Terra anno zero
Le Galápagos son rimaste il laboratorio di evoluzione che sono state all’inizio della nostra era; qui si vede ancora il creatore al lavoro nel quinto giorno, prima che affidasse all’uomo il compito di dare un nome agli animali – così che avesse un’epigrafe per quando ne avrebbe provocato l’estinzione. Ogni isola ha fauna, vegetazione e aspetto diversi dalla vicina, quasi un campionario, a dimostrazione che la pluralità delle forme è la vera chiave della natura. Come può l’uomo, questo parvenu senza penne né pelliccia, incutere timore? L’indifferenza degli animali alle passeggiate esplorative degli ospiti è talmente naturale da risultare surreale. Uno zoo senza sbarre? Una prova generale della sinfonia della vita? Uno scampolo dell’ordine nuovo che sta proprio adesso portando dall’istinto alla conoscenza, dall’esistere al vivere, dalla creatura – immemore, inutile e perduta in una spirale sempre uguale – a un creatore – consapevole e proteso verso la propria, inarrestabile evoluzione intellettuale, tecnologica e spirituale? Galápagos: Terra anno zero.
Lo stacco dal pianeta che abbiamo addomesticato, incattivendolo, non potrebbe essere più netto, e l’impressione d’essere rientrati nel paradiso terrestre riapre la ferita, sopita ma mai guarita, della cacciata. Raccontare le Galápagos assomiglia a un rapporto da Plutone, ma, guardando a noi, “i lussi della civiltà soddisfano solo i bisogni che essi stessi hanno creato” (Apsley Cherry-Garrard). Le Galápagos sono una macchina del tempo, e questa non è una crociera, è un salto fuori dalle banalità della storia e dentro la meraviglia di un’intelligenza creatrice che nuota, vola, cresce e gioca col vento, col freddo, col fuoco. La sorpresa è di trovarci compartecipi di tutto questo, atomi anche noi dell’energia della creazione, sperimentando col corpo d’essere parte della vita totale. Improvvisamente ci siamo anche noi, qui, tanto vicini che potremmo quasi toccare: non c’è separazione tra noi e loro, tra umani ed animali, e sentiamo la pienezza della relazione, quasi che una sola entità si fosse incarnata in corpi diversi, come se tutto in realtà fosse uno. Atomizzati come siamo dalla mancanza di comunicazione reale che caratterizza la tarda società industriale in cui stiamo vivendo, questa è per noi una rivelazione. L’attuale potente accelerazione dell’evoluzione dell’umanità stride con l’apparente fissità di questa realtà per sempre primitiva, per sempre perfetta. Per noi però tornare all’abc della vita è impossibile, come impossibile sembra che la nostra razza discenda da condizioni come queste.
Le isole sono abbastanza lontane l’una dall’altra da presentare ciascuna una versione diversa della medesima idea: piccoli rettili fanno flessioni a dimostrare la propria prestanza qui, nell’altra le fregate gonfiano a dismisura il gozzo scarlatto per invogliare la compagna all’accoppiamento, in una terza gli albatross sono intenti ad un curiosissimo rito amoroso di presentat’arm, sfida di fioretto a colpi di becco e drammatiche pause a sforbiciata. Per noi, osservatori, per noi, intelligenti, per noi, piccoli creatori che siamo, quest’universo primordiale è una lezione sul “come si fa” per quando toccherà a noi, tra un po’, ma forse anche adesso, immaginare e creare mondi. E’ la nostra realtà attuale quel che le generazioni passate immaginavano che il futuro sarebbe stato? Qui, dove siamo un po’ nel tempo e un po’ fuori dal tempo, possiamo valutare i risultati ottenuti: le culture, le tecnologie, gli stili di vita, le città, insomma le atmosfere del nostro quotidiano, diffuse nello spazio dove viviamo e che hanno il potere di indurci ad agire in uno o nell’altro modo, sollevando notevoli considerazioni etiche. Duole dover riconoscere che la realtà che abbiamo creato è satura di un’incertezza che neutralizza la capacità di impegnarsi, di migliorare, di innovare.
Nel continente le cose stanno diversamente: l’Ecuador è un esame di sopravvivenza in cui viene saggiata la determinazione, l’adattabilità e la perspicacia della nostra razza. Nessuna prova ci viene risparmiata, e un viaggio in quel paese è una sfida alle forze della natura. E, come alle Galápagos, ogni prova vinta incide nell’anima un’esperienza estatica, un’icona che, attivata, lancia una storia di vittoria contro un destino avverso, contro nemici difficili o contro la Terra, amatissima ma matrigna. Terra di pecore, di capre e di lama altezzosi mentre, da più in là, rivoltano le budella le grida disumane, diaboliche quasi, dei maiali venduti e spinti a viva forza nelle camionetas, mentre nella Plaza de Toros le trattative riguardano vacche e vitelli: Guamote offre senza dubbio il mercato più autentico dell’Ecuador. Quello che, al nostro arrivo a notte fonda, ci era sembrato un paese fantasma, si trasfigura, la mattina del giovedì, in un mercato totale. L’invasione non risparmia alcuna strada, e nelle piazze gli imbonitori spacciano con una loquacità degna del dottor Dulcamara di donizettiana memoria le loro risolutive panacee, mentre campesinos illuminati predicano il pentimento dei peccati e presentatori da circo intrattengono il pubblico con musica dal vivo – una occorrenza certo rara per molti degli astanti. I cuy, teneri nelle ceste ma altrettanto teneri su un piatto da portata, cercano rifugio uno sull’altro, mentre file di polli, accasciati, colle zampe legate, attendono la medesima fine. Si contrattano voluminose coperte sintetiche dai disegni volgari, abiti di seconda mano cambiano di nuovo mano e merletti da far invidia alla nostre bisavole s’accompagnano a vistosi collari color dell’oro. E dalle ceste traboccano arance, chirimoyas, plátanos d’ogni colore, mandarini e more, mentre raggi vibratili accecano dalle scaglie delle trote ammonticchiate in bell’ordine al sole. In uno spiazzo si contendono lo spazio disponibile i tavolini bassi sui quali questi piccoli uomini e queste piccole donne, invecchiati anzitempo dalle intemperie e dalla fatica, mangiano da piatti di plastica quel che viene generosamente scodellato da pentoloni in ebollizione. Cos’è il domani? Tutto è oggi. Di più, l’adesso è l’unica realtà. Adesso mangio, quale che sia l’ora. Il passaggio a passo d’uomo d’un treno, d’un vero treno rosso fiamma con cinque carrozze, taglia per un attimo il viavai – i binari, nemmeno fossero quelli di un tram, passano con felice noncuranza proprio in mezzo alla variopinta baraonda. In comparazione, i nostri supermercati sembrano le asettiche vetrine d’un film sull’era spaziale. Certo a questa gente il cibo non manca, anche se qui pure ci sono i pasciuti e i miserabili. Ma, a differenza di quella occidentale, la società ecuadoreña sta progredendo, e lo sbandierano le pubblicità governative che rimarcano le migliorie alle rete viaria, gli incentivi all’educazione, la diffusione dell’assistenza sanitaria. “Tenemos Patria!” è lo slogan, un concetto talmente démodé da risultare commovente, a noi che abbiamo perso da un pezzo la nostra identità. Epperò, e per fortuna, nonostante i benvenuti passi avanti, l’Ecuador rimane fortemente indio e ancorato all’agricoltura, anche se le case padronali delle storiche haciendas, come la regale Ciénega e la seducente Posada de las Nubes, si son già convertite alla nuova risorsa del turismo.
A Otavalo è meglio evitare le banali bancarelle turistiche di Plaza de Ponchos per scoprire invece il mercato delle verdure che circonda, dietro la chiesa di San Luis, la grande area coperta delle carni, dei fiori, dello scatolame, e il patio de comidas o, in lingua, il food court: l’assembramento ordinato delle tavole calde – un’invenzione che noi abbiamo ancora da scoprire. Anche a Saquisilí il tripudio di forme e di colori si scatena il giovedì, e nella Plaza de Granos si comprano le tante varietà di riso nazionale prodotte in quantità nella costa, oltre a vari tipi di granaglie, per separare i chicchi delle quali non si usano più i cavalli – adesso si passa sopra alle spighe con un camion. E chi non ha soldi – perché vive del suo pezzetto di terra e dei suoi animali – ancora pratica il baratto. Le donne, dai trent’anni in su aspiranti muse di Botero tutte quante, siedono in pompa magna con ampie gonne d’un tessuto pesante che noi useremmo per una coperta e un cappello che da noi sarebbe da uomo. Gli uomini circolano con pantaloni allo stinco, poncho rosso o blu e cappello di feltro anch’essi. Sì, perché i cappelli di paglia toquilla di Cuenca – i famosi e mal battezzati Panama – vanno bene per i climi caldi, e meglio ancora sulle teste dei grandi Gatsby e delle altre star, quelle che brillano anche al sole. I cappelli di queste quadrate signore, invece, sulle stesse facce mezzo indie che si confidano il giorno del mercato i medesimi pettegolezzi nei lenti mulinelli d’un tempo stazionario, caratterizzano l’andirivieni umano nelle Ande, ritmato dai loro gesti antichissimi, colti colla coda dell’occhio. Queste montagne celano gelosamente i fatti di questi uomini, d’un’umanità che avvertiamo singolarmente remota.
Se invece di essere qui adesso fossimo stati qui cent’anni fa, avremmo visto le medesime scene. Ecco, per scansare il pericolo di esserci senza far storia, di esistere senza vivere, occorre fare un passo indietro e prendere le distanze, come se si fosse un puro spirito. Osservando senza giudicare, ogni espressione popolare diventa accettabile, e ogni tradizione una risorsa. Così, l’oro profuso nella Chiesa della Compañía a Quito non avvicinerà nessun’anima a Dio, ma perderà il suo imponente esibizionismo per diventare un gioiello sublime di intaglio, e ugualmente le chiese di San Francisco e San Diego. E una “limpia” praticata dallo sciamano non farà ridere nessuno e sarà possibile coglierne il significato, elementare, ancestrale e comune ad ogni cultura, di cerimonia di purificazione. E la natura, perfino lo scenario della natura apparirà straordinario ad uno sguardo nuovo. I muschi verde oliva, mollemente adagiati sulle curve che circondano i laghetti intercomunicanti del Parco Cajas, fermeranno la moviola e si udirà quell’universo dimentico, quasi stregato, intonare un inno silente di bellezza e di ringraziamento. Sarà stato il mal di montagna, ma io l’ho sentito e l’ho perfino visto nel movimento delle erbe e delle nuvole, nel pigolìo dei pochi, minuti uccelli. Segni infinitesimali, e allo stesso tempo infiniti, d’una forza creatrice così potente e così vicina a noi da avvilupparci, da permearci senza via di scampo, coinvolgendoci nella medesima corsa della dimensione temporale, intrappolati, ma pieni d’una segreta gioia, nel ciclo della crescita e della decadenza, noi, fiori d’una stagione. Alla Laguna Cuicocha e alla Laguna Quilotoa l’acqua, che ha colmato la caldera spenta, sorprenderà e delizierà, verde come uno smeraldo, bella e sfacciata come un gioiello. E sotto il tappeto della foresta infinita dell’Oriente, gli accidentati sentieri serpeggeranno tra le chiazze di sole, le grandi farfalle blu cadenzeranno la loro lenta danza, le palme dai mille usi si confonderanno colle liane e coi fichi strangolatori, e le radure riveleranno le casucce dei Quetchua, ora di tavole di legno, non più di tronchi di palma chonta, perché il progresso non si arresta, anche se la chicha si beve ancora. Ingapirca, nella sua modestia rispetto ai siti Inca peruviani, si rivolgerà per sempre al Sole e alla Luna con squisita eleganza, nella cornice delle Ande più belle e più verdi, ambita persino dalle nubi che le salgono incontro. E, nelle sere piovigginose, dalle piscine termali di Papallacta si leveranno i vapori per stare al caldo sotto e freschi fuori, come un gelato cinese appena fritto. E le coloratissime scenette naif su pelle di pecora di Julio Toaquiza a Tigua smetteranno di essere una moda e racconteranno le storie e le credenze popolari, gli elementi, trasfigurati anch’essi, della vita contadina a 4.000 metri d’altitudine, su pianori vigilati da vulcani innevati che fanno solo finta di dormire. E’ necessario, cioè, un cambio di mentalità per provare le esperienze estatiche che questa terra, e solo questa terra, offre. Alle Galápagos vestiamo l’umiltà d’essere gli ultimi arrivati, non i signori ma gli ospiti di questo pianeta. Eppure, di questa terra che sentiamo nel nostro corpo, noi siamo il sale, il sistema nervoso, animali sì, ma decisionisti e volitivi. Nel continente, un poncho e un coltellaccio saranno tutto ciò di cui avremo bisogno per entrare in questo giardino incantato di altezze vertiginose, di fiumi torrentizi o serpentini, di inestricabili erbaggi amazzonici.
In Ecuador bastano poche ore per cambiare completamente situazione: Costa, Sierra e Oriente offrono in un paese tascabile la diversità ambientale e culturale più ricca del mondo. Infila gli stivali, àrmati di machete e fatti strada nel fitto della foresta primaria, per disboscare e creare lo spazio per un orto o una capanna, consapevole che nessuno ha mai coltivato quelle zolle. Siamo in cima alla piramide della creazione ma nella giungla avvertiamo una sensazione forte di appartenenza, di essere tornati a casa: riconosciamo ancestralmente quel che vediamo, noi siamo l’universo e il nostro corpo è la terra. Calza gli scarponi, vesti una buona giacca a vento e va’ a caccia d’ossigeno ai 4.800 metri del Cotopaxi o del Chimborazo – è una sfida che non sei sicuro di vincere, come dimostra il cippo alla memoria di coloro che la montagna ha voluto per sempre con sé. Indossa la muta e aggrappati a una testuggine marina per un passaggio gratuito, magari evitando una manta e schivando un leone marino troppo curioso. Meravìgliati alla peluria incredibilmente forcuta d’un enorme bruco amazzonico. Addormèntati ai richiami delle civette e di altre inconoscibili, misteriosissime forme di vita sulle rive del fiume Napo. Lascia che la pace delle palme sciolga il mondo che celi, pieno di documenti, di sotterfugi, di voltafaccia, e lo linearizzi in una freccia che da materia vada a spirito, da abbandono a risveglio, da terra a cielo. Così, le tante, minuscole estasi provate davanti ad un frutto esotico, ad un animale curioso, ad un territorio lunare, ad un volto dalla forte connotazione etnica, si fonderanno in un’esperienza a tutto tondo che ti permetterà, durante questo viaggio, di dare un altro passo, un passo da gigante, nel cammino – ancora lungo – della tua evoluzione personale.