Marrakech e il grande sud
Dopo aver fatto colazione usciamo dall’hotel e subito ci si sente immersi in un mondo diverso, lungo la strada che ci porta al Suk si avvicinano molti ragazzi che si offrono come guida, dopo vari rifiuti decidiamo di sceglierne uno, in questo modo staremo più in pace, qui le cose funzionano così, ma soprattutto è un modo per aiutare qualcuno. Le strade sono piene di traffico, al via vai di auto più o meno sgangherate, si uniscono molti carrettini trainati da asini e qualche carro più grande colmo di persone trainato da cavalli. Anche le auto viaggiano stracolme per non parlare dei Taxi collettivi. Seguendo la nostra simpatica guida, che ha un’andatura piuttosto veloce, arriaviamo al suk. E’ uno spettacolo per gli occhi: un dedalo di viuzze, stretti tra una folla variopinta che ti tocca, ti spinge dolcemente, mille colori, un profumo dolciastro, e le nenie delle musiche arabe mi stordiscono, mi sento strana, è tutto così diverso, ho la sensazione di essere fuori dalla reltà, come se stessi girando un film. Le viuzze sono state ricoperte da listelli di canna che lascia trapelare i raggi del sole creando un gioco altalenante di luce e ombra. Ricchi mercanti camminano trafelati nei loro caffetani candidi, donne velate e povera gente, mendicanti e venditori d’acqua, berberi. Si vende di tutto dagli oggetti di cuoio, agli splendidi rami, alle essenze, ai bei gioielli berberi d’argento con coralli e turchesi, ai meravigliosi tappeti. E’ una profusione di colori, di suoni e di profumi Pranziamo con la nostra guida, che parla meglio lo spagnolo del francese, è un giovane ragazzo ben educato e sa fare bene il suo lavoro, ci invita per la sera a casa sua a mangiare il couscous che preparerà la madre per l’occasione, accettiamo, sarà un’esperienza diversa. Nel pomeriggio, dopo esserci riposati nel meraviglioso giardino e ai bordi della piscina del nostro hotel, dove fra alberi di aranci fioriscono stelle di Natale alte oltre due metri, entriamo nell’incantevole frescura del giardino Majorelle, acquistato e ristrutturato nel 1980 dal celebre sarto Yves Saint Laurent e dal suo compagno, che dopo la sua morte raccoglierà le sue ceneri. Tra la vegetazione lussureggiante di bouganville e cactacee sono scavate numerose vasche d’acqua, è un piccolo paradiso. Poi ritornati nel sole accecante, visitiamo un ampio cortile dove conciano le pelli, mentre un nugolo di bambini molto piccoli ci segue ovunque per chiederci un dirahm. Il sole al tramonto accende le mura della Medina, i minareti, la Koutoubia, che come un faro sovrasta la città. Rientriamo nel Suk, è impossibile non farlo, vi regna un’atmosfera straordinaria e formicolante, la gente si agita, invade le vie, senza rendertene conto ti immergi in essa e ne entri a far parte. Ed eccoci nella piazza degli impiccati, la famosa Jemaa el Fna nel cuore della Medina: bancarelle addossate le une alle altre ricolme di ogni mercanzia, frutta, legumi, erbe odorose, tavolozze di spezie, frittelle e spiedini alla griglia, pesci e peperoni piccantissimi ottimamente fritti da mangiare seduti su una panca di legno proprio davanti a colui che te li sta cuocendo, e infine incantatori di serpenti, saltimbanchi e ragazze dagli occhi vellutati che ti offrono le loro cose. E’ quasi sera e la piazza è illuminata da piccole luci, lo spettacolo è indimenticabile, pieno di calore umano, ai djellaba a righe dei contadini berberi , ai caffetani si mescolano gli abiti moderni dei turisti. Torniamo all’hotel dove già ci aspetta la nostra guida del mattino per portarci a cena a casa sua. Ci fa strada con il suo motorino e lo seguiamo in un dedalo di viuzze dove è facile perdersi, ho un attimo di timore, ma subito fugato. La sua è una bella casa con il giardino interno su cui si affacciano le stanze, le donne di casa hanno cucinato per noi uno splendido cous cous, e ce lo servono su un tavolino basso attorniato da cuscini su cui ci sediamo, beviamo acqua da una brocca con un unico bicchiere per tutti compreso il capofamiglia che mangia con noi, mentre le donne non si vedono che da lontano e solo quando ce ne andiamo.
Oggi è Natale, ma qui naturalmente è un giorno come un altro, prendiamo la nostra auto e partiamo verso Sud. Pian piano ci allontaniamo dal palmeto di Marrakech e già all’orizzonte si profilano le catene dell’Alto Atlante, oggi percorreremo uno degli itinerari più belli del Marocco. La strada una striscia d’asfalto malridotto che diventa sempre più stretta, corre nell’ocra arido fra rocce e sassi di ampie valli solcate da oued che incidono il paesaggio come profonde ferite. Talvolta attraversano la stessa strada dissestandola ulteriormente. Ogni tanto sorgono villaggi aggrappati al fianco della montagna con le case di argilla che si confondono con il paesaggio, i tetti piatti costruiti con tronchi e rami e ricoperti di terra . Le donne lavano i panni nel fiume e poi li fanno asciugare al sole sulle rocce. Il paesaggio è incantevole, surreale, di una selvaggia ed altera bellezza, il contrasto dell’ocra caldo con le cime innevate dai riflessi accecanti e un cielo terso di un incredibile azzurro danno sensazioni struggenti che ti gonfiano il cuore. Lungo la strada ci fermiamo per il pranzo spiedini di carne cotti sulla brace su un tavolino improvvisato a lato della strada sterrata, naturalmente non manca mai il tè dolcissimo servito in piccoli bicchierini di vetro. La strada si inerpica sempre più sino al passo Della Ticka a 2125 mt l’Atlante è maestoso e imponente, c’è la neve e l’aria è frizzante, pura e cristallina. Al tramonto arriviamo a OUARZAZATE dove troviamo subito l’Hotel che avevamo prenotato al mattino prima di partire da Marrakech. E’ molto bello, ma la notte è fredda e il riscaldamento non funziona, così il mattino partiamo presto, oggi arriveremo a Zagora alle porte del deserto, seguendo la Valle del DRAA. La strada tortuosa è fiancheggiata da una serie di Kasbe , di Ksour con i muri ocra di terra battuta, con balaustre ornamentali, con porte e finestre strettissime per lasciar fuori il caldo rovente dell’estate. Arabi e berberi, seduti lungo le strade avvolti nei loro ampi vestiti guardano il tempo passare, chiacchierano, fumano, altri a dorso di asinelli attendono le loro piccole cose, mentre rasentando i muri camminano veloci giovani donne, cariche di figli, coperte dai loro lunghi abiti scuri ornati di lustrini e gioielli. Al primo grosso borgo ci fermiamo per un tè bollente: siamo a AGDZ, saliamo fino ad un fortino che sovrasta il villaggio, ex avamposto della legione straniera, da dove si gode uno splendido panorama sul palmeto. Siamo gli unici stranieri e subito veniamo accerchiati da un nugolo di bambini vestiti miseramente, hanno grandi occhi neri dolcissimi, chiedono dirham, bombons e penne e come facciamo l’atto di aprire le borse ci saltano addosso come impazziti allungando le braccia e gridando. Abbiamo paura che si facciano del male, così ci dirigiamo di corsa verso l’auto mentre loro ci seguono imploranti, alcuni che non hanno avuto niente, i più piccolini, piangono in disparte. Situazione difficile da gestire, tristissima che ci lascia una grande malinconia e che purtroppo si ripeterà spesso. Ci sentiamo impotenti e inutili e sarà difficile dimenticare. La strada è una delle più suggestive del Paese, qui Bertolucci ha girato molte scene del suo Tè nel deserto, un nastro verde segue il Draa di un azzurro incredibile che rispecchia il cielo terso. Poi oltre l’oasi un susseguirsi di alture rosse incendiate dal sole e infine il deserto: emozione, gioia, malinconia, è il paesaggio più bello che abbia mai visto. Siamo a ZAGORA’ dopo esserci sfamati con una frittatina un po’ unta e molto pane arabo caldo e veramente buono ci riposiamo al sole della piscina dell’hotel, palme, fontane, camere che danno direttamente sul giardino, è molto bello un’oasi di lusso circondato dalla miseria e da un sistema di vita completamente diverso. Un oasi nel deserto. Più tardi conosceremo David, un ragazzino di tredici anni, magro e molto piccolo per la sua età, che ci farà da guida per i prossimi giorni. Ci porterà a visitare il palmeto, la Kasba dove “le fils du chef ” vestito come un tuareg, riuscirà a venderci di tutto: collane di turchesi, orecchini, bracciali, scatolette d’argento, spille. Al tramonto una passeggiata a dorso di cammello lungo il fiume, tra le palme, in un silenzio ovattato, uno scenario da favola.
Con una guida che lavora all’hotel, un giovane berbero di ventinove anni molto preparato, andiamo fino a MHAMID su una pista di tole ondulè, è l’ultima oasi, siamo nel deserto. Ti guardi intorno e ti sembra di trovarti in capo al mondo, in uno spazio indefinito, illimitato che ti lascia senza respiro. Qui il Draa si perde nelle sabbie e solo in certi anni le sue acque arrivano all’Oceano. All’oasi c’è il mercato: montagne di datteri, verdure, uova, si sta macellando qualche animale, non oso guardare, poche cose ammonticchiate per terra su teli di iuta. C’è un gran via vai e tutti sembrano molto affacendati. La nostra guida compera un po’ di verdura, servirà per la nostra tajine, e qualche mandarancio profumatissimo, poi ci porta a mangiare. Incredibile il numero di asinelli parcheggiati in attesa fuori dal mercato. Sotto una grande tenda Touareg, accovacciati fra cuscini su un enorme tappeto con in mezzo un basso tavolino aspettiamo il nostro pranzo. Di fronte, fra le palme, un’abitazione di argilla , a due piani, il tetto a terrazza. Ed ecco l’ospite con il rito del tè: da una scatola di latta prende pezzi di zucchero che rompe con un sasso, lo dosa accuratamente prima di metterlo nella teiera, poi lo assaggia e ricomincia l’operazione finchè non gli sembra arrivato il momento della perfezione. Tutto con una lentezza incredibile, poi, dopo aver bevuto ripetutamente, senza poter rifiutare almeno fino alla terza volta come vuole la tradizione, ci porta in un unico piatto una tajine fumante che le donne hanno appena cucinato con le verdure comperate al mercato. L’ospite sparisce, mentre Mustafà, mangia con noi. La tajine è molto buona, la migliore che abbia mangiato, con delle ottime olive, non ci sono posate e ci aiutiamo con il pane , mangiando tutti da un unico piatto. Il sole brilla e scalda, ci riposiamo su cuscini appoggiati su muretti bassi di argilla che delimitano un piccolo orto. Poi, inaspettatamente il padrone ci invita a visitare la loro casa. Fino ad allora donne non se n’erano viste, infatti sono tutte riunite in una stanza buia, acovacciate per terra, vestite di nero, ridacchiano fra loro, nascondendo il viso. Deve essere la cucina, ma suppellettili non se ne vedono, il pavimento è in terra battuta come tutta la casa. Saliamo per una scala così buia che non si vede dove mettoni i piedi, d’estate dormono all’aperto sulla terrazza che funge da tetto e dove ora è stesa un po’ di biancheria ad asciugare. Dentro, le stanze sono illuminate appena da minuscole finestrelle per lasciar fuori il caldo soffocante delle estati sahariane, anche nelle altre stanze ci sono poche suppellettili, i pavimenti e i muri sono tutti di argilla pressata. Sulla strada del ritorno ci fermiamo a visitare una scuola coranica, dove sono conservati dei Corani molto antichi, scritti su pelli di gazzella, alcuni risalenti al tredicesimo secolo. Il tempo corre veloce, troppo quando si vive così in un’altra realtà, ed eccoci di ritorno a Marrakech, poi Casablanca dove un boeing 747 ci riporta a casa. Ci prende un velo di malinconia, siamo già a Milano, il cielo è grigio, c’è ancora la neve e fa un gran freddo. E’ proprio finita.
Essendo un viaggio fatto anni fa non ho parlato di costi che sarebbero senz’altro inutili ma soltanto di emozioni che ancora conservo per uno dei Paesi più affascinanti che io abbia mai visitato.