Sorrento, Capri e la costiera Amalfitana
Le bellezze di Sorrento, Capri, Positano, sentiero degli Dèi, grotta dello Smeraldo, Ravello, Punta Campanella e Baia di Ieranto senza auto: uno spettacolo che vale la pena di vivere il più adagio possibile.
SORRENTO
Abbiamo viaggiato da Ferrara a Sorrento con un bus di Imperatore Travel. Per raggiungere i vicoli più caratteristici della zona antica di Sorrento dal nostro hotel Al Faro, affacciato sulla rotonda della Marina Piccola mio figlio ed io imbocchiamo prima una ripida scalinata che ci porta a una terrazza panoramica con qualche panchina, dalla quale la vista spazia sul golfo di Napoli – la sagoma del Vesuvio è sempre presente in lontananza-; in particolare ci rendiamo conto della conformazione dello zoccolo tufaceo che precipita in mare sul quale si adagia Sorrento. Poi andiamo avanti lungo un’oscura e stretta strada asfaltata generalmente priva di marciapiedi, dove gli scooter scendono a palla di schioppo senza curarsi troppo dei pedoni, tanto che gli augurerei di andarsi a schiantare a tutto gas contro uno dei due alti muri che delimitano la strada.
Il centro di gravità della cittadina cantata da Caruso è l’ampia piazza Tasso, frizzante e rumorosa. Passeggiando ci ritroviamo davanti al sagrato della chiesa di San Francesco, dove si sta riunendo l’elegante e vociante combriccola di invitati a un matrimonio, mentre nel chiostrino trecentesco un quartetto di archi si sta preparando a intrattenere gli ospiti con qualche brano di musica classica. Accanto alla chiesa ci sporgiamo dalla ringhiera dei giardinetti della Villa comunale per goderci il paesaggio marittimo immerso nella luce dorata e obliqua del tardo pomeriggio. In seguito andiamo a zonzo per le viuzze, per curiosare fra i negozietti e le botteghe di prodotti tipici. In via Cesareo ci colgono di sopresa i begli affreschi protetti da una cupola del sedile Dominova (un palazzo un tempo sede di un’istituzione amministrativa, oggi circolo della società operaia di mutuo soccorso, con una manciata di tavoli e seggiole dove gli anziani si siedono a chiacchierare). A questo punto nei ristoranti comincia il timido viavai dei camerieri alla ricerca di potenziali clienti, perciò dopo aver sbirciato un attimo all’interno del duomo –nel quale non riesco a identificare il fonte battesimale dove dovrebbe essere stato battezzato Torquato Tasso-, torniamo al Faro alle sette spaccate per gustarci la cena. Quando, fiaccati dalla giornata, rimettiamo piede nella nostra stanza al terzo piano la porta-finestra del balconcino che dà verso il mare è accostata. Il sole grande e rosso scende a vista d’occhio dentro il mare. E’ il nostro primo tramonto a Sorrento.
La gita a Capri. Dal nostro albergo ci allunghiamo di pochi passi per arrivare al porto: una volta fuori dall’hotel, in un batter d’occhio siamo sulla banchina dove attracca il traghetto della Caremar delle 7.45 (prendere questa nave è la maniera più economica di raggiungere Capri: 26 euro a/r, contro i 30 dell’aliscafo). Inaspettatamente c’è già un certo numero di passeggeri.
La nostra intenzione è quella di dedicare il mattino a passare a setaccio la parte “bassa” dell’isola, nel territorio del comune di Capri, per poi occuparci nel pomeriggio della zona alta, che include il monte Solaro, la cima più elevata (quasi seicento metri), nel comune di Anacapri. Approdiamo sull’isola verso le otto e venti e acquistiamo il biglietto della funicolare. La biglietteria -immediatamente a destra alla fine del molo dove siamo sbarcati- è deserta, ma sulle vetture non troviamo più posto a sedere. Comunque in pochi minuti siamo sulle scale che conducono a destra allo slargo panoramico della loggetta e a sinistra alla famosa piazza Umberto I. Quest’ultima è ancora poco frequentata e ovviamente non manchiamo di fotografare la cupola della chiesa di Santo Stefano. Nelle vie principali i negozi sono chiusi, sebbene qualche commessa si affaccendi a lavare il marciapiede davanti alla soglia. Sembra che per ora abitanti e turisti prendano sul serio una scritta che si trova su una piastrella maiolicata “la pulizia e il silenzio sono indici di civiltà”.
Ci avviciniamo a una pasticceria che schiude attrattive notevoli: ci mangiamo con gli occhi vassoi di pinolate, nocciolate e pistacchini che fanno ostruire le arterie solo a vederli in vetrina. Poi cominciamo a seguire le indicazioni per via Tragara. Su un muro una serie di piastrelle in ceramica ci ricorda che Pablo Neruda, il celebre poeta cileno, è stato qui negli anni Cinquanta. Giunti al belvedere di Tragara non tralasciamo di scattare due istantanee: una che include la spiaggia di Marina Piccola e l’altra i cui protagonisti sono i Faraglioni. Ed è proprio in direzione di Stella, Saetta, Scopolo e del ristorante “Luigi ai Faraglioni” che scendiamo –magari ci facciamo una foto come quella della pubblicità del profumo di Dolce e Gabbana-. All’andata il passo è abbastanza svelto; sento nel petto una leggera euforia e ammiro lo scenario grandioso che si presenta ai miei occhi con sguardo rapito. Dabbasso, oltre il ristorante, c’è una piattaforma di cemento sulla quale stanno ombrelloni e sdrai blu. Un tappetino sbiadito della stessa tonalità copre gli ultimi gradini che portano dal solarium al mare, esattamente di fronte allo scoglio del monacone. Fisso il brillio della luce sull’acqua color cobalto e assaporo il calore del sole sulla mia pelle. Capri non ha deluso le mie attese: nella tranquillità di questo mattino luminoso è bellezza allo stato puro.
Anche se il tragitto è ombreggiato da pini marittimi quando si tratta di tornare su l’andatura diventa esitante; su mio suggerimento facciamo un sacco di soste con la scusa di bere un sorso d’acqua dalla bottiglia. Infine, con meno fatica, ci avviamo, in piano, lungo lo stupendo percorso naturalistico di via Pizzolungo e dopo un po’, sotto di noi, vediamo la rossa villa di Curzio Malaparte, aggrappata al suo spuntone roccioso. Più avanti c’è una salita abbastanza ripida in mezzo ai lecci che ci conduce alla grotta Matermania –consacrata al culto di Cibele-, dalle volte in muratura in opera reticolata risalenti al periodo romano. A quell’epoca l’antro era stato adattato a ninfeo monumentale e il luogo fa ancora un certo effetto.
Oltrepassato il bar le Grottelle proseguiamo fino al mitico arco naturale sospeso sul mare a 18 metri d’altezza, dove incontriamo qualche altro turista, per esempio una straniera che legge un libro seduta di fronte all’immenso ponte di roccia scolpito in maniera bizzarra dagli agenti atmosferici.
Torniamo indietro alla piazzola delle Grottelle e procediamo per via Decantala in una zona urbanizzata, con case bianche dal tetto a terrazzo e piccoli appezzamenti di terreno coltivati. Poco per volta ci spingiamo fino al punto panoramico della piazzetta delle Noci, dal quale rivediamo l’arco e la dimora risalente agli anni Trenta del Novecento dello scrittore Malaparte.
Adesso andiamo alla ricerca delle rovine di Villa Jovis. Al principio facciamo una piccola pausa alla chiesa di San Michele alla Croce, dove ci abbeveriamo a una fontanella. Lungo il cammino notiamo le frecce che segnalano la direzione da prendere per raggiungere ville di tutt’altro genere, come villa Moneta o villa Lysis. Insomma dopo un’altra bella scarpinata di oltre mezz’ora ci ritroviamo a girovagare fra i resti dell’imponente palazzo di Tiberio, dove l’imperatore però non soggiorna più dal 26 d.C., causa decesso. Sarà per questo che al posto dei tetti adesso c’è il cielo, mentre i pavimenti sono sostituiti da uno strato erboso. Nonostante ciò siamo costretti a scucire due euro a cranio. Avendo pagato almeno non rischiamo di fare la fine di quelli che l’imperatore scaraventava giù dal “salto di Tiberio”, un baratro pauroso subito a destra della biglietteria.
Sulla via del ritorno Fede pretende e ottiene una granita al limone.
Quando torniamo alla Piazzetta la troviamo sovraffollata. Ci infiliamo fra la gente, guardandoci in giro per scovare le indicazioni per il Belvedere Cannone. All’inizio la porticata via Madre Serafina sale in maniera impercettibile; qualche tratto sembra un tunnel scavato nella roccia e poi imbiancato a calce. Man mano che andiamo su, gradino dopo gradino, il nostro incedere diventa via via più indolente. La stanchezza comincia a farsi sentire. Seduti su una panca di pietra ci pappiamo uno yogurt e alcuni biscotti sgraffignati dalla colazione del mattino. Finalmente arriviamo al belvedere (dove non scorgiamo alcun pezzo di artiglieria) che si affaccia sull’orlo di una rupe che precipita verso il Mediterraneo. Lo spettacolo che contempliamo ai nostri piedi è variegato: si vedono i minuscoli giardini di Augusto che si aprono su una terrazza gremita di persone, il chiostro grande della Certosa di San Giacomo con la barocca torre dell’orologio e il mare punteggiato di imbarcazioni bianche. Immancabile il trio dei faraglioni.
Non amo i bagni di folla. Li schivo come l’alito del mio cane, per questo evitiamo i posti-cartolina tipo la grotta azzurra, però i giardini di Augusto sono qui sotto, a un tiro di schioppo, andiamoci! Ci tocca sganciare un euro per aggirarci assieme a comitive di americani fra palme e aiuole fiorite e per poter immortalare il paesaggio dalla già menzionata terrazza inondata di sole e di turisti. In particolare il mio sguardo viene attratto dagli straordinari tornanti della via Krupp, che ci accingiamo subito a percorrere. Osserviamo il ritratto del magnate dell’acciaio che ne ha finanziato la costruzione: Alfred è baffuto e occhialuto, bisogna dire che ha un po’ la faccia da pirla.
Curva dopo curva via Krupp ci permette di scendere rapidamente verso Marina Piccola popolata, come già accennato, da ogni genere di piccoli e grandi natanti. Fede è già in fibrillazione all’idea del ritorno in salita, ma non c’è da preoccuparsi. Arrivati a Marina Piccola montiamo su un pulmino che, non senza qualche difficoltà per colpa del fatto che qualcuno ha parcheggiato l’auto malamente in una rientranza rocciosa della strada, ci porta su sani e salvi anche se pigiati come fiammiferi, fino al centro di Anacapri. Sondo la mia memoria alla ricerca di dettagli utili: dunque sulla guida ho letto che qui si visita la casa rossa –costruita da un generale americano-, la chiesa di San Michele e naturalmente villa San Michele, quella del medico e scrittore svedese Axel Munthe. In via Orlandi l’eclettica casa rossa è ancora chiusa (apre tardi, verso le cinque di pomeriggio) mentre in piazza San Nicola la settecentesca chiesa di San Michele ci accoglie (previo pagamento di 2 euro) col suo pavimento non calpestabile di mattonelle maiolicate con le scene della cacciata di Adamo ed Eva dal paradiso terrestre. Per contemplarlo da vicino facciamo il girotondo su una passerella di legno; per vederlo dall’alto, invece, saliamo per una stretta scala a chiocciola. Dietro di noi c’è un organo a canne, davanti una balconata che sovrasta la preziosa e lucida pavimentazione i cui protagonisti sono gli animali dell’Eden: comuni come buoi, cani o capre, più esotici come un elefante, un coccodrillo o persino mitologici come l’unicorno, e c’è anche quel bastardo del serpente tentatore che se ne sta attorcigliato all’albero della conoscenza.
Una volta fuori ci fermiamo a sgranocchiare un pacchetto di patatine Vitasnella ridotte in poltiglia su una panchina di fianco alla chiesa di Santa Sofia, per poi ammirarne la facciata. Facciamo dietrofront verso piazza Vittoria, dove eravamo smontati dall’autobus, e percorriamo fino in fondo via Capodimonte, fitta di negozietti caratteristici. Proseguiamo oltre villa S. Michele e sul ciglio della rupe su cui sorge la candida magione dello psichiatra svedese scorgiamo i primi gradini della Scala Fenicia. Decidiamo di sganciare i 6 euro dell’ingresso al museo di Villa San Michele e ne vale la pena, non solo per l’ordine che regna nelle antiche cucine, l’eleganza dell’atrio e dei vari altri ambienti, ma soprattutto per il colpo d’occhio spettacolare che regalano le logge e i pergolati sull’abitato di Capri e di Marina Grande.
Assieme a noi, in tutta la villa, ci sono solo altri due turisti! Che ovviamente stanno fotografando il panorama con la sfinge egizia. Alla fine della visita sbirciamo nella cappelletta e usciamo attraversando il rigoglioso giardino.
Ci si ritrova nuovamente in piazza Vittoria. Qui, dato che sono appena le quattro e venti, tenendo conto che l’impianto chiude tra un’ora e considerando che gambe e piedi dopo tutto il camminare di oggi sono piuttosto indolenziti propendiamo per usare la seggiovia al fine di guadagnare la cima del Monte Solaro in quindici minuti scarsi (10 euro a/r a testa). I passeggeri in discesa che ci vengono incontro lentamente sul seggiolino appeso al cavo hanno un sorriso di beatitudine stampato in faccia. Io, invece, nonostante si avanzi adagio adagio e in un’atmosfera estremamente quieta e silenziosa sorrido storta: ho il terrore di andare sfracellarmi come un tubetto di maionese, perciò quando giungo alla stazione a monte e scendo dal seggiolino coadiuvata da un operatore mi sento ancora in preda al turbamento. Fatti alcuni gradini inizio a pigiare il bottone della digitale a raffica e a 360°: dai diversi punti della terrazza la vista spazia su tutta l’isola. Distogo lo sguardo dai faraglioni per posarlo sul sentiero in terra battuta che porta all’eremo di Cetrella. Provo un certo sfinimento solo a guardarlo, il viottolo. Ci dirigiamo verso il bar “La canzone del cielo” che dispone di una tettoia sotto la quale ci sono tavolini, sedie e un dondolo, sul quale si culla una turista con un cappello da cowboy. Il ritorno al paese in seggiovia è un’esperienza che vorrei perdermi, ma non ho alternativa. Per un po’ tengo gli occhi chiusi. Il peggio, tuttavia, deve ancora venire. All’arrivo, in piazza Vittoria, ci sono due fermate contigue, una per Marina Grande e l’altra per Capri. Ci accodiamo per salire sull’autobus che va al porto. Il pulmino delle 17 ci lascia giù e quello successivo delle 17.40 pure. A questo punto ci siamo visti passare davanti almeno cinque autobus per Capri e notiamo che la coda che si è formata di fianco a noi è cospicua, rischiamo di rimanere ancora a terra. Due americani propongono al gruppo dei “passeggeri frustrati” di condividere tutti assieme un taxi collettivo che trasporta sei persone per 25 euro. Ci cacciamo nel taxi e dopo solo dieci minuti di giravolte, alle sei in punto, siamo davanti alla biglietteria della Caremar in tempo per prendere il traghetto delle sei e un quarto. Tiriamo un sospiro di sollievo. Sul battello successivo i posti erano già esauriti. Quando approdiamo a Sorrento mi inginocchierei a baciare la terra come Cristoforo Colombo.
Sentiero degli Dèi e Positano. Dopo la prima sostanziosa dose di calorie prendiamo il piccolo autobus EAV che ci porterà alla stazione della circumvesuviana di Sorrento. Alle otto e mezza parte la corriera della SITA per Amalfi. Troviamo dei posti a sedere solo perché abbiamo un quarto d’ora di anticipo sulla partenza. Passiamo per Meta, Positano, Praiano e intravediamo in basso l’arciconosciuto fiordo di Furore -con le sue poche casette e le imbarcazioni dei pescatori- che si staglia come in una vecchia cartolina. A un certo punto l’autista esita un secondo davanti a un semaforo rosso (la carreggiata si restringe per via dei lavori in corso) ma riparte immediatamente, anche a rischio di dover sparare la corriera giù dritta nel golfo di Salerno, per scansare gli eventuali veicoli che possono giungere in senso contrario. Con un po’ di deretano slittiamo via veloci dalla strettoia senza incidenti.
Finalmente, in perfetto orario, alle dieci, dopo essere stati sballottati per circa trenta chilometri, siamo ad Amalfi. Quindici minuti di attesa e parte la corriera per Agèrola. Ci sediamo di fianco a una coppia di mezz’età:
– Potreste avvisarci quando ci approssimeremo alla nostra destinazione?
Fanno cenno di sì.
Per arrivare a Bomerano l’autobus sale un tornante via l’altro per circa quaranta minuti. Con tutti gli ondeggiamenti patiti, io ho lo stomaco un pelo sottosopra, ma almeno appena scesi troviamo facilmente l’indicazione per il Sentiero degli Dèi. Dopo una prima parte ampia ed asfaltata il terreno si fa più instabile, anche se non è quasi mai troppo scosceso, anzi in alcuni tratti è pianeggiante e polveroso. Una corsa è certa: il luogo mi eletrizza e il panorama ha davvero qualcosa di divino. Ci muoviamo generalmente in lieve discesa sotto il sole torrido del mezzogiorno accompagnati, alla nostra destra, da un paesaggio roccioso e aspro, caratterizzato da una vegetazione stentata. Rivolgendo lo sguardo a sinistra, invece, restiamo ammaliati da un lato dalla bellezza addomesticata dei terrazzamenti verde scuro digradanti verso il blu del Tirreno, dall’altro dal fascino sublime delle pareti rugose e semibrulle che piombano in mare in verticale.
In capo a un’ora abbondante di cammino la macchia s’infittisce e procediamo un po’ all’ombra. Da un varco tra i cespugli ammiriamo il maestoso susseguirsi di sporgenze e rientranze nella costa, che mi fa associare il sentiero degli Dèi a quelli delle Cinque Terre, in Liguria.
La discesa finale fra cactus, ulivi e buganvillee prende l’avvio presso l’agglomerato urbano di Nocelle e conta approssimativamente 1.500 gradini che rotolano verso la baia di Positano. E’ una scalinata che sembra fatta apposta per spezzare le ginocchia. Infatti con le rotule che scricchiolano ci ritroviamo sulla statale, dove scopriamo che la fermata sta esattamente dietro a una curva, per cui non è semplice alzare il braccio nel momento opportuno per indicare al conducente di caricarci. Altro inconveniente è la totale mancanza di riparo dal sole, che adesso batte a picco. Fortunatamente aspettiamo solo un quarto d’ora e dopo un paio di fermate sgusciamo fuori dalla corriera e ci dirigiamo verso il centro di Positano per una stradina quasi priva di alberi transitata dalle macchine. In alcuni punti il marciapiede è stato sfruttato per ricavare lo spazio per la sfilza di tavolini all’aperto di un ristorante. Vedendo la gente che mangia e beve ci viene voglia di una pausa granita -stavolta la prendiamo all’anguria-, quindi ci lasciamo avvolgere dalla vivacità delle botteghe del centro, entriamo nella chiesa di Santa Maria Assunta e finiamo sul tratto di spiaggia che si apre davanti al paese, fitto di bagnanti. Decidiamo di non “crollare” qui, ma di spostarci verso la deliziosa spiaggetta di Fornillo, anch’essa piuttosto animata, che raggiungiamo tramite un’ombrosa passeggiata lastricata che si snoda lungo la costa rocciosa. Superiamo vari stabilimenti balneari e giunti all’estremità dell’insenatura incontriamo una torre, di proprietà privata, tipica costruzione in altri tempi destinata a contrastare le incursioni dal mare. Visto che non si può andare oltre ci stendiamo all’ombra, con le mani intrecciate sotto la testa, liberandoci della zavorra delle scarpe. I ciottoli, però, rimandano ancora il calore intenso del sole che si è appena nascosto dietro la montagna. Ci cerchiamo uno scoglio confortevole dove appoggiarci, ma dopo quest’operazione, sentendoci sfatti e prosciugati, ci verrebbe il desiderio di vegetare qui per sempre.
Una mezz’ora dopo, con sforzo sovraumano, ci convinciamo a ripercorrere straccamente, a ritroso, il cammino fino alla fermata della SITA, dove prendiamo la corriera al volo. Purtroppo stavolta ballonzoliamo fino a Sorrento reggendoci in piedi solo grazie alle maniglie, non c’è alcuna possibilità di trovare un posticino a sedere.
La Grotta dello Smeraldo vicino ad Amalfi. Anche quest’oggi stiamo ammassati insieme ad altri passeggeri nell’autobus diretto ad Amalfi. Mentre seguo con lo sguardo l’andamento tortuoso della statale 163 mi accorgo che un’alta colonna di fumo si leva da una fascia boscata sui monti Lattari. Un elicottero con un gran bicchierone appeso a un cavo ci prova ad estinguere l’incendio con santa pazienza a forza di raccogliere giganteschi boccali d’acqua salata in mare e riversarli sul pendio in fiamme, ma il fuoco si diffonde piuttosto velocemente nella macchia. Capace che il traffico sia interrotto dall’emergenza incendio!
No. Non c’è da allarmarsi (a parte per gli ettari di bosco che vanno in fumo). Oltrepassato l’ingorgo, dopo un infinito numero di tornanti arriviamo a Conca dei Marini a cinque chilometri da Amalfi. Scendiamo con un ascensore, paghiamo cinque euro a testa e al termine di una breve attesa nel piazzale antistante la Grotta dello Smeraldo ci infiliamo in un antro oscuro dove ci fanno salire a bordo di una barca dalla chiglia azzurra assieme a quattro persone straniere. Veniamo invitati a prendere posto a sedere su delle assi di legno e a lasciare un obolo a “Caronte” alla fine del giro. Sarà pur vero che sono abbacinata dal sole, ma la luce naturale che filtra in superficie da un condotto situato a quattro metri di profondità è molto fioca e indecisa, appena un vago riflesso. Capisco però che la danza setosa del liquido turchese-smeraldino deve aver provocato un certo effetto sorpresa sul pescatore che vi è penetrato per la prima volta nel 1932.
Il rematore ci fornisce scarne informazioni condite da gesti esuberanti. Con voce altisonante inscena il suo spettacolo sia in italiano che in un inglese assai approssimativo. Ci indica un presepe sommerso e in alto delle concrezioni dalle forme curiose. Ce n’è una, per esempio, che somiglia a un profilo umano e secondo lui sarebbe il ritratto sputato di Garibaldi. Invece per la coppia francese salta fuori che si tratta del volto di Sarkozy.
Per intrattenere il suo pubblico e guadagnarsi la mancia il vogatore comincia a cantare a tonsille spiegate una canzone napoletana, subito affiancato dal marinaio di una seconda imbarcazione zeppa di turisti che ci galleggia a lato, che gli dà manforte giusto prima di sgravarsi del suo carico di “anime” paganti. Il gran finale consiste nello strillare “al miracolo” e nel tuffare ripetutamente il remo nell’acqua sollevando una pioggia di schizzi che, a suo dire, scintillano come gemme preziose.
– Guardate, miracolo! Smeraldi, zaffiri, diamanti!
Ma il vero miracolo ci aspetta a Ravello –basta raggiungere Amalfi e prendere la coincidenza per il borgo dove si organizza il Festival Wagneriano- e sono i due giardini delle ville Cimbrone e Rufolo. Esploriamo prima il paese e ci spingiamo fino a villa Cimbrone, dove si spalanca per noi il meraviglioso viale dell’Immenso, fiancheggiato su ambo i lati da un muretto ricoperto di rampicanti e coperto da un fitto pergolato. Superato il padiglione a cupola con la statua classica di Cerere sfociamo sulla terrazza dell’infinito, dove ci si può affacciare da una magnifica balconata scandita da busti femminili o maschili tutti butterati (eccetto uno con i baffetti che ha il volto più sano e meno arcigno degli altri).
La visita di villa Rufolo si snoda lungo un percorso straordinario fra edifici arabeggianti e incomparabili belvedere sul mare.
L’ultimo giorno di vacanza scarpiniamo lungo il sentiero Termini-Punta Campanella-San Costanzo-Baia di Ieranto-Nerano. Alle 7.50 dal piazzale della stazione della circumvesuviana di Sorrento prendiamo l’autobus che fa capolinea a Nerano-Cantone e smontiamo a Termini. La direzione da seguire è segnalata all’inizio, a Termini, da un cartello marrone che indica “punto panoramico”, ma il nome della strada è inconfondibile: via Campanella. Dopo circa 200 metri dovremmo andare di nuovo a destra, ma un tipo ha parcheggiato l’auto proprio davanti al cartello con l’indicazione Punta Campanella. Veniamo “marpionati” dal proprietario di un bar che vorrebbe convincerci a mangiare qualcosa da lui al ritorno, quando saremo stanchi ed affamati. Ci allontaniamo dal tracciato principale e prendiamo a destra la deviazione per la cala di Mitigliano –che si individua grazie a una piastrella maiolicata appesa a un palo-. Il percorso è estremamente ripido, in discesa, è segnato con sporadiche spennellate di vernice gialla e passa per un uliveto. Alla cala onde enormi battono sulla riva e l’acqua è così schiumosa che sembra bollire. Di fronte a noi c’è Lei, l’isola di Capri, affascinante anche in lontananza.
Proseguiamo fino a Punta Campanella e poi a sinistra prendiamo un sentiero tutto in salita, accidentato e sassoso (il segnavia è per terra e non si può sbagliare perché a Punta Campanella non ce ne sono altri) che arriva alla chiesa di San Costanzo. Lungo il cammino, a destra, si ammira la stupefacente baia di Iéranto, del FAI, con la sua cava in disuso per l’estrazione della pietra calcarea. Iniziamo a scendere verso la Baia di Iéranto, prima moderatamente, poi vertiginosamente tanto che in un punto si scivola e a volte dobbiamo aggrapparci agli alberi con le mani per non cadere. Per il ritorno, dopo aver vagabondato per i sentieri della baia, aspettiamo il pullman a una fermata nel paese di Nerano.
Con la ferrovia circumvesuviana da Sorrento è anche possibile visitare le aree archeologiche di Ercolano e Pompei, ma gli scenari imperdibili, secondo me, sono quelli solitari e grandiosi dei sentieri di Capri, Positano, Punta Campanella e Baia di Jeranto.