Ruanda tra solidarietà e curiosità
Il viaggio comincia senza intoppi. La Francy è puntuale così abbiamo solo il tempo di scambiare due parole e i saluti con Cinzia che rimane a casa senza Giorgio e con Gianfranco che farà il guardiano di casa nostra. Carichiamo i bagagli comprese le due pompe solari che ci fanno faticare un po per trovargli uno spazio. Abbiamo in tutto sette valigie, due pompe, quattro troller, due zainetti, una borsa del computer, una borsa con i compiti di Alice.e qualche chilo in più.
Si parte. Anche la Marta è puntuale così la sosta tecnica a Fornaci è breve. Marta farà compagnia alla Francy sulla strada del ritorno nello spazio di 350 km potranno riportare ordine in tutto l’universo.
Il viaggio verso l’aeroporto è stato liscio senza tanto traffico ma con una quantità industriale di autovelox segno dei tempi che corrono… corrono solo quelli.
Subito ci facciamo rapinare 6 euro per tre carrelli e carichiamo tutti i bagagli ci aspetta una lunga serata in attesa dell’imbarco a mezzanotte e cinque minuti. Dopo un giro nei negozi e nella grande libreria mangiamo qualcosa che dovrebbe assomigliare a qualche piatto tipico italiano, sempre meglio di quello che ci aspetta nelle prossime ore dove l’unica cosa che si riesce a capire cos’è sono i crakers.
Decidiamo di avvicinarsi al banco del check-in dove troviamo un folto gruppo di medici e infermieri romani che vanno in Burkina Faso via Addis Ababa. Scambiamo due chiacchere e qualche consiglio su come riuscire a far passare i dieci chili in più dei loro bagagli. La nostra esperienza nel settore è lunga. Quanto lunga? Ci mettiamo a riflettere e contare: io ho saltato due viaggi, mio marito uno, una volta siamo rimasti a casa tutti e due. La prima volta è stato nel 1997… quindi è il tredicesimo viaggio per entrambi e partiamo di venerdì 13. Ne di Venere e ne di Marte non si sposa e non si parte….alla faccia di tutti i superstiziosi.
Sull’aereo ci danno la cena all’una provocando ogni sorta di imprecazioni della maggioranza di persone che si era appena addormentata. Alle sei arriviamo mentre ci dobbiamo sorbire le proteste di una capogita norvegese che esigeva la colazione. In Etiopia ci infilano in uno stanzone dove arrivano i fumi delle ruspe e dei camion che fanno i lavori, una vera camera a gas e ripartiamo con il mal di testa.
Arriviamo finalmente. Si comincia a vedere il luccicare dei tetti delle case nella Kigali rurale, si intravede il profilo del Nyabarongo, il grande fiume che attraversa la capitale e da cui nasce il Nilo. Il tempo non è dei migliori e la pioggia minaccia da lontano.
Sbrighiamo le pratiche di ingresso velocemente anche se dobbiamo passare per tre sportelli prima di poter andare ad attendere i bagagli. In questi frangenti ti terrorizza il pensiero di affrontare il soggiorno con il solo bagaglio a mano. Guardiamo ansiosi scendere una grande quantità di valigie dove neanche una è nostra e soprattutto non vediamo arrivare il grande pacco delle pompe. Condividiamo l’ansia con una signora che lavora per la cooperazione e deve andare a Goma. Sotto sotto la invidiamo, avremmo proprio bisogno di qualche giorno sulle spiaggette del Lago Kivu.. Gisegny, Kigufi.. posti che non devono invidiare niente a nessuno. Ma le cose da fare sono tante. Finalmente recuperiamo tutto e ci avviamo verso l’uscita con tre carrelli questa volta a gratis. Vediamo già le suore ma una solerte impiegata ci dice di rimuovere l’imballaggio di sicurezza in plastica e di lasciarlo li ed un’altra invece ci chiede la fattura delle pompe. Visto il nuovo corso del nostro paese abbiamo voluto dare il buon esempio e abbiamo accettato di buon cuore di pagare la tassa. Siamo andati nell’ufficio, la signora ha acceso computer e stampante. Abbiamo richiesto l’aliquota relativa alle scuole e infatti la nostra scuola secondaria di Cyeza era presente nell’elenco. Nonostante tutto abbiamo pagato la bellezza di 328 euro, ma siamo usciti dall’ufficio ugualmente soddisfatti di aver fatto il nostro dovere di aver pagato le tasse sulla fattura della pompa…. per fortuna nessuno si è accorto che le pompe erano due.
Finalmente Rwanda. Ci sono tutte le suore al nostro arrivo, compreso il parroco di Cyeza. Incontriamo Odette ci scambiamo abbracci intensi, sappiamo che potremo vederci poco perchè il suo posto adesso è nel sud a Butare. Usciamo dall’aeroporto carichiamo la pompa, gli altri bagagli sono stati già sistemati da Teogene, l’autista delle suore. Suor Patrizia sale sul Camion dei bagagli e parte di corsa perchè minaccia pioggia e vuole arrivare presto. Noi indugiamo un po nei saluti perchè le suore di Mbare andranno subito a casa. Odette viene con noi fino a Cyeza.
Il tragitto fino a casa riserva sempre qualcosa di nuovo. Qui tutto cambia con una velocità più alta di quella a cui siamo abituati in Italia. Ci sono nuove case costruite, nella città sempre qualche palazzo in più. Quello che non cambia mai è la gente che cammina per strada. Ha lo sguardo di chi non sa dove andare, di chi cammina aspettando che accada qualcosa che dia un senso alla loro giornata. Sempre a piedi con qualcosa in testa. Questa è l’immagine simbolo di questo paese. Lungo la strada che ci porta a Cyeza non ci sono villaggi o grandi centri solo qualche agglomerato in prossimità dei grandi incroci. La prima città che si incontra è Gitarama, che ora chiamano Muhanga. Ma noi dobbiamo girare prima della sua periferia. Imbocchiamo la strada sterrata che porta a Cyeza. E’ la stessa strada che porta a Ruhengeri, ai vulcani Virunga*, che da questa strada nelle belle giornate si possono vedere. Quella è la zona dove vivono i gorilla in cattività, unico posto al mondo. Da qualche anno c’è una certa organizzazione e i turisti possono andare a vederli. La zona è affascinante piena di verdi distese di tea e colline verdi smeraldo. I tre vulcani spiccano nel panorama regalando un atmosfera messicana. La città di Ruhengeri è costruita sulla strada, le case ad un solo piano senza tetto ricordano quelle delle città di confine messicane. Se si sale sulle colline nei dintorni si possono vedere aprirsi panorami surreali. Un luogo questo che conserva ancora i segni e la poesia dell’opera di Diane Fossey che ha pagato con la vita il suo amore per i gorilla. Quelle montagne al confine con l’Uganda e il Congo per anni sono state infestate da guerriglieri e le strade non si potevano percorrere in sicurezza.
La nostra strada è straordinariamente liscia e scorrevole ma più ci si avvicina a casa più il cielo diventa cupo. La pioggia sta per raggiungerci: in questi momenti il cielo è di un grigio profondo e splendente. Il vento che precede il temporale soffia attraverso le foglie di certi alberi di cui non riesco a capire il nome, provocando un canto affascinante. Così arriviamo sotto un violento temporale che ci impedisce di scaricare qualsiasi cosa e i nostri bagagli restano li coperti da un telo troppo corto. Intorno è tutto un brulicare di persone colte di sorpresa dal temporale che scappano dal mercato del venerdì. Il mercato di Cyeza si svolge su un piccolo campo a ridosso di un altrettanto piccolo agglomerato di piccoli negozietti improvvisati che con l’arrivo della corrente si stanno espandendo e stanno prendendo le sembianze di un villaggio. La corrente è arrivata alla fine del 2010. Un grande traliccio accoglie i visitatori della collina e segna una grande linea di confine tra passato e futuro. Accelera i cambiamenti. Un po’ tutti quanti si stanno facendo ammaliare dalle comodità e si sa che presto dipenderanno da queste. C’è solo da chiedersi che effetto farà.
Finalmente casa.
Nonostante siano le quattro e mezza del pomeriggio le suore ci hanno atteso con la tavola apparecchiata. Ci accolgono con canti e tamburi. Mangiamo insieme. C’è la pasta al ragù, ci sono piselli, banane fritte, uno dei troppi galli del pollaio è dentro una gustosa salsa al pomodoro, c’è l’insalata, poi bananine, manghe… e un bel caffè. Per questo poco tempo siamo stati ancora tutti insieme, con Odette che però deve subito partire per la sua nuova destinazione. Dopo pranzo o meglio dopo cena la pioggia ha smesso di cadere così possiamo disfare le valigie e preparare il materiale per il giorno dopo. Domani sarà sabato. Finito con le valigie ci mettiamo il pigiama e ci infiliamo a letto anche se le suore ci avrebbero voluto a cena. In apparenza è tutto come lo abbiamo lasciato un anno fa ma sappiamo già che ci sarà da rimettere mano in ogni cosa. Domani ci aspetta una lunga giornata di lavoro e di organizzazione.
Cap 1
E’ difficile aprire gli occhi ma il sole è già alto e la messa sta per finire e le suore arriveranno per la colazione. Giorgio si è alzato all’alba ed ha già incontrato un sacco di gente. I suoi fidati operai sono già li pronti ad eseguire i suoi ordini. Luca esce un momento fuori sul piazzale della parrocchia ed è già diventato una specie di ufficio di collocamento. Akasi è la parola che risuona più di tutte. Significa lavoro. Quando noi siamo qui significa anche guadagnare di più e guadagnare tutti. Questo è il periodo in cui i ragazzi cominciano la scuola e guadagnare qualcosa diventa necessario. Dopo colazione abbiamo appuntamento con Mathias alla sorgente di Shusho per montare le due pompe che abbiamo portato. E’ un anno che l’acqua non è sufficiente e li costringe a continui viaggi col camion per riempire le taniche e rifornire la scuola. Stamattina abbiamo un compito delicato perchè dobbiamo fare un lavoro che non abbiamo mai fatto e solo una volta l’abbiamo visto fare. Abbiamo molta attrezzatura con noi, almeno quella che abbiamo previsto che ci potesse servire. Alla sorgente c’è una grande cisterna dove devono essere installate le pompe, una casetta sul cui tetto sono stati stesi i pannelli solari che danno circa tre kilowatt e al cui interno c’è solo il quadro elettrico dove arriva la corrente e da dove va alle pompe. Giorgio ed io ci siamo fatti spiegare bene come dovevamo fare da Luca, l’elettricista e idraulico che però fa il cartario, ma che lo scorso anno era qui ed aveva smontato una delle pompe nella speranza che si potesse riparare ed aveva fatto in modo che più corrente andasse alle due pompe che restavano e di cui però solo una funzionava bene. Dovevamo prima di tutto rimettere i fili come erano prima e li Giorgio ha superato se stesso ed ha fatto il lavoro senza intoppi. Dopodiché si è tolto le scarpe ed è andato nella cisterna assieme a Saverio anche lì tutto è andato per il meglio, avevamo portato le fascette di plastica che qui sono introvabili e tutti gli attrezzi. Restava solo la connessione dei fili ad un semplice mammut. Ma le cose facili a noi non si confanno. Ci siamo accorti che ci mancava un cacciavite che potesse entrare nel foro per stringere i fili. Abbiamo dovuto attendere che il parroco andasse con la macchina in parrocchia a cercare un cacciavite che anche lui non possedeva. La provvidenza ci ha mandato sulla strada un ragazzo che viene dalle suore a fare lavoretti di elettricità ed aveva uno di quei cacciaviti multiuso che da noi si comprano dai cinesi o ti regalano le aziende come gadget natalizio.
Siamo riusciti a terminare il lavoro. Domattina faremo partire le pompe. Risaliamo in macchina e ci dirigiamo verso la scuola elementare di Cyeza. Siamo curiosi di vedere in “carne e ossa” le aule scolastiche finite che abbiamo visto solo in foto. L’anno passato le avevamo lasciate che ancora mancava il tetto. Accanto a quelle che noi avevamo costruito ce ne sono altre due costruite da un gruppo di amici di Verona che anche loro come noi si sono innamorati del Rwanda e ci tornano ogni anno. Sono li perfettamente allineate, ariose e luminose e, sebbene sia sabato e non ci sia scuola, contaminate di vita da centinaia di bambini . Ci siamo goduti la vista per un po’ poi abbiamo preso il metro ed abbiamo cominciato a misurare lo spazio a disposizione. Rispettando lo schema si finirebbe su una specie di fossa biologica ormai piena ma che da problemi di stabilità del terreno. Inizia una pacata discussione sul da farsi così Giorgio prende un bastoncino ed inizia a disegnare sul terreno lo schema delle aule. Si decide di fare una elle con la seconda aula. Si vorrebbe già cominciare nel pomeriggio di sabato a distruggere la vecchia aula ma ci sono cose dentro che l’insegnante potrà levare solo lunedì. Decidiamo così di sistemare la tubazione che esce dalla cisterna dove arriva l’acqua delle pompe. Come tocchiamo una cosa se ne rompono due così dobbiamo andare a Gitarama a comprare un rubinetto, ne approfittiamo per un giro al mercato, solo informativo, visto che non abbiamo soldi locali. Le suore non vogliono cambiare perché adesso il cambio è basso. Suor Alphonsine si guarda bene dall’entrare nel mercato con noi, già per il fatto di essere suora paga le cose più care, poi se la vedono con noi non si salva. Passiamo in mezzo ai banchi dei tessuti tipici, le panie. Siamo sempre alla ricerca di qualcosa di nuovo con cui fare camice. Luca ne possiede decine ormai. Ci sono almeno 25 donne con altrettante macchine da cucire che confezionano abiti sul momento. Ci sono i venditori si soia e fagioli con diversi sacchi aperti che creano un bel colpo d’occhio. Infine andiamo al mercato della verdura e lì i colori esplodono. Il giallo delle banane, l’arancione dell’olio di palma e dei peperoncini, il bianco della farina di manioca, il verde smeraldo degli avocati, il verde chiaro delle melanzane, il rosso dei pomodori. Ci incuriosisce la grande presenza di macinatori di foglie di massaka con cui si prepara l’issombe, un piatto tipico africano. Le foglie di questa verdura vengono macinate e poi fatte cuocere con la pasta di arachidi, in genere si consuma con la polenta di farina di manioca assieme ad una salsa di pomodoro in cui viene fatto cuocere un pezzo di carne. In alcuni banchi si possono comprare altre cose tipiche come i sambusa, una specie di panzerotto di sottile pasta fritta riempita di carne macinata un po’ piccante. Ci sono anche delle polpettine di carne fritte. Poi ci sono gli ibidufu, un impasto di farina di manioca, cipolle e peperoncino fritto nell’olio di palma da cui prende il tipico colore arancione. Ma il piatto nazionale ruandese sono comunque le brochette di capra. E’ costume locale di ammazzare una capra per le grandi occasioni e di ricavarne tante brochette da cuocere sulla griglia e da mangiare direttamente dallo spiedino di ferro. Particolarmente ricercati sono quelli fatti con le interiora. Se si gira per mense delle suore, o alcuni ristoranti a buffet le cose che vengono proposte tutti i giorni sono il riso bianco che sostituisce il pane, i piselli, le patate fritte, i fagioli, e della carne, in genere pollo o manzo, cotta in umido, e delle banane lesse o grigliate. Queste cose si mangiano in genere negli economati delle diocesi o nei conventi che forniscono camere e pasti e il pasto prende poco tempo perché in genere il cibo è uguale per tutti ed è già pronto. Nei ristoranti è un’altra storia. Sia che siano rivolti ai locali o ad una clientela più ricercata si aspetta molto tempo. Da una a due ore e mezza. Fanno eccezione alcuni alberghi di lusso della capitale che forniscono variegati buffet e dove con circa 15 euro a persona si può mangiare velocemente. Nei ristoranti non c’è molta cucina locale, si può mangiare tilapia, pollo o carne di manzo serviti in vari modi con contorno di patate fritte e insalata julienne. Qualche anno fa incontrammo dei nostri amici italiani a Gitarama che erano seduti al ristorante ed avevano già fatto la comanda e quindi ci unimmo a loro. Ordinammo brochette perché non c’era altro. Dopo circa un’ora Alice sentì degli strani lamenti provenire da un garage. Andò a vedere e vide che un uomo stava uccidendo una capra e si apprestava a macellarla dopo essere andato a comprarla al mercato. Dopo circa un’altra ora cominciarono a servirci qualcosa. Capimmo che mangiare fuori era una cosa da evitare. Una volta invece andammo in gita a Kibuye sul lago Kivu. Dalla nostra casa si raggiunge in un paio d’ore. Arrivammo a mezzogiorno e andammo nel primo ristorante che ci capitò perché non avevamo agganci in loco. Facemmo la comanda in piedi all’entrata e questo cominciò ad insospettirmi, finita la comanda ci dicono di tornare dopo due ore e mezza. Ci fu un brusio generale di protesta, avevamo viaggiato a lungo ed avevamo fame ma ci spiegarono che i pesci ed il resto erano congelati e dovevano avere il tempo di prepararli. Accettammo la situazione e ne approfittammo per farci un giro in barca. C’era un solo battello disponibile ed era molto improbabile. Ci fecero salire, all’epoca i giubbini di salvataggio non erano ancora obbligatori, e partimmo. Subito dopo uno dei ragazzi che guidavano la barca cominciò a buttare fuori acqua con un secchio. La cosa servì a farci stare assolutamente immobili nella barca. Il giro comunque ci piacque molto. Quel pezzo di sponda del lago è veramente affascinante poi con quel tocco di avventura ne è venuta fuori una giornata che ricorderemo per molto tempo.
A Gitarama riusciamo a farci vendere, alla chincaglieria “Subito Santo ltd.” un rubinetto pirata che si rompe poi in un secondo. Saverio ci spiega che si riconoscono perché c’è scritto Italy, anche se sul nostro c’era scritto England. La verità è che tutta l’Europa sta diventando un enorme patacca. Menomale che c’è il prete che ha sempre una risorsa come Archimede e tira fuori un pezzo di tubo con raccordi e una chiave. Riusciamo così a ripristinare l’acqua almeno al noviziato perché per la scuola abbiamo bisogno di altri pezzi. Ad un certo punto abbiamo disinterrato un tubo e lo abbiamo staccato perché perdeva, subito ha cominciato a versare acqua e la cosa sarebbe piuttosto normale se non chè il tubo era in salita e quindi l’acqua andava contro ogni legge fisica. Forse che qui siamo sotto l’equatore e quindi tendenzialmente a testa in giù…
Abbiamo sudato parecchio per svitare i tubi arrugginiti e io ho sentito qualcosa in fondo alla mia schiena fare un salto. Decidiamo così di chiamare un plombiere e Suor Patrizia ci manda un gentile e caro signore di circa ottanta anni con due specie di morsetti per stringere, capiamo che non è cosa ed il lavoro lo facciamo da noi. L’idraulico è rimasto per quasi tutto il tempo a guardarci e alla fine l’abbiamo anche dovuto pagare. Questa è l’Africa. Qui non tutte le cose vanno nel verso che pensiamo noi. La fatica più grossa che si fa la prima volta e di riuscire a staccarsi dai nostri preconcetti e dalla nostra mentalità. E’ un esercizio difficile ma benefico. Aiuta ad aprire la mente ed a capire certi automatismi locali. Raramente diamo un apporto rivoluzionario allo status quo, al massimo diamo un po’ di spinta.
La mattina seguente incontro Erneste, l’assistente sociale che mi dice di voler fare un giro nelle famiglie. Chiedo di poter andare con lui ma è preoccupato perché la strada è brutta. Gli dico che ho delle buone scarpe, anche se le ho comprate dai cinesi per 20 euro e che anch’io vivo in campagna con strade anche più complicate di queste. Partiamo verso una parte dove ero già stata e dove noto subito due belle case costruite in cemento e ben rifinite e chiedo di chi sono e scopro essere costruite dallo stato per i militari in pensione. Chi ha servito il Rwanda per tutti questi anni dopo la guerra ha diritto ad una casa. In Rwanda tutto è prima e dopo la guerra. Il genocidio ha segnato una frattura nella storia di questo paese. Dopo il ’94 è cambiato il sistema di governo, è cambiato l’esercito, è cambiata la bandiera e sono cambiati i nomi delle città. Il paese, dopo uno stallo di 5 anni a preso a crescere ad una velocità vertiginosa. Certi passaggi che per noi hanno significato un cammino di decenni qui si sono fatti in pochissimi anni. Nel 1997, anno in cui per la prima volta venimmo in Rwanda, mi ricordo che per telefonare si dovevano fare 10 km di pista e sperare che non mancasse la luce. Qualsiasi cosa di cui si aveva bisogno si trovava solo nella capitale. Per fare ogni cosa ci si metteva molto tempo. Non si poteva viaggiare di notte perché si rischiava una rapina e quando si andava in città qualche volta si dormiva li a casa di un prete. Più che una casa era una fortificazione contro le zanzare. Nella casa c’era un grande tavolo rotondo con al centro una piattaforma girevole per cui non ci si doveva mai alzare per prendere le cose sul tavolo. Il caffè veniva servito rigorosamente in tazze della Sabena Airlines. Ancora oggi in giro si trova qualche cucchiaino. La compagnia aerea è poi fallita forse un po di colpa c’è l’ha anche quel prete….
Adesso in Rwanda praticamente tutti hanno un telefonino, si trovano anche a 15 euro e telefonare costa poco. Esiste la cablatura a fibra ottica da nord a sud e le scuole che sono su questa strada hanno tutte il wifi gratuito. Ci sono tanti internet cafè e locali dove c’è la rete gratuita. Su questa stessa collina è arrivata la corrente elettrica.
Il fatto che il governo costruisca queste case è comunque un segno di progresso anche perché un militare semplice appena entrato guadagna 35.000 frw pari a 50 euro al mese.
Proseguiamo il nostro cammino ed arriviamo a casa di un bimbo che si chiama Munezero. Troviamo una casa molto ordinata e pulita e notiamo un tavolo all’esterno con le stoviglie ad asciugare e il che significa che in quella famiglia fanno colazione, per la maggior parte non è così. Ci fanno sedere all’esterno ma ho modo di dare un’occhiata dentro e noto molta pulizia. Dentro il recinto di casa hanno la vacca e alcuni conigli. Fuori noto un bell’orto coltivato con un certo criterio, concimato, addirittura c’è una piccola serra per gli champignon. I genitori di Munezero sono entrambi malati di aids ma si stanno curando, sono stati seguiti da un organismo che ha dato loro i consigli per ottenere il massimo dalla poca terra che hanno. Grazie ai frutti della terra riescono a vivere bene e a mandare una figlia all’università. Io penso che organizzando una piccola scuola per adulti, per imparare sia a leggere e a scrivere sia a coltivare in modo moderno si possano ottenere molti risultati, soprattutto nel miglioramento della qualità della vita delle persone. La famiglia che visitiamo dopo purtroppo ci fa ripiombare in quel senso di impotenza che rischia di sopraffarci. Abbiamo trovato la madre con un bambino in braccio di circa un anno e che stava cercando di svezzarlo ed un altro in giro intorno casa. La casa era un piccolissimo edificio di due sole stanze senza tetto. Il tetto era stato comprato grazie all’adozione ma era stato rivenduto dal marito per andare a bere. Erneste mi fa capire che aiutare queste persone è molto complicato e difficile e il più delle volte si ottengono scarsi risultati. Nonostante tutto il bambino è contento della nostra visita e si esibisce in due o tre capriole con grande bravura. Così gli do appuntamento a casa per dargli un premio per questa sua esibizione.
Abbiamo continuato il nostro tour fino alla scuola elementare di Nyaruninjia dove Luca e Giorgio stavano seguendo i lavori di costruzione delle aule. Siamo passati dalla mareè che è il terreno che si trova alla base delle colline e che forma delle piccole pianure molto umide e ricche di acqua. Sono terreni demaniali che vengono concessi a cooperative o associazioni per essere coltivati. Un pezzo di questi terreni è stato concesso alla scuola di Cyeza e vi lavorano un gruppo di mamme di bambini che abbiamo in adozione a distanza. Le salutiamo, Erneste chiede loro alcune informazioni sui loro bambini e quindi risaliamo fino a scuola che sono già le undici. Troviamo un brulicare di operai intenti a gettare le fondazioni delle due nuove aule e sembra che le cose procedano bene. Dobbiamo fare in fretta perché le nuove aule servono dato che la scuola è già cominciata. Salutiamo tutti e continuiamo verso la collina. Al bivio c’è la sede di quella che si potrebbe definire una circoscrizione e fuori della piccola casetta che funziona da ufficio c’è molta gente e molta ne incontriamo per strada che va alla riunione. Nei mesi scorsi hanno definito alcune fasce di reddito in base alle quali si pagano le tasse, compresa la mutua. Alcuni sono stati messi nelle fasce sbagliate e quindi si è resa necessaria una riunione per stabilire le giuste liste. Torno a casa sfinita ma contenta di aver avuto modo di vedere le famiglie come vivono nella realtà quotidiana.
Dopo questo giro parliamo un po’ tra noi abasungu sul da farsi. A noi sembra che continuare così come fino ad ora abbiamo portato avanti il progetto delle adozioni, in certi casi sia inutile. Siamo un po’ delusi da come da parte della nostra assistente sociale con più anzianità non ci sia stato il minimo sforzo di riuscire ad inventare qualcosa di nuovo. Avevamo lasciato il compito l’anno passato di pensare ad elaborare qualche progetto con gruppi di persone. Il gruppo implica un’organizzazione interna ed un controllo di un comitato e qualche volta è prevista una specie di supervisore esterno. Non è stato elaborato nulla in questo senso. Decidiamo si smettere di investire su singole persone ma di realizzare progetti legati ad associazioni. Accanto a questo elaboriamo anche l’idea di realizzare anche qui la scuola di alfabetizzazione già realizzata a Muhura. Integrandole con lezioni di pratica agricola. Mentre rimugino sulle cose dette e pensate vedo i bimbi della scuola materna. Vado a salutarli e loro mi corrono incontro, soprattutto quelli del secondo anno che mi conoscono già. Saluto Francine la maestra che da più di vent’anni si occupa di loro. Francine è una donna dotata di una straordinaria apertura mentale ed iniziamo a chiacchierare sui problemi dei bambini. Mi parla di un associazione di cui fa parte, un gruppo di genitori che si sono messi insieme e si autotassano di pochi franchi il mese per creare una specie di banca dove poter prendere dei prestiti per poter mandare i bambini a scuola. E’ un progetto interessante ma è ina specie di stallo perché hanno acquistato un terreno vicino alla strada dove sta per arrivare la corrente elettrica e dove vorrebbero costruire una casa dormitorio da affittare agli insegnanti fuori sede. La necessità di una cosa così effettivamente c’è ma loro non ce la possono fare da soli. Decidiamo di fare una riunione con loro e di capirne di più.
La riunione si svolge nella sala parrocchiale alla presenza del parroco. Qui il parroco rappresenta l’autorità morale e comunque è una figura di primo piano che deve essere sempre coinvolta in tutte le discussioni. In questo caso Padre Matthias è anche il consigliere e supervisore dell’associazione. Ci sono parecchie donne non più giovani e qualche uomo. Inizia a parlare il presidente e ci illustra i dati che riguardano il gruppo: tutto è iniziato nel 2003 con 16 membri e attualmente ne conta 58. Ogni anno circolano tra i membri 3.129.000 frw circa 4000 euro. Sono soldi della cassa comune a cui i membri possono chiedere dei prestiti da restituire a poco a poco, una specie di microcredito. Hanno un conto in banca sul quale ogni mese ciascun membro versa 500 frw poco meno di un euro. Hanno 57 studenti alle secondarie e 59 hanno già terminato, infine sono 19 quelli che frequentano l’università. Gli universitari costano cari e quindi si avverte la necessità di realizzare qualche attività comune che dia dei soldi in modo continuo. Loro avrebbero pensato di costruire una casa da affittare ai professori che lavorano alle tre scuole della zona. Decidiamo quindi di dare una mano e proponiamo ai membri di preparare le pietre, il legname e di cominciare a cuocere i mattoni e infine di fornire manodopera gratuita quando il prossimo gennaio verremo a costruire la casa in modo di abbattere una parte dei costi. Sono stati contenti della nostra decisione e finalmente dopo un inizio in cui tutti erano paralizzati dall’emozione si sono sciolti in un canto di ringraziamento ed abbiamo ballato insieme. La più anziana delle donne alla fine ci ha detto arrivederci in perfetto italiano dimostrando un certo coraggio. Questa signora si chiama Pracidia ed ha una figlia Agnes che noi abbiamo aiutato a finire la scuola secondaria. Adesso fa l’università. Pracidia è responsabile della Caritas parrocchiale e fa parte anche della cooperativa delle vedove nata dopo la guerra. E’ una persona che ha delle qualità e con cui sarà bello collaborare.
Passiamo il resto del pomeriggio andando a scuola a vedere il cantiere. Andiamo a piedi. La scuola dista un chilometro dalla nostra casa e ritorniamo poi a piedi ma quando arriviamo al campo di pallavolo accanto alla scuola materna vediamo il parroco che gioca e ci uniamo anche noi. Arrivato il buio la partita viene sospesa e noi facciamo un salto a Ramba, la via dove sono tutte le piccolissime attività commerciali della collina. Arriviamo e notiamo subito “Facebook bar” ed entriamo incuriositi. Il padrone del bar ha vinto circa 25000 euro ad un concorso della compagnia di telefonia mobile MTN ed ha messo su questa attività commerciale.
Beviamo una Fanta poi andiamo a ricaricare il telefono. Qui i commercianti ricaricano il tuo telefono inviando un codice dal loro telefonino, un sistema davvero semplice ed economico che anche su una collina sperduta come la nostra si può fare. Tornando notiamo una signora che ha degli ottimi pomodori e degli avocati e li acquistiamo. Qualcuno ha pensato che le suore non ci diano da mangiare abbastanza. Con 80 centesimi di euro abbiamo portato a casa un secchio di roba.
La vita comunque è diventata molto più cara e di più sono i bisogni dei rwandesi. Anche qui i salari in certi casi non si sono adeguati. I salari che abbiamo visto crescere sono quelli dei muratori che dai 700 frw di qualche anno fa sono arrivati a 2000. I generi alimentari come lo zucchero e il sale costano sempre più cari. Le verdure in città aumentano di continuo. Così anche le scuole ogni anno rivedono i prezzi e con le nostre adozioni non riusciamo a tenere il passo. Dobbiamo riflettere e cercare di organizzare le famiglie delle adozioni come il gruppo di Francine. Ne parlerò con Erneste e vedremo come fare.
Andiamo a cena poi subito in camera. Le giornate a 2000 metri di altitudine stancano parecchio. Ci laviamo con l’acqua del secchio, fredda. Abbiamo un attrezzo per riscaldare l’acqua ma è estremamente pericoloso e lo usiamo raramente. Nelle nostre camere non arriva acqua a meno che non piova tanto e si riempia la cisterna tanto da arrivare al livello del lavandino. Forse il prossimo anno porteremo la tubazione anche qui. Anche se manca l’acqua stiamo più volentieri qui perché le camere sono più grandi e abbiamo anche un ingresso con un tavolo e tre poltrone dove sedersi e lavorare al computer. Con circa 20 euro abbiamo comprato una internet key e connettersi costa un euro al giorno ma qui la rete è lenta e lavorare su internet richiede tempo. Cosi ho deciso di scrivere queste pagine in tutti quei momenti della giornata in cui si attende di fare qualcosa.
Andiamo a letto. La notte è buia e silenziosa, non ci sono cani e automobili ma solo il vento a cullare i nostri sogni.
La mattina andiamo a scuola perché mancano i mattoni e la sabbia e si devono ordinare. Facciamo un piccolo incontro con il prete perché servono soldi in contanti per pagare tutto così convinco la suora ad andare alla banca a Gitarama a prendere un po’ di soldi dal conto su cui li abbiamo inviati prima di partire dall’Italia. Ci propongono un cambio favorevole perché non possono darci euro. Accettiamo e chiediamo 8500 euro in moneta locale. Nell’attesa che disbrighino le pratiche la suora ne approfitta per andare al mercato centrale e noi ci andiamo a prendere qualcosa da bere e da mangiare al supermercato del Vescovo. Qui funziona così. Le diocesi accanto alle normali attività pastorali ha delle attività commerciali che servono a finanziare le prime. Credo che forse funzioni così anche da noi anche se in modo molto più discreto. Qui le diocesi hanno compagnie di assicurazione, palazzi da affittare, garage di riparazioni, tipografie, e come detto supermercati e addirittura un ristorante. Andiamo quindi a comprare alcune cose e notiamo che la cassa è computerizzata con un sistema di lettura del codice a barre. Qui il salto dal baratto all’informatizzazione è stato breve. La capacità di adattamento dei ruandesi è sorprendente. Da un anno all’altro si è passati dal Francese all’Inglese come seconda lingua ufficiale. Nel tempo delle vacanze scolastiche tutti gli insegnanti hanno dovuto seguire corsi di lingua inglese.
La suora finalmente torna dal mercato ed entriamo in banca. Il cassiere dopo una lunga serie di documenti da riempire finalmente prende le chiavi della cassa e ritorna che sembra una delle donne che portano i mattoni al muratore nel nostro cantiere. Il cassiere aveva almeno 10 o 12 pacchetti di soldi grandi come mattoni. Erano tutti in pezzi da 2000 e 500. E’ come se da noi ci dessero i soldi in banca solo in pezzi da 5 euro o da 2 euro. C’era quindi un problema logistico. Come portare fuori quella enorme quantità di denaro, non potevamo mica farne bella mostra, anche perché potremmo rischiare una rapina. Per fortuna c’era un sacchetto in macchina che suor Alphonsine ci aveva dato per la spesa, uno di quei sacchetti di stoffa riciclabili perché qui i sacchetti di nylon sono proibiti da un po’. Ho preso il sacchetto e siamo uscite con il malloppo.
Abbiamo pranzato alle due.
Subito dopo pranzo decidiamo di preparare le focacce leve, un piatto tipico di Gallicano. Quest’anno avevamo portato nelle valigie le pesanti cotte, delle piastre di ferro battuto dove si fa cuocere la pasta di pane per farne delle focacce da mangiare calde. Prendiamo la farina che è ottima e aggiungiamo il lievito. Il lievito di birra non si trova, qui c’è un lievito secco in finissimi granellini che mi lascia un pochino perplessa. Iniziamo ad impastare e dopo qualche dubbio iniziale tutto va per il meglio e si ottengono focacce di alta qualità e cotte in modo perfetto grazie al calore omogeneo della cucina a legna. Le suore rimangono entusiaste e gradiscono molto tanto che non avanza nulla. Abbiamo anche fatto un esperimento con la farina di manioca che ha una consistenza simile a quella della farina di castagne e ne abbiamo ricavato dei necci veramente gustosi. La cosa potrebbe funzionare.
La mattina dopo partiamo per Butare, vogliamo restare tre giorni con la nostra Suor Odette. Partiamo con la macchina delle suore, anche se volevamo prendere il bus. Siamo tranquilli perché è appena stata fatta sistemare. Il viaggio scorre senza grossi problemi anche se ogni tanto qualche tassista ci fa prendere una sincope. La guida dei rwandesi è molto sciagurata. In genere fanno tutto con tempi e modi africani lentamente, ma quando salgono su un mezzo meccanico, che sia una bicicletta o un camion, lo devono far andare al massimo. E’ divertente riuscire a capire il significato dei segni che fanno. Una delle prime cose che si impara è che la freccia non serve per girare ma per far sapere se si può sorpassare o meno. Il clacson serve per avvertire le persone sulla strada di farsi da parte. I rami per terra hanno la funzione del triangolo e segnalano un incidente o un mezzo fermo. Quando qualcuno fa segno con l’indice verso il basso significa che la polizia è vicina e verso l’alto che è un po più lontana. Certe volte trovi qualcuno che sembra ballare il surf invece ti dice di andare piano. Durante i nostri primi viaggi in Ruanda raramente abbiamo guidato almeno fino a quando non abbiamo assimilato il sistema. I primi anni anche c’era una situazione da dopo guerra in cui tutto deve essere riorganizzato. In cui i poliziotti non avevano divise e mezzi e tante volte improvvisavano posti di blocco con casse di birra rovesciate in mezzo alla strada. Se non ti accorgevi in tempo e non ti fermavi rischiavi di essere sparato. Una volta due suore sono morte perché non si erano accorte del posto di blocco. A dire la verità nei primi anni le strade erano malmesse e avevano ancora i buchi delle bombe sparate nel ’94. Negli sterrati sulle colline invece non c’era ancora organizzazione politica delle istituzione e nessuno teneva le strade. C’erano ponti improbabili e voragini nelle strade. Ma c’era Suor Carmen che sullo sterrato bagnato era meglio del campione del mondo di rally. Con lei si viaggiava sicuri anche se spesso si doveva scendere e spingere la Renault Toros che non ce la faceva. Erano anni ancora pericolosi. Proprio sopra la nostra collina era segnalata la presenza di infiltrati, cioè di persone colpevoli di genocidio che erano ancora sfuggite dalla giustizia e che erano armate. Un giorno ricordo eravamo andati a comprare un tavolo per le donne dell’atelier di ricamo e cucito, il primo progetto che abbiamo realizzato in Ruanda. Tornavamo con il pick-up del prete che ci stava aspettando ansioso sul piazzale della parrocchia. Lungo la strada avevamo incontrato tanta gente che lavorava, che faceva umuganda, il lavoro gratuito dovuto allo stato una volta al mese. In realtà erano stati fatti venire all’aperto per controllare meglio il territorio. E lungo la strada c’erano anche tanti militari armati di tutto punto. In parrocchia c’era un raduno di giovani dell’Azione Cattolica e andavano protetti. Ci fecero scaricare alla svelta ed il parroco ripartì subito per andare a prendere altri militari. Sistemammo il tavolo, decidemmo di lasciare a casa le donne per due o tre giorni. E ci rintanammo in casa. Era una situazione molto tesa. Ricordo che il gatto di suor Faustina saltò sul tetto e ci fu il panico generale. Il segnale di pericolo del guardiano era un colpo di tosse e quella sera il guardiano aveva la bronchite. Se qualcuno di questi infiltrati si fosse introdotto in casa armato avremmo dovuto fare quello che volevano ma questo avrebbe fatto si che i militari ci avrebbero potuto punire. Per fortuna noi dormivamo al noviziato con Suor Maria Cecilia che aveva fatto mettere una cancellata di ferro piuttosto sicura. Tuttavia gli incubi di quella notte furono molti. La gente dormì fuori casa e qualcuno disse che aveva sentito sparare. Dopo quella notte ci furono altri episodi ma dopo la nostra partenza. Dopo poche settimane i preti scapparono e chiusero la parrocchia. Le suore da una parte volevano andare via anche loro ma dall’altra non volevano lasciare il laboratorio cominciato da poco. Si sentivano responsabili nei nostri confronti e così lasciarono a casa le donne per un po’ e rimasero alla missione. Quando qualche mese dopo qualcuno chiese alla popolazione come mai non erano scappati dissero che avevano visto che le suore rimanevano e così rimasero anche loro. Dopo quel periodo non ci sono più stati problemi. Da quel giorno in poi non ci siamo mai più sentiti in pericolo. Fatta eccezione per un episodio quasi insignificante. Una sera che rientravamo dall’aeroporto dove avevamo preso dei ragazzi che venivano da noi, sulla strada sterrata vidi nello specchietto una macchina che si avvicinava. Io ero davanti con la suora ed avevamo chiacchierato lungo la strada e lei era preoccupata perché il prete che abitava vicino all’arcivescovado era stato rapinato a casa e gli avevano preso la macchina. Vendendo la macchina avvicinarsi ad una certa velocità mi prese un senso di smarrimento. Venire dall’aeroporto significa di solito portare persone piene di soldi che arrivano dall’estero. Cercai di accelerare la velocità ma la macchina stava per raggiungerci. Vidi la suora che stringeva forte la manopola dello sportello. Dietro mio marito e gli altri ridevano e scherzavano e non si erano accorti di nulla. Intanto la macchina aveva iniziato il sorpasso. Mi vedevo già spuntare una qualche arma ed avevo pensato nel caso di frenare all’improvviso e tentare un’improbabile manovra di fuga. Quando la macchina arrivò all’altezza del nostro sportello vedemmo che si trattava di un’ambulanza che andava al dispensario di Rutobwe. Mai avevo visto prima un ambulanza in Ruanda. Da allora abbiamo viaggiato di notte, abbiamo fatto lunghe passeggiate per le colline, siamo andati nel parco nazionale in mezzo agli animali selvatici, siamo andati in città e siamo stati assaliti dalla curiosità della gente che più volte ci ha circondato per poterci osservare. Ma mai ci siamo sentiti in pericolo. Cerchiamo sempre di farci toccare dai bambini curiosi e salutiamo sempre tutti gli anziani che incontriamo in segno di rispetto.
Tutti sulla collina ci conoscono, sanno quello che facciamo per loro e ci proteggono. Noi rappresentiamo per questa gente una specie di ancora di salvataggio, sanno che se si trovano nei problemi possono venire da noi a chiedere aiuto e a volte per questo trovano il coraggio di fare certe scelte. Anche durante i tre giorni di vacanza che ci siamo presi a Butare e Cyangugu, quando siamo stati arrestati non abbiamo mai avuto paura ma soltanto un forte fastidio per il tempo che sapevamo avremmo perso. Siamo arrivati a Butare da suor Odette nella mattinata di Sabato. Appena imbuchiamo la stradina delle suore sentiamo un rumore preoccupante provenire dalla ruota davanti. Fermiamo la macchina in giardino e smontiamo la borchia che copre i bulloni. Un bullone troncato cade a terra e tutti gli altri si possono svitare con le mani. Chi aveva sistemato la macchina si è dimenticato di stringere la ruota. Ci è andata bene. Se partiva la ruota per strada potevamo morire. Entriamo dalle suore per un caffè poi dopo pranzo andremo a vedere il da farsi. Durante la preparazione del pranzo una suora si ferisce malamente ad una caviglia con un vetro di una bottiglia caduta dal frigo. Così Suor Odette prende la macchina e va in ospedale con lei. Rimaniamo a pranzo con suor Febrounie e le aspiranti. Dopo circa un’ora ritornano. Hanno applicato una sutura per il taglio era profondo. Verso le tre accompagniamo la suora a farsi l’antitetanica e contattiamo un garagista che ci promette di ordinare a Kigali i due pezzi che si sono rotti e ci dice che costano 12000frw. Accettiamo ma rimandiamo a martedì mattina la riparazione. Torniamo a casa e ci organizziamo per il giorno dopo. Andremo a Cyangugu, al confine con il Congo sul Lago Kivu. Prenderemo la macchina di Butare.
Per andare a Cyangugu si attraversano immense piantagioni di tea a Gikongoro dopo di che c’è la foresta di Nyungwe, uno dei parchi nazionali del Rwanda. Dentro la foresta sembra di stare sul set di Avatar. Ci sono alberi dalle svariate forme e un sottobosco affascinante. E’ un ambiente che in Rwanda esiste solo qui. Nel paese le foreste sono tutte scomparse ed il paese è quasi tutto coltivato. La strada è in costruzione per molti pezzi e quindi è molto pericolosa e piena di buche e polvere. Si sale fino a 2500 metri di altezza infatti quando scendiamo al centro visite del parco avvertiamo subito la freschezza dell’aria. Ci sono molte informazioni geologiche e ambientali e lo scheletro dell’ultimo elefante della foresta ucciso da un bracconiere. Scopriamo di essere sullo spartiacque tra il bacino del Nilo e quello del Congo. Il Ruanda rivendica a se la sorgente del Nilo. I fiumi che nascono qui formano il Nyabarongo e poi l’Akagera che vanno ad alimentare il Lago Vittoria da cui poi prende le forme il Nilo. Mentre sull’altro versante le acque vanno ad alimentare il lago Kivu che poi va a formare il Lago Tanganica da cui nasce il Fiume congo. E’ curioso come il Rwanda e il Burundi formino un cuore e da questo cuore pulsante si muovano le acque dei due fiumi principali dell’Africa. Uno si getta nel mediterraneo e uno nell’atlantico a migliaia di chilometri da qui. Vediamo solo qualche scimmia saltare da un albero all’altro. Ma vediamo anche un coreano a piedi lungo la strada e veniamo presi da pietà e gli offriamo un passaggio. Scopriamo che il suo albergo è a circa trenta km dalla sede del parco. E’ un volontario di un organismo coreano di cui non abbiamo capito il nome che lavora a Kamony a metà strada tra noi e kigali. Ci saluta contento. Proseguiamo verso la città. Ci attendono a pranzo al Centro Pastorale Inshuti con vista sul lago. Si mangia alla ruandese. Le bevande sono fresche e ci portano anche il caffè. Facciamo il check-in e scopriamo che le stanze sono confortevoli, soprattutto hanno l’acqua corrente calda che non vediamo da quando abbiamo lasciato l’Italia. Abbiamo fatto due docce per uno. Il pomeriggio lo passiamo con Padre Valens che ci mostra i dintorni. Vediamo il piccolo aeroporto e ci permettono di entrare e di andare sulla pista, è la prima volta che ci succede. Non rischiamo certo di essere messi sotto da un aereo di passaggio perché atterra un solo volo al giorno diretto a Kigali e Giseny. Poi raggiungiamo il confine con il Congo che si può attraversare solo in due punti attraverso altrettanti ponti. Rusizi 1 e 2. C’è un enorme brulicare di persone che porta le merci a piedi verso Bukavu che è una città grande come Kigali. Si porta di tutto sulla testa anche una cinquantina di padelle di uova fresche in perfetto equilibrio. Di la sono più ricchi e possono comprare quindi c’è mercato. Andiamo a cena in un locale consigliato dal prete. Scopriamo essere lo stesso di tanti anni fa quando venimmo qui assieme al Dott Lido, sua moglie e una ragazza che era con loro. Facemmo il viaggio con la Renault Toros che derapava ad ogni curva per l’asfalto umido. Alla reception parlavano solo inglese ed il dottore, che parlava solo francese, si seccò non poco perché non volevano capirlo. Fummo mangiati dalle zanzare e la notte tormentati dalle pulci. A distanza di 12 anni le zanzare sono rimaste ma il servizio è leggermente migliorato, anche se un’ora di attesa non ce l’ha levata nessuno. Abbiamo mangiato filetto di tilapia al pepe verde. Abbiamo speso 35 euro in sei bevande incluse. Per il giorno dopo abbiamo in programma una gita in barca sul lago e poi il rientro.
Sulla strada che porta verso il lago vediamo dei carcerati che stanno lavorando e io faccio quello che so di non poter fare ma lo faccio. Credo che sia il primo passo verso la demenza senile. Faccio una foto ai carcerati dalla macchina. Immediatamente veniamo fermati da un militare che mi chiede la macchina fotografica che io porgo senza resistenza. Dopo alcuni tentativi di spiegare la situazione e la proposta di buttare via tutte le foto e l’intervento di una volontaria della parrocchia, veniamo tradotti in carcere. Il militare sale con noi, fucile in mano, dentro l’auto e ci porta fin dentro il carcere. Chissà perché queste cose ci succedono sempre a 300 km da casa. Subito dopo essere passati dalla sbarra vediamo l’atelier di oggetti d’arte e la falegnameria del carcere, poi saliamo su fino agli uffici della direzione di fronte alla vera e propria prigione. Davanti a noi un grande muro alto 15 metri senza porte con una torretta per la sentinella al centro. Da dentro si sente il brusio dei carcerati. Fuori dal muro ci sono le cucine, un grande capannone aperto sui lati dove si distinguono le tute arancioni dei carcerati che lavorano in mezzo al fumo che sale. Accanto alle cucina alla nostra sinistra ci sono l’ufficio del direttore e i locali per le guardie. Attendiamo seduti su una panchina l’arrivo del direttore. Calcoliamo che i locali per la reclusione si trovino in un recinto di 5000 metri quadri. Intanto la suora è sparita per poter telefonare. Ha chiamato padre Valence che ha sollecitato il vescovo che ha inviato il suo vicario a parlare con il direttore ed ha chiamato anche qualcuno che lavora nei palazzi a Kigali che ha fatto intervenire la segreteria di un ministro. Forse perché spaventato da tutto questo interesse il direttore ci riceve. Mentre parla con la suora abbiamo tempo di leggere il cartello che indica la quantità e la tipologia dei detenuti. In totale ci sono 3169 che hanno a disposizione 1,5 metri quadri a testa. 1851 sono quelli imprigionati per genocidio, uno solo di questi è in attesa di giudizio. 1778 sono quelli dentro per reati comuni di cui 221 in attesa di giudizio. Così adesso sappiamo del carcere molto di più di quello che avrebbe potuto darci una fotografia. Dopo aver parlato con la suora si rivolge a noi in inglese e ci fa una specie di ramanzina facendomi promettere di non farlo mai più. La mia faccia doveva essere talmente contrita e addolorata che lui rideva sotto i baffi. Ho cancellato le due foto e siamo venuti via. La gita in barca è saltata perché ci ha messo troppo ad arrivare a prenderci e così abbiamo fatto una passeggiata in una specie di piccolo porto mercantile durante la pausa pranzo degli operai. C’erano operai che da una parte scaricavano una nave di sabbia e dall’altra la caricavano sui camion. C’erano gli scaricatori di patate e di casse di bibite. Aspettavano di mangiare il mais bollito in pentole nere di fumo messe a bollire su fuochi accesi vicino a muri neri di fumo. Un luogo brutto ma al tempo stesso affascinante. Mangiamo dalle suore al ponte di confine che hanno una specie di pranzo a buffet e dove non si perde altro tempo. Li conosciamo Francesco di Assisi, un bambino di tre anni che la polizia ha portato dalle suore quando aveva tre mesi perché era stato abbandonato nella foresta sotto la pioggia. Cammina male e forse non è troppo normale ma è simpaticissimo. Parla forte alla maniera dei congolesi.
Finalmente partiamo per rientrare a Butare. Dobbiamo affrontare di nuovo la polvere della strada nella foresta. Per fortuna non c’è tantissimo traffico ma ogni volta che incontriamo qualcuno si alza come una fitta nebbia di polvere. Dobbiamo essere veloci a chiudere i finestrini. Quando la strada comincia ad essere buona ci fermiamo qualche minuto a goderci il suono della foresta. Una volta siamo stati qui con Giulio, Alessandra e il loro figlio Tommaso disse che dentro la foresta c’erano migliaia di uccellulari. A lui sembravano tanti telefonini che squillavano. In effetti le migliaia di uccelli annidati tra gli alberi producono un suono affascinante fatto di tanti impulsi sonori simile ad un vento surreale. Dopo un po’ di strada notiamo un signore che ci fa cenno di rallentare. Notiamo due bianchi vicino a lui. Ci fermiamo. Sono due turisti sudafricani che stanno facendo il tour di gorilla e dei parchi nazionali. Hanno un fuoristrada aperto sul tetto. Ci fanno notare sugli alberi una colonia di scimmie che si sta spostando. Le scimmie iniziano a scendere la scarpata verso la strada e attraversano per andare a valle. Abbiamo stimato in circa 200 il numero degli esemplari. Credo che quest’esperienza basti a ripagarci per tutte le cose che sono andate male durante la gita.
Torniamo alla casa delle suore nel tardo pomeriggio. Ci mangiamo un vassoio di pizza che hanno preparato e andiamo a prepararci per andare a cena dalle suore della scuola. Dopo cena si balla insieme, Alice fa un piccolo spettacolo poi andiamo a dormire con il pensiero che domani dobbiamo sistemare la macchina. La mattina dopo scopriamo che il meccanico ci ha preso in giro e i pezzi non sono mai arrivati e dice che li farà arrivare in due ore. Stanchi di essere presi in giro ce ne andiamo. Qualcuno ci indica un garage serio che ha sempre i pezzi a disposizione. Andiamo li. Ci prende subito il panico perché c’è pieno di prigionieri che lavorano nei campi. Mettiamo via ogni telefono e apparecchio fotografico se ci arrestassero di nuovo adesso non ci salverebbe nessuno. Il garagista è serio ed elegante. In trenta minuti ci sistema la macchina. Il tempo di andare al carcere li vicino a comprare qualche oggetto di artigianato con la massima cautela. Qui il carcere è più curato dell’altro e tutti sembrano essere più sereni e tranquilli. Non ci sono cattivi odori all’interno e dal muro di cinta, qui molto più basso, si sentono le preghiere dei detenuti. In questo carcere ci sono 5969 detenuti di cui 2075 per reati di genocidio. 646 sono le donne. Mentre si andava all’ufficio amministrativo per pagare abbiamo sbirciato in quello del direttore dove erano riportate le informazioni. Una parte dei detenuti, quella di coloro che hanno studiato o hanno un mestiere viene impiegata nei laboratori di artigianato o di falegnameria o nell’officina del carcere. Godono della possibilità di svolgere lavori all’esterno sotto vigilanza armata e possono anche entrare in contatto con i visitatori del carcere.
Torniamo alla macchina e paghiamo. I pezzi qui costano la metà di quanto ci avevano detto nell’altro garage. Siamo contenti e la suora promette di ritornare li al bisogno. Ripartiamo quindi per Cyeza. Ogni tanto ci fermiamo a controllare la ruota ma è tutto a posto. Prima di salire a casa ci fermiamo in città a comprare un rubinetto. Arriviamo e subito il prete ci dice che dobbiamo pagare diverse cose. Usiamo tutti i soldi che abbiamo, compresi i nostri personali e rimaniamo poveri in canna. Chiediamo alla suora di andare nella capitale a ritirare un po’ di euro dal conto. La mattina dopo partiamo verso le 10 con il parroco che ci farà da autista in città. Appena partiti il parroco mi informa che la sera prima verso le sei hanno tirato una granata nel centro di Gitarama. Proprio dove noi tre ore prima avevamo parcheggiato la macchina per comprare il rubinetto. Sono morte due persone. La cosa ci colpisce molto tanto che in città ci sentiamo piuttosto a disagio. Il prete ci dice che sono gruppi legati all’opposizione al presidente, armati da un generale che si trova in Sudafrica. Cercano di seminare il panico e di riportare il paese nella tensione civile.
Torniamo stremati dal viaggio a Kigali. Il caldo era insopportabile. La capitale è il luogo più basso del paese e il più caldo. Ogni anno quando veniamo qui troviamo cose nuove, palazzi, quasi dei grattaceli, che spuntano come funghi. Strade nuove sistemate o in via di sistemazione. In città c’è molta pulizia e decoro. La Polizia punisce i venditori ambulanti e chi si reca in città vestito in modo inadeguato. Ma le strade dove si trovano i venditori all’ingrosso non sono cambiate e sono sempre piene di camion che caricano e scaricano cartoni di merci. Vi si cammina con l’auto a passo d’uomo tra due ali di folla. Fino a qualche tempo fa ai semafori o alle tante buche lungo la strada ,dovute alle granate durante la guerra quando gli automezzi dovevano rallentare c’era sempre qualche ragazzino che saliva sul cassone dei pick-up o infilava il braccio nei finestrini aperti per rubare qualcosa. Erano delle tecniche che si imparavano ad una specie di scuola per ladri. Una volta suor Carmen ne prese uno sul fatto e questo comincio ad implorare la suora di lasciarlo andare perché era solo al secondo anno di quella particolare scuola. Uno dei furti più ricorrenti era quella dei tappi della benzina. Sempre suor Carmen un giorno andò in uno di questi mercatini in città per comprare un tappo usato dopo che era stato rubato e trovo esattamente quello che gli era stato rubato due volte prima. Quanto si arrabbiò quella volta. Adesso i furti sono calati perché c’è più controllo per le strade. Poi finire in galera in Ruanda significa entrare in un tunnel senza uscita. Ultimamente ci sono anche i militari ad ogni incrocio nelle città. Forse che l’episodio della granata a Gitarama era già nell’aria da tempo.
Nessuno di noi ama venire in città. E soprattutto non amiamo frequentare luoghi da bianchi. Noi siamo degli “abasungu” un tantino anomali. Quando i bianchi di Kigali ci vedono ci guardano in modo strano perché siamo fuori dagli schemi. A noi piace andare in mezzo alla gente vivere come vive la maggioranza. Non ci piace distinguerci dai locali ed avere dei posti privilegiati dove stare con altri bianchi. Anzi io in particolare ho la tendenza a stare lontano dagli italiani quando li trovo all’estero. Per questo non mettiamo mai piede in certi locali come la pizzeria italiana. Ci intristisce parecchio vedere delle cariatidi di bianchi anziani accanto a belle ragazze rwandesi. Ci fa capire come sia brutta la certezza che tutto si può comprare. Quello che è successo in Italia negli ultimi mesi del governo Berlusconi è stato abbastanza triste e deprimente da farci cercare luoghi indenni da tutto ciò. Qui il governo si presenta in modo completamente diverso da come siamo abituati in Italia. Qui le leggi si rispettano o si finisce in galera, come abbiamo potuto constatare di persona.
Qui si cerca di combattere seriamente la corruzione e i ministri che fanno qualcosa di sconveniente si dimettono immediatamente. I locali pubblici devono avere l’accesso per i disabili e i locali di un certo livello devono avere anche i bagni adatti. Le borsette di plastica sono proibite già da diversi anni. Tutti portano il casco e se ti beccano senza cinture paghi 70 euro di multa. Molti bianchi pensano di venire qui e poter fare quello che vogliono, solo per il fatto di avere soldi ed essere bianchi. Ma non è così. Quando ci si reca in un paese straniero si dovrebbe avere l’umiltà di comprendere che si devono rispettare sempre le leggi e gli usi e costumi e che nessuno al mondo possiede la verità assoluta.
A Kigali tutto è sempre più moderno e ordinato, gran parte dei negozi sono in mano a cinesi e pakistani. Ricordo una volta andammo a cambiare i soldi in un negozio di frigoriferi e generi vari. Nel retrobottega c’era un pakistano di origini indiane. Aveva su uno scaffale un tempietto alla dea Kali. Era pieno di pezzi da 100 franchi offerti alla dea. E’ per questo che a Kigali si trova più facilmente un pacco di pregiato riso Basmati che un pacco di pasta. I cinesi hanno un supermercato di cineserie, T 2000, aperto in quell’anno. Oggi ho visto che stanno costruendo un grande centro commerciale sempre con quel nome. I cinesi qui costruiscono strade e fanno dighe e altro ma vogliono il mercato. Quasi tutto quindi è cinese e le cose diverse da quelle orientali costano assai di più.
I pakistani sono qui da prima dei cinesi, credo da sempre. Il loro spirito per il commercio li ha portati in tanti posti nel mondo. E si adattano meglio dei cinesi alla vita locale.
Gli italiani invece qui non hanno realizzato un gran che. C’è l’ex ambasciatore Costa che ha un negozio di macchine da ufficio e c’è una pizzeria gestita da un italiano. In passato c’è stato Astaldi che ha realizzato la strada da Gitarama a Kigali ma poi sono arrivati i cinesi. In genere qui gli italiani non hanno problemi perché, come mi disse una volta quella dell’ufficio immigrazione del nostro distretto, gli italiani non fanno politica. Non mettiamo il naso negli affari interni, anzi più di una volta qualche nostro politico ha incontrato il presidente. Questo atteggiamento nei nostri confronti ci ha permesso di lavorare serenamente a tutti i progetti per tanti anni. Abbiamo sempre cercato di non coinvolgere troppo le istituzioni locali per non suscitare un certo appetito nei confronti delle risorse che gestiamo ogni anno.
Le risorse che ogni anno ci vengono affidate vengono impiegate i vari progetti che però devono avere come obiettivo la promozione umana. Abbiamo sempre creduto che abituare le persone a ricevere qualcosa senza particolari meriti e fatiche sia il male più grosso che gli si possa fare. Abbiamo capito, dopo i primi cinque minuti in africa, che quello che facciamo non è scontato che sia bene. Certe volte alcune scelte provocano conflitti sia nelle famiglie che nella società. Fare questo tipo di cose richiede numerose riflessioni e acquisizione di esperienza prima di fare delle scelte. Nel nostro caso sono passati alcuni anni prima che prendessimo consapevolezza di poter proporre dei progetti. Prima si deve essere in grado di percepire i cambiamenti e le esigenze della gente. Per poterlo fare è necessario conoscere le persone andare a trovarli nella loro casa con la loro famiglia. Quando si propone un progetto si deve essere nelle condizioni di poterlo seguire per qualche anno. Certe volte è necessario sostenere economicamente alcune attività che non riescono magari a produrre profitti ma che danno tanti benefici in materiale umano. Molti organizzano le proprie attività come vere e proprie imprese commerciali. Con i poveri e con la gente che ha bisogno di aiuto non puoi fare calcoli o pensare ai profitti. C’è una fase in certe situazioni, specialmente dopo un conflitto o una catastrofe naturale, che devi dare a fondo perduto se vuoi che una comunità possa risollevarsi. Poi però è necessario trovare formule differenti in cui ognuno debba mettere in gioco qualcosa. Solo così le iniziative e i progetti possono continuare. Sono passati quindi anni. Il confronto a questo punto dona risultati evidenti e tangibili. Ci sono bambini che sono cresciuti ed hanno studiato grazie all’aiuto che noi abbiamo portato. Adesso ci sono decine di persone che lavorano a scuola o negli altri progetti e quindi decine di famiglie che stanno meglio, che si vestono meglio, che mandano i bambini a scuola, che costruiscono case più decenti. In questa situazione, su questa particolare collina l’intervento di solidarietà ha prodotto un beneficio diffuso. Non si sono generati favoritismi o posizioni di potere ma tutti hanno potuto elevare un pochino il loro livello di vita. Dopo quindici anni ho cominciato ad avvertire la consapevolezza da parte di alcuni della precarietà dell’aiuto che stanno ricevendo e da qui la preoccupazione di trovare alternative. Così stiamo spremendo le meningi per trovare attività che coinvolgano gruppi di persone e che generino reddito da destinare al futuro dei propri figli. Questo è positivo da un lato perché finalmente potranno lentamente provare a mettere i primi passi e lasciare la nostra mano, ma da un lato può essere negativo perché porterà inevitabilmente a porre il profitto come primo obiettivo.
Qualcosa sta nascendo. Per ora dobbiamo fare i conti con la mancanza di denaro. Tante famiglie non hanno ancora versato e noi abbiamo la possibilità di pagare solo il 50% delle quote delle adozioni. Ovviamente paghiamo tutte le adozioni ma con una quota dimezzata ciascuno. Sono tanti i ragazzi che hanno l’adozione che riescono bene all’esame o che sono stati ammessi all’università. I diplomati non si contano. C’è anche un ragazzo che è diventato medico, adesso è sposato con un figlio ed è diventato vicedirettore dell’ospedale di Nyanza, l’altro giorno ci è venuto a trovare. Ho conosciuto la sua moglie che una settimana prima si era laureata e suo figlio. Mi ha detto che quello che abbiamo fatto per lui è stato fondamentale e che lui non dimentica e che conserva ancora lo stetoscopio che io gli regalai quando doveva iniziare lo stage in ospedale. Un altro ha vinto una borsa di studio e vive e studia in Marocco. Una bimba ha risolto i suoi problemi agli occhi ed ora studia senza problemi. Poi c’è Jean de la Croix che abbiamo visto nascere. Sua madre era ragazza madre. Si chiamava Esperance. Era figlia di Maria, che aveva problemi di testa, dovuti forse a traumi durante la guerra. Comunque Maria era allontanata da tutti e viveva in una piccola casa che stava per cadere. Maria è stata la prima persona che abbiamo aiutato a Cyeza. Così abbiamo seguito la sua famiglia fino ad oggi. Tutti i litigi tra Esperance e sua madre. Uno di questi litigi portò Esperance ad ingerire veleno per topi. Quando qualcuno se ne accorse chiamò le suore che la portarono in ospedale ma non riuscirono a salvarla. Il litigio era stato a causa del figlio di quest’ultima avuto senza marito e a soli 16 anni. Così Jean de la Croix rimase solo con la nonna, credo che ricordi molto poco della madre. Il bimbo quindi venne preso in casa dalle suore ma la sera rientrava sempre dalla nonna. Era lui che voleva così. Così ogni anno abbiamo visto Jean diventare grande. Gli è stato dato il nome di Kwizera, che significa speranza, come il nome di sua madre. Jean è cresciuto assieme alle cose che abbiamo fatto. Prima erano piccole cose, stentavano a camminare e non erano in grado di comunicare un gran che, ma piano piano sono cresciute e diventate sempre più responsabili e speriamo in grado di superare gli esami come ha fatto Jean. E’ un ragazzo fragile di esile corporatura. Quando ha cominciato la scuola elementare ha subito manifestato scarsa volontà e scarsi risultati dovuti anche alla situazione familiare della nonna pazza. Qualche anno fa Suor Odette riuscì a far accettare Kwizera all’orfanotrofio voluto da Giovanni Paolo secondo quando venne qui in Rwanda nel 1987. Da allora ha cominciato ad ottenere sempre maggiori risultati fino ad arrivare tra i primi all’esame nazionale ed ottenere un posto alla scuola statale. Tuttavia la sua destinazione sarebbe stata Kigali. Le suore erano preoccupate perché è un ragazzo senza famiglia alle spalle ed avrebbe potuto perdersi e diventare “maibobo” ragazzo di strada. Così abbiamo passato due giorni a convincerlo che tornare all’orfanotrofio per fare le scuole medie sarebbe stato meglio per lui. Ci siamo riusciti promettendo di acquistargli una bici nuova, come quella dell’assistente sociale Erneste. Così lo abbiamo accompagnato, si è messo le cose che gli avevo dato io. Un paio di mocassini che secondo lui qui in Rwanda non si trovano e quindi ne va orgoglioso e una felpa leggera. Gli abbiamo comprato le scarpe da ginnastica e i quaderni. Era felice ed è salito in macchina. Siamo arrivati a Mbare alla Città di Nazaret, un orfanotrofio costruito su una collina dove Giovanni Paolo II celebrò la messa. All’entrata c’è una chiesa con il tetto a forma di cuore e a salire due schiere di casette dove abitano i bambini orfani a forma di M. All’interno ci sono strade asfaltate donate da Astaldi quando ha realizzato i lavori della strada che da Kigali porta a Gitarama. Quando siamo arrivati i bambini sono arrivati di corsa soprattutto per guardarci noi bianchi. Avevano le facce e gli sguardi tipici degli orfani e dei bambini di famiglie numerose, abbandonati a se stessi. La sofferenza ha dappertutto lo stesso sguardo. Comunque l’atmosfera era buona. I bambini erano curiosi ma tranquilli e piuttosto liberi. Probabilmente sono più curati rispetto ad altre realtà come questa perché qui i fondi arrivano dal Vaticano sempre per volontà del Papa scomparso. E’ per questo progetto che il nuovo Papa realizzò il calendario. Fuori dall’orfanotrofio le strade sono pessime e le situazioni di povertà sono molte. La zona è caratterizzata da piccoli agglomerati di famiglie ba-twa, i pigmei. Questa popolazione è tenuta lontana da tutti tanto da non essere stata coinvolta neanche nel genocidio del 1994. Vivono in modo differente dagli altri rwandesi. Non coltivano e sopravvivono grazie alla fabbricazione di vasi e pentole di ceramica che vengono cotti su fuochi davanti casa e quindi di scarsa resistenza. Difficilmente si riesce a trovare un progetto che funzioni con loro che non sia pura elemosina. E’ complicato entrare nel loro modo di vedere per cercare di modificarlo. Abbiamo fatto in passato tanti tentativi sino ad arrenderci alla pura distribuzione di risorse. Ci sono situazioni di povertà estrema anche nelle famiglie di altre etnie che non cambiano da un anno all’altro. La zona è vicino alla città e non si capisce come questa gente non riesca a trovare delle opportunità. Quando ci riusciamo mandiamo ragazzi a scuola sperando che in futuro questo dia i suoi frutti.
Lasciamo quindi Jean che inizierà la prima media domani e andiamo a prendere Anna per andare da Pete, un medico oculista belga che lavora presso l’ospedale di Kabgay e opera trenta persone al giorno. Si è offerto di visitarci, entrambe abbiamo qualche piccolo problema da controllare. Andiamo da lui anche se è già buio. Durante la strada per venire in città la ruota si è rotta di nuovo ed abbiamo dovuto farla sistemare di nuovo ad una stazione di benzina perdendo molto tempo. Arriviamo che lui è ancora li che ci aspetta e ci facciamo visitare. Anche la suora si aggrega e ne approfitta per un controllo. Pete è un ottimo oculista ed è molto disponibile. Con lui abbiamo iniziato a collaborare e gli abbiamo messo a disposizione la sala operatoria oculistica di Muhura che il dott. Lido a contribuito ad allestire. Viene ad operare li una volta al mese. Il Rwanda è un paese dove, grazie a Pete, anche i poveri possono essere curati agli occhi come in europa. La sua clinica di Kabgay è famosa in tutto il paese e li vengono da ogni parte. Così apprezziamo molto il fatto di averci aspettate fino a buio perché sappiamo quanto lavora ogni giorno. Per me non ci sono novità e la mia piccola lesione è ferma li, mentre Anna, che credeva di avere un bruscolino nell’occhio, in realtà ha una cisti che Pete opera seduta stante. Torniamo a casa e Anna si presenta con una benda vistosa dicendo candidamente “mi sono operata”. Dato che siamo uscite per pochi minuti la cosa suscita l’ilarità di tutti, soprattutto davanti all’aplomb di suo marito che le chiedeva cosa le fosse capitato. Aspettiamo Pete e ceniamo insieme. Dopo cena ce ne torniamo a casa con Luca e Alice che la mattina erano partiti con gli altri per andare a Kibeho.
Kibeho si trova nel sud del Rwanda tra la foresta di Nyungwe e il Burundi a circa 27 chilometri dalla strada principale. Li negli anni ottanta la Madonna è apparsa atre studentesse della locale scuola superiore.Una di loro vive ancora li, sorveglia le cose, ha una piccola stanzetta dove tiene qualche oggetto religioso che fino ad ora le ha dato di che vivere. Adesso, con l’aumento dei pellegrini che si recano al santuario penso che non dovrebbe avere problemi. E’ una donna di poche parole dai modi pacati e gentili. Vive molte ore della giornata pregando. Non è facile incontrarla. Io l’ho incontrata due volte. La prima volta che sono stata li era l’anno che sono andata da sola in Rwanda. Andai li con alcune suore. Arrivammo nella cappella dell’apparizione che altro non era che la vecchia stanza del dormitorio della scuola dove le tre veggenti si trovavano quando ebbero la prima apparizione, con l’aggiunta di un piccolo altare e qualche panca spartana. Ricordo che li ebbi uno dei tre momenti intensi di preghiera che ho avuto nella mia vita. Li in ginocchio sono rimasta un tempo indefinito, pregando e piangendo. Quando mi rialzai le suore non c’erano più, si erano stancate di aspettarmi. Fu un momento che riesco a definire difficilmente. Fu come poter stare più vicino a Dio per qualche lungo istante. Attraversavo un momento difficile della mia vita ed è stato un po’ come fermarsi un attimo, scaricare il grande sacco sulle spalle, mostrarlo a Dio e rimetterlo in collo e ripartire. Il poter mostrare a qualcuno quel sacco ti illude che quel qualcuno possa renderlo meno pesante. In quell’istante, come negli altri due che ho vissuto negli anni precedenti, ero leggera, libera dal peso di questo bagaglio che ogni giorno porto sulle spalle e che ogni giorno diventa sempre più pesante.
Adesso al posto di quella stanza c’è una elegante cappella con mattonelle di marmo su cui ci sono tappeti e cuscini. Sono tornata li con mia figlia dopo del tempo. La cappella era stata appena costruita. Incontrammo la veggente per strada e mia figlia ne rimase affascinata. Si sta perdendo il fascino originario in favore di una maggiore organizzazione e perché no, in favore della creazione di un certo benessere e di qualche posto di lavoro in più. La stanzetta della veggente che lei stessa ti viene ad aprire per permetterti di portare qualche ricordino è rimasta sempre la stessa. Quest’anno io non sono andata, ero stanca e non potevo affrontare un viaggio del genere.