Tour in Vietnam
C’è un rumore infernale ad Hanoi, la pioggia non è pioggia, sono scrosci d’acqua come cataratte e milioni di motorini che sembrano potersi trasformare in barche a vela da un momento all’altro, perché non si fermano durante il diluvio, continuano a correre veloci con a bordo esserini magri magri e saltellanti.
A volte la pioggia è lontana, ma tu puoi vederla lo stesso in quel cielo in continua trasformazione, che ti ipnotizza e non ti riesce di distogliere lo sguardo, perché è pieno di promesse di pioggia e un attimo dopo di promesse di sole, perché il cielo ha una voce, laggiù.
L’attraversamento di una strada a piedi è la prima cosa da imparare, in Vietnam, perché da quello dipende la sopravvivenza della specie umana occidentale; e ci provano tutti ad insegnarti come si fa, prima ridacchiano tra loro a gruppetti, poi, quando stai lì sul marciapiede in attesa di poter attraversare, si organizzano in tifoserie e ti incitano, fanno scommesse, fanno scongiuri, finché, quando avevi ormai deciso di rinunciare, un’anima bella ti prende sottobraccio.
E si butta.
Perché l’unico modo per attraversare la strada a piedi, ad Hanoi e in qualunque grande città del Vietnam, è gettarsi ad occhi chiusi, stoica e senza paura.
Fingere indifferenza assoluta, mettere i piedi sull’asfalto e via, andare!
Come per magia, i motorini ti staranno intorno, davanti, di fianco, sopra, sotto, ti sfioreranno, ti schiveranno, cercheranno di entrarti dentro; ma in una mezz’oretta ti renderai conto che, contrariamente ad ogni aspettativa, sei dall’altra parte della strada, non hai ecchimosi, non sanguini neppure un po’, e ti sentirai come se avessi vinto un’Olimpiade o sconfitto una malattia mortale.
E’ chiaro che a quel punto ti renderai conto di avere dimenticato lo zaino dall’altra parte della strada, ma questo può essere il tema di un altro racconto.
La bellezza dell’Oriente, in quei luoghi deve fare i conti con una storia ancora troppo recente sulla quale continuano a fare film, con il napalm che ha generato migliaia di bambini senza gambe, o con 2 teste, o con un corpo martoriato e un’anima che non può esprimersi; con un’invasione americana che ha lasciato paura, morte, distruzione e che ha tolto le parole. E’ quella, l’unica cosa di cui vorresti parlare con le donne che hanno gli occhi che ridono, perché è quello, ciò che conosci del Vietnam. Vuoi che ti parlino dello straniero che ha tolto loro la terra, la speranza, la libertà,i figli, i mariti, spesso la dignità, restituendo brandelli di miseria. Ma loro hanno perdonato; tu non potresti mai, ma loro in qualche modo l’hanno fatto.
Ricordano in musei, in ricostruzioni di minuscole celle buie, in fotografie di ciò che era, ma non riesci mai a percepire nella loro voce l’odio, soltanto un dolore silenzioso, una piccola ombra che attraversa quegli occhi nerissimi che hanno scelto di dimenticare e di proseguire a vedere i fiori sbocciare e il riso crescere.
Sono le risaie, infatti, i quadri più belli del Vietnam: distese immense di verde acceso che sembra volerti accecare, punteggiato di coni di paglia, i cappelli, sotto i quali stanno in ginocchio gli omini e le donnine che ti ricordano i pupazzetti della Playmobil.
E’ dai finestrini dei bus che riesci a vederla, quella terra benedetta e maledetta, con i campi arati con i buoi, come non hai mai visto fare neppure da piccola, con il sole che si riflette nell’acqua di quei prati immensi e ovunque punteggiati di mucche bianche, che sembrano essere state messe lì da un pittore e non da un contadino.
Dai finestrini puoi vedere le case, che sono poco più che baracche, che tentano di arrampicarsi verso il cielo ma sembrano costantemente sul punto di appoggiarsi a terra o di essere spazzate via dalla pioggia.
E i bambini, in calzoncini corti o con addosso una maglietta gigantesca, che corrono, corrono sempre, perché è così che si vive lì, correndo, non si capisce dietro a che cosa o con quale direzione.
Ci sono mille contraddizioni in quella lunghissima lingua di terra che puoi percorrere in grandi autobus che contengono letti per viaggiatori stanchi; il silenzio ovattato dei campi di riso e poco dopo città immense, foderate di smog, Saigon, in cui arrivi alle 5 del mattino ma ti sembra che sia mezzogiorno per il traffico che c’è, città che non vanno mai dormire, ma da qualche parte vanno, solo, non si capisce dove.
E festicciole sulle barche, anche di pomeriggio, sul mare, barche che si trasformano in discoteche, timoni che diventano chitarre, panchine che diventano un immenso tavolo in cui mangiare ottimi gamberi e in cui poi fare festa, con succhi di frutta alcolici che sono capaci di convincere a cantare anche ingessati impiegati di banca francesi che erano lì perché pensavano di vedere le isole, e invece si ritrovano a fare il Karaoke o il trenino, abbracciati a ragazzine coreane che, ovunque si trovino, chissà perché, si sentono rockstar.
E i cunicoli dei vietcong, che saranno pure un’attrazione turistica, ma che quando ci entri dentro ti fanno sentire la paura, il buio, il pericolo, che ti tolgono tutta l’aria che hai nei polmoni e non ci puoi stare più di qualche minuto se non vuoi metterti ad urlare; che ti costringono a stare piegato come un fazzoletto, a sbucciarti i gomiti e le ginocchia per cercare di uscire, che te lo spiegano bene, senza bisogno di parole, che cosa è stata la guerra.
E il Mekong, immenso, marrone, a volte arrabbiato, sferzato dal vento, punteggiato di mercati galleggianti pieni di barche affondate di frutti, pieno di una vita che scorre sulle sue rive, una vita straniera, fatta di villaggi immersi nell’acqua, di persone che conoscono il fiume e che non hanno mai vissuto la terra, che scandiscono il tempo con le piene, con i monsoni, che ricostruiscono là, dove il fiume spesso distrugge.
Montagne di riso giallo sulle rive, quel riso che se non ci fosse lui non ci sarebbe nulla, quel riso che è cibo ma che può diventare carta, o accendere il fuoco, o essere qualunque cosa tu voglia.
E sparse a caso sul tuo percorso, piccole cittadine che sembrano avere milioni di anni, ridipinte e tirate a lucido per accogliere viaggiatori stanchi che finalmente possono percorrere a piedi il loro cammino, senza il terrore di essere investiti; e in mezzo a queste cittadine puoi entrare nelle case, vedere le tracce delle alluvioni che hanno cercato di farle scomparire per sempre e che non ci sono riuscite.
In ogni casa una gabbietta con uccellini colorati; tra una casa e l’altra templi buddisti con draghi immensi che sembrano costruiti con lustrini e paillettes; enormi incensi rossi fatti a spirale che pendono dal soffitto con bigliettini lilla, su cui sono scritte le preghiere per le persone che vanno protette; oltre le porte, giardini con piante enormi, ristorantini nascosti, tavoli bianchi in mezzo ai prati, e ovunque un fiume, a ricordare che il Vietnam è soprattutto acqua.
Acqua che scorre in mezzo alle città o tra le colline, dietro cui si nascondono piccolissime vecchiette che vendono barchette in bambù, o soltanto banane, o che stanno semplicemente lì a regalarti i loro sorrisi, sorrisi di bambine anche su quei visi che sembrano vecchi di millenni.
Acqua che ti accompagna ovunque nel tuo cammino, su cui scivolare solo con te stesso e che ti porta tra i fiori del loto che spuntano sulle rive, in mezzo al nulla, sulle barche, fior di loto che è al tempo stesso ornamento, cibo, bevanda e strumento di preghiera.
In Vietnam le persone vogliono insegnarti le cose; ed ecco che poco dopo l’alba vieni prelevata da una ragazza piccolissima che parla a raffica, che ti fa inforcare una bici e inizia a correre, anche lei, e anche dietro a lei non riesci a stare, pedali sotto il sole che uccide anche al mattino e ti ricopre di sudore.
Arrivi in un campo in cui crescono in file ordinatissime centinaia di spezie diverse, vuoi assaggiarle tutte, ti insegnano a zappare la terra, beh, si, quello puoi farlo anche a casa, a scavare piccoli solchi in cui seminare il loro basilico, solchi che devono essere dritti altrimenti devi ricominciare daccapo, e poi innaffiare con enormi innaffiatoi caricati sulle spalle e quello no, che non puoi farlo anche a casa, e ringrazi il cielo per questo, perché stai morendo di fatica e sei sicuro che ti scoppierà il cuore, che il trekking, rispetto al lavoro nei campi, è davvero tutto un altro paio di maniche e benedici in un attimo la tua scrivania e la tua sedia imbottita in finta pelle, che ti consente di non maledire la natura, ma solo di cercarla.
E poi parli con le persone, cerchi di capire da loro perché.
Perché c’è un solo partito, e va bene così.
Perché lo Stato si prende il frutto del tuo lavoro, ma pazienza.
Perché non riusciranno mai ad avere i soldi per venire in Italia, ma che importa.
E non sai come, ma riescono a convincerti, ci credi che va tutto bene, perché lì le bambine hanno le stelline negli occhi e non c’è niente di più rassicurante al mondo.
E poi arriva il momento di partire, di salire sull’ennesimo autobus, con il cuore che si stringe e ancora mille domande da fare, con un confine da attraversare, impronte digitali da stampare, le ultime monetine da regalare ai bambini, l’ennesima barca su cui salire, prima di arrivare in Cambogia.
Ma quella, è tutta un’altra storia