivisto alcune uova di Aepyornis, l’uccello elefante … non ho resistito e ne ho comprato uno al prezzo di 30 euro. Con quella cifra il venditore malgascio, parenti ed amici festeggeranno per due mesi, io invece non saprò mai se riuscirò a riaverlo …. L’ho dovuto affidare alla guida perché in aeroporto fanno dei controlli severissimi con multe stratosferiche anche se ti ritrovano un solo pezzo di uovo, mentre se hai zaffiri di valore inestimabile, elargendo una lauta mancia, chiudono gli occhi. Mah!
Decidiamo di cambiare il percorso del viaggio, preferiamo rimanere nella capitale e ripartire il giorno dopo, per cui G. ci organizza il pernottamento.
La sera ceniamo in una stazione ferroviaria restaurata, molto carina e ben curata, il cui bagno è allestito all’interno di un vagone ferroviario al di fuori del locale. Sembra di essere in un ristorante occidentale e la cucina propone anche piatti internazionali. La notte dormiamo in un hotel del centro, il primo in cui facciamo, dopo 12 giorni, una vera doccia in un vero tre stelle. E la prima colazione con le brioches … buonissime.
Il giorno dopo partiamo per la riserva di Andasibe, lungo una strada molto trafficata da enormi camion, spesso in avaria. Ci fermiamo alla Riserva Peyrieras, dove entriamo in contatto con pitoni, gechi, farfalle giganti, coccodrilli e decine di camaleonti di tutte le specie, da quello nano a quello gigante, ammirandoli mentre virano di colore quando vengono spostati.
Arriviamo al nostro hotel che ci ospiterà, per fortuna, una sola notte. I bungalow sono carini, immersi nella foresta pluviale, ma fa molto freddo e la notte “dormiremo” vestiti sotto un mega strato di coperte umidissime. La sera decidiamo di fare un’escursione notturna all’interno del Parco Mitsinjo e con la guida facciamo un bel tragitto in mezzo alla foresta, alla ricerca dei lemuri notturni. Ne abbiamo visti un paio, insieme a strani ranocchi e qualche camaleonte.
L’indomani ci svegliamo con gli urli dell’Indri-Indri, un lemure che emette un urlo udibile a chilometri di distanza, ma che probabilmente era vicino al nostro bungalow. Dovevamo svegliarci presto per fare il tour del parco di Andasibe-Mantadia e vedere l’Indri-Indri, ma siamo veramente stanchi, anche per via della sindrome gastrointestinale che non ci vuole abbandonare e decidiamo di andare nella più tranquilla riserva privata dell’Hotel Vakona. La riserva è permanente enorme. C’è un lago con un’isola popolata da numerosi lemuri, tra l’altro una specie che non avevamo ancora visto, raggiungibile con un breve giro in canoa. C’è perfino un centro equestre, campi da tennis ed un grande allevamento di coccodrilli. Abbiamo avuto la fortuna di visitarlo proprio nel giorno settimanale (il sabato) dedicato al pasto di questi enormi rettili. Inquietantissimo. Abbiamo assistito a tutte le fasi: dall’arrivo di zebù già a pezzettoni, al taglio con l’accetta per fare le parti, alla lotta di due cani di passaggio per un osso caduto, al caricamento del cibo su una cariola, al richiamo tramite tamburo delle decine di coccodrilli che si sono radunati nello spazio dedicato. Il lancio della carne era seguito da un rumore inquietante di chiusura di fauci, a vederli facevano veramente impressione.
Nella riserva c’erano altri recinti con animali tipici della zona, tra cui il ricercatissimo e quasi estinto fossa: è un predatore che si nutre di lemuri ed altri animali, assomiglia ad un gatto gigante che vuole trasformarsi in puma. A prima vista sembra tranquillo, ma quando Valentina si è appoggiata alla rete, la guida ha urlato subito di spostarsi … in effetti il fossa le si era già avvicinato per tentare di assaporarla.
Ritorniamo ad Antananarivo e facciamo un po’ di tour per la capitale, tra piccoli e caratteristici mercatini disseminati qua e là e le famose scalinate.
E’ giunta l’ora dei saluti … dobbiamo dirigerci verso l’aeroporto per il viaggio di ritorno. In aereo ripensiamo all’impegnativo tour, alla comodità di un viaggio “personalizzato” ed adattato anche al momento, dove potevamo fermarci quando c’era da fare e da vedere qualcosa di interessante, riuscendo a scoprire ed assaporare questo mondo veramente primitivo.