A casa nel mondo
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Tenzug, 27 dicembre – Cartolina n. 1: La verità sulla religione
Pagato il pedaggio d’ingresso al villaggio, tutti sono contenti e scatta lo scatto selvaggio: nulla ci può impedire di fotografare quel che vogliamo quanto vogliamo. Ci si infila tra i passaggi – perché non c’è una logica di vicoli, di scale e di ambienti – della residenza del capo villaggio, che ci riceve con soddisfatta indifferenza, spaparanzato su una sorta di grande puff, scortato da un paio di figlie – o di mogli, non si sa mai – e al quale fa buona scorta un cavallo. Il cavallo, qui ed ora così inutile da essere surreale, è l’equivalente locale di una Ferrari. In giro ci sono moto di media cilindrata, tutte bardate con completini in similpelle. Su vari altari circolari rimangono i mucchi di penne del pollame offerto in sacrificio agli antenati. Le basse aperture ogivali di alcuni tuguri ospitano donne sedute a terra, e bambini fanno la spola tra un visitatore e l’altro, chi offrendo la mano per un contatto con l’esotico “obruni” (uomo bianco), chi chiedendo una penna, chi curioso di controllare nel visore della macchina fotografica il suo faccino sporco di moccolo. L’incolmabile distanza linguistica impedisce perfino uno straccio di presentazione, ma la paciosa sufficienza colla quale Sua Grazia, senza batter ciglio, domina le mogli, il cavallo e il mulinello delle età che gli gira attorno, la dice lunga sul suo “lavoro”, redditizio e di tutto riposo, e sul fatto che lì, sulla cima del suo microcosmo, la qualità di vita sia molto migliore della nostra, che ci spostiamo, che ci adoperiamo, che ci affanniamo. Se dovesse fulminarlo l’illuminazione celeste, lo troverebbe già in posizione. Altre abitazioni, anch’esse di fango e mattoni crudi, ospitano i componenti del villaggio, le loro capre e le loro galline. Da alcuni buchi nei muri di cinta di queste residenze fortificate scola del liquame. Davanti a un ingresso decorato con pali e pelli, un uomo siede, considerando impassibile i nuovi arrivati, che, timorosi all’inizio, iniziano a puntangli addosso gli obiettivi. Click, click, click: è nata una stella. Ma la nostra destinazione è l’antro sacro in cima a una delle colline che dominano il territorio, brullo ma fotogenico per i curiosi ammassi di sassi che lo punteggiano e tra i quali fischia, in inverno, l’harmattan, il vento che porta la sabbia dal deserto. Dopo alcuni difficili passaggi tra le rocce si arriva al punto da cui si può salire solo a piedi, ginocchia e petto nudo. Le ragazze, per gentilezza nei confronti dei maschi del gruppo, decidono di non denudarsi, anche se il pagamento di 1 cedi avrebbe loro permesso di accedere al sancta sanctorum senza togliersi la maglietta. Evidentemente, qui anche i tabù sono negoziabili… ed è possibile salvaguardare il pudore per pochi centesimi. Bocconi, ci si affaccia su una piega del granito, dove due attendenti del prete rispondono alle domande. Una guida traduce. Per propiziarsi gli spiriti, basta portare un animale da sacrificare al sacerdote. Per richieste specifiche, oltre a presentare l’offerta, il questuante deve passare una notte in un anfratto adiacente al sito del sacrificio. Il prete udrà il responso dall’aldilà, e un linguista tradurrà i suoi vaneggiamenti in indicazioni pratiche. Vengono a Ba’ar Tonna’ ab Ya’nee da tutto il circondario: Ghana, Burkina Faso e Togo. Gli inglesi tentarono due volte di proibire questo culto, ma il santuario non fu mai dimenticato e anzi servì di rifugio in occasione dei conflitti – tra tribù e contro gli inglesi. Questo, in un paese in cui le imprese commerciali hanno nomi come “Forniture elettriche Dio Provvede”, “Bottiglieria Gesù è Sopra a Tutto”, “Fiorista Il Signore è il Mio Pastore” e “Salone di bellezza La Grazia di Dio”. Con le sue tante denominazioni, il ficus del cristianesimo ha circondato, nascondendolo parzialmente, il tronco poderoso delle antiche credenze, ma nel mezzo millennio trascorso dall’arrivo dei primi bianchi – i portoghesi – non è riuscito, e mai riuscirà a strangolarlo. Anche la penetrazione dell’Islam dal nord, e quella, più recente, dei Testimoni di Geova, non sembrano aver irreggimentato o immiserito la mentalità aperta e fiduciosa di queste genti, forse troppo occupate a cercar di sopravvivere per far eccessivo caso alla faccia dell’uno o dell’altro dio che viene loro proposto.
La verità, cara M., è che questa gente crede che uno spirito vitale animi ogni essere: pietra, pianta, piuma o pelliccia. Non la chiamerei credenza: è una semplice constatazione. E’ evidente che tutto abbia una sua logica, sebbene nessuno ne abbia scoperto la finalità suprema. E, sebbene molte coscienze si stiano svegliando a un approccio più rispettoso all’esperienza del vivere, rimaniamo, come siamo dall’inizio dei tempi, schiacciati tra yin e yang, tra bene e male, e le tragedie dello schiavismo, lungi dall’essere i ricordi di una peculiare ma ormai lontana vacatio della coscienza, sembrano essere state le prove generali per le catastrofi grandguignolesche del ventesimo secolo. Come cantava Joan Baez, “When will we ever learn?”
Cape Coast, 3 gennaio – Cartolina n. 2: La verità sulla tratta degli schiavi
Sulla stretta striscia di sabbia delimitata da un filare di palme, bambini e ragazzi giocano – le onde del Golfo di Guinea sono troppo alte per un bagno e, anzi, si scaraventano con tale forza contro le rocce su cui sorge il castello di Cape Coast che gli schizzi che si levano sembrano seguire la bacchetta di un direttore d’orchestra in un finale wagneriano. Nel solleone dei tropici, il bianco della calce delle mura è quasi accecante, ma è un sepolcro imbiancato: nelle sue viscere, celle oscure celano i segreti di soggiorni disumani, di violenze crudeli, di sofferenze inenarrabili. Nelle Americhe i bianchi avevano impiegato nelle piantagioni i nativi, che si rivelarono o troppo poco efficienti o troppo deboli fisicamente. Perché non provare coi negri, una razza già schiavizzata in Europa con buoni esiti (testimoni decine di quadri raffiguranti l’alta società, servita dal damerino di colore, vero status symbol)? Il domenicano Bartolomé De Las Casas ci mise il carico da undici: si può fare, i negri non hanno un’anima. Anzitutto somigliano troppo alle scimmie. Poi non capiscono, si riparano tra le rocce, mangiano con le mani e vanno in giro col gonnellino di banane: come potrebbero avere un’anima? E così i commerci con la costa africana cambiarono genere: più remunerativa dell’avorio, delle spezie e dell’oro era la manodopera per le colonie. La globalizzazione del XVIII secolo seguiva un percorso triangolare: alcolici, armi e bigiotteria partivano dall’Europa verso l’Africa, dove venivano barattati per schiavi, a loro volta scambiati sulle coste americane con tabacco, pellicce e prodotti esotici. Gli schiavi permettevano i maggiori guadagni, ma erano la merce più difficile da gestire: per questo occorreva fiaccarli nel corpo e nello spirito per toglier loro ogni velleità di ribellione. Nelle affollatissime segrete del castello venivano fatti languire da due settimane a più di tre mesi – la frequenza dei collegamenti navali dipendeva dalle guerre in corso in Europa. Dal buio totale delle celle, dove centinaia di individui venivano ammassati l’uno sull’altro, i futuri schiavi e schiave venivano fatti uscire alla luce accecante del giorno, mentre la prigione veniva ripulita dai loro escrementi, per farvi ritorno una volta finito il magro rancio. Se la situazione era dura, ben peggiore era il fato che li aspettava una volta varcata la “porta del non ritorno”: una piccola imbarcazione li portava, in catene, sul veliero dove, stipati come sardine, molti sarebbero morti di stenti e di malattia, per essere gettati in mare. E le condizioni nella nave erano molto migliori dei lavori forzati che li attendevano nella loro destinazione finale, dove – e solo allora – sarebbero stati nutriti affinché avessero la forza di lavorare. Cape Coast era solo la fortezza più importante: la costa era disseminata di punti di raccolta grandi – Elmina, Axim – e piccoli – una miriade, tra cui Butre e Dixcove – come un pettine a cui arrivassero i nodi dell’entroterra. E nodi davvero erano: c’è sempre stata, nelle culture antiche, l’istituzione della schiavitù, e gli Ashanti – il ceppo dominante della zona – vendeva fratelli negri ai bianchi in cambio whisky, tabacco ed armi, essenziali per sottomettere le genti confinanti. La Dichiarazione dei diritti dell’uomo è stata firmata nel 1948 e certo hanno contribuito alla formazione della coscienza etica che l’ha ispirata anche le battaglie degli antischiavisti dell’inizio del XIX secolo. Come poi la libertà e i diritti conquistati vengano utilizzati, è spinosa questione: ad ogni ora del giorno si può vedere gente sfaccendata, gettata in un angolo a dormire. Da noi non fa così caldo e la vita non si svolge così tanto all’aperto, ma tutto il mondo è paese: da noi si diventa facilmente vittime della televisione, con risultati altrettanto devastanti e deprimenti. Non ci si metterebbe molto, ora, facendo una passeggiata armata a Cape Coast, a riempire di nuovo quelle celle. Hanno un bell’attaccare placche commemorative sui muri di queste prigioni, e di affiggere il cartello “Porta del Ritorno” dalla parte del mare, come se si aspettassero che i negri della diaspora forzata del XVIII secolo bramassero di tornare nel continente degli avi. Il Brasile, Cuba, le Antille e gli Stati Uniti non sono certo il paradiso per un negro, ma forse tornare in Ghana, anche se il gesto di chiudere il cerchio della storia è poetico, potrebbe significare cadere dalla padella nella brace.
Le mie, cara M., sono impressioni personali e illazioni frutto di un rapido giro per il paese. La gente qui è cordiale – una ragazza, nel mastodontico mercato di Kumasi – un po’ bazar, un po’ discarica – ci ha detto: “Ci piacete, siamo contenti di avervi qui”. E l’atteggiamento della gente non è determinato esclusivamente dalle convenienze economiche. Qui sono genuinamente aperti, socievoli, allegri, positivi anche se hanno poco (o, forse, proprio perché hanno poco). Decenni fa l’accusa ai bianchi era: “Ci hanno rubati”. Cambiò in: “Ci hanno venduti”. Adesso stanno prendendo coscienza di sé e iniziano a mettere a frutto il loro passato: il permesso per scattare foto al castello di Elmina e a quello di Cape Coast costa 20 cedi: l’equivalente d’un pasto per tutta la famiglia.
Adanwomase, 29 dicembre – Cartolina n. 3: La verità sulla società ghaniana
L’albero – non chiedermene il nome perché non sono botanico e, comunque, qui è pieno di piante e coltivazioni esotiche, dalle arachidi alla yuca, dall’ebano al teak – sta al centro del viottolo principale ed è quello sotto il quale gli avi trovarono riparo e attorno al quale decisero la creazione del villaggio. C’è anche un bar, gli alcolizzati del gruppo non si possono lamentare. I bar si riconoscono facilmente in Ghana, perché sono sempre dipinti a strisce verticali bianche e blu – o, raramente, bianco e verde o bianco e rosso. Adanwomase è famosa per i tessuti kente e due volontari ci portano a vedere i tessitori al lavoro – in gruppo sotto una grande tettoia, colle radio a far passare le ore in musica, o da soli, al bordo del boschetto del cacao. A terra, all’ombra della bassa chioma degli alberi, rimangono le foglie per tenere il terreno fresco; il tronco scuro porta i fiori, i frutti acerbi e quelli maturi, per tre raccolti l’anno. Aperto il frutto, non dissimile da un nostro piccolo melone giallo, i semi vengono sparsi su un piano di bambù ed essiccati. Ad assaggiarli non sono terribili, è il cacao che ne viene estratto che è amaro. Il prezzo del cacao è imposto dall’esterno e nulla ha a che fare con le vicende della produzione: un caso di schiavitù indiretta, velata, e proprio per questo più insidiosa. I bambini sono tanti e alcuni sono bellissimi, da rubare. “Ce lo portiamo via?”, suggerisco a una compagna di viaggio. “Sta molto meglio qui”, mi risponde. Ha ragione, è così tranquillo e integrato nel mondo in cui è nato, è accettato, e nemmeno si pone la questione se per lui ci sia un posto, perché nella sua società basta essere vivo, non serve avere un reddito, una laurea o dei santi in paradiso. Questo è l’effetto Ghana: un riassestamento dei valori, una ritaratura del senso dell’esistenza. La società che abbiamo costruito fa venir voglia a qualcuno di prendere un fucile a ripetizione e andar a decimare una scuola, suicidandosi poi per non lasciar dubbi sull’inutilità che ha trovato dell’esercizio del vivere. Il Ghana è lontano secoli da quella soglia, dal punto in cui si comincia a esistere per migliorare. Qui occorre ancora migliorare per esistere. Non diventerà forse medico o professore, questo angelo color cioccolato, ma siamo qui essenzialmente per essere, non per fare: lascio quel fiore al suo campo, ma il suo profumo mi ha inebriato e ogni tanto quell’innocenza mi ritorna in mente, risvegliando una peculiare nostalgia e un rispetto infinito. Sì, molto meglio che resti ad Adanwomase.
Del resto, cara M., sapessi quanti piccoletti ci guardano e si mettono a piangere, come davvero avessero visto degli spettri. Se è davvero una vita migliore quella che vogliamo offrirgli, ci sono decine di progetti, tanto che, con mia sorpresa, ho scoperto che i volontari sono una delle colonne della società ghaniana: le condizioni della gente dipendono anche di tanti progetti di sviluppo che costellano il territorio. E ancor più sorprendente è rilevare che anche queste iniziative di sviluppo vengono colpite dai mali universali dell’egoismo, delle rivalità e della corruzione, a volte tanto da dover abbandonare l’impresa. Ma ci sono “obruni” che, per qualche ragione – forse innamorati del paese o della gente – hanno messo su bottega in Ghana.
Nzulezu, 31 dicembre – Cartolina n. 4: La verità sul turismo
Lungo la passerella che porta all’imbarcadero per Nzulezu c’è nientepopodimenoché un Tapas Bar. Un bianco, che mi è parso di sentir parlare spagnolo e che continuava a uscire a rientrare nel retrobottega, deve aver messo in piedi questo chiosco, forse sperando in un boom turistico in Ghana. Al ritorno dall’escursione ci fermiamo per rinfrescarci e rinfrancarci on riso, birre, dolci e gelato. E’ così surreale, questa cattedrale nel deserto, che batte la stranezza della visita a Nzulezu. “Nzulezu” significa “Sull’acqua”: il villaggio è costruito su palafitte, al bordo in un laghetto che porta il nome “Amansuri”, cioè “Acqua comunitaria”. Fu costruito, racconta la tradizione, da un gruppo di fuggiaschi nigeriani che trovarono sul cammino un dio-lumaca, e furono da costui guidati e istruiti a costruire il nuovo villaggio sul lago. Passando tra ninfee e palme da rafia, una canoa scavata da un sol tronco scivola su un canale artificiale da Beyin all’acquitrino che costeggia la foresta, ed entra silenziosa nel lago, nero per la vegetazione del fondo. Sbarcati sulle palafitte di Nzulezu, si va a rendere gli onori al capo villaggio o, in sua assenza, alla figlia – qui, come in altre parti del Ghana, la dinastia è matrilineare. Il villaggio consiste in una lunga passerella di canne di bambù ai lati della quale sono le casupole. Ad alcuni soggiorni non manca nulla: divani, poltrone, tavolini, tendine alle finestre, televisione (ma da dove viene l’elettricità?). Ma sotto la passerella c’è di tutto, ed è un miracolo che Nzulezu non sia stata spazzata via da un’epidemia di tifo o di colera. Metà del calpestio è occupata da panni che asciugano e dalla vita d’ogni giorno: chi si alliscia i capelli (lo stile afro non è proprio di moda, in Ghana), chi rammenda, chi mangia, mentre teste o piedi di dormienti fuoriescono dalle capanne. “Perché continuate a rimanere qui, ora che il pericolo è passato?” La candida risposta è che se costruissero un villaggio come gli altri, nessuno verrebbe più a visitarli (e a foraggiarli). Non un sorriso, e nessun interesse ad interagire coi visitatori. Un’indifferenza comprensibile, da parte di questi particolari prigionieri, ma l’esperienza lascia comunque l’amaro in bocca. E’ piacevole essere turista là dove non solo si contribuisce alla sussistenza dei nativi, ma ci si incontra riconoscendo, nonostante la differenza dei ruoli imposti dalla situazione, l’altro come proprio simile. Ci si accetta quando, oltre il personaggio dell’autoctono che incarna e presenta la propria terra e la propria cultura e al di là della figura del turista, che viaggia per conoscere ed apprezzare, residenti di una vita e di un’ora scoprono che li accomuna il mestiere di vivere e che il loro fuggevole incontro è significativo e positivo per entrambi.
Un brillante esempio di questa interazione, cara M., è stato il giro in jeep per i sentieri del Mole National Park. Tanto appassionato era il nostro ranger che aveva imparato i nomi scientifici di tutti gli animali del parco, e appuntava ogni avvistamento su un foglietto. Posto che non avevamo visto nessun branco di elefanti distruggere una foresta e nessun coccodrillo finire di spolpare una tibia umana, al termine della corsa poteva sembrare che non avessimo incrociato nulla, invece la lista numerava ben undici animali. Altra visita partecipata abbiamo avuto al palazzo reale degli Ashanti: la residenza di un borghese, secondo i nostri standard, ma curiosa per le novità tecnologiche d’epoca – frigorifero, bar, grammofono – offerte dalle ditte produttrici al monarca e ancora in situ. O la spiegazione, che abbiamo ascoltato con grande curiosità, del rudimentalissimo processo di concia delle pelli a Tamale. E la partecipazione, a Obuasi, alla messa domenicale nella cattedrale – come sono tristi, le nostre cerimonie, comparate con la loro musica, le grida, i trenini danzanti lungo i corridoi della chiesa, gli abiti sfavillanti della domenica, le scarpe lucide, i sorrisi, i macchinoni in bella mostra sul sagrato. Ecco dov’è finita la religiosità fiduciosa dello spensierato universo infantile di quand’ero chierichetto! Abbiamo mancato – per un paio d’ore soltanto, peccato – gli onori resi a Kumasi ogni quarantadue giorni all’attuale capo Ashanti. Anche quella era un’occasione per vedere e farsi vedere, 4×4 tirate a lucido in un paese polveroso le cui strade – asfaltate o no – massaggiano così energeticamente la colonna vertebrale da ristrutturarla. Strade dalla finissima polvere rossa che ci hanno portato da Accra fino al confine col Burkina Faso, e di nuovo sulla costa. Che facesse caldo, ce n’eravamo accorti subito, ma nulla ci aveva prevenuto sulle temperature e sull’umidità del litorale, per quanto ventilato.
Busua, 2 gennaio – Cartolina n. 5: La verità sui Ghaniani
Ieri sera sorseggiavamo la birra del tramonto, mentre due ragazzotti ballavano sulla sabbia alla musica del bar. Avranno improvvisato più figure di danza quei due in un minuto di un bianco in una vita in discoteca. Poco dopo l’alba ritorno in spiaggia. La vita qui è regolata dai ritmi naturali, e tra i paralleli 5 e 11, tra i quali il Ghana è compreso, ogni giorno ha dodici ore di luce, dalle 6 alle 18. Il sole ancora non s’è liberato dalle nebbie che nascondono l’orizzonte e mi affretto, sperando nell’arrivo delle barche dei pescatori e nel conseguente mercato del pesce. Incontro invece di nuovo Kevin, un bambino riservato, che mi aveva confidato che i navigli sulla riva e quelli ormeggiati poco lontano, che tentavo di fotografare senza suscitare le ire funeste dei pescatori, appartenevano a suo padre. Uno dei pescherecci è rientrato da poco, e a Kevin è stato dato un secchiello di pesci. Anche se figlio del padrone, i compagnucci non si trattengono dal molestarlo occasionalmente (a questo proposito, parole grosse e pugni sono forse scambiati in Ghana più frequentemente che da noi, avendo loro più occasioni di pestarsi reciprocamente i piedi). Sotto lo sguardo attento del proprietario, due piroghe si stanno preparando per uscire – resteranno in mare 3-4 giorni per la pesca colle reti. Vengo invitato a casa per dare il mio indirizzo, come è consuetudine. A volte si fanno sentire, più spesso è solo una formalità. Kevin mi guida oltre la strada asfaltata di Busua, tra passaggi in terra battuta ingombri di galline, capre, catini e persone, fino alla porta della sua casupola. I bambini si affiancano in scala d’altezza, la mamma mi fa sedere, scrivo. Molto più urbano dei “I want to be your friend!” lanciati casualmente da tanti altri. Poi mi conduce dentro a un tugurio, occupato da quattro grandi tinozze di terra cruda. Dal fondo di una si leva del fumo, e sulla grata di canne che la copre una vecchia sta disponendo i tranci di pesce che ha appena pulito. Il gruppo mi raggiunge, Kevin si congeda. Gli sono riconoscente di questo incontro e il regalo di Natale che discretamente mi chiede è un addio consapevole dell’abisso che ci separa.
Cara M., accanto alla Fanta c’è sempre il vino di palma, dietro il ristorantino per studenti giramondo c’è sempre la famiglia allargata che mangia insieme da un piatto solo, dentro l’albergo raccomandato dalla guida c’è sempre la porta del bagno senza maniglia o qualche altra svista imperdonabile secondo i nostri standard (lo sapevi che esistono lampadine a basso consumo da 5W? La prossima volta mi porto una candela…). Ma se mi importassero i nostri standard, non sarei venuto in Ghana. La guida del castello di Elmina, nella sua appassionata e documentata esposizione, ha azzardato che, mantenendo l’attuale ritmo di crescita, il Ghana entrerebbe nel novero dei paesi del secondo mondo tra soli vent’anni. Il pensiero positivo, si sa, fa miracoli, e forse potrebbe persino fugare le ombre ostinate del post‑colonialismo e riportare a galla l’orgoglio queste genti dalle antiche e tenaci tradizioni. E noi e le nostre usanze? Il passato ha un modo perverso di perpetuarsi, come le cattive abitudini. La sera del 24 dicembre, dopo una visita ai colobi bianchi e neri e alle scimmie mona della foresta di Boabeng, abbiamo cenato nei pressi del parco. In dodici ci siamo divisi, da buoni fratellini, tutto quel che c’era: una risicata terrina di riso bianco, alla quale molti hanno rinunciato di aggiungere una salsa di concentrato di pomodoro con pezzetti di sgombro in scatola. Scappo dal Bianco Natale occidentale – una prospettiva semplicemente insopportabile, ormai – ed eccomi a passare un Natale in Bianco… Lo vedi, cara M., che viaggio, viaggio, ma mi ritrovo sempre a casa?