Tuono bianco
Cent’anni fa, altri viaggiatori – botanici, geologi e perfino un prete esploratore – organizzavano qui spedizioni estive per studiare gli esiti della più violenta eruzione vulcanica del ventesimo secolo, causata da Novarupta nel 1912. Quella che venne battezzata “la valle delle diecimila fumarole” rimase attiva per decenni e presenta ora i segni di quell’epocale catastrofe: strati di cenere alti metri e metri, chiazzati dai metalli contenuti nei fumi e pittorescamente erosi dai corsi d’acqua. Già negli anni ’60 era facile andare a vedere gli animali dei territori selvaggi, e in tutta comodità, magari in treno. Da quando si cominciò a scrivere sull’Alaska, non si contano le storie sulla sua magnificenza panoramica, sul suo clima severo e sulle imprese al limite del possibile che offre. Le sue montagne invitano alla scalata, cresta dopo cresta, e i suoi simboli: gli esquimesi, le pellicce, il pesce e l’oro, sono essi stessi patrimonio dell’umanità.
Siamo sulla “cintura di fuoco” dell’oceano Pacifico: non solo il tempo qui è perennemente instabile, ma neanche sulla solidità della terra si può fare affidamento – ne sanno qualcosa gli abitanti di Valdez. Annunciata dal ghiacciaio Worthington che scende quasi fino alla strada e superato il sipario del banco di nebbia che ha preso residenza a Thompson Pass, la discesa verso Valdez è piacevole e gagliarda come una sinfonia di Beethoven. Le pareti di roccia che ne disegnano i tornanti si fronteggiano quasi verticali a Keystone Canyon, in una gara tra la cascata del Velo da Sposa a sinistra e la cascata della Coda di Cavallo a destra. Il conto alla rovescia delle indicazioni miliari s’azzera a Old Valdez, spazzata via da un violentissimo terremoto durato cinque interminabili minuti e dal conseguente maremoto. In quel tremendo venerdì santo del 1964 alcuni pensarono fosse arrivata la fine del mondo, mentre la gente scompariva senza lasciar traccia, inghiottita dalla terra o dal mare. Il ricordo ancora porta le lacrime agli occhi dei sopravvissuti, intervistati in un video dell’interessante museo cittadino. Valdez venne ricostruita quattro miglia più a ovest secondo un perfetto feng-shui: aperta al mare, le montagne alle spalle e un fiume a fianco. Ma sono le casette ordinate – ciascuna nel proprio fazzoletto di verde e fiori –, lo spazio vitale di cui ciascuno gode, gli accoglienti locali e il buonumore della gente che ne fa una delle più piacevoli cittadine costiere. La sera ci si ferma alla pescheria sul lungomare, dove la presa del giorno viene tagliata e pulita. I fotografi si allineano lungo un rio, richiamati dagli schiamazzi dei gabbiani, e scoprono il dramma dei salmoni, che si agitano disperati in pochi centimetri d’acqua, tra i cadaveri dei compagni, ormai banchetto degli uccelli. Il ciclo vitale dei salmoni è tra l’abc della vita in Alaska e diversi allevamenti ne offrono una panoramica completa, dall’uovo alla lattina. Poveri salmoni! Raggiunta l’età del matrimonio, risalgono la corrente, tornano all’allevamento che li ha ospitati per anni come uova fecondate e poi come pesciolini, s’affollano nella “dream room” dove vengono storditi e, separati poi per sesso, i maschi vengono brutalmente piegati per spremerne il latte in un secchio, e le femmine uccise con una manganellata e sventrate delle uova. Alla fecondazione provvediamo noi umani, per ottenere la massima riuscita. Non si butta niente: le uova immature diventano caviale e i pesci non mangiabili o in sovrannumero diventano cibo per Fuffi e per Fido, concime e vari altri improbabili prodotti. E se il paventato chip sottocutaneo che abiliterà al controllo degli umani impensierisce qualcuno, vale sapere che noi già lo facciamo coi salmoni: una serie di variazioni nella temperatura dell’acqua lasciano dei segni su un particolare osso del pesce, la cui provenienza può quindi essere identificata. Salmoni nati a Juneau, ad esempio, sono stati trovati in acque giapponesi. Per avere un’idea della fauna presente nel territorio, l’elegante museo Maxine e Jesse Whitney presenta una rassegna completa di stupendi animali impagliati, presentati assieme ad oggetti locali raccolti nel corso di una vita di sortite in sperduti villaggi dalla titolare, appassionata collezionista.
Tanto della cultura indigena sarebbe andato perduto, non fosse stato per alcune menti illuminate o semplicemente curiose. Un’idea la dà l’Alaska Native Heritage Center, un bel punto di dimostrazione delle culture dei tanti gruppi etnici presenti nelle Aleutine, sulla costa e nell’interno. Si raccontano le leggende, si tramandano le canzoni, si danno dimostrazioni di abilità fisica (a questo proposito, lo sport nazionale sono i cani da slitta, seguiti dalla pesca), si visitano le abitazioni tradizionali qui ricostruite, dove viene spiegato come catturare un orso visitatore importuno, quali erbe abbiano poteri curativi, quali siano i vincoli sociali e come la comunità passi i lunghi inverni. E siccome, come in tutti i paesi nordici, il materiale umano è scarso, il ruolo svolto da ciascuno è prezioso. In Alaska, chiunque uno sia, qualsiasi cosa uno sia, viene accettato. E se è vero che, di tipi originali, qui ce ne sono molti, è altrettanto vero che la passione di una persona può avere qui un grande impatto. Ascoltiamo nascondendo un vago compatimento la storia, le storie e le storielle dei pionieri di questo che, perfino secondo la striminzita tempistica americana, è uno stato giovane: “l’ultima frontiera”, lo chiamano. Qui è facile avere una strada intitolata al proprio nome, come era possibile avere un appezzamento di terreno gratuitamente, dietro l’impegno ad occuparlo per un determinato periodo. Tra quanti hanno colto l’occasione, c’è chi ha messo radici. C’è anche chi, capitato qui senza particolari obiettivi, si sia innamorato di questo indomabile splendore, e l’abbia scelto a propria casa. All’arrivo, come anche alla partenza, occorre passare la cortina di nubi che permane sull’Alaska, che solo i più alti picchi, detti “nunatak”, perforano. I pezzi di celeste che si vedono in cielo sono rari, ma ci si abitua. Una bella giornata è quando non piove, ma anche se piove, d’estate di rado fa sul serio: di solito è poco più di una nebbia, visibile solo su un fondo scuro, abbastanza per annaffiare le verdure, che qui crescono mirabilmente, grazie al gran numero di ore di luce (non proprio “di sole”) dell’estate. Qui, oltre a concorsi per il più grosso pesce pescato, ne organizzano per i cavoli e le zucche più grandi! E i fiori! Non ho mai visto una tale varietà di forme e colori, grazie senza dubbio al cielo che non dimentica, giornalmente, di dar loro una spruzzata di “sole liquido”, come chiamano qui la pioggia.
L’Alaska non è una serie di punti d’interesse: ogni chilometro di strada è spettacolo ed esperienza, ogni miglio rileva. Le infinite foreste per sempre vergini che i Cessna a 4 e a 8 posti di minuscole compagnie aeree sorvolano: ecco la terra. Le zone pianeggianti degli acquitrini, i ghiacciai che si sciolgono in cascate e colorano di latte i fiordi, la maree altissime che lasciano fiumi di fango e sabbie mobili per poi rimontare a pericolosa velocità: ecco l’acqua. In questo scenario si svolge la dramma della vita. Alaska sono i sassi del greto del torrente, le foglie di mille anni fa tornate humus e nutrimento delle foglie verdi di oggi, Alaska sono montagne di roccia scure che il verde cupo non arriva a vestire, passando il compito al bianco della neve, macchiato del blu dei ghiacciai. Del tempo qui si vedono le lancette degli anni, dei secoli e dei millenni. Quello che vediamo nel corso della nostra vita equivale a un’istantanea per la storia della Terra. L’Alaska porta più evidente la traccia dell’originale progetto della creazione, riaccende il senso di meraviglia ed esalta le caratteristiche e le capacità individuali. Considerando il grande trittico dei paesi nordici, l’Alaska non evita la presenza umana con l’accanimento della Groenlandia: qui ci sono alberi, ci sono animali, ci sono o ci potrebbero essere strade. E per questo, anche nei punti più remoti, non ci si sente fuori dal mondo, in un paesaggio quasi alieno, come succede in Islanda. L’Alaska è, finalmente, una terra non addomesticata, non a misura d’uomo, ed è proprio questa la seduzione: “la tempra di un uomo si misura dalla presenza di spirito che dimostra nelle emergenze inedite” (J.R. Lowell). E non solo degli uomini: le piste di Gustavus, di Skagway e di Haines sono gestite da valchirie tuttofare che telefonano ai passeggeri quando il volo è in ritardo, che spostano e pesano i bagagli per massicci che siano, facendovi puntualmente pagare l’eccesso di peso, che preparano tramezzini “perché i piloti devono essere sempre contenti”. I piloti stessi possono essere ragazzi di vent’anni che hanno appena messo lo skateboard in soffitta. Qui si inizia presto a essere un uomo del rinascimento, a provare a fare di tutto.
L’aereo, assieme alla nave, è l’unico mezzo di trasporto per le tante zone non collegate da strade. Così è la regione sud-orientale, tutto un ghirigoro di isolotti e di fiordi, che ospita Juneau, la capitale, i cui abitanti si sono dichiarati contrari al progetto di un collegamento stradale col resto del continente: bastano i sessanta chilometri di asfalto che hanno ed, effettivamente, che motivo ci sarebbe per snaturare il carattere di questi posti rendendoli accessibili? Alaska è una scelta di vita, è un modo di essere. E, dopo un paio di settimane per strade dove tre auto in fila costituiscono traffico, rientrare ad Anchorage – dove vive quasi la metà dei 700.000 abitanti dello stato – e vedere la strada raddoppiare e poi quadruplicare, fino a trovarsi ingolfato in uno stradone a sei corsie con incroci e case dappertutto, s’arriva a pensare che una tale concentrazione, oltre a essere insopportabile, sia innaturale. E’ lo spirito selvatico degli orsi – altro animale emblematico del paese – che qui ci contagia: insieme giusto il tempo dell’accoppiamento, poi ciascuno per la propria strada, e una ringhiata avvisa i trasgressori. Necessità di libertà di movimento riflessa nella caratteristica ampiezza di spazio attorno a sé di cui gli americani hanno curiosamente bisogno, scusandosi se ti passano ad appena due metri di distanza. Necessità di libertà d’azione che ingombra i cortili con macchinari ed attrezzi, con lavori finiti a metà, lasciati agli elementi per un giorno o per una vita, a riprova della progressione quasi organica dell’agire, del nostro mutare intenzione, attività o interesse. E di come tutto sia temporaneo e possa cambiare. Il vano di un caravan, ad esempio, ancorato a due pali in giardino, si converte in un ottimo ripostiglio. E una ferrovia in disuso si trasforma in una rotta turistica.
Una collinetta scoscesa può diventare miniera, paese, e infine rubare il titolo di capitale a una sede più antica: è la storia di Juneau e Sitka, capitale dell’Alaska ai tempi dei mercanti russi di pellicce. Un ricco filone di rame (a Kennecott) o d’oro (la Independence Mine vicino a Hatcher Pass) si può esaurire, la miniera venire abbandonata e il paese dei minatori finire come archeologia industriale. Oltre che per visitare le baracche, il mulino e la centrale elettrica del complesso, tutti in vario stato di decadenza, ci si va per camminate lungo i sentieri e, con un minimo d’attrezzatura e una guida, per escursioni sui ghiacciai. Valdez non è sola a vantarne uno sotto casa: Seward conta sull’Exit Glacier, Kennecott ha il Root Glacier e da Girdwood una funivia porta all’Alyeska Glacier. Juneau si fregia del Mendenhall, il ghiacciaio più visitato al mondo: i turisti lo sorvolano in squadriglie di elicotteri pilotati dai veterani delle guerre USA, che hanno trasformato il suo cielo in un vero campo di battaglia. Invece il Matanuska Glacier, sulla Glenn Highway, ancora aspetta che un paesino gli cresca vicino. Tutti uguali, tutti emozionanti, tutti a provare che se gutta cavat lapitem, ghiacciaio livella roccia, scava valle e crea lago. Ed è possibile andare a scovare anche quelli meno accessibili: il Portage, che s’è talmente ritirato da non essere più neanche visibile dal proprio visitors center, con una motonave, e lo Spencer a bordo di un canotto, dopo un tragitto in treno da Anchorage lungo il Turnagain Arm che ti si tatua nella memoria, tanto è spettacolare la strada (carrozzabile e ferrata) lungo l’orlo di quel braccio di mare costeggiato da montagne e così battezzato dal capitano Cook che pensava di trovare un passaggio ma scoprì d’essersi imbucato in un cul-de-sac. E, ancora, crociere da Valdez, da Whittier, da Seward e da Gustavus portano ai ghiacciai che scaricano direttamente in mare, attraversando fiordi profondi dove non mancano gabbiani, pulcinelle di mare, leoni marini e balene. La fauna terrestre si può vedere, con un po’ di fortuna, dal bus che attraversa il parco del monte più alto dell’America del Nord, il mitico Denali, attrazione così irresistibile per gli alpinisti che molti – quelli di cui sono stati ritrovati i corpi – riposano nel cimitero di Talkeetna, il paese dal quale, con un volo, si raggiunge il campo base per l’ascesa. Con un volo è anche possibile, in una giornata serena, sorvolare il vasto complesso del rilievo di Denali. Per tre gioni abbiamo chiesto se il tempo lo permettesse e, sebbene il giorno dell’escursione in bus stralci della vetta innevata contro il blu del cielo facessero ben sperare, per tre volte la risposta è stata negativa.
A metà strada tra Denali e Fairbanks, lungo un viottolo, c’è il bus abbandonato dove Chris McCandless, il protagonista del famoso libro e film “Into the wild”, terminò la sua avventura di novello Adamo. L’Alaska non è un Eden generoso, e in Alaska la morte di quel sognatore è considerata un duplice fallimento: in sé, e per essere assurta a simbolo. Ora c’è chi a quel bus va in pellegrinaggio, senza realizzare che l’Alaska è ancora popolata da gente che vive “selvaticamente” di caccia e di pesca, gente con storie di sopportazione e di eroismo, di vita e di morte nella lotta quotidiana cogli elementi, avventure silenziose che nessuno conoscerà mai. Storie più conviviali vengono raccontate negli spettacolini musicali dedicati ai turisti a Denali, al Pioneer Park di Fairbanks e a Skagway: lazzaroni e avventuriere in costume si alternano in canzoni e scenette per intrattenere i grupponi delle crociere. Il personaggio-base è il cercatore d’oro che non ha fortuna, ma si finisce sempre in gloria, decantando la bellezza dell’Alaska e di quanto sia piacevole viverci – questo da attori stagionali, che d’estate s’aggiungono agli altri operatori turistici che, provenienti dai “lower 48”, i 48 stati contigui degli USA, raddoppiano la popolazione residente. Questi invasori temporanei portano la loro cultura e il loro modo di parlare e così l’Alaska scade al livello di un qualsiasi posto degli Stati Uniti. Per ritrovarla occorre uscire dalle città e cercare l’intimità col selvaggio – un contatto che non ammette intermediari. Le città spesso sembrano deserte a causa della dimensione automobile-centrica tipica americana: costruzioni a un piano solo, cielo aperto a 360°, uso estensivo del territorio. Ma apri la porta di un bar o di un ristorante e scopri che l’intero paese è lì a mangiare, bere e divertirsi: una scena sottilmente oscena, quasi un tradimento alla legge del vento, del freddo e della pioggia. Siamo così fuori posto, noi, qui, davanti a un salmone con patatine fritte, mentre lì fuori la natura incombe, quasi tangibile, col suo respiro gelido, colla sua logica ineluttabile, colla sua seduzione irresistibile. E’ un tradimento al quale io pure non posso sottrarmi. E tutti i salmoni e gli ippoglossi che in tre settimane mi hanno provocato, me li sono mangiati: sapore di questa terra, colore locale. Ma il loro spirito m’è entrato dentro, risucchiandomi in un mondo di cose vive, di alberi, di animali che mangio e che possono mangiarmi, parte di un universo disumano in faccia al quale esercitare le mie risorse umane. Per questo mi ripugnano codesti vecchi, ammassati nelle reggie gallegianti che violano questi fiordi e scarrozzati nelle corriere di lusso che infestano Denali, Juneau e Skagway, alcuni addirittura in carrozzella, altri deambulando a stento. Se è vero, nelle parole di Oscar Wilde, che i doni della gioventù sono sprecati nei giovani, così l’agiatezza della vecchiaia è sprecata nei vecchi, che ora si possono permettere una vacanza nella costosa Alaska, dove quasi tutto è caro perché quasi tutto è importato (Anchorage si vanta d’essere il “porto d’Alaska”), ma che non sono più in grado di percorrere un sentiero, di remare una mezza giornata in kayak, di arrampicarsi coi ramponi su un ghiacciaio. Li ho incontrati alla Gold Dredge No. 8, affollavano la motonave durante l’escursione al Glacier Bay National Park, hanno riempito il treno della White Pass & Yukon Route, quello che segue il famoso sentiero della corsa all’oro del 1898. Mi sono chiesto se non avessi sbagliato il mio programma di visite, ma le cose da fare o vedere sono le medesime per tutti. La differenza coi miei scarponi è che le candide scarpe da tennis che immancabilmente calzano non verranno mai macchiate da uno schizzo di fango.
Ingenuamente, m’aspettavo che il clima avesse determinato un modus vivendi unico, e l’obiettivo di questo viaggio era proprio scoprire la specifica risposta umana alle condizioni imposte dal territorio. I primi abitanti hanno lasciato agli autoctoni di oggi una cultura sofisticata per ottenere tutto il necessario senza incidere significativamente sull’equilibrio naturale. Son quelli che hanno battezzato “tuono bianco” il boato del ghiacciaio che si frantuma nel mare, quelli che tessono fili d’erba così fitti da farne recipienti per l’acqua, che costruiscono kayak con le pelli e confezionano indumenti impermeabili con lo stomaco di animali, e tutto usano per una sorprendente serie di attrezzi. I musei cittadini fanno a gara per illustrare l’ingegnosità degli esquimesi. Homer ha nel Pratt Museum una sorta di soffitta ingombra ma elegante e Fairbanks ha costruito per la propria università un museo dall’architettura avveniristica, ma la collezione dello Smithsonian ad Anchorage è imbattibile, e l’allestimento è un’opera d’arte in sé. Altrove – a Soldotna e a Talkeetna, ad esempio – si possono visitare le cabine dei pionieri e tutte le cittadine – Homer, Valdez, Copper Center – raccolgono i cimeli dell’incipit delle loro storie. A Delta Junction c’è una rara “roadhouse”, classica struttura di tronchi come le cabine dove abitavano i prionieri. Questa, ben più grande, serviva i viaggiatori lungo il tracciato Fairbanks-Valdez. Fra tutti, eccelle Skagway, che ha restaurato “The Mascot”, un bar del tempo della corsa all’oro, e la casa del capitano Moore, il fondatore.
Ma, sebbene questo sia innegabilmente uno dei “grand tour”, l’Alaska è essenzialmente uno degli Stati Uniti, in bene e in male. Se un tempo, come dimostrano i ritrovamenti delle miniere, qui circolavano dinosauri e mammut, ora calpestano queste terre mastodonti della razza umana di un quintale e mezzo. Gli americani hanno portato il motto “big is beautiful” a proporzioni grottesche, e sembrano essersi arenati nella ormai lontana età dorata degli anni ’50: non si ascolta pubblicamente musica datata dopo il 1963. La commercializzazione è talmente omnipervasiva da esondare nella volgarità. Comunque non tutto della cultura dei nuovi padroni americani è negativo. L’organizzazione di visite, tour e attività è capillare. Spesso i visitors center offrono gratuitamente proiezioni di filmati informativi e ben presentati. Molti del personale sono volontari pensionati. A volte fanno tenerezza, altre volte fanno pena, ma il futuro pare proprio essere una società nella quale il tessuto connettivo tra i lavori istituzionali – e quindi pagati – sia fornito proprio dalla buona volontà di pensionati che desiderano rimanere attivi ed utili. Ti salutano per strada, c’è un senso di comunità che denuncia l’individualismo dell’esperienza americana: l’uomo solo contro l’universo e la concorrenza, contro tutti e tutto. Del resto, “North to the future” è il motto dello stato, e il nord non risparmia certo durezze. Le tribù indigene sono state indennizzate alcuni decenni fa e non sembra esserci un problema rilevante di convivenza come per i Maori in Nuova Zelanda, gli Indiani negli USA e, soprattutto, gli aborigeni in Australia. Tra le facce inglesi che hanno popolato ormai tutto il mondo (clamorosamente smentendo il famoso “No sex please, we’re British”), non è raro distinguere un volto esotico come da noi si vedono solo nelle pubblicità di Benetton, un Athabascan o un Tlingit inglobato nel tessuto urbano. Forse, le caratteristiche dell’artico che cercavo stanno più a nord, oltre il Circolo Polare, a Kotzebue, a Barrows e nei villaggi che non compaiono nella cartina stradale, nelle capanne (gli igloo sono un’errata interpretazione dell’uomo bianco di ripari momentanei) degli Aleuts, degli Tsimshian e degli Eskimo, ai quali è stato riconosciuto il diritto di cacciare, di pescare e di sfruttare il territorio per la propria sussistenza come hanno fatto i loro avi per millenni. La tradizionale conoscenza della natura, infatti, mantiene i nativi di oggi profondamente in contatto con il loro ambiente, dal quale prendono ciò di cui hanno bisogno – a differenza di noi, che prendiamo tutto quel che possiamo. Fa così la preghiera per la stagione della pesca: “E’ quasi arrivata la stagione / La stagione del profondo mare azzurro / Che porta cose buone dal profondo mare azzurro / Balene del remoto oceano / Che ci sia una balena / Che venga”. Quel che siamo è il risultato di dove viviamo. Foggiamo e siamo foggiati dagli altri e dal nostro habitat. I mesi lì si misurano a lune: la luna dei laghi che gelano (ottobre), quella della brina ghiacchiata (dicembre), quella delle foche che stanno per nascere (febbraio), quella dei fiumi che scorrono (giugno)… “La gente delle Isole Aleutine è vissuta con le lontre marine, con le nuvole, con le volute del vento vivace e fantasioso, protetti per poter vedere ancora un sole nascosto” (June McGlashan, tribù Unangax). Forse la vera Alaska inizia là dove finiscono le strade.
Ma soprattutto mi ha scandalizzato l’alta considerazione che abbiamo di noi stessi, come se la nostra intelligenza potesse far fronte alle forze della natura. Nel 1958 Edward Teller, il padre della bomba all’idrogeno, dichiarava “Cambieremo la superficie della terra a nostro piacere”. Invece, una banale ubriacatura di Joseph Hazelwood, capitano della Exxon Valdez, è costata cara alla Exxon, ma ancor più alle coste e agli animali d’Alaska. E i tagli alle spese per la sicurezza dei pozzi petroliferi stanno costando cari alla BP, ma ancor più alle coste e agli animali del Golfo del Messico. L’aver mangiato del frutto della conoscenza non pare compensarci della perdita della bussola dell’istinto, che invece dirige senza fallo gli animali. Un giro nella “Terra dei giorni senza notte” è un invito ad un sano ridimensionamento, a ritrovare il nostro posto nell’ordine naturale delle cose. Theodore Roosevelt disse: “La fauna selvatica non è proprietà solo degli uomini di oggi, ma appartiene alle generazioni a venire, i cui beni non abbiamo il diritto di sprecare”.
Le attrattive e la bellezza con la quale tanti paesi ripagano il turista rispondono alla domanda “Perché si viaggia?”. Ma perché l’Alaska? Perché là ti scopri finalmente solo, e la natura si fa vicina, amica difficile, esigente ma generosa amica, compagna, madre, che tira fuori il meglio di te: l’impegno, la temperanza, il coraggio, la voglia di vivere, la resilienza. L’Artico ha un fascino irresistibile, quello di un territorio vergine che pochi conoscono. Michio Hoshino, grande fotografo del grande nord, ci scoprì una sottile poesia: “Il tocco del vento artico che mi carezza le guance, l’odore dolce della tundra, le luce pallida di queste notti d’estate, le macchie di non-ti-scordar-di-me, così piccoli da non venir quasi notati – voglio rimanere fermo, composto, e registrare questo panorama nella memoria dei miei cinque sensi. Voglio serbar cari questi momenti che passano, apparentemente improduttivi. Dentro di me voglio sempre ricordare che esiste un altro tipo di tempo che scorre parallelo alla frenetica attività della vita umana”. E mi ha profondamente commosso, al cimitero di Eklutna, dove la cultura nativa si sposa a quella dell’antica dominazione russa, scoprire, tra le coloratissime casette in miniatura che segnano il luogo del tumulo, una coperta distesa sopra un interro. Forse la famiglia non poteva pagare la casetta tradizionale per lo spirito, ma quella coperta sulla nuda terra esprimeva forse meglio la partecipazione e la pietà umana per il morto. In effetti, l’Alaska propone la domanda: “Perché vivi?”. Un viaggio qui fa fare il punto della situazione: quanta voglia (o capacità) di avventura m’è rimasta? Che faccia ha il mio spirito, cosa davvero mi piace? C’è molto, qui, per chi capisce il linguaggio degli spazi ampi e silenziosi. E’ un posto non da vedere, ma da vivere. John Muir, nel suo “Viaggio in Alaska”, descrive così l’orma che l’Alaska imprime su chi la visita: “Salpiamo per la via del ritorno, unendoci agli iceberg alla deriva, mentre un “Gloria in excelsis” sembra ancora risuonare su tutto il bianco panorama. Noi, coi cuori infuocati pronti a qualsiasi destino, avevamo la sensazione che, qualunque cosa il futuro ci riservasse, i tesori guadagnati in quella mattinata straordinaria avrebbero arricchito le nostre vite per sempre”.