Ruanda-Uganda, da Kigali al Kidepo
Siamo partiti da Kigali e costeggiando la rift valley albertina abbiamo raggiunto il remoto ed avventuroso parco del Kidepo ai confini con il Sudan, per tornare in seguito ad Entebbe sulle rive del lago Vittoria dopo esserci immersi nel Nilo. Unica prenotazione, peraltro obbligatoria, il gorilla trek ai monti Virunga, tutto il resto “free”. Viaggio non sempre facile ed a tratti anche piuttosto duro, ma intenso, remunerativo ed assolutamente consigliato.
Volo via Doha con l’ottima Qatar Airways ed atterraggio a Kigali nel pomeriggio.
La prima sorpresa è all’arrivo all’aeroporto di Kigali. All’uscita dello stesso una solerte guardia con aria molto seria ci indica il sacchetto di plastica del duty free e sentenzia un chiaro: “not allowed” e lo sequestra. In Ruanda i sacchetti di plastica sono proibiti, infatti non se ne trova uno in tutto il paese. Non male come lezione di civiltà per essere nel terzo mondo.
Alloggiamo allo Step Town Hotel, di media categoria, 60,00Usd a notte, molto buono, carino, pulito, in una strada sterrata e piena di buche a 10 minuti a piedi in salita, 5 al ritorno, dal centro e dal Mall, in effetti saranno non più di 6/700 metri ma sembra di essere in piena periferia. Cena ottima a 12.000,00 CFA. Tel (+250) 252 500 042/ 252 500 056 Mobile: (+250)(0)785005662
Kigali, più che una città è un grande villaggio desiderosa di uno sviluppo molto al di là da venire e, nonostante le strade sconnesse in terra battuta, come tutto il paese, è linda, pulita ed ordinata, non offre molto ma è piacevolmente fresca e tranquilla.
Non facciamo molto i turisti, essendo già metà pomeriggio ci prepariamo per i prossimi giorni. Sotto il Mall c’è un ben fornito centro commerciale dove ci riforniamo di tutto quello che servirà per il prosieguo del viaggio, scatolette, pasta, sale, olio, acqua, la bacinella di plastica, ma quante ne abbiamo regalate in giro per il mondo?, il detersivo e le spugnette. Si trovano anche le bombole del camping gas, quelle grosse con il filetto da mezzo pollice ma purtroppo non c’è il fornello, il nostro non è compatibile. Ci compriamo allora un braciere a carbonella, molto tipico ed usato da queste parti. I prezzi sono piuttosto elevati, il Ruanda non è un paese molto economico. Nell’edificio ci sono anche banche, cambiavalute ed i negozi più trend. A sera ci consegnano il catafalco, cioè la macchina, una robustissima quanto lenta e rigida come un comò Mazda levante 4WD.
La mattina seguente, caricata l’immonda quantità di masserizie sul mezzo, dopo un altra sosta non prevista per un ulteriore cambio di valuta, visti i prezzi della benzina ed in generale, si parte. Non facciamo un km che un poliziotto in piena sindrome da divisa ci fa un check up completo ai fatiscenti documenti, una serie di fotocopie sgualcite e semi illeggibili, fortunatamente è piuttosto veloce nell’espletare, si limita a redarguirci blandamente con sguardo pietoso ed in pochi minuti raggiungiamo il MAUSOLEO DEL GENOCIDIO.
La visita al museo di Kigali non posso dire sia stata la scoperta di qualcosa che non conoscevo ma nemmeno posso negare che mi abbia colpito molto.Il percorso, molto ben strutturato in una sequenza di sale che, con fotografie, articoli, audiovisivi, resoconti, racconti di chi ha vissuto quei momenti da ambo le parti, ha aperto una finestra sopra una realtà rivelatasi molto più articolata, interessante e significativa di ciò che immaginavo, tanto da spronarmi a documentarmi molto al ritorno. Nonostante la consapevolezza che se non avessi visitato prima il museo non avrei avuto le informazioni su cosa ricercare, il rammarico per essere arrivato li impreparato è grande, tornassi ora vedrei sicuramente con altri occhi.
Quello che segue non ha a che fare direttamente con il viaggio, è un sunto il più stretto possibile del materiale raccolto e letto riguardo al genocidio ruandese. Può essere tranquillamente saltato se non si è interessati o di umore giusto ma mi auguro stimoli e dia spunto incuriosendo chi s’accinga a recarsi nella regione dei laghi o solamente ami l’africa, a scoprire vicende storiche diverse, a sfatare certi luoghi comuni e, sopratutto, a scoprire realtà non poi così distanti dalle nostr, Consiglio comunque la lettura dell’articolo dalla radio al machete, link in basso.
Riallacciandomi alla prefazione, l’attenzione dei media occidentali dell’epoca riguardo al genocidio ruandese ha probabilmente posto in essere i più triti luoghi comuni nel riportare i fatti accaduti, presentandoli come uno dei tanti conflitti caotici ed endemici di cui l’africa è inevitabilmente afflitta, liquidandolo per lo più come un cruento scontro tribale fra differenti etnie. La realtà fu decisamente più complessa ed articolata e, per progettazione e caratteristiche, più simile a fatti analoghi avvenuti fuori dal continente.
Di “etnico” nel genocidio Ruandese c’è ben poco e aiuta nella comprensione l’antropologia . Le supposte diverse origini, bantù gli hutu e nilotici i tutsi, sono ancora oggi oggetto di discussione fra gli antropologi e la tesi più accreditata propende per una genesi comune. In ogni caso. attualmente, dopo secoli di miscelazione, essi sono morfologicamente indistinguibili per il 80% della popolazione, (94% secondo wikipedia) e condividono la stessa cultura, lingua e persino il dna.
Fino all’avvento del colonialismo, semplificando, essere hutu o tutsi era indicazione di uno stato socioeconomico, agricoltori i primi, allevatori i secondi, con gli hutu nel ruolo di subalterni ai più ricchi tutsi in una sorta di sistema feudale ed era possibile, qual’ora mutassero le condizioni, passare dall’una all’altra. Le cose cambiano con l’avvento dei tedeschi prima e dei belgi dopo, i quali di fatto, creano due veri e propri gruppi etnici su base classista, differenziandoli secondo i concetti razziali dell’epoca, scomodando persino il mito hamitico a giustificazione, ponendoli in forte contrasto fra loro, creando così le premesse di un conflitto mai manifestatosi in precedenza.
Con l’indipendenza lo scontro è immediato e vede l’instaurazione di un regime hutu che porterà ad una diaspora tutsi ed ad un continuo stato d’instabilità sfociato in almeno due vere e proprie guerre civili, una delle quali risolta grazie all’intervento diretto dei militari francesi.
Se il colonialismo ed i disagi socioeconomici da esso causati ne crearono le premesse la vera motivazione del genocidio fu politica, esso fu deliberatamente pianificato, organizzato e realizzato nei dettagli da una classe dirigente senza scrupoli, all’unico scopo di conquistare e mantenere il potere. Infatti la prima ondata di violenza si abbatté sugli hutu stessi, volta all’eliminazione fisica di avversari politici, non allineati o scomodi per poi riversarsi sui tutsi, antagonisti nella lotta per il potere.
La pace di Arusha del 93, la quale avrebbe dovuto porre fine alla guerra civile, l’invio dei caschi blu Onu ed il processo di democratizzazione e divisione dei poteri conseguente avrebbero privato la classe dirigente hutu della supremazia fino ad allora detenuta, cresce così l’estremismo hutu e vengono allora pianificati, da parte di una frangia reazionaria ma minoritaria, il colpo di stato e la pulizia etnica. Il supporto ideologico per attuare una soluzione finale di tali dimensioni, senza il quale non si sarebbero potute coalizzare le masse fu l’ ”Hutu Power”, movimento nato negli anni 50 con il “manifesto di BaHutu”, (http://www.dillinger.it/il-manifesto-bahutu-1957-lera-hutu-power-in-ruanda-53040.html), dichiarazione d’emancipazione redatta da un gruppo d’intellettuali estremisti con il patrocinio della chiesa cattolica e la collaborazione dei Padri Bianchi con probabili intenti socialdemocratici ma in realtà vero e proprio manifesto di divisione razziale, al quale padrini così prestigiosi forniscono autorevolezza e credibilità.
L’ideologia, fortemente intrisa di religione, in uno dei paesi più cristiani d’africa fu una leva propagandistica estremamente efficace grazie anche all’appoggio, mai messo in discussione, dato da parte delle gerarchie ecclesiastiche al regime dell’hutu power e vide la partecipazione attiva negli eccidi di un gran numero di religiosi. Molti dei quali ancora oggi, indisturbati, gestiscono parrocchie, ed altri, inclusi soggetti che si macchiarono di particolari atrocità e perciò sottoposti a mandato di cattura dell’Onu, trovarono rifugio all’estero, anche in Italia. Qualcuno scoperto ed identificato ebbe processo e condanna solo dopo una durissima battaglia legale per vincere le resistenze del Vaticano e degli stati ospitanti fino ad ottenerne l’estradizione.
http://www.corriere.it/esteri/08_marzo_12/condannato_padre_seromba_6f3e64f0-f060-11dc-a686-0003ba99c667.shtml .
Se le chiese hanno avuto un ruolo quanto meno ambiguo è giusto ricordare che un terzo del clero nel silenzio generale scompariva sotto i colpi di machete.
http://www.terrelibere.org/doc/la-chiesa-cattolica-e-le-guerre-dei-grandi-laghi
L’hutu power cresce con il tempo fino ad evolversi in partito politico oltranzista e xenofobo dal cui interno nascerà la milizia interhamwe, il braccio armato principale responsabile degli eccidi e dai cui vertici verrà ideato, pianificato e messo in atto il genocidio. Cresce grazie anche al sostegno della Francia il cui coinvolgimento andò ben oltre l’appoggio politico e vide, oltre all’intervento militare del ’93, un cospicuo finanziamento, armamento ed addestramento sia dei militari che delle milizie. L’interesse dei francesi a mantenere una zona francofona e di sfruttamento delle risorse è a tutt’oggi ancora molto vivo e l’instabilità del Congo è li a dimostrarlo.
Una analisi particolare va fatta riguardo al ruolo dei media senza i quali il genocidio non avrebbe potuto essere realizzato o per lo meno non avrebbe avuto le conseguenze che ebbe e che rende i fatti del Ruanda particolarmente significativi su come i mezzi d’informazione possano incidere sugli eventi. La macchina propagandistica, degna del più ispirato Goebels messa in atto, fu in grado di seminare, spargere incrementare e canalizzare il risentimento hutu fino a portarlo alle estreme conseguenze ed alla fine avere anche un ruolo attivo. Radio e giornali in 4 anni di mirata propaganda furono in grado di trasformare gente comune in spietati carnefici, contadini analfabeti in estremisti razzisti, raggiungendo anche le più remote località, con messaggi semplici, mirati, a volte solo vignette divertenti ma di facile comprensione ad una popolazione spesso analfabeta.. Non per nulla, il tribunale dell’Onu ha condannato i responsabili dei media al pari degli esecutori materiali creando un precedente importante. Vere e proprie liste d’eliminazione venivano trasmesse per radio corredate da informazioni logistiche ed istruzioni per le squadre della morte.
Fu un vero e proprio laboratorio moderno di controllo delle masse, il quale, pur dotato di mezzi di basso livello, fu efficiente e completo, dalla preparazione all’esecuzione.
Visitando la sala dedicata ai media del museo non è possibile non notare le analogie fra la retorica usata in Ruanda allora e quella utilizzata oggi in Italia e non solo, ovviamente, da parte di diverse forze politiche e sociali, costruita su luoghi comuni, slogan banali sostitutivi di qualsiasi concetto ed idealizzazione di un nemico verso il quale indirizzare l’attenzione della massa distogliendola dal proprio operato e responsabilità.
L’ultima sala del museo dedicata ai genocidi del passato, Harare, Shoà, Armenia, ecc, rende ancora più tangibile il senso d’inquietudine lasciato dalla precedente essendo ulteriormente evidente, al di là della posizione geografica, dell’ideologia, della religione o delle “etnie” coinvolte il denominatore che li accomuna Un denominatore che nasce da frustrazione e disagio, alimentato anche dall’incertezza e dalle difficoltà economiche ma composto principalmente da povertà di spirito, facilmente veicolabile fino ai suoi sbocchi naturali, l’intolleranza e la xenofobia, qui mi permetto una riflessione personale, verso i quali abbiamo una sola arma di difesa: la cultura, unico mezzo disponibile per sviluppare un senso critico. Come diceva il nostro ex ministro forse non riempirà la pancia ma potrebbe aiutare a salvare la vita.
Il bellissimo articolo”Dalla radio al machete”
Per saperne di più
http://www.google.it/url?sa=t&rct=j&q=&esrc=s&source=web&cd=8&ved=0CFMQFjAH&url=http%3A%2F%2Fwww.cepic-psicologia.it%2Findex.php%3Foption%3Dcom_rokdownloads%26view%3Dfile%26Itemid%3D39%26task%3Ddownload%26id%3D16&ei=IOtBUJb0MsKC4gSa4ICgBw&usg=AFQjCNGFV0HrF9J5rDw4VHpuO8xJS1YNVw
http://www.intermarx.com/ossinter/ruanda.html
http://www.politika.bz.it/pdf/Zanotti_Werner_tesi.pdf
All’esterno si trova il semplice sacrario dove riposano le spoglie di circa 250.000 persone ed il muro del ricordo con i nomi di migliaia di vittime. Non è una visita breve, necessita di almeno un paio d’ore. L’entrata è libera e gratuita.http://www.kigalimemorialcentre.org
Non abbiamo tempo per altre visite ed andare all’Hotel de Milles Collines solo per i fatti lì accaduti mi pare di cattivo gusto e sinceramente il primo approccio con il Ruanda già è stato una notevole badilata sui denti,oltretutto la giornata non è finita, proseguiamo quindi per Nyanze, 3 ore di strada asfaltata, buona ma piuttosto trafficata di mezzi pesanti.
A NYANZE visitiamo il palazzo del Re, grandi capanne circolari ed un edificio coloniale d’inizio secolo. 12.000,00 Cfa d’entrata, interessante ma nulla di indimenticabile.
Saltiamo Butare (Huye) ed il museo etnografico dove, se si ha tempo è possibile organizzare una esibizione di danza Intore, qui si presenta quello che viene giudicato il miglior corpo di ballo del paese. Penso valga la pena con tempo a disposizione.
A Butare prendiamo la strada per l’ovest e dopo non molto giungiamo a GIKONGORO, altro luogo che deve la sua fama agli eccidi perpetrati e dove nelle vicinanze si trova il particolare mausoleo di Murambi. Per raggiungerlo, attraverso una pessima strada molto sconnessa, è meglio chiedere in paese, non è facile da trovare essendo in posizione davvero infelice, qualche solerte ragazzino in bici vi accompagnerà volentieri. Qui in una scuola in costruzione e nella chiesa adiacente sono state ammassate ed uccise qualcosa come 25000 persone, gettate in seguito in fosse comuni.
Le vittime sono state riesumate ed ormai mummificate ricollocate all’interno degli edifici stessi ricostruiti. Sono quindi esposti in ogni stanzone decine e decine di corpi sui quali sono ben visibili gli effetti dei colpi di machete, delle bombe a mano o i fori dei proiettili. Uomini donne e molti bambini giacciono ammassati come se ne sono andati, stanza dopo stanza in un quadro sempre più agghiacciante. Non le guardiamo tutte, basta la visione di una fila. In un’altro edificio si trovano raccolti gli effetti personali, vestiti, scarpe, piccoli oggetti ed è fin troppo ovvio rimandare un pensiero a Dachau e simili.
La domanda che sorge spontanea è: ha senso, vale la pena andare? Personalmente rispondo di si. Gratuito, offerta libera. Non è permesso fare foto.
Video tratto dal sito associazione Bene-Ruanda, http://www.youtube.com/watch?feature=player_embedded&v=XU-JJaqg9lo#t=0s
Chiaramente mi auguro di non promuovere un turismo dell’orrore del genere Olindo e Rosa ma raccomando la visita.
Notevole primo giorno d’auto flagellazione.
Chiudiamo pagina e dedichiamoci al Ruanda odierno il quale non smentisce la sua fama del paese dalle mille colline. In effetti è tutto un saliscendi ed una successione di paesaggi rurali, patchwork di campi e terrazzamenti.
La onnipresente foschia ed il cielo coperto non permettono di fotografare al meglio e gustarsi appieno il panorama decisamente caratteristico ma è il clima di agosto e si prende quello che c’è.
La strada da Butare verso ovest è paesaggisticamente molto bella ma seppur asfaltata lenta e piena di buche a spigolo vivo, parecchio insidiose. Ai lati della via, un fiume di gente ci accompagna lungo il tragitto portando sulla testa, sulle biciclette, su malmessi carrettini ogni tipo di prodotto. Mandrie di buoi dalle corna lunghe bloccano la strada o l’attraversano per tuffarsi lungo scoscesi sentieri. Il tutto molto piacevole e folkloristico ma rende il procedere più lento e difficile. L’affollamento ai lati della via sarà una costante fra Ruanda e Uganda. Poi pian piano campi e frutteti si diradano per poi sparire, lasciando posto alle conifere prima ed alla selva vera e propria poi, simpatiche scimmie dalla faccia tonda fanno capolino spesso dal fogliame, saranno i cerchiopitechi? Chesimpatico umorista! Oltre ai soliti bastardissimi onnipresenti babbuini. Peccato che sia piuttosto tardi e la percorriamo tutta d’un fiato anche perché l’ingresso del parco di Nyungwe non è segnato di preciso da nessuna parte, né sulla mappa, né sul sito, quindi ignoriamo quanta strada effettiva ci sia, male che vada finiamo sul lago Kivu.
Lo raggiungiamo all’imbrunire, il visitor center è a poche centinaia di metri dalla strada principale con un cartello indicatore ben visibile, da Gikongoro ci vogliono un paio d’ore buone. Ci registriamo e paghiamo l’Uwinka camp 30,00 Usd a testa, furto et ladrocinio. Un ranger ci accompagna, attraverso un sentierino nella selva fino al posto tenda, cioè uno spiazzo fra gli alberi dotato di tavolo e superficie cementizia uso fuoco, a terra ovviamente è severamente vietato.
Fra i servizi dei rangers compresi nel prezzo ci sono l’aiuto, gradito, nel trasportare gli attrezzi e/o i bagagli e l’accensione del fuoco legna compresa, come se qui mancasse.
Nelle vicinanze c’è una spartana canteen che serve caffé e soft drinks,
Grande cena, primo duro colpo alla scorta d’alcolici, ringraziamento agli Dei per aver portato il sacco di piumino, siamo in quota e la temperatura è abbastanza fredda e notte in compagnia di una quantità di sibili, scricchiolii, fruscii, fischi, pigolii e gloglottii in un buio che più nero non si può.
NYUNGWE è una delle più interessanti foreste d’Africa e l’unico esempio di foresta primordiale ancora esistente, loro sostengono anche la più antica nonché una delle più importanti aree di biodiversità del mondo. Essendo una foresta di montagna si sviluppa su pendii scoscesi con alberi piuttosto alti non permettendo una buona visione d’insieme, risulta quindi, sicuramente interessante e suggestiva, ma alla fine un po’ deludente, ovunque si guardi foglie, liane, rami.
Qui organizzano vari treks, tutti accompagnati, tutti a pagamento.
Il giorno appresso optiamo per il famoso canopy trail, non avendo molto tempo a disposizione per un trek più lungo, 60,00usd a testa. Una struttura artificiale del tipo “ponte sospeso” unisce le cime degli alberi permettendo la visuale di Tarzan. Purtroppo non vale l’esoso prezzo, il “canopy” non offre particolari scorci “ad altezza albero”, sembra più una pacchianata attira turisti beoti, (infatti ci siamo andati), l’altezza e la vastità del fogliame permettono poco di osservare anche gli uccelli, si intravedono solo delle scimmie saltare in lontananza e nel contesto ci sta come il sale nel caffé. Sinceramente lo sconsiglio, meglio sicuramente con più tempo a disposizione un giro più lungo che permetta di farsi un’idea più ampia ed approfondita della foresta. Ci sono almeno una decina di diversi trek fra zone umide e cascate oltre al Chimps track.
E ripartiamo direzione Kibuye. A circa 30 min da Nyungwe, presso un ampio piazzale fangoso si svolta a destra per uno sterrato. Chiedere, nessuna indicazione ed a prima vista non sembra nemmeno una strada, non è così improbabile non vederla e passare oltre. La prima parte è in via di sistemazione, quindi un disastro. Dopo si guadagna tutta la nomea di pessima strada. Saliscendi anche ripidi, tornanti strettissimi, buche, voragini e per lunghi tratti un fondo roccioso e spigoloso che fa vibrare e saltellare l’auto e ci frullerà ben bene. Camion che procedono ad una velocità di 5/6 kmh; in totale 100km circa per 6 ore buone. Non è una guida particolarmente impegnativa ma faticosa e snervante. Ci viene anche il dubbio di aver fatto qualche deviazione e di averla allungata, il Gps umano ha i suoi limiti se non coadiuvato da carte vagamente precise ed un minimo particolareggiate. Di contro si attraversano piantagioni di thè, bananeti, frutteti, coltivazioni, boschi, villaggi dove i bambini scappano alla vista dei muzungu, scorci sul lago Kivu seppur pochi e la solita massa di gente che procede a piedi; una bellissima africa rurale, viva, verde e prorompente.
Incrociamo in un villaggio piuttosto grande, una distribuzione di aiuti umanitari dell’UNCHR, è il primo, non sarà l’ultimo. I camion sono piantati in mezzo alla strada e scaricano sacchi di non so cosa ma sicuramente commestibile, riusciamo a passare con non poche difficoltà in una marea di persone senza avere la possibilità di fermarci, cosa che avrei fatto volentieri.
Arriviamo a KYBUYE distrutti al far della sera e ci piazziamo all’Home Saint Jean, molto carino in stupenda posizione sul lago. homesaintjean@ymail.com Tel: 0252568526 – 10.000,00 Cfa circa 12,00 Euro. Si mangia anche bene, ovviamente pesce d’acqua dolce. Molto consigliato. A Kibuye non c’è molto da vedere e fare se non rilassarsi sulle rive scoscese del lago, se la temperatura lo permette si può fare il bagno essendo uno dei pochi specchi d’acqua dove è possibile, non c’è bilarzia qui, ed ammazzarsi di birre sulla veranda ciaccolando con turisti e locali.
Ripartiamo per Gysemi con giro più largo ma più comodo, evitando la litoranea che mi dicono anche peggiore della strada di ieri. Quindi est direzione Gitarama, a Mushubati nord per Ruhengeri e si finisce nella diretta Ruhengeri – Gitarama, 3 ore di buon asfalto, circa 160 km. Il tempo è pessimo, piove e c’è nebbia, svoltiamo diretti per Ruhengeri, Gysemi la saltiamo. In mezzo alle colline Kabanda, unico luogo dell’east afrika dove non c’è nessuno, ci fermiamo un attimo e l’auto non riparte più. Girando la chiave sul quadro non si accende nulla. Cosa si fa? Ovvio, si apre il cofano. Sembra cosa semplice, ma come si apre il cofano della Mazda Levante? Circa trenta minuti dopo, all’ora dei cazzotti, di leve, bottoni, pulsanti, meccanismi, comandi, dispositivi, o qualsivoglia congegno atto a sbloccare ed aprire il portello non c’è la minima traccia. Caso vuole che percuotendo a destra ed a manca scopro che, sbattendo la portiera con la dolcezza di un orobico leggermente incollerito, il quadro ogni tanto si accende. A forza di sbatacchiare becchiamo la congiuntura astrale giusta ed il motore si avvia. Ci piantiamo di nuovo a Bulinga, ridente cittadina dove ci fermiamo a far provviste. Qui si compie una delle situazioni africane più (in)consuete: l’assistenza spontanea compulsiva. Attirati come api dai fiori, diversi passanti non resistono a quell’uomo bianco che bestemmia e smanetta attorno al fuoristrada and give assistance. In breve c’è un manipolo di persone infilato in ogni pertugio che possa offrire un automobile, intenti allo studio dell’apertura del cofano anteriore Mazda. Un breve sit in decide all’unanimità di sterminare i giapponesi. All’improvviso un urlo rompe il silenzio: “I got it”!!! In un lato dell’interno del vano portaoggetti c’è un cavetto invisibile e tirandolo si sblocca la serratura. In un tripudio di folla si apre il cofano, Arcangeli con la lira svolazzano gioiosi, fuochi d’artificio, sento persino degli alleluja!, ed il sagace artefice della scoperta viene portato in trionfo ed eletto sindaco.
Un simpatico impiegato di banca fissa con una pinza il morsetto lento di una batteria ormai rassegnata al destino dei vinti. Mechanical is my hobby mi dice tutto sorridente. It’s my job penso ma non dico, mi pare che per oggi le figure siano sufficienti e gli offro un soft drink.
La tratta Kibuye-Gysemi è servita anche da un battello che, dalle testimonianze raccolte sembra essere molto carino offrendo scorci del lago impossibili da vedere da riva. Il lago è molto dirupato e frastagliato e se ne ha sempre una visione limitata, il battello mi sembra una ottima opzione.
Raggiungiamo quindi Kinigi ai VIRUNGA dove piazziamo la tenda alla Kinigi Guest House posizionata a due passi dal Park Headquarters, 6000,00 Cfa.
Simpaticamente il camp non è altro che il giardino dell’house stessa e fra una aiuola e l’altra scegliamo la palma piuttosto che il cactus. Abbastanza freddo anche qui..
Siamo gli unici campeggiatori, il che ci fa sentire un po’ dei morti di fame ma ci trattano bene lo stesso, i locali sono carini, c’è una sala lettura con un gran camino e sopratutto la posizione è strategica. Vivamente consigliata.
http://www.kariburwanda.com/directory/accommodation-in-rwanda/rwanda-guest-houses/kinigi-guest-house-ruhengeri-rwanda.html
kinigi2020@yahoo.fr
Di buon mattino armati di gorilla permits e scroccato il breakfast alla guest house siamo pronti per il trek.
Fuori dall’headquartes abbiamo l’occasione di vedere l’Intore dance persa a Butare. La danza è una parte importante del patrimonio culturale ruandese ed andare via senza averla vista mi sarebbe dispiaciuto.
Solito pubblico di turiste ad ammirare scolpiti addominali d’ebano tesi in sensuali ondeggiamenti di bacino, indubitabilmente il mio copilota è in prima fila.
Dopo il briefing ci viene assegnata la famiglia Hirwa, detto lucky, ma più che fortunato è un ragazzo sveglio essendosi creato un gruppo autonomo rubando gorillesse un po’ da tutti i concorrenti alfa senza mai affrontarli in combattimenti diretti. Gorilla atipico non si smentisce essendo padre di due gemelli, caso rarissimo fra questi quadrumani.
Percorriamo un breve tratto tra piccole comunità e campi coltivati dove il lavoro si svolge nelle più consuete modalità africane per inoltrarci in seguito nella selva attraversando un tratto di caratteristica foresta di bambù.
Siamo fortunati dopo circa 40 minuti di salita, nemmeno tanto ripida e neppure fangosa intravediamo repentinamente delle masse scure. Proviamo a seguirli nel tentativo di osservarli meglio. Praticamente comparsi dal nulla li intravediamo nella vegetazione fittissima, sbucano e scompaiono ed ogni tanto piovono dall’alto.
Sinceramente me li immaginavo più grossi, forse ho visto troppi film di King Kong, in ogni caso, dato come piegano piante e spezzano rami credo sia meglio non litigarci.
Finalmente si fermano un po’ e tranquillamente il capoclan consuma una frugale colazione senza curarsi dei turisti, scegliendo foglie e vegetali con grazia, competenza e notevole concentrazione mentre le femmine ed i piccoli sono più schivi.
Si muovono molto e noi li seguiamo nella speranza di una sosta in uno spazio un poco più aperto, in modo da poter scattare delle foto migliori. Sarà che ormai siamo compagnoni, il buon Hirwa decide di fermarsi proprio di fronte a me in splendida posizione. Imbraccio al volo la Nikon con il 180 F 2.8, un kilo e mezzo solo lui, più il resto da scarrozzarmi nella giungla, già immagino il premio per tanta fatica, quando il mattacchione parte a razzo nella mia direzione trotterellando a quattro mani, nemmeno l’avesse punto una vespa. Non faccio in tempo a scattare che ci stiamo guardando negli occhi e confesso che, a 20 cm dal naso, il Silverback è piuttosto grosso, quindi mi rimangio tutto quanto scritto in precedenza! Questione di una frazione di secondo in cui ripasso mentalmente tutte le raccomandazioni del ranger, non muovo un muscolo escluso quello cardiaco, allorché lui, dedicandomi l’interesse che potrebbe meritare un busto di Lele Mora nudo in bronzo massiccio a grandezza naturale, mi scarta e si siede a 20 cm dalla mia spalla destra, dedicandosi a chissà quale squisita pianta degna di tale corsa. Amico, Le assicuro che non Le volevo portare via la piantina, si figuri, ho già anche fatto colazione. Alzo lo sguardo ed incrocio i volti attoniti del resto del gruppo e gli occhi spalancati a gufo del ranger, il quale, giuro, era impallidito a color cappuccino. Ferma al mio fianco sinistro Anna aveva invece assunto una perfetta posizione da primate sottomesso, quasi in genuflessione, nemmeno fosse andata a ripetizioni direttamente da Diane Fossey. Confesso di aver avuto la tentazione d’abbracciare quel grosso, apparentemente innocuo, enorme peluche. Magari potevamo spulciarci un po’, tanto per rompere il ghiaccio, farci una birretta. Invece, il ranger vistosamente preoccupato mi fa capire a quasi impercettibili ma chiari gesti di allontanarmi lentamente cassandomi il tentativo di socializzazione. Non mi do pena più di tanto, mi muovo tranquillamente con la certezza di non destare nessun interesse come è giusto che sia. Dedichiamo il tempo restante ad osservarli e purtroppo ce ne andiamo allo scadere abbondante dell’ora permessa. A causa delle condizioni estreme ambientali non ho portato a casa fotografie particolarmente significative, ma l’emozione è stata notevole.
I rangers: due parole ed un ringraziamento per questi ragazzi che passano anni ad avvicinarsi ed abituare i primati alla presenza umana, dormendo, mangiando, vivendo con essi mesi lontano da casa, tanto da considerare il “loro” gruppo di gorilla come una propria famiglia ed a volte difendendola anche a costo della vita. In Congo sono numerose le vittime del bracconaggio e della guerriglia, si parla di una ventina di morti all’anno.
http://www.nationalgeographic.it/natura/2011/08/22/foto/il_piccolo_gorilla_salvato_dai_bracconieri-473373/1/
Veloce rientro e consegna degli attestati.
Non mi dilungo su quanto sia bello ed interessante, è già stato scritto tutto il possibile. Posso solo aggiungere che vale la pena nonostante il costo proibitivo, sono soldi ben spesi, sia per l’opportunità di osservare da vicino queste meravigliose creature, sia per mantenere alto l’interesse dei governi nella protezione della specie e dell’ambiente naturale e, si spera, ad assicurargli un futuro al momento non particolarmente roseo.
Il tempo bigio non ci stimola ad altri giri, abbiamo tempo e decidiamo di ripartire destinazione Uganda. Raggiungiamo Kisoro, pressappoco 45 km a nord, in circa due ore. Le pratiche di frontiera sono molto “afrikane” ma le espletiamo senza problemi e nemmeno ci schiantiamo passando alla guida a sinistra. Aver fatto il visto in anticipo ha molto facilitato le cose, lo consiglio assolutamente in caso di passaggio della frontiera via terra.
A Kisoro, dopo aver iniziato una impari lotta con il Bancomat locale, incontriamo Julius Wetala, fondatore del Mountain Gorilla coffee tour, associazione che promuove un turismo eco sostenibile, progetti di volontariato ed incontri con le comunità locali, http://mountaingoriillacoffeetours.shutterfly.com/ , ovviamente al suo negozio di ottimo caffè. Passiamo un po’ di tempo a chiaccherare ed in seguito incontriamo Richard, il quale ci ospiterà nella sua casa appena fuori città, nell’ambito del progetto di homestay. Gentilmente ci sbrigano anche le pratiche per il Batwa trail presso l’ufficio dell’Uwa in programma per l’indomani.
La casa di Richard è una bella recente costruzione, arredata con gusto, si trova a qualche km da Kisoro, in un villaggio chiamato Burere Village Chihe Parish, immersa nella campagna ugandese fra coltivazioni e frutteti in un contesto molto rurale e tranquillo. Siamo solo noi e ci godiamo questa full immersion nella realtà africana riducendo le “activities” e lasciando scorrere l’esistenza pigramente.
Conosciamo tutta la famiglia inclusa la fantastica mamma con l’immancabile Bibbia sotto braccio e solita leggerla seduta sotto il portico. Ci rimpinzano di thè e biscotti, preparano la doccia calda, non c’è acqua corrente ma non se ne sente affatto la mancanza, si fanno in quattro per farci sentire a nostro agio senza però essere mai invasivi, cosa che abbiamo apprezzato molto ed ha reso la permanenza particolarmente piacevole.
A forza di chiacchiere viene ora di cena e facciamo una bella allegra tavolata. La moglie di Richard è veramente un ottima cuoca e posso affermare che i due pasti consumati qui siano stati i migliori, autentici e genuini di tutta la vacanza. Uno stufato di pesce di lago, carne, fagioli, verdure, tutto in quantità, accompagnate dal posho, sorta di polenta bianca di farina di mais e da un’altra polentina di banane di cui non rammento il nome, una vera bontà alla quale penso d’aver fatto onore. Tutto preparato sui bracieri a carbonella o sulla legna.
Alla mattina di buon ora raggiungiamo il MGAHINGA NATIONAL PARK attraverso una strada molto sconnessa, dal fondo roccioso, decisamente lenta. Un’ora abbondante da Kisoro. Il piccolo parco, piuttosto isolato al confine con il Congo, copre un’area di foresta pluviale attigua ai Virunga, dominata dalla mole di tre vulcani spenti. Qui oltre a salire gli stessi, le attività principali sono il gorilla trek, 500,00Usd., il quale al momento non gode di particolare fama. E’ presente solo una famiglia abituata ai visitatori non molto collaborativa, sembra che tendano ad allontanarsi all’arrivo dei turisti. Ed il Golden Monkey trek, 50,00 Usd, più gettonato. IL Mgahinga è il luogo migliore per vedere queste rare e bellissime scimmie. Oltre naturalmente al BATWA TRAIL.
Appena all’esterno del cancello si trova un community camp, molto carino, con possibilità di alloggio, pasti e campeggio.
I Batwa: Meglio conosciuti come Twa e facenti parte della famiglia dei pigmei, loro sì etnia vera e propria, sono gli ancestrali abitanti delle foreste pluviali del centro est afrika. Rispetto ai Pigmei incontrati in Cameroun, assolutamente basici, privi di qualsiasi sovrastruttura, per loro assolutamente inutile, i Twa, avendo avuto più relazioni con altri gruppi etnici, hanno sviluppato un minimo di propria cultura distintiva e di organizzazione sia sociale che economica.
I Twa del Mghainga oggi vivono ai margini della foresta e della società in condizioni di estrema povertà. Con la scusa della protezione dei gorilla, in realtà per agevolarne lo sfruttamento commerciale, sono stati forzatamente allontanati dalla giungla con la quale sono simbiotici ed ora, come tutti i popoli interdipendenti dall’ambiente, San, aborigeni australiani, indios amazzonici, non sono in grado di adattarsi ad uno stile di vita per loro incomprensibile. Il risultato di questo vero e proprio sradicamento è uno stato di indigenza continua dove l’alcolismo la fa da padrone. Si parla di loro un coinvolgimento nelle mansioni del parco ma siamo allo stadio di progetto. A mio giudizio sarebbero un valore aggiunto.
Il Batwa trail è un modo per aiutarli a mantenere viva la loro cultura ed identità, un opportunità per tutti quelli che non possano o vogliano affrontare una spedizione nella giungla per conoscere uno stile di vita affascinante. Tutti i ricavati vanno alla comunità locale. http://www.thebatwatrail.com/ Ed è già un ottimo motivo per cui andare.
Il trail, circa 3 ore facili, è una recita ma decisamente ben fatta, mentre si cammina ai bordi della foresta vengono mostrate tecniche di caccia, di raccolta miele, posizionamento trappole, viene spiegato l’utilizzo di ogni sorta di pianta medicinale, ornamentale o commestibile in modo coinvolgente e molto simpatico. Ci si diverte a tirare con l’arco a delle sagome di animali intagliati nel legno. Il trek finisce in una grande grotta, antica corte del re, dove, al buio, un coro accoglie i turisti con un effetto armonico decisamente piacevole e carico d’atmosfera.
Al visitor center apriamo la “schissetta” lasciataci da Richard alla mattina come pranzo e dentro ci troviamo un succhino di frutta, l’ovetto sodo ed un dolcino, giuro che ci commuoviamo.
Lasciato il Magilla Gorilla N.P:, non paghi del trek e della frullata di ritorno ci concediamo una passeggiata fra nebbia e pioggerella fino al mitico lago Mutanda, molto carino a dispetto del nome.
Finiamo la giornata seduti sugli scalini nella, si fa per dire, piazzetta del villaggio scambiandoci sorrisi con le sciure intente ad attingere acqua con i loro bei bidoncini gialli dalla fonte ivi ubicata. Ma chi vende ‘sti bidoni in tutta l’Africa, mi chiedo.
Già ci eravamo adocchiati reciprocamente. Loro curiosi ma un po’ timorosi ci spiano, ridacchiano, ammiccano stando sempre bene in disparte. Io li guardo fissi con aria di sfida fino a che non resisto più. Fotocamera sull’occhio, quello buono, quindi non vedo un tubo, parto puntandone due dall’aria furba, i quali schizzano via urlando per tornare solo un paio d’ore dopo. Come gettare un sasso in un vespaio e si sviluppa la gazzarra a crescita esponenziale. Uno, due, dieci, tutto il villaggio! Vengo sommerso da una falange oplitica di mocciosi neri schiamazzanti fra le risate delle mamme e dei passanti. Non essendo mai cresciuto mi diverto proprio e qui ci vuole poco. La gara a rimpiattino dura fino a quando mi regge il fiato poi, ovviamente c’è il momento fotografia e visione collettiva della stessa ad uso ilare. La nikon ne uscirà decisamente provata e ricoperta di sostanze appicicaticce di composizione sconosciuta. Anna si dibatte in una selva di what’your name e where you from, nel senso che chi cerca un minimo di conversazione intelligente va da lei.
Ad un certo punto, nel kaos totale, cerco di organizzarli e farli giocare a bandiera ma ormai è buio pesto ed ora di cena così rientriamo nel portone. Per chiuderlo e respingere l’orda a darmi manforte deve intervenire Richard con qualche rinforzo e sarà una dura lotta.
Lasciamo la casa con malinconia dopo un’altra fantastica serata, siamo stati veramente bene. Richard è davvero un bravo ragazzo, cortese, colto, di compagnia e tutti in famiglia sono persone squisite.
Con il senno di poi mi fermerei più tempo a godermi la campagna ed i villaggi circostanti e sono molto dispiaciuto di non aver potuto visitare la scuola, al momento chiusa per le vacanze. Esperienza che consiglio vivamente a tutti.
Anche solo come alternativa ad un hotel l’homestay è assolutamente consigliato. Non c’è nessuna differenza rispetto ad BB ed in più si può consumare anche la cena, e che cena, offre la possibilità di condividere uno spaccato di vita africana in un ambiente assolutamente sicuro, pulito ed accogliente. Adatto a tutti, sia ai malati d’africa estrema che a coloro s’accostino per la prima volta al continente e vogliano fare un’esperienza diversa senza rinunciare al confort ed alle certezze.
Inoltre Julius organizza tour nei parchi del paese, gorilla e chimps trek inclusi, canoeing sui laghi e visite culturali presso villaggi e piantagioni locali in un contesto di rispetto dell’ambiente e delle comunità del luogo a prezzi onesti.
Pensione completa USD 40,00 la coppia. http://mountaingoriillacoffeetours.shutterfly.com/ +256777412288 – wetalaj@gmail.com
Di nuovo on the road. 50 km ben asfaltati con vista sul lago Bunyoni. Superato il villaggio di Rubanda dovrebbe esserci il bivio in direzione nord ovest. Non lo vediamo affatto e lo saltiamo a piè pari. Chiedendo, ci indicano uno sterrato praticamente impercettibile, quasi un tratturo. Lo imbocchiamo non senza patemi. La pista sale subito in quota fra boschi e vallette d’or, ma l’unica cosa che echeggia sono i nostri dubbi.
In effetti dopo 2 ore di tortuose salite e discese piene di sassi e buche non siamo ancora sicuri della via e ci troviamo in una zona decisamente remota e poco abitata.
Qualcuno incontriamo, l’inglese lo masticano poco ed alla domanda “Isasha?” o “Queen Elizabeth?” all’interlocutore si dipinge in volto un bel punto interrogativo, eppure dovremmo essere a meno di un centinaio di km, riflessione prettamente da occidentale. Iniziamo allora a chiedere prima di Rutenga situato a mezzavia e poi di Bulema, punto chiave per Isasha, unici paesi segnati sulla mappa lungo la strada. La risposta dopo lunghe meditazioni ogni volta la stessa: sempre dritto da qualsiasi parte tu arrivi. La bussola segna un incoraggiante nord ovest, se la direzione è giusta o finiamo in Congo o arriviamo al parco, alla terza ora non si torna indietro. Nel frattempo il paesaggio cambia, meno dirupato, incontriamo piccoli villaggi, coltivazioni, frutteti, persone. Le indicazioni? Ma sempre dritto, c’erano dubbi? Non so come, neppure con che giro ma dopo 5 ore di sterrato e sconquassamenti vari, senza incontrare nulla che non si possa definire con l’aggettivo rurale e “sviluppo” appare un termine senza alcun senso sbuchiamo in quella che sembra una metropoli, Bulema, ridente villaggio con persino un incrocio! Di fronte la discesa verso la piana della Rift Valley Albertina. Una birra non ce la toglie nessuno.
Note:
La mappa della ITMB non è affidabile al 100%
Le distanze non sono precise e le strade indicate abbastanza lineari possono essere decisamente tortuose.
I toponimi indicano non solo il villaggio ma tutta la zona circostante.
Raggiungiamo finalmente il south gate del QUEEN ELIZABETH N.P. settore ISASHA, 35 Usd per 24 ore più 25.000 Ugx l’auto. Abbiamo tempo per un game drive, 20 Usd, nella, vana, speranza di riuscire a vedere i leoni appollaiati sugli alberi, ne vedremo solo due nel bush piuttosto nascosti. Il settore di Isasha è sicuramente il più selvaggio del parco ma la vegetazione e l’erba, qui particolarmente alta e fitta, rendono complicati gli avvistamenti.
Se questa parte di parco non mi ha particolarmente esaltato, il campeggio è straordinario, il migliore del viaggio. E’ situato in uno spiazzo fra la foresta ed una delle infinite anse del fiume omonimo, 15.000 Ugx, molto basico, dotato solo di servizi essenziali, praticamente circondato da ippopotami, permette un’immersione nella natura veramente eccezionale.
L’Edt cita la possibilità di pasti ma noi non abbiamo visto nulla. Eventualmente c’è un resort, il Savannah Resort Hotel a 30 minuti d’auto più a sud (vedi guida). Non ci sono negozi, non c’è possibilità rifornimento. Lungo tutto il tragitto da noi effettuato, da Rubanda fino a Mweya non ci sono pompe di benzina, è bene tenerne conto.
Piantiamo la tenda sotto gli alberi a distanza di sicurezza dal fiume tenendo d’occhio gli ippo, i quali ogni tanto fanno capolino sbuffando. (S)Fortunatamente preferiscono la più sabbiosa e comoda ansa successiva per passeggiare ed addentrarsi nel bush, ma le tracce nel camp non lasciano dubbi riguardo alla loro frequentazione del sito, inoltre sentiamo chiari e forti i versi anche alle nostre spalle dietro la vegetazione nel bosco. Siamo totalmente soli, noi e la natura, cose per cui vale la pena vivere. Non c’è legna, così mi cimento con il charcoal cooker. Non è facile accendere la carbonella con la carta ma mi invento un sistema funzionale utilizzando le candele di cera, impennata d’autostima, fra accensione e cucina ci vuole il suo tempo ma siamo in africa e quel che ci vuole, ci vuole! Dopo ottima bush cena e svariati bushes cicchetti consumati trastullandoci nel programma della serata: indovina l’ippo! Dov’è e quant’è grosso, ricchi premi e cotillon, Anna esclama un ben noto grido: Gli occhietti!!! Quattro begl’occhi furtivi ci spiano dal sottobosco. Li illuminiamo, scappano e poco dopo tornano. Inizia una caccia all’ultimo frontalino. Una volta accertato di non aver a che fare con leoni o iene li seguo lungo un sentierino nella foresta, finchè uno dei due si blocca sopra un albero ipnotizzato dalla luce, rivelandosi un bellissimo esemplare di genetta dalla lunga coda a strisce.
Dopo una notte non particolarmente tranquilla a causa del numero di scalpiccii, versi, rumori, sibili, passi, grugniti, ipporutti ecc, ovviamente mi sono guardato bene di uscire dalla tenda e scoprire le cause di tale attività, veniamo svegliati all’alba dallo schiamazzo degli uccelli presenti in quantità, carini loro ma si svegliassero un po’ più tardi, e dicono la pace della natura.
Ci godiamo gli ippo alla fioca luce post alba finché non se ne rimangono immersi e tranquilli col innalzarsi della temperatura.
La strada per Mweya non ha particolari attrattive, 70 km di buon sterrato fra la boscaglia, nessuna vista sul lago Edward, qualche kob, facoceri e cornuti. E’ però la via delle farfalle. Per lunghi tratti se ne trovano in concentrazioni spettacolari.
Al nostro passaggio, ago 2012, ponti in ricostruzione e strada aperta con deviazioni e passaggio solo per 4wd o auto molto alte.
Raggiungiamo Katunguro ed imbocchiamo la strada per il second gate, la famosa CHANNEL ROAD zona di passo elefanti per la gioia di Anna, fino a MWEYAcentro principale del parco. Qui ci organizziamo al visitor center per i giorni seguenti. Abbiamo tempo per un game drive, altri 20$ e carichiamo una tostissima ranger, la quale ci promette un avvistamento di leoni. Infatti giriamo senza curarci di null’altro fino a che lei mi indica il bush fitto come direzione. Non me lofaccio ripetere e mi infilo nell’erba come una mietitrebbia, non vedo nulla ma mi diverto un mondo. E’ giustamente permesso farlo solo con un ranger a bordo altrimenti sono multe salate. Io guido alla cieca ma lei i leoni li ha visti per davvero ed infatti li troviamo spaparanzati nell’erba.
Gli rompiamo le scatole e se ne vanno subito. Qui gli animali sono decisamente più selvatici rispetto ai grandi parchi del Kenia o della Tanzania.
Dovendoci alzare presto l’indomani pernottiamo al Mweya hostel, Tel 0414-373050, 84,000 Ugx breakfast included, basico ma dignitoso, unica possibilità pernottamento a basso costo, gentilmente ci preparano thermos di caffé ed una colazione completa alla sera. Fa servizio bar ed il ristorante non è male. Le altre “canteen” indicate sull’edt sono in stato d’abbandono.
Molto prima dell’alba siamo per strada lungo la channel road, destinazione Kyambura Gorge. Non abbiamo prenotazione ed il trek è full ma la gentile fanciulla del visitor center ci ha assicurato che, recandoci in loco presto, prendono anche noi di sicuro.
Di notte ci sono più animali che di giorno ed i fari illuminano fuggevoli figure da un paio di tonnellate, ombre misteriose ed una massa sul ciglio intenzionata ad attraversare: inchiodo! A 20 cm dal finestrino un enorme ippopotamo mi guarda attonito. Nasce una discussione, andavi troppo forte, si ma tu non hai le luci e non rispettavi la precedenza, ma io sono protetto, chissenefrega io ti insacco e faccio prosciutti, è tardi e muore lì, la discussione non l’ippo. Illumino un’altra strana figura in movimento parallela a noi, è un leopardo con tanto di preda fra le fauci, lo seguiamo fino a che, tranquillo, si perde fra i cespugli. Bel game drive pure gratis.
Raggiungiamo il KYAMBURA GORGE con largo anticipo, ovviamente ci prendono, sorvolo sulle scuse inventate, la zona è molto carina, le prime luci dell’alba e la nebbiolina rendono il paesaggio caratteristico. Chimps track 50 Usd
Il Kyambura Gorge, est di Mweya, un’ora abbondante salvo soste, è una spaccatura nella savana scavata dal fiume, credo omonimo, entro la quale si è sviluppata una vera e propria foresta.
Un simpatico ranger ci accompagna ed iniziamo a scendere lungo un sentiero fino ad entrare in un vero e proprio eden. Intricata, primordiale, rigogliosa, sinceramente posso affermare che, fra tutte le foreste da noi visitate in giro per il globo, questa è in assoluto una delle più affascinanti.
Nonostante sia piacevole camminare nell’intrico lo scopo è trovare gli scimpanzè e, dopo una serie di su e giù, dietrofront e marameo, abbiamo successo. Qualcuno è in mezzo ad abnormi felci e piante non grasse, obese, altri sugli alberi. Non sono vicini, è buio, lo spazio minimo, la vegetazione fittissima ma qualche foto la scatto.Finito il tempo consentito continuiamo il giro fino al fiume logicamente pieno di ippo per poi tornare al punto di partenza.
Non è il luogo migliore per il chimps tracking, è però una foresta splendida e la visita è assolutamente consigliata. Il tutto porta via dalle 3 alle 4 ore, non è impegnativo o faticoso ma bisogna prestare attenzione a dove si mettono i piedi sopratutto quando ci si ferma. Le formiche sono terribilmente aggressive, un paio di ghette non è un ipotesi da scartare a priori, in alternativa il nastro da pacchi è una buona protezione.
Esiste un piccolo visitor center e probabilmente è possibile campeggiare, l’erba ed i bagni ci sono, la posizione è ottima.
Proseguiamo lungo la stessa strada ed in breve siamo alla MARAMAGAMBO FOREST. Sono pochi km ma siamo in un altro mondo, alberi d’alto fusto e sottobosco quasi inesistente. Proprio sui primi rami sono presenti dei simpatici cercopitechi ed i meravigliosi Colobi bianchi e neri, a mio parere i più bei primati visti dopo i gorilla. L’aria estremamente “umana” da vecchio barbuto li rende affascinanti, la lunga coda è scenografica, è però vederli balzare, quasi volare, a rendere la vista emozionante. Li abbiamo visti saltare d’albero in albero a distanze incredibili, ruotare usando la coda come perno, danzare eleganti fra i rami come ballerine classiche. Spettacolari.
Una oversize ranger ci accompagna per la Maramao forest, la quale dopo Kyamburu ci appare ben poca cosa, in realtà è atipica per caratteristiche ed ha la sua dignità.
Seguendo un odore pungente di guano, in 20 minuti, raggiungiamo la BAT CAVE altro spettacolo fuori dal comune. Più che una grotta è un macigno cavo, al cui interno dimorano circa 100,000, si avete letto bene, centomila pipistrelli. Il fragore generato dai loro stridii è quasi assordante, il calore e l’umidità percepiti sulla soglia dell’arco d’entrata impressionanti, l’odore nauseabondo ma sopportabile. Uno spettacolo eccezionale.
Appallottolato fra delle rocce vive, la guida lo chiama Kobra, quello che a me sembra essere un pitone. Penso non si sia mai mosso da li da quando è nato, a 20 cm ha colazione pranzo e cena per tutta la vita sua e dei sui discendenti.
All’interno è buio pesto, l’uso del flash è l’unica soluzione. Il giro in totale dura un’oretta e mezza e costa 15 Usd. All’entrata c’è un grande spiazzo e mi hanno confermato la possibilità di campeggio, meglio però Kyamburu.
Ad un km circa c’è il Jacana Safari Lodge, entriamo per vedere il lago Nyamusingiri, niente d’eccezionale.
Decidiamo di non rientrare nel parco e riprendere un 24 ore permit la mattina seguente, i costi son costi, così passiamo la fine della giornata a Katunguro a sotterrarci di birre, se non ricordo male siamo in ferie, ed acquistiamo 4 pesci del lago da un gruppo di sciure alla incredibile cifra di 5000 Ugx, meno di 5 Usd.
Andiamo ad accamparci al Simba Safari Camp, ww.ugandalodges.com/simba/index.php essendo ubicato a due passi dalla Crater Road. Lungo il tragitto passiamo per il monumento all’Equatore, il quale non si sottrae alla regola per cui è orrendo come tutti quelli edificati lungo il parallelo 0. Sostiamo ad irridere la massa di persone ferme a fotografarsi sotto la scritta “equator”. Ed appena soli facciamo lo stesso!
Simba: da Katunguro nord per Kasese, sosta foto, evidente bivio a sinistra, 1 km entrata a dx, ben indicato. Posto molto carino, con bungalow, dormitori, tende, una grande area comune, ristorante. Noi barboni campeggiamo, 5000 Ugx pp, bagni ottimi, docce calde.
I pesci cucinati alla brace sotto le stelle, ormai domino il “carcioal” sono ottimi, manca solo la bottiglia di bianco diamo allora fondo alla grappa!
La CRATER ROAD è un tour circolare a nord di Katwe in una zona così denominata per la presenza di una serie di crateri spenti al cui interno si sono formati dei laghi. La giornata è pessima e non permette di apprezzare appieno i colori, la presenza di una quantità mostruosa di mosche tsè tsè rende il tutto piuttosto deludente. E’ impossibile aprire i finestrini, impensabile scendere a fare foto. I pochi tentativi fruttano delle antipatiche beccate, si scatenano veri e propri safari all’interno dell’auto, l’ultima mi beccherà giorni dopo.
Dalla crater road ci dirigiamo al vicino polveroso villaggio di KATWE dove, nel lago salato omonimo formatosi in un cratere spento, viene estratto il sale a prezzo di sudore e fatica. Sulla via d’entrata si trova il visitor center, qui a prezzi modici si ingaggia una guida, la quale con molto entusiasmo vi accompagnerà. Non servirebbe ma è interessante e i ricavati vanno alla comunità ed al museo in allestimento.
L’arrivo di una serie di colorate scolaresche non rovina l’atmosfera, si limita ad incasinarla a dismisura, probabilmente ragazzi di città non molto diversi dai nostri, cioè semplici prolungamenti del telefonino. Fra le vasche d’estrazione del sale non c’è molto spazio, veniamo così inglobati in quella massa informe d’adolescenti destando una certa curiosità dalla quale in breve nasce un abbozzo di dialogo. What’s your name?, i prof trovano subito un gemebondo comune terreno d’intesa.
Da lì a poco veniamo investiti da tutto il bagaglio culturale disponibile in lingue estere e sottoposti alla stessa quantità e nella stessa modalità di foto ricordo a cui viene sottoposto il pupazzo di topolino a Disneyland. Per una volta siamo noi i soggetti/oggetti insoliti da portare a casa in jpeg e mostrare a parenti ed amici, non possiamo accontentarli tutti, sono troppi, fuggiamo indecorosamente. La visita delle saline merita.
Il rientro a Mweya avviene per la Main road, decisamente polverosa con qualche incontro interessante, la strada è usata dagli elefanti per ricoprirsi di polvere.
Siamo all’imbarcadero.
“Barca piccola o grande Sir”?
“Quella piccola”.
Saliamo, attraversiamo, raggiungiamo la sponda opposta e ci sbarcano subito. Breve attesa e ci reimbarcano tutti sul battello grande. Misteri d’africa.
Turisti
La fama del KAZINGA CHANNELL, hightlight del Queen Elisabeth è del tutto meritata. Il braccio d’acqua dolce lungo 32 km che unisce il lago George al lago Edward è un tripudio di vita ed osservare la fauna dalla parte dell’acqua offre una prospettiva insolita seppure un poco meno selvaggia. Gli elefanti la fanno da padrone ed i primi che incrociamo da soli valgono il prezzo del biglietto. Immersi completamente giocano felici usando le proboscidi come snorkel. E’ uno spettacolo incredibile e coinvolgente mai visto prima d’ora, nemmeno nell’Okavango.[
Non li disturbiamo più di tanto e seguiamo uno dei numerosi gruppi presenti sulle sponde alla ricerca di uno sbocco all’acqua non occupato dai bufali.
Navighiamo fra gli ippopotami, i quali saltano sbuffando infastiditi dalla nave o si limitano ad osservarci con occhio torvo.
Spesso in simbiosi con i più grandi mammiferi gli uccelli sono presenti in quantità nelle più varie e simpatiche forme. Non sono facili da riprendere dalla barca ma qualche esemplare di dimensioni più consistenti finisce nell’obiettivo. Non si sa dove guardare fra tanta abbondanza intanto i pachidermi si aprono un varco fino all’acqua, nel punto più scomodo possibile, presso una tranquilla spiaggetta fangosa occupata da una gran quantità d’uccelli acquatici ed altri bagnanti. L’idilliaca scena viene movimentata da due aquile pescatrici, una di esse decide di portare un po’ di scompiglio, non penso fosse un attacco, sembrava più a scopo intimidatorio, forse non gradiva la disposizione o il rumore. Si lancia in una spettacolare cabrata provocando un fuggi fuggi generale, sono pochi attimi di kaos totale poi torna la calma. Ovviamente i bufali non fanno una piega.
Si incontrano anche dei piccoli insediamenti di pescatori dove la gente convive tranquillamente con bufali ed elefanti. Oltre ai mammiferi incontriamo aironi, pellicani, cormorani e finalmente anche la star della zona: il coccodrillo del Nilo.
In verità ne vediamo molti nuotare o sulle sponde nascosti fra l’erba, la giornata, tanto per cambiare, con il cielo coperto da un sottile strato di nubi è però molto calda, forse non gradiscono e se ne stanno nascosti. Scatto una serie infinita di foto ad una coda pensando fosse la testa, nota per il ritorno: aggiornare gli occhiali.
Il giro in battello dura circa 2 ore, lo si prenota al visitor center di Mweya 25 Usd pp. Al Q.E. non c’è una enorme affluenza di turisti ma i posti sono limitati, noi abbiamo trovato a due giorni di distanza anche perché se non c’è un numero minimo di persone il barcone non parte. A bordo si possono acquistare bibite fresche a volontà. Il Mweya lodge ha una barca propria più piccola, alla quale, mi dicono, ci si può aggregare anche se non si è ospiti del lodge. Essendo di dimensioni e pescaggio più ridotti si avvicina maggiormente alle sponde ma non permette la vista dall’alto del barcone dell’Uwa, ai posteri l’ardua sentenza su quale sia la soluzione migliore.
Il Mweya lodge: è il proprietario dell’unico distributore presente in zona quindi applica una sua tariffa non conveniente. Effettua anche il servizio cambiavalute speculando anche su quello. E’ sicuramente molto bello, sofisticato, se la tira una cifra e personalmente l’avrei spianato con il napalm. La Temba canteen è chiusa ed abbandonata, altre opzioni per acquistare generi di prima necessità non ne abbiamo viste. oddisfatti andiamo a campeggiare al campground dell’uwa, circa 3km a est di Mweya centro (bella questa), 6 Usd, docce e bagni basici ma decorosi e puliti, legna a volontà. Due simpatiche fanciulle ne portano la quantità desiderata tagliata a puntino ed accendono il fuoco, all included. Stasera grande falò e più punti cottura per la cena.
A prima vista il camp appare un po’ desolato senza alberi e con il suolo duro e spinoso ma la posizione isolata, alta a ridosso del canale non è male. Non trovando un punto privo di aculei, maledetti materassini gonfiabili, montiamo la tenda nel gazebo, in mezzo all’africa dormiamo sul cemento, turisti della domenica!
Cerchiamo di non badare alle inquietanti presenze, sopratutto dopo aver saputo di essere in una zona di passo d’elefanti e che ultimamente la notte è stata spesso rilevata la presenza di un leone, quindi niente cibo in tenda o nelle vicinanze, nemmeno ci fosse bisogno di dirlo.
In effetti è un andirivieni di animaletti vari, fortunatamente tutti innocui, escluso un grosso e bell’ esemplare di qualchetipo di kob, il quale mi dicono assai incazzoso e facile alla carica, viste corna e ragguardevoli dimensioni esperienza possibilmente da evitare. Fa piacere però averlo vicino, si fa gli affaracci suoi e non disturba.
Nel tentativo di farmi del male, al tramonto per giunta, scendo a piedi da solo lungo un pessimo sterrato fino al bordo del canale. Non posso non dare l’ultimo saluto all’amico principale di questo viaggio: l’ippo, il quale puntualmente timbra il cartellino guardandomi come a dire: ci si vede per il caffè. Risalgo sano e salvo.
A metà percorso sono presenti delle piazzole per campeggiare di ottima erbetta ed un bagno, la posizione è stupenda ma bisogna portare tutto giù a piedi, la strada al momento in cui scrivo è impraticabile anche con il 4wd.
Infatti dopo una fantastica cena al Gazebo Lodge ce lo ritroviamo che gira per il campo ruttando a più non posso. Gli unici altri ospiti, due belgi, lo illuminano con una potente torcia, è di dimensioni realmente enormi ed apparendo bianco latte nelle tenebre assume un aspetto davvero sinistro. A notte fonda deve probabilmente aver dato un party con una serie di amici a giudicare dai rimbombi di pestoni, ma ormai non ci fa più né caldo né freddo.
La mattina seguente indugiamo a letto e saltiamo il game drive, si sta bene, il gazebo è meglio dell’Hilton, abbondanza di fuoco e caffè a volontà. Per conciliarmi bene con la giornata mi rileggo l’sms dell’amico Julius ricevuto il giorno precedente, il quale suona più o meno così: Non andate al Kibale NP c’è un’epidemia di ebola nel distretto! La gente muore! E’ su tutti i giornali e tv!
Non sono persona da intimidirsi facilmente ma questo è un brutto affare. In ogni caso siamo praticamente al confine del distretto, qui al Queen non sono preoccupati per nulla, decidiamo comunque di proseguire fino a Fort Portal, per noi punto di passaggio obbligato dovendo sostituire l’auto con una più adatta alle strade del nord. Una volta li vedremo di reperire informazioni e valutare la situazione.
Per ottime strade passando per Kasese raggiungiamo Fort Portal dove ci riforniamo di carburante e finalmente riusciamo a prelevare una buona somma alla Barclays bank, unica e consigliata banca che permette fino 500,000 scellini di prelievo con la visa e funziona quasi sempre.
Nemmeno qui sono molto preoccupati per l’ebola e, arriva un altro messaggio di Julius un po’ più rilassante. Sembra che l’epidemia sia circoscritta ad una zona ad est relativamente distante, ma si contano una 30ina di vittime, fra le quali un numero imprecisato a Kampala. Sul giornale foto di uomini in tute bianche simili a quelle degli astronauti e la raccomandazione di limitare i contatti umani, come se in questo paese fosse facile.
La strada per Kibale passa per piccoli centri dove ci fermiamo ad acquistare verdure fresche ed ottima frutta prodotte in loco. 30 km circa, un’ora.
Al visitor center dopo un: Ebola? No problem!, e ti pareva che questi si preoccupassero per una quisquilia come la febbre emorragica, prenotiamo il famoso chimps track per il pomeriggio del giorno successivo, ci rechiamo così a BIGODI, pochi km più avanti, al Wetland Sanctuary, paradiso, dicono, del birdwatching gestito dalla comunità locale. Qui scopro con dispiacere d’aver lasciato al camp, lo zainetto rosso quasi nuovo, aveva solo 30 anni, con la mucchina sulla fettuccia, compagno indistruttibile di una infinità d’avventure. Al mondo apparteneva ed al mondo è tornato. Dentro fortunatamente c’era solo il kway. Una guida ci accompagna nel giro, 15 Usd, di circa due ore. Già la giornata non era bella, senza kway logicamente si aprono le cateratte di Giove Pluvio e dal cielo veniamo investiti da una massa d’acqua, un vero temporale equatoriale. Il folto della foresta offre riparo ma in breve sono fradicio e la temperatura precipita di almeno 10 gradi. Tremo come una foglia quindi perfettamente inserito nel contesto me ne sto rannicchiato sotto le felci. Potrebbe essere anche un bel posto chiaramente non posso valutarlo . Di uccelli ne vediamo uno, bello per carità, ma poerello decisamente solitario ed una golden ciuffet monkey molto nascosta.
Ci sistemiamo al Primate Lodge & campsite a due passi dal Visitor center. Il lodge è bello ma il campo non è altro che uno spiazzo fra gli alberi piuttosto anonimo. Chiedono 8 usd, senza acqua e servizi nelle vicinanze e sono anche piuttosto antipatici, si rivelerà però molto tranquillo ed intimo.
La legna in giro non manca ma è fradicia ed accendere il fuoco sarà un impresa che mi vedrà vittorioso. Sempre più mitico! Autostima mode on!
Apoteosi! Riesco ad accendere un focherello e portare il caffè mattutino alla dolce metà. Nonostante i disagi mai le ho fatto mancare per tutta la vacanza un caffè caldo al risveglio, se non è amore questo!
Segnalo, qualche km prima del visitor center, anche il Chimps nest, posto in una bellissima posizione ai margini della foresta, offre diverse possibilità di sistemazione più o meno costose. Le piazzole del camp sono però piuttosto distanti dal parcheggio, piccole ed anguste, 5usd, .
Approfittiamo della mattinata libera a Fort Portal per fare rifornimenti vari, sopratutto alla Barkleys, prelevando tutto il possibile.
Abbiamo appuntamento con Moses, il factotum dell’agenzia, la Mazda non è idonea per le strade del nord ed a Kigali era l’unica scelta disponibile. A dire il vero il Kidepo all’inizio non era in programma ma l’appetito vien mangiando e con il passare dei giorni si trasforma nell’obiettivo del viaggio. Alla mia richiesta il Boss Kizito mi propone un cambio auto senza particolari problemi, a condizioni ottime, ci accordiamo per effettuarlo a Fort Portal, incrocio ideale fra il nostro tragitto e Kampala.
Ovviamente Moses, il quale, pora stéla, l’avevo tempestato di sms in modo che avesse ben chiaro il nostro vincolante orario del chimps track, ovvero le 14.00, ha il cellulare spento e non da notizie di sé per tutta la mattinata. Alle 11° 30 squilla il telefono quando già lo davo per disperso: Mr Claudio? A mezzogiorno sono lì, perfettamente in orario! Infatti tutto soddisfatto alle 12 spaccate arriva con famiglia al seguito. Li mortacci…. It’s Afrika, everithing’s gonna be all right! E’ un ragazzo timido ed educato e ci ha fatto una grossa cortesia quindi non lo sopprimo. Velocissimi convenevoli, buttiamo alla rinfusa, spesa, acqua, tende, articagli, nel toyotone, e ci rifiondiamo al Kibale dove giungiamo anche con un po’ di anticipo.
Pronti per il CHIMPS TRACK, 150,00 Usd a testa, non lo regalano, chiusi tutti i pertugi fra scarponi e pantaloni in assetto anti formica e si parte
Kibale è un altra bella foresta, intricata, con piccole colline e tratti paludosi, ci accompagna una tostissima ranger armata di tutto punto con la quale, sono sincero, non vorrei avere discussioni.
Dopo la fortuna con i gorilla è ovvio che il Fato chieda pegno.
Iniziamo a girare per la foresta seguendo le indicazioni via radio dei trackers, ogni tanto ci fermiamo in attesa di aggiornamenti. Contatto positivo, la guida ci indica la via: un muro di felci, rovi, alberi, vegetazione varia ed eventuale. Sfondiamo e la seguiamo aprendoci la strada come dei Gurka. Falso allarme, si torna indietro. Sono di là, forse. Piana ed acquitrini, salita, discesa, foresta fitta, ne troviamo qualcuno sopra gli alberi, siamo in uno spazio strettissimo, abbastanza pigiati, loro saltano di ramo in ramo ed in breve, nonostante i nostri sforzi nel tentativo di seguirli li perdiamo, risalita, ridiscesa. Pausa. Due ore buone andate, piuttosto insoddisfacenti.
Uno del gruppo viene attaccato dalle formiche e si esibisce in uno strip piuttosto concitato e comico. La nostra ranger non è una che molla e si riparte. E se per raggiungere l’obiettivo bisogna tagliare un po’ i tempi si prendono scorciatoie; e se per fare ciò si devono attraversare tratti di foresta praticamente vergine e terreni paludosi calpestati dagli elefanti, i quali hanno reso le aree fangose delle vere e proprie sabbie mobili, si passa lo stesso; e se qualche turista ci finisce dentro, me ed Anna inclusi, peggio per loro; e se io avessi pagato ben 150 $ per tutto ciò mi sentirei anche un po’ fesso.
A completare il tutto mancherebbe solo il colonnello Kurz.
Arriviamo sempre con quell’attimo di ritardo, si sono spostati ci dicono, e via ancora.
Alla terza ora abbondante il gruppo è stremato e dà segni di scoramento, persino Anna, la quale non è una che si arrende facilmente, manifesta l’intenzione di rientrare. Siamo sudati, bagnati, infangati, graffiati, pizzicati, muoversi su questo terreno è abbastanza faticoso ed ai chimps ormai nessuno crede più. Non esiste, un ultimo sforzo o vi sparo, stavolta li prendiamo. Signora si! Signora ranger signora!
Risalita, ridiscesa ecc. ecc., mi attardo un poco e resto indietro rispetto al gruppo quando, incuriosito da un rumore alle mie spalle mi volto. Il bastardo è lì che mi guarda con un aria
A metà fra il compassionevole ed il sussiegoso e sembra dirmi: Cercavi me per caso?
Ma tu sei consapevole che solo oggi sono stati spesi 1.200,00 dollari, che saranno più o meno la paga annuale di un tracker, che si sono mosse 14/15 persone in totale a fare una fatica boia solo per vedere la tua bella faccia di tolla?
Assolutamente si! Sono una scimmia io, mica un umano.
Tento di chiamare il gruppo urlando sottovoce così finalmente capisco il significato del vocabolo “ossimoro” e dicono che viaggiando non si impara, imbraccio la fotocamera ma lui se la svigna. Raggiunto il gruppo, con l’ausilio dei trackers troviamo finalmente la tribù, non ci concedono molto tempo ma riusciamo a gustarceli per bene.
Sfortuna vuole che nello spostarmi con la machina a tracolla, pronta per ogni evenienza, la levetta dell’esposimetro si fosse spostata accidentalmente a metà strada fra due tipi di misurazione con il risultato che tutte le foto saranno completamente nere con l’eccezione di due.
Obiettivo raggiunto e veloce rientro.
Dalle testimonianze raccolte generalmente trovare gli scimpanzé è meno problematico, la pioggia del giorno precedente a noi ha complicato un po’ le cose. L’ambiente ed il trek nella foresta da soli giustificherebbero lo sforzo.
Ne vengono effettuati due al giorno, mattina e pomeriggio, il più consigliato è il pomeridiano, non è una cattiva idea prenotarlo, i posti sono limitati e spesso sono appannaggio di gruppi organizzati. Noi comunque abbiamo trovato da un giorno per il successivo. E’ uno dei “da non perdere” dell’Uganda.
E’ sera, siamo in stato pietoso, ci concediamo una birra ristoratrice a Bigodi fra gli uccelli tessitori, per poi rientrare un po’ verso Fort Portal. Ci fermiamo al Chimpanze Forest , 10 km a nord vicino ai Park Headquarters, http://chimpanzeeforestguesthouse.com/ + 256772486415 in modo da prendere agevolmente la strada per i crater lake il giorno seguente. La guest house è molto carina, in bella posizione con vista sulle colline coperte da piantagioni di thé, noi ovviamente campeggiamo in giardino 8,00 Usd, sono gentilissimi, ci accendono la doccia a legna, ne approfittiamo per lavare scarpe e vestiti infangati. Siamo troppo sfatti ed approfittiamo dell’un po’ caro ma ottimo ed abbondante ristorante, cena 40Usd in due, dolce incluso. Molto consigliato.
Alla mattina m’intrufolo nella cucina del resort con la mia moka mendicando un fornello e faccio amicizia con i cuochi intenti a friggere uova e bacon, tutti molto divertiti dalla visita, penso che non gli sia mai capitato. This is italian coffe machine! Gli dico mostrandogli pimpante un oggetto caratteristico della mia etnia. Uno mi guarda come lo scimpanzè del giorno prima e tira fuori una moka da 12 . Thìs ìs a còffee màchine! (tutto accentato). Sveglio Anna con circa un litro di caffé caldo e lei mi giura amore eterno.
Partiamo non presto verso nord alla ricerca della strada diretta per il lake Nkuruba non volendo ripassare da Fort P. Pochi km a nord fra due abitazioni locali vediamo uno sterrato. Chiediamo indicazioni, ovviamente è giusto. Arriviamo in breve fino al LAGO NYABULIWA dove si trova il resort omonimo, carino ma nulla di particolare. Qui ci forniscono ulteriori indicazioni. Non so dove finiamo di preciso ma ad un certo punto, dopo che lo sterrato correndo fra piantagioni varie, si era trasformato in vera e propria pista, dissestata, sconnessa e strettissima ci troviamo in cima ad una collina, ci siamo persi. Qui proviamo a chiedere informazioni ad una ragazza ma scappa. Forse la mamma per farla stare buona la minacciava di chiamare l’uomo bianco, per fortuna incontriamo un passante solitario il quale ci indica, indovina un po’: sempre dritto. Riusciamo ad arrivare al NKURUBA in tempo doppio rispetto al “giro lungo”e mi riprometto di non prendere mai più scorciatoie.
L’accesso al lago passa attraverso la Lake Nkuruba Nature Reserve Community (0773266067) http://www.traveluganda.co.ug/lake-nkuruba/ , accomodation e camping gestiti dalla comunità locale ai quali si paga un piccolo obolo, 5000,00 Ugx per scendere sulla riva. E’ in meravigliosa posizione, con vista panoramica, circondato da alti alberi dove scimmie e uccelli di tutti i tipi volteggiano fra i rami. E’ un peccato non essersi fermati qui. In 5 minuti si scende nel cratere fino alle sponde del laghetto, uno specchio d’acqua color smeraldo incastonato fra la vegetazione. Molto bello.
La zona è colonizzata da una tribù di simpatici cercopitechi, ormai stanziali, con i quali ci si intrattiene volentieri a giocare, tramortisco Anna prima che dia fondo a tutte le scorte di pane.
Per raggiungere lago e la community la strada più comoda e veloce è la biforcazione posta a 10 km venendo da FP, non ricordo se nel villaggio di Haibale o Kibarama, in ogni caso è il bivio più vistoso e l’unico che possa definirsi tale. A dx per Nkuruba, a sx per Kibale NP.
Partiamo ulteriormente tardi per la tappa di spostamento verso le cascate del Nilo ed arriviamo ad Hoima, 200 km a nord, a pomeriggio inoltrato. E’ una città vivace ma non particolarmente attrattiva. Decidiamo di proseguire lungo la strada del lago Albert più scenica rispetto alla principale via Masindi consapevoli di non trovare molto per un eventuale pernottamento almeno fino a Butiaba, villaggio reso famoso da Hemingway, il quale fu ricoverato lì dopo essere stato raccolto da un battello del Nilo all’indomani del suo primo famoso schianto aereo.
Il bivio da Hoima per il lago è il secondo, strada più lunga ma migliore, 60 km circa.
La strada sterrata non è male e raggiungiamo il ciglio della Rift Valley Albertina quasi al tramonto,
Da qui, con una serie di strettissimi tornanti si scende parecchio e proporzionalmente alla discesa salgono la temperatura e l’umidità.
BUTIABA non ha nulla che testimoni un ricco passato coloniale, è un villaggio povero, polveroso, sonnolento dove l’ultimo bianco visto doveva proprio essere stato il caro Ernest.
Incredibile, in fondo al paese c’è pure un campeggio con tanto di spiaggia sabbiosa e palme. Sarebbe più corretto dire: si può piantare la tenda sulla sabbia fra i palmizi. C’è un caldo umido mostruoso ed una abnorme quantità d’insetti. Sono presenti persino degli ospiti, ugandesi in villeggiatura allegri e chiassosi. Con la gentilissima signora contrattiamo un bungalow, half price 50.000,00 Ugx inclusa colazione. Nell’insieme è un ottimo luogo per fermarsi dall’atmosfera particolare.
Torniamo in centro, si fa per dire, dove vendono della bellissima legna e vogliamo approfittarne per fare scorta. Il solo fermarsi e scendere è un avvenimento, l’accostarsi a visionare la quantità di mucchietti di ciocchi di varie misure, un vero e proprio evento. Al solo vederci le sciure s’ammazzano dal ridere. Inizio a contrattare in bergamasco stretto e ci intendiamo alla perfezione, i prezzi sono irrisori, ma mi diverto troppo, mi batto la testa, piango, vado via, torno, faccio un casino che la metà basta. Dopo un quarto d’ora c’è mezzo paese a godersi lo spettacolo. Ce ne andiamo con la macchina carica di legna.
Acquistiamo anche dell’acqua presso un negozietto. Molto gentilmente il bottegaio sceglie accuratamente il cartone di bottiglie di plastica, “questo è il migliore”. That’s Afrika!
Cucino fronte lago sterminando un paio di milioni di farfalline ed altrettante finiscono ad arricchire di proteine la pietanza. Mai viste in tale quantità.
Stranamente Anna se ne sta nei dintorni della riva con aria circospetta, in piena ora della zanzara la cosa è sospetta. Vado a controllare e ti trovo i pescatori appena rientrati dalla battuta intenti a fare il bagno nudi sul lungolago, a quel punto la mia autostima subisce un duro colpo.
Qualcosa di interessante? (inquisitorio)
Vedi tu…….(beata angelica)
Sai che roba! (un po’ stizzito)
Eeeeehhhh (sospirato)
Cosa ci troverai…? (Arrampico sui vetri)
Ehhhhh (come sopra)
Cosa avrà lui che io non ho (autogol)
(Sguardo cocktail: 30% commiserazione, 30% compatimento, 30% compassione, restante 10% indulgenza)
Che carini, se mi avvicino si vergognano e si immergono.
Soprassiedo sulla serie di triviali luoghi comuni di bassissimo livello seguenti.
Ceniamo tentando di difenderci come possibile dalle farfalline mentre il lago si illumina di una miriade di lampare, con un effetto molto caratteristico e romantico.
Alla mattina è ancora, se possibile, più umido e c’è una luce che definirei post atomica. Lego Anna ad una sedia, sul lungolago c’è il turno di notte a farsi toeletta.
Facciamo un giro in cerca dei battelli coloniali abbandonati ma non li troviamo o forse non esistono più. Sembra, non verificato, che un anziano di nome Abdul abbia ancora dei cimeli appartenuti ad Hemingway.
Proseguiamo nel rift fino al villaggio di Bulisa dove ci fermiamo ad una pompa di benzina. Mentre con il benzinaio tento invano di far passare il becco dell’erogatore , (saldato!!!!), nel bocchettone Anna si allontana seguendo una melodia lontana, nemmeno ci fosse il pifferaio di Hamelin. Rinunciato al pieno la seguo. Da una costruzione di legno piuttosto grezza coperta da un tetto di frasche proviene un canto. E’una chiesa cristiana, di che tipo lo ignoro tutt’ora.
Ovvio, deve aver seguito il richiamo del pentimento e vuole espiare i pensieri indecenti della sera prima. Entriamo. Ci sono delle panche, un artigianale leggio per i libri sacri, delle stuoie dove siedono dei bambini, una pianola, dei bonghi, un crocefisso. Un gruppo di donne al centro canta dei gospel. Non c’è molta gente, nessuno dice o fa nulla ma l’impatto della nostra entrata galleggia per un po’ nell’aria. I canti, molto coinvolgenti, proseguono per diversi minuti, nel frattempo la chiesa piano piano si riempie. Il pastore, un signore alto molto distinto, accenna un benvenuto poi interrompe la musica e parla ai presenti in un ottimo e comprensibile inglese. Ci aspettiamo una Messa ma sarà un qualcosa di diverso. Inizia un resoconto sullo stato economico della comunità, la costruzione di una non meglio identificata “warehouse”, le difficoltà della situazione economica per finire ad un vero e proprio inventario dei beni disponibili: qualche quintale di cereali, tot kg di pesce essiccato, un centinaio di lt di petrol, una decina di vacche, un po’ più capre, sacchi di sale ecc. Istruttivo.
Nel frattempo la chiesa è piena, famiglie, signore vestite a festa, giovani. Il pastore viene raggiunto da un collega albino. Uno parla penso in luganda non mi sembrava swahili e l’altro traduce in inglese. Non so se lo facciano per noi o sia una consuetudine.
Qualche inno ed il primo si avvicina ringraziandoci per esserci uniti, informandosi sulla nostra provenienza ecc, se volevamo dire due parole in seguito. Ci imbarazza un po’ ma rispondiamo di si. Seduti e composti si passa all’outing. A turno le persone si alzano e rivolgendosi alla platea rendono pubbliche speranze e desideri, fanno ammenda delle loro mancanze e chiedono perdono a chi hanno causato danno, il tutto accompagnato da lodi e dalla ferma volontà d’essere più devoti al Signore.
La platea accompagna con degli Alleluja, urla, fischi, God bless you, a seconda del gradimento e dell’importanza dell’enunciato. Nel frattempo cerco di ricordare qualcosa di catechismo e mi pento di non sintonizzarmi mai sulle frequenze di Radio Maria, ammetto la religione non è il mio forte; il pastore mi fissa truce, Qui vi voglio! Alzati ed enuncia! Ne esco alla grande con una metafora, in inglese e ciò già testimonia un intervento Divino a mio favore, parlando della differenza fra il tetto della chiesa di Bulisa e quello della mia in Italia, entrambi sotto un unico Grande Tetto che accomuna tutti, fratelli e sorelle, al di là della provenienza e delle differenze. This is my home, thank you, God bless you! Ovazione di alleluja!
Anna rimanda un pensiero al babbo a casa malato, telefonata il giorno prima, colpo di calore nella torrida estate italiana, in un luogo remoto e lontano, il dispiacere di non essere lì in quel momento ed invoca una benedizione ed una preghiera, suscitando mormorii commossi sopratutto dalle signore presenti e God bless him a volontà e preci a iosa!
Finito ciò l’assemblea esplode in una serie di gospel e spiritual trascinanti, un gruppetto di signore corre e salta in lungo ed in largo cantando, fra le quali una minuta di corporatura ma dotata di un’ugola potente, alla Aretha Franklin. Totalmente tarantolata, spara dei gorgheggi e degli acuti da fare invidia al solista dell’Harlem Gospel Choir. A fianco ho una matrona vestita in un bellissimo completo rosa shocking la quale, con tranquillità, si canta tutto armonizzato per terze, come fosse la cosa più naturale del mondo.
Le parole ricorrenti sia negli inni che nei gospel, mi restano impresse: Singin’ God, (‘cause) I’m alive. In ciò c’è l’essenza stessa dell’Africa, letterale: “Canto Dio perché sono vivo”, per esteso si potrebbe scrivere un trattato, partendo dal fatto che ogni giorno di vita in più in Africa è un giorno guadagnato, per arrivare al concetto, di difficile comprensione per un occidentale, che vivere è un regalo, a prescindere dal come, con cosa e perché.
Già le invocazioni e le preghiere sono introdotte da “I sing God”, non da prego Dio oppure ringrazio, invoco o altro; “Canto Dio”, trovo questa espressione meravigliosa, vera manifestazione di gioia, di solarità.
Dopo il momento di follia collettiva si esibiscono piccoli cori di tre, quattro persone di ogni età con canti e spiritual calorosamente applauditi da tutti fino a che l’atmosfera si fa seria, tutti seduti e muti, il pastore con aria torva intima: fuori i bambini, si parla di cose oscene!
L’albino inizia una infervorata predica, questo assicuro già rende l’ atmosfera quantomeno singolare, in stile telepredicatore americano, l’altro traduce in inglese.
Il diavolo, dovete sapere, per entrare nelle persone usa dei “gate”, sta a voi tenerli ben chiusi, più li aprite più correte pericoli! Non afferro tutto, anche perché più si procede nella predica più sale il tono e l’esaltazione, ma il diavolo che entra ed esce, entra ed esce dalla porta, ripetuto una dozzina di volte con ausilio di adeguata mimica mi è stato ben chiaro. Chiudo, se no la faccio troppo lunga, con una frase che reputo fantastica: “e si possono prendere spaventose malattie, l’aids, la gonorrea, i funghi, le piattole, e tante altre che io non conosco, ma esistono!” Si finisce con moniti sulla virilità persa, non meglio identificate protuberanze che marciscono e fiamme eterne per tutti.
Non sembra ma il tempo è volato, sono passate almeno 3 ore, si è fatto tardi. Rientriamo nella nostra cultura segnata dalle lancette e dalle “cose da fare”.
Ce ne andiamo dopo abbracci e strette di mano, scambio di mail, senza sapere, ancora oggi, se fosse domenica.
Arriviamo al MURCHINSON FALLS N.P. detto anche Kabarega in tempo per prendere il battello pomeridiano per le famosissime cascate. 35,00 Usd 24 ore nel parco e 25,00 Usd il tour.
Qui non mancano i coccodrilli e risalendo il fiume se ne vedono diversi.
Lottando contro la corrente il natante raggiunge il punto panoramico, una specie di isolotto al centro del fiume e si ancora su di un sassone che spunta in mezzo ai flutti.
L’etichetta prevede la discesa sul masso per fotografarsi con sfondo cascate. Sarà che già non mi ispirasse molto, sarà che un gruppo di giapponesi scatena un parapiglia per conquistare l’ambito surrogato di Iwo Jima, io ed Anna evitiamo e proviamo anche un certo imbarazzo, fortunatamente non ci sono italiani a litigare, questo per dire che i cafoni ci sono ovunque. Preferiamo ammirare le evoluzioni dei Colobi che, a torto, non si fila nessuno.
Una ottima opportunità da compiersi solo previo accordo con i rangers è farsi scaricare a riva e risalire con un trek di un paio d’ore scarse a Top of the falls. Ovviamente è necessario un mezzo per il ritorno a Paraa.
Tutto sommato il giro è piacevole ma non indimenticabile, le cascate sono più mitiche che spettacolari viste da questa prospettiva.
Al ritorno sulla terraferma scopriamo con disappunto di avere una gomma a terra, sgonfia come la mia voglia di sostituirla. Doveva capitare, capita sempre prima o poi, siamo in Africa. Ricerca attrezzi nei meandri del veicolo…..incredibboli ci sono tutti, compreso un crick rosso a bottiglia in Italia buono al massimo come fermaporta. Dove metti un tale articaglio per alzare un Land da 26 quintali abbondanti? Stendiamo un velo sul primo tentativo pietoso, dovuto. Anna, lei di queste cose meccaniche si preoccupa sempre un po’, mi chiede: “Come facciamo?” Semplice, le rispondo, gira attorno alla macchina con espressione attonita e preoccupata. Infatti, dopo pochi minuti, un paio di omini sono li a studiare dove posizionare il crick, ai quali se ne aggiungeranno altri tre o quattro sopra e sotto l’auto. Trovato un sito per il martinetto il problema è montare la ruota di scorta. Con la macchina parcheggiata su un terreno sconnesso non è possibile alzarla abbastanza da infilare la gomma gonfia. Seguono tentativi d’ispessoramento, con legni, pietre, materiale di fortuna, forza di braccia, niente. Quando le otto/dieci persone ormai coinvolte iniziavano a dare segni di scoramento, un omino sulla cinquantina con aria serafica esclama: “Needs another technology!” Non si può definire o commentare il Genio, nei rari casi in cui capita di trovarsi al Suo cospetto, si può solo renderGli omaggio.
Tranquillo, usando un improvvisato legno inizia a scavare il duro terreno quel tanto che basta per completare il lavoro. Questo fatto ha illuminato la mia vita. Ora, quando inizio a colpire violentemente un qualcosa che non vuole piegarsi al mio volere, vuoi col martello, vuoi con il piccone, quando do cazzotti al pc impallato, ecc. ecc. So che sto applicando tecnologie diversificate, è un approccio filosofico differente che porta ad una maggiore elevazione dell’Essere.
Offro soft drinks a tutti e ce ne andiamo dal riparatore, un tipo che non vi dico, il quale come tutti i meccanici prima si dichiara oberato di lavoro poi ci conferma il ritiro per la mattina presto dopo, ce la lancerà dal pick up la sera stessa nel campeggio assieme al chiodo da 10 cm trovato infilzato. Onesto: 30.000,00 Ugx li mortacci sua! Vincolati dal gommista ci fermiamo al Red Chili Rest Camp http://www.redchillihideaway.com/paraa.htm unica soluzione al di qua del fiume. Il camp è in uno spiazzo oltre l’unica strada a 4/500 mt dal bar e ristorante e dalle accomodation. Ci sono buoni servizi ma per l’acqua calda bisogna raggiungere le sistemazioni dall’altra parte della strada, con il buio non è il massimo, 5 Usd. Posto vivace e popolare, bungalows e bandas per dormire, in alternativa c’è solo il Paraa Lodge al di là del fiume.
Troviamo il gazebo già occupato da una famiglia di facoceri poco incline a dividerlo così ci piazziamo a distanza sull’erba, un bel fuoco e tempo di cucinare una pasta come si deve.
Ammazzacaffè in compagnia della musica degli Abba, sì proprio Mamma mia a manetta, proveniente dal furgoncino di un autista. Riaccompagniamo anche una turista anglosassone stinca come un paletto, la quale cercava i suoi compagni, dal suo gruppo 100 mt più in là.
Alla mattina siamo i primi al ferry. Il parco è praticamente diviso in due dal Nilo, l’unica opzione d’attraversamento è il traghetto, il quale fa solo 5/6 corse al giorno, risulta perciò vincolante per le visite. Non mi sono segnato il costo ma se non erro è attorno ai 20.000,00 Ugx. Qui il timetable, da verificare sul posto sempre: http://www.ugandawildlife.org/explore-our-parks/parks-by-name-a-z/murchison-falls-national-park/plan-your-trip/getting-around
Sulla sponda opposta c’è un ufficio dei ranger dove si paga per il game drive, soliti 20 Usd. Non c’è bisogno di prenotazione, alla mattina sono tutti pronti ad aspettare i turisti. Ne carichiamo una ma purtroppo stavolta incontriamo male, la nostra ranger è più interessata a messaggiare con il cellulare che a scovare leoni. Il giro classico nel nord ovest del parco fino al Nilo Alberto si svolge tutto su strade principali ed avremmo potuto farlo tranquillamente senza spendere 20 dollari. La zona è comunque molto bella, attraversa tratti di savana, fino ad arrivare in riva al fiume ed alle swamps, dove il programma dei rangers prevede una sosta, infatti siamo tutti lì. E’ una zona consigliatissima ai birdwatchers, ricca di pennuti interessanti. Ovviamente nel fiume i soliti ippo.
Nella ricca avifauna della zona abbiamo la fortuna d’incrociare due esemplari di una delle specie più belle che abbiamo avuto occasione di vedere: le Gru Coronate. Una eleganza veramente straordinaria.
Al rientro troviamo le giraffe di Rotschild, presenti solo in questa zona dell’Uganda, poche foto veloci, il maledetto traghetto non aspetta.
Scaricata la nostra guida con un sentito a mai più ritraghettiamo e raggiungiamo il campeggio a Top of the Falls, situato a circa un km dal omonimo sito ed a circa 10 di sterrato parallelo al Nilo da Paraa.
Preparato il campo, per una volta con calma, andiamo al belvedere sulle cascate, decisamente bello ed umido.
Cerchiamo qualcuno per il trek ma non c’è anima viva, ce ne andiamo da soli. Il sentiero passa prima nella vegetazione, in seguito scende con dei tratti anche ripidi ma senza difficoltà, è sempre ben visibile e facile da seguire. Stiamo per affrontare l’ultima rampa in discesa verso il fiume e ti incontriamo un gruppo accompagnato dai rangers. Che ci fate qui? Secondo te? Non avete la guida? Evidentemente no. Ma avete pagato il ticket? Perché si paga? (andata la quaglia) Dove state? Al camp! (sgamati pure lì). Mi tocca cacciargli i 20,00 Usd per due, sono cose che patisco, e convincerlo che siamo in grado di tornare da soli, non c’è voluto molto a dire il vero.
La vista dal view point del trek, è migliore rispetto a quella dal fiume, ci fermiamo a goderci la solitudine assoluta sdraiati sui sassi, volendo si potrebbe tornare a casa seguendo la corrente.
La risalita ci costa una sudata mitica, già è umido di sé, con il vapore delle cascate vi lascio immaginare.
Assolutamente consigliato.
Raggiunto il campo vediamo anche stavolta solo la nostra tenda, altra notte in solitaria. Il campeggio è uno spiazzo senza erba circondato come al solito da alberi ed arbusti, servizi basici, niente acqua, remoto e decisamente “wild”. Scendendo verso il fiume il pendio forma due gradoni, uno più alto ed uno quasi a livello acqua, piani e con della bella erbetta. Molto belli per campeggiare se si ha voglia di portare il materiale su e giù, a renderli meno attraenti c’è la presenza di qualche mosca tsé tsé. Scendiamo fino al Nilo a fare il bagno. Vuoi mettere la soddisfazione di bagnarsi nudi nel fiume più famoso del mondo totalmente soli? Cose per cui vale la pena vivere pur stando attaccati alla riva, data la corrente il rischio di ritrovarsi ad Assuan in men che non si dica è reale. Qui non ci sono coccodrilli, almeno credo, ma l’amico ippo ci guarda nel bel mezzo della corrente.
Bush cousine a base di ragù di carne di pollo in scatola, avrei gradito, dato il momento, 12 ostriche ma non si può avere tutto dalla vita.
Il nuovo giorno ci accoglie con la pioggia, decidiamo di proseguire ma perdiamo il primo traghetto. Passati con quello delle 11,00 attraversiamo la parte nord del parco senza particolari avvistamenti se non una mandria di bufali ferma in coda.
Fino al bivio, una 50ina di km prima di Gulu ottimo asfalto, poi sterrato pieno buche piuttosto antipatico. Arrivati in città, birra e sosta ristoratrice, un po’ di spesa e proseguiamo verso Kitgum con l’intenzione di pernottare lì e raggiungere il Kidepo la mattina successiva di buon ora. Illusione.
Percorsi 15 km un botto e la macchina sbanda. Mi fermo, è scoppiata una gomma, esattamente quella sostituita. Non mi arrabbio nemmeno, mi limito solo a guardarla quando si ferma un furgoncino e ne esce un signore sulla 40ina, distinto, una somiglianza con Denzel Washinton, il quale in ottimo inglese mi chiede: -Need assistance?- No thanks, just a flat tyre. -Do you have lift?- Of course…not very good, -Mine is ok-. Esce dal furgone, tira fuori un crick gemello del mio, si butta sotto la macchina camicia bianca e tutto, alza la macchina, smonta la ruota, monta quella di scorta, la quale fra l’altro era pure semisgonfia, sì quella riparata a Paraa, si riprende i suoi attrezzi, ci consiglia “vivamente” di rientrare a Gulu, ci spiega dove andare a farla riparare e conclude con: Scusate, mi fermerei volentieri a fare quattro chiacchiere con voi ma ho un appuntamento a Kitgum e vado di fretta. Tanti saluti, stretta di mano. Salta sul furgone e sparisce in una nuvola di polvere. Ancora oggi mi chiedo se l’ho sognato. That’s Afrika.
A Gulu scopriamo che la gomma ha uno squarcio di 20 cm, irreparabile. Ricerca di un usato sicuro, ma l’unica cosa sicura che troviamo è che è molto usato. Raggiungiamo il baracchino vendita pneumatici.
Moses? Abbiamo un problema. Dobbiamo comprare uno pneumatico, ti avverto perché è ovvio che te lo trattengo dal saldo, sono 450,000,00 Ugx, (una follia), dell’usato ne vogliono 300mila ed è brutto. (bastardo, ne costava un quarto ma era veramente pessimo.)
A Kampala costano meno.
Immagino, ma io sono a Gulu.
Vieni a Kampala a prenderlo. ( A volte la logica afrikana fa sorridere dopo la voglia di omicidio.700 km andata ritorno due giorni).
In una mezzora e quattro porconi lo convinco, gli passo il gommista per un’altra mezzora di contrattazione. Chiudono a 425mila e altra serie di viaggi al bancomat per noi.
E’ sera, ci fermiamo all’Happy Nest Guest House, 35.000, 00 Ugx. Dignitosa e consigliata.
Forti di un battistrada dirompente ripartiamo la mattina dopo. A dire il vero era già da un po’ che l’auto mi sembrava rumorosa, ma nel momento in cui sembra un elicottero in decollo con contorno di lamiere che sbattono mi fermo. Abbiamo perso la marmitta! La lego meglio possibile e con fragore arriviamo in città. Il benzinaio meccanico, unico con la buca, ci mostra la rottura netta all’uscita del motore. Riparare subito, se non morite asfissiati rischiate d’incendiarvi e ci accompagna dal saldatore.
L’officina specializzata è a bordo strada nella via dei saldatori che sarà la nostra casa a Kitgum. Ispezione sotto l’auto, soliti sguardi che sottintendono: lavoraccio, difficile, guaio, invasione delle locuste, pioggia di fuoco, ovviamente Te lo posso fare. Quanto ci vorrà? Mezz’ora, 40 minuti.
Allo scadere della mezz’ora l’omino è comodamente seduto a fumare. Chiedo lumi. Reperimento bombola del gas. Ah! All’arrivo della stessa si infila sotto e scopro che salda direttamente con la fiamma usando elettrodi ripuliti come materiale a saldare. Ci sono almeno 70 lt di benzina nel serbatoio e tutte le nostre cose all’interno. Timidamente gli esterno l’ angustia. No problem! Perchè faccio certe domande? Dico comunque ad Anna di allontanarsi e mi piazzo nel centro della rotonda con l’auto in vista.
Si può dire tutto degli africani ma non che non siano abili riparatori, ci fa un lavoro con i controfiocchi per solo 75.000, Ugx, appena arrivo a casa aumento le tariffe, in circa 3 ore.
Forse ce la facciamo, il Kidepo dista da qui 139 km.
Percorriamo la prima parte veloci, la pista è a tratti fangosa con grosse pozzanghere ma nel complesso buona e mi chiedo se avessero un fondo di verità tutte le pessime notizie avute. Lo scopro presto. A metà percorso il fondo si trasforma in una pista di pattinaggio. L’argilla dura e bagnata in superficie ha la stessa tenuta del sapone. Inizia una serie di testa coda, è praticamente impossibile mantenere una direzione retta. La “carrozzabile”, fatta a schiena d’asino, è infossata sui due lati risalendo però dolcemente verso l’esterno dove il bush compatta tutto, in questo modo si è venuto a formare una specie di panettoncino paracolpi. Questo, se da un lato rende praticamente impossibile uscire fuori strada, regala gioie immense quando, senza scampo, si finisce dentro con le due ruote laterali. Notare che si scivola di lato addirittura da fermi e spessissimo è un fiume di fango. Percorriamo lunghi tratti con la ruota anteriore dentro ed il resto dell’auto di traverso, piegati in costa come si vede nei film, solo che la mia non era una scelta. La tecnica, ci metto un po’ ma ci arrivo, consiste nello sfruttare il terreno laterale sterzandoci contro senza paura con buona velocità utilizzando il rimbalzo per uscirne e riguadagnare il centro della via. Spesso si rimbalza e ci si infossa dalla parte opposta, il pericolo è esagerare e ribaltarsi, ipotesi assolutamente non remota con un fuoristrada alto. Anna si annichilisce, rimbalziamo a destra e sinistra come una palla da ping pong ed ogni tanto ci giriamo di 180 gradi. Ma procediamo. Alterniamo saponata a tratti di fango profondo dove, i due scavati solchi centrali, frutto del difficile passaggio di chissà quali mezzi, costituiscono un binario dal quale si esce solo in testa coda. A volte è talmente fondo che tocchiamo sotto.
Dopo qualche tratto migliore troviamo una salita, estremamente fangosa, con profondi solchi pieni di melma a testimoniare i problemi avuti da chi ci ha preceduto, ciliegina sulla torta, un camion di traverso al culmine occupante oltre metà della carreggiata. Dico ad Anna tieniti e chiudi gli occhi, chi si ferma è perduto. Retromarcia fino a che le ruote non trovano un terreno più ruvido, ridotte, blocco del differenziale e mi lancio. La macchina ha i cavalli e ruggisce, il volante è come non averlo ma ho preso il solco giusto, se ci fermassimo qui minimo scivoliamo indietro fino a Kitgum, sculettiamo come una ballerina del Crazy Horse, ci apriamo la strada come un motoscafo, non ci schiantiamo contro il camion e passiamo, poche centinaia di metri ma intensi. L’uscita è su sapone in piano, facciamo almeno un km di traverso per finire, come al solito, nel fosso. Raggiunto un fondo migliore ci fermiamo, Anna mi guarda serafica e dice: Mi scappa la pipì! I love you!
Ad oltre tre quarti di percorso c’è un altra trappola. Da sinistra si immette una strada, ampia curva a destra per noi, formando nell’intersecazione uno slargo piuttosto esteso. Un putiferio di fenditure piene di fanghiglia, una vera e propria palude dalla consistenza e profondità impossibili da verificare. Dentro a chiodo cercando di tagliare la curva all’interno, al centro non mi fido. Finiamo contro il bordo e perdiamo velocità, stavolta ci restiamo penso. Il ciglio è solo terreno in piano, è la pista che si è scavata sotto il livello del suolo formando una sorta di gradino sul quale è chimera salire, le ruote però mordono un filo di lato e ci muoviamo a centimetri. Per capire come siano girate apro il finestrino e guido con il busto fuori, anche perché il parabrezza è ormai ricoperto da uno strato di melma, vi lascio immaginare cosa mi arriva addosso ma è una mossa vincente. Punto i battistrada contro il bordo, do gas e inizio a scavare un pezzo di strada nuova erodendo ulteriormente il terreno. Sterrando la macchina procede e lentamente riusciamo a superare il punto critico della curva, un paio di centinaia di metri belli tosti! Nel rettilineo che segue usiamo anche i remi ed in qualche modo ne usciamo, un po’ infangati ma soddisfatti.
L’ultima parte di strada è decisamente migliore, a tratti anche buona, mi fermo persino a fare due foto.
Quando raggiungiamo l’entrata del parco con annesso ufficio rangers ci sembra di aver raggiunto Shangri La. Ce l’abbiamo fatta! Tempo di percorrenza 3 ore, neanche male per un Muzungu. 35,00 Usd a testa per 24 ore.
Il KIDEPO National Park non può vantare la quantità di fauna dei grandi parchi africani ma è una piccola valle dell’Eden, un tratto di savana punteggiata di acacie e kopye, chiusa fra due cordoni di montagne. Paesaggisticamente è una meraviglia, si respira veramente un aria leggera e frizzante da “out of the wordl”.
Dal cancello al campo ci sono ancora circa una 15/20 di km, non ricordo di preciso, appena prima della meta il rio Naluusi taglia la via. Il guado non pare essere problematico, dopo l’Islanda non mi spaventano più molto e mi ci infilo deciso senza ridotte. Mai rilassarsi, ci infossiamo nell’acqua per tutta l’altezza delle ruote e la corrente non è così modesta come appariva da riva. Perdiamo subito giri motore ma, con un po’ di fortuna e di prontezza di riflessi, dando gas a manetta usciamo anche da lì, ce lo dobbiamo conquistare fino all’ultimo questo benedetto Kidepo.
Nota all’Edt ed alle voci circolanti: Escluse le difficoltà oggettive per raggiungere il parco nella stagione delle piogge, ns estate, non sussistono pericoli lungo la strada Gulu, Kitgum, Kidepo. La situazione è più che tranquilla. Da questa parte i Karamojong sono, permettetemi il termine, “addomesticati” e, si spera a lungo, i ribelli solo un pessimo ricordo.
Raggiungiamo il villaggio centro parco. Qui l’atmosfera è molto rilassata, uffici basici, c’è una sala dove si può cucinare, acquistare qualche bibita, forse anche farsi preparare dei pasti. Oltre al Lodge, in bella posizione su di una collinetta vicina, ci sono dei bungalow e possibilità di campeggio. Noi chiediamo di accamparci presso un wild campsite, non ne abbiamo avuto ancora abbastanza.
Mentre ci strafoghiamo di meritatissime birre veniamo raggiunti da Sam, un ragazzone alto e robusto con fucile a tracolla, il quale sarà la nostra, obbligatoria, guida e guardia del corpo. Educato, colto, disponibile, un ragazzo d’oro, si farà in quattro senza mai chiedere nulla, nemmeno la tariffa del game drive o il pagamento del campsite.
Il campeggio è situato a qualche km dal villaggio su di un poggio a dominare la savana sottostante. La percezione di spazio è immensa, la sensazione di libertà intensa. Attorno, il bush è punteggiato da tranquille mandrie di bufali e kob, gruppi di elefanti di tanto in tanto attraversano la pianura, una atmosfera idilliaca guastata solo da qualche scroscio di pioggia.
Riusciamo a vedere uno dei pochi tramonti ugandesi, l’illusione dura poco, di notte si aprono le cateratte di Giove Pluvio.
Il sole mattutino lascia ben sperare, partiamo quindi per un game drive nel nord del parco dopo aver fotografato un paio di erbivori quasi direttamente dalla tenda.
Le piogge della notte hanno fatto il loro effetto, la pista, buona il giorno prima, è un ammasso di fango ed al fiume abbiamo la sorpresa.
Il potente veicolo del lodge giace bloccato in mezzo all’acqua. Il fiume Naluusi è pressoché raddoppiato e nella parte centrale il livello dell’acqua ha raggiunto i passeggeri sul cassone infradiciandoli tutti. Seguiamo le operazioni di soccorso fino a che la via è libera, uno alla volta tutti gli autisti presenti decidono di rinunciare all’attraversamento, noi li seguiamo a ruota con non poca preoccupazione, abbiamo qualche giorno cuscinetto ma non possiamo restare bloccati qui a lungo. Africanamente affrontiamo il problema al bar. Inshallah!
Non avendo nulla da fare, lasciamo il buon Sam in famiglia e ce ne torniamo al campo a goderci il silenzio, lo spazio ed il tempo lo occupiamo in faccende domestiche.
Al pomeriggio è vero e proprio diluvio, sul tardi ci spostiamo al villaggio per vedere se fosse possibile fare un giro serale in cerca dei famosi leoni e riprendere Sam, il quale non vuole sentire ragioni: di notte non potete stare senza protezione, ok capo! Arriva un gruppo con un autista sconvolto, molto di suo ed un po’ dalla situazione, il quale ci mostra il video girato dall’interno del land cruiser al guado del fiume dove l’acqua sommerge completamente l’auto. I got a big risk! Dalle facce dei tuoi clienti direi proprio di si.
Migliorato un po’ il meteo ci uniamo a due ragazzi, un infermiere cooperante italiano che simpaticamente ci illustrerà per filo e per segno come si muore d’ebola, e la sua ragazza portoghese, per un giro ai kopyes. Simpatici tutti e due, gli mando un caloroso saluto. Saremo fortunati uno splendido esemplare di maschio sonnecchia dominando la pianura.
Non distante ne troviamo un’altro in ottima posizione. Lui non gradisce molto il disturbo e ce lo fa capire.
Rientriamo molto soddisfatti mentre altri nuvoloni si addensano all’orizzonte. Come sarà il rio domani?
Ci svegliamo con un bel sole. Decidiamo di testare il fiume subito con il bello senza aspettare i temporali delle ore più calde. A malincuore significa che se la via è buona si attraversa e si va via. Chiediamo a Sam se ci può portare presso un villaggio Karamoja. Sono situati all’esterno del parco, oltre il cancello d’ingresso e, per non farci fare la strada due volte il nostro ranger si offre di tornare con un mototaxy che ovviamente gli spesiamo.
L’alternativa sarebbe attraversare la Karamojaland a est, non c’è guado ma strade pessime. La situazione Karamoja? Ovviamente no problem, ma se fossi in voi, un auto, due sole persone eviterei. Consiglio accettato.
Facciamo ancora un tentativo ai Kopyes per un eventuale leone, che troviamo ma si dilegua subito nel bush ed in breve siamo al fiume. Non è terribile come il giorno precedente ma ho imparato a rispettarlo, ridotte, blocco differenziale e traiettoria suggerita da Sam. Con l’acqua oltre il cofano ed a metà portiera, una buona dose d’apprensione e passiamo.
KARAMAJONG.
Questo popolo fiero e battagliero di ladri di bestiame vive ora in uno stato d’estrema indigenza. Da questa parte dell’Uganda sono molto tranquilli, disarmati, non costituiscono più un problema. Ci accolgono molto calorosamente e passiamo qualche ora in loro compagnia.
I Karamojong non sono etnicamente d’origine Bantu come la maggioranza degli ugandesi ma di ceppo nilotico, sono infatti strettamente imparentati con i Maasai con i quali condividono un certo retaggio culturale. Di questa affinità la danza a saltelli che ci improvvisano è una chiara testimonianza.
Lasciamo un discreto contributo per la costruzione di un posto di primo soccorso, inesistente nel raggio di km e salutiamo il nostro Sam con una lauta meritatissima mancia, questo per dire che non sempre sono la solita crosta, e ripartiamo direzione Kitgum più rilassati vista la buona prova dell’andata, la Kidepo road non ci spaventa più. Ultime parole famose.Dal gate, lungo la parte un poco più collinare il fondo è buono ma procedendo verso la pianura gli effetti delle piogge intense del giorno prima si fanno notare. Veri e propri allagamenti nel bush circostante sovente debordano lungo la pista formando enormi pozzanghere o piccoli laghi, quando il terreno cambia passando dalla terra all’argilla compatta iniziamo ad arrancare nel fango, oltretutto i passaggi del giorno prima hanno scavato vere e proprie fosse, solchi profondi dai quali spesso è impossibile uscire ed una volta incanalati all’ interno si viaggia come in un bob, raschiando a volte sotto la macchina con i rischi che ne conseguono. Dove il terreno è uniforme invece si scivola in modo incredibile. Procediamo lentissimi. Il lungo rettilineo verso l’innesto a ipsilon con l’altra pista è messo veramente male, i binari nascosti nel fango non permettono di valutare traiettorie ed all’incrocio troviamo un camion, di quelli adibiti al trasporto persone ammassate sul cassone, bloccato al centro di un vero e proprio lago di melma. Affronto il passaggio molto gagliardamente ma è come infilarsi nella colla, le ruote iniziano a slittare e non riusciamo ad uscire del tutto, inesorabilmente ci blocchiamo. Provo due manovre avanti indietro senza nessun esito. Come si dice in gergo: we got stuck! Scendo dall’auto e mi trovo in 30 cm abbondanti di poltiglia. La mia autostima precipita. La vedo dura, penso, ma già l’autista e gli occupanti del autocarro stanno arrivando a darmi una spinta, che culo, ripenso! In pochi minuti siamo fuori, mi fermo in sicurezza e vado a ricambiare il favore ma l’omino mi fa capire inequivocabilmente che ringrazia, tuttavia gradirebbe assai non avermi fra i marroni. Ringrazio a mia volta e mi allontano pensando a come, quando e se, un mezzo del genere possa arrivare a destinazione. Proseguiamo fra testa coda, quasi impantanamenti, infossamenti laterali, insomma tutti i numeri dell’andata moltiplicato per otto. A rilento avanziamo fino al rettilineo del secondo grosso intoppo, quello con autocarro di traverso per intenderci. Qui la situazione è veramente disastrata, sul terreno ci sono evidenti segni di tribolazioni, sembra ci sia stato un bombardamento. Il solco, nel quale già da un po’ ero infilato con le ruote, porta dritto verso il camioncino, provo saltare di lato sterzando ma si scivola e non è possibile cambiare direzione. Per passare devo assolutamente portarmi tutto sul lato sinistro della strada. Inizio così una serie di retromarce e tentativi di balzare a mancina lanciandomi sempre più veloce fra sobbalzi e scivolate. Prova e riprova alla fine la macchina parzialmente si gira, le ruote anteriori escono solo per infossarsi due solchi più a lato raggiungendo il notevole risultato di avere il mezzo in diagonale e non riuscire più a manovrare in retromarcia. Tento di raddrizzare in qualche modo cercando di fare basculare l’auto avanti ed indietro giocando con le marce, senza grande successo. Così facendo scivolo anche piano piano verso il camion fermo. C’è poco da fare, bisogna scavare. A mani nude tento di aprire un passaggio alle ruote, dopo vari tentativi in qualche modo ci riesco e ci giriamo fino ad essere completamente trasversali, ma anche sempre più pericolosamente vicini all’ostacolo, se lo tocchiamo siamo fatti, servirebbe l’autogru per muoverci. Ovviamente piove. Siamo al punto dove la pista inizia leggermente a discendere ed ad ogni slittamento delle ruote scivoliamo inesorabilmente sempre più vicini all’autocarro fermo. Stavolta ci siamo, la vedo veramente dura uscire dal guaio, il seguito è degno di Stanlio ed Ollio. Ai lati ci sono delle capanne e veniamo raggiunti da un omino anziano e qualche ragazzino, tutti molto divertiti dallo spettacolo. Scavo ancora, strappo una quantità di bush e lo posiziono sotto le ruote in modo che abbiano un minimo di presa, cerco di arginare lo scivolamento a valle con materiale di fortuna. Mi rimetto alla guida, con una serie di numeri, non so bene come, riesco a guadagnare un paio di metri ma mi trovo ormai ad uno solo dal camion. Scendo dall’auto e scivolo finendo in pieno nel fango suscitando l’ilarità dei presenti. Anna si incazza come una biscia e, stranamente per lei, gli caccia quattro urli. Questi capiscono che non è il caso e vengono pure a darci una mano, il gruppo nel frattempo si ingrossato.
A bordo strada il terreno sale con una gobbetta aprendosi su di un piano compatto ricoperto d’erba dal quale, una volta raggiunto, si potrebbe ridiscendere con un breve tratto fuoristrada a valle dell’ostacolo, evidenti tracce testimoniano l’utilizzo di questa soluzione da parte di qualche altro malcapitato. Visto che perpendicolari alla via non riusciremo mai più a riposizionarci, a meno di un intervento Divino, questa pare l’unica soluzione vagamente percorribile.
Inguaribile ottimista, non ci muoviamo di un millimetro e vorrei pure andare in salita superando un gradino, mi vedo già in tenda a bordo strada, cibo e acqua ne abbiamo.
Con l’aiuto dei locali scaviamo ed estirpiamo ulteriore bush cercando di aprire un passaggio al meglio possibile poi tutti dietro a spingere. Giocando di retro e marcia avanti faccio dondolare la macchina e raggiunto il massimo slancio ottenibile do gas avanti tutta alla disperata , se solo le ruote riuscissero a raggiungere il terreno erboso e fare presa siamo a cavallo. Con un sobbalzo mostruoso salto letteralmente contro il bordo, l’auto si impenna, vedo il cielo, resto un attimo fermo sentendo il motore che arranca, ce la fa mi dico, faccio due carezzine al volante, le prometto di lucidarla con il polish, invece inesorabilmente scivolo indietro, sento le ruote slittare, un gorgoglio e silenzio. Le ruote davanti hanno preso si l’erba ma il retro è sprofondato nel fango ed ora la toyota giace impennata ostruendo completamente il passaggio per chiunque. Siamo al disastro completo, sono completamente fradicio, gli scarponi pesano 4 kg l’uno, sono una maschera di fango, naturalmente piove, maledetto Allen! Se domani, perchè oggi dubito di vedere un qualsiasi mezzo, qualcuno vuole passare in qualche modo mi deve spostare, cerco il lato positivo, inizio comunque a guardarmi in giro per individuare un luogo acconcio a montare la tenda. No, non ci diamo per vinti. Chiedo ad uno dei ragazzini, ci vuole un po’ a capirsi, un attrezzo atto a scavare. Il fondo posteriore dell’auto tocca terra, l’unica soluzione è liberarlo dalla stessa. Mi arriva una specie di zappa proveniente direttamente dall’età del ferro e, con sconcerto, scopro che questa non penetra nell’argilla, la quale pare alla vista morbida ed elastica ma è terribilmente compatta. Non solo, una volta scavata a costo di sudore e sangue resta attaccata alla zappa come se fosse incollata, bisogna staccarla con le mani, sembra una comica per davvero. Scaviamo sotto l’auto, ai lati attorno alle ruote, sdraiati immersi nel fango tentando di andare più a fondo possibile, ma è una impresa improba, non c’è mezzo di muoversi, ogni tentativo è vano e peggiora la situazione. Sacrifico la legna di Bulima cercando di creare un appoggio, nulla da fare. Tentiamo anche di sollevare il più possibile l’auto con il crick e riempire sotto gli pneumatici con qualcosa che faccia presa, peggio che andar di notte: le ruote girano sempre a vuoto. Nel frattempo il gruppo si è ulteriormente ingrandito, la fortuna ha voluto che ci infossassimo vicino ad un villaggio, noi vediamo due capanne ma ce ne devono essere altre. Chiedo al vecchio se non ci fosse un aiuto un po’ più robusto oltre ai ragazzini, volonterosi si, ma 30 kg l’uno. Lui mi risponde di si, ma mica si lavora gratis. Il nonnetto! Ovviamente vista la situazione non discuto, è già piuttosto tardi e lo ammetto: siamo quasi disperati, ma non molliamo. Partono le staffette ed arrivano dei ragazzi un po’ più grandi accompagnati da un po’ di sciure, le quali hanno un’idea geniale. Scavano un canale di scolo, confesso la zappa in mano loro è un’altra cosa, verso la discesa, aprendolo in un nugolo di canaletti in modo da far defluire l’acqua ed il fango più morbido da dove c’è l’auto, ottenendo una vista migliore, meno poltiglia, ed un zona “lavoro” più remunerativa, una vera e propria bonifica. Con molte braccia scaviamo, riempiamo, compattiamo, scivolo e cado almeno una dozzina di volte, loro a piedi nudi sono molto più stabili, vorrei togliere gli scarponi ma è impossibile, mi guardo allo specchietto e sembro il Golem! Fa freddo ma non lo sento, non ho più unghie ed ogni tanto mi tolgo il fango dalle mutande, non verranno mai più pulite, nemmeno con la varechina. Dopo un tempo indeterminato riteniamo di essere pronti, ormai c’è almeno una trentina di persone compreso qualche adulto. Mi siedo alla guida, mi consulto con il vecchio, non capiamo reciprocamente una parola ma siamo d’accordo, poi tutti a spingere: ce la possiamo fare! Non ci posso credere ma un centimetro dopo l’altro, in una sorta di apnea, il fuoristrada si eleva fino a svettare quel mezzo metro sopra il livello del pantano! Festa, urli, hurrà, pacche sulle spalle, strette di mano e cotillon, diamo fondo alle scorte di biscotti, cracker e tutto quanto a portata di mano, mi ricordo di avere una macchina fotografica e scatto l’unica foto del disastro immortalando il simpatico e furbetto nonnetto, a priori mi sarebbe piaciuto avere un ricordo della toyota impennata ma nel marasma non mi era passata nemmeno nell’anticamera del cervello l’esistenza stessa della fotocamera.
Vorrei prendere ancora qualche foto ma siamo circondati da tutti, ovviamente vogliono la mancia. Non potendo discernere fra chi è arrivato a cose fatte e chi si è fatto in quattro decidiamo di remunerare il nonno complessivamente, il quale gode indubbiamente di una certa autorità, sicuramente è il più sveglio. Non è un’idea furba, avremmo dovuto appartarci ma siamo veramente stremati e non ci pensiamo. Alla vista dei soldi gli animi si eccitano e si crea una calca vociante. Anche con piacere distribuiamo un po’ di qua e di la, tuttavia siamo costretti ad allontanarci, non che temessimo per noi stessi, ma perché non si azzuffassero fra di loro. Le condizioni di vita da queste parti sono veramente dure, bisogna vedere per capire, siamo dispiaciuti dell’epilogo ma non giudichiamo male, sono stati meravigliosi. Scendiamo dalla discesa e raggiunta la pista per lo slancio scivoliamo di lato per almeno un km, finendo con un testa coda, ormai non li conto più, ciò che conta è che siamo in movimento, il sole sta calando e siamo si e no a metà strada.
Percorsi al massimo una decina di km troviamo un fuoristrada di traverso con le ruote anteriori nel consono fosso. Secondo ed unico veicolo incontrato oggi incluso l’autocarro impantanato. Ci fermiamo un paio di centinaia di mt più avanti, minimo spazio frenata per una velocità di circa 15/20 km all’ora e li raggiungo a piedi. Need assistance? Porca paletta sono italiani! Una cooperante ed una coppia di amici, si sono girati e non riescono più a muoversi. Mi riprometto subito di non lasciarli proseguire e gli spiego per bene a che distanza sono dal Kidepo ed a cosa vanno incontro, vista l’ora non mi pare proprio il caso. Non ci mettono molto a decidere di tornare verso Kitgum in carovana con noi, così possiamo cercare di muovere la loro land orientandola con il muso verso la città. L’inversione ad U qui non è prevista. Ormai ho fatto la mano al fosso e, con l’aiuto di quattro persone a spingere, un po’ di manovre ed imprecazioni, rimettiamo il fuoristrada al centro della pista. Sono contento di avere compagnia, in queste condizioni abbiamo consumato una quantità di carburante enorme, molto al di là della mia peggiore previsione e l’indicatore del livello è pericolosamente orientato verso il basso. Come se un pilota di formula uno dopo una entusiasmante gara finisse a secco poco prima del traguardo, sarebbe il colmo ci fermassimo così. La pista prosegue pessima, allagata e scivolosa ma dritta, fortunatamente senza particolari ostacoli. La ragazza al volante è un po’ insicura, probabilmente un po’ agitata dall’esperienza precedente, si bloccherà ancora una volta, ma nel complesso se la cava bene. Nel frattempo è sceso il buio a rendere ancora più difficile il tutto, per buona sorte non c’è un anima per strada, sarebbe quasi impossibile scansare dei pedoni, scuri, su fondo nero, nell’oscurità più assoluta, con un controllo della guida così precario, ci fermiamo anche spesso a pulire i fari ricoperti di fango. Ciò nonostante, lentamente, km dopo km guadagniamo terreno. All’accendersi della spia della riserva inizio a pregare. L’entrata nella buia Kitgum, non c’è luce elettrica in città, è una liberazione, nel serbatoio si e no un paio di lt. Cerchiamo un hotel cosa non facile nel cuore della notte ugandese, sono ben le nove, addirittura senza valutarne il costo. Lo troviamo solo facendoci accompagnare da un moto taxy. C’è la doccia calda? Si? Va bene! Nonostante il fango appiccicato in ogni dove mi tiri fastidiosamente la pelle, la prima sosta è al bar!
Questa birra ce la siamo proprio meritata, anche l’altra direi e pure quella dopo!
Hotel Fuglis, budget accomodation 100,00 Usd la stanza più breakfast. Anonimo ma confortevole.
Un saluto ai simpatici ed intraprendenti amici napoletani.
La mattina sveglia libera e riassestamento auto, lavaggio scarponi e resto. I calzettoni tento ecologicamente di bruciarli ma è impossibile, allora li seppellisco!
All’interno della toyota c’è fango ovunque, non vi dico nel lato guida e si sono staccate varie mascherine di plastica. All’inventario manca una freccia, qualche spoilerino, un paio di paraschizzi. Un fanale è completamente staccato, il bull bar si muove su e giù, la predella lato guidatore se ne sta mestamente in verticale, dulcis in fundo la marmitta è di nuovo rotta, e ti pareva! Dopo lavaggio a secchiate torniamo dal nostro amico saldatore, il quale già si stava fregando le mani. Nei 20 minuti suoi, due ore nostre di riparazione ci alterniamo io ed Anna per fare un po’ di spesa e qualche foto, c’è un po’ di mercato, un po’ più di movimento.
A Gulu e Kitgum non c’è molto da vedere, sono le città dove la guerra civile ha causato i danni, sopratutto umani, maggiori, ora con fatica si stanno riprendendo ed il futuro è visto con ottimismo. Qui sono presenti tutte le associazioni umanitarie esistenti al mondo, basta semplicemente fissare una strada per vedere passare un pick up con l’insegna dell’Onu o di MSF.
Personalmente avrei voluto andare alla missione di Padre Tarcisio Colombo, la quale dovrebbe trovarsi fra Gulu e Kitgum, le informazioni reperite riguardo all’esatta collocazione sono piuttosto vaghe. A noi il tempo, maledetto tempo occidentale, stringe e non possiamo dedicarci alla ricerca, sono sicuro che chiedendo in città non sarebbe stato difficile.
Padre Colombo si occupa del recupero dei bambini soldato ed ha collaborato con Luca Zingaretti nella realizzazione del documentario: Gulu, una guerra dimenticata, con il patrocinio dell’Amref.
E’ già pomeriggio quando lasciamo la città. Alla fine della fiera siamo in anticipo per tornare a Kampala ed in ritardo per poter andare verso la bella zona del monte Elgon e delle Sipa Falls così decidiamo di fermarci più o meno a metà strada al Ziwa Rihno Sanctuary.
Ripassiamo quindi per Gulu e da qui prendiamo la strada diretta per la capitale pensando procedere veloci, sbagliavamo. La strada, battutissima da enormi e lentissimi camion, è una specie di videogioco dove lo scopo è sopravivere e possibilmente non uccidere nessuno.
Facciamo una sosta appena dopo il ponte sul Nilo presso le Karuma falls, le quali in realtà sono rapide. Parcheggiamo a lato della strada nell’unico spazio possibile e andiamo sul ponte a fare due foto.
Tempo cinque minuti e siamo indietro. Troviamo due militari ad aspettarci con aria inquisitoria. Calma, dico ad Anna, questi cercano rogna. Infatti uno di essi inizia una filippica su come ci fossimo permessi di scendere e fotografare, chi siamo, dove, come e perchè. Con la mia migliore aria da scemo ribatto che sono un turista e quello faccio. Lui, per inciso, mi indica le mostrine, mi dice che è un militare scelto mica un poliziotto qualunque, che la vita è dura, deve fare il suo dovere, un tot di amenità in ordine sparso e sibila un chiaro: I have the gun, muovendo il fucile con la spalla, poi allunga una mano, give me your camera, afferrandola senza tanti complimenti! Ho capito dove vuole arrivare ma seguo la procedura nonostante il desiderio di cacciargli un cazzotto del modello torna a rifare la carta d’identità. Ovviamente in casi del genere non si discute mai ma farsi vedere troppo remissivi o insicuri non è altrettanto consigliabile. Bisogna essere decisi ed accomodanti così prendendola alla larga arriviamo a lasciarli una cinquantina di dollari ed una confezione d’acqua per poi allontanarci di corsa augurandogli una lunga vita di stitichezza. Sarà l’unica persona incontrata in Uganda di cui non avremo un buon ricordo.
I circa 100km che ci separano dal parco sono una specie di incubo. Con il buio è veramente difficile guidare, sopratutto per uno la cui vista non è il massimo della vita.
Come spesso accade in africa, viene posto uno strato di tarmac lasciando ai lati uno sterrato anche abbastanza ampio. Con il tempo esso si degrada e sgretola sui bordi formando crepe, buche e gradini i quali possono essere piuttosto alti e con i bordi taglienti. I camion a cui accennavo prima, veri mostri semoventi, o procedono a velocità minime o sono lanciati in maniera folle occupando il centro della carreggiata. Forti della loro mole e della prima regola di guida ugandese: il veicolo più grosso ha sempre ragione, quando ti incrociano, per ribadire la loro precedenza ti piantano tutti gli abbaglianti negli occhi, il significato è chiaro: spostati o muori. Non li abbassano finché non sono passati. Completamente accecati, bisogna spostarsi di lato, cercando di non finire in un buco, in un fosso, di non tagliare le gomme sugli spigoli del tarmac, di non ribaltare o schiantarsi contro un albero, contemporaneamente non investire la marea di gente che si muove a piedi lungo questa via nell’oscurità completa, carica di ogni sorta di masserizie, incluse lastre di vetro tenute di traverso, giuro, viste, alberi interi, balle di fieno ecc. A tutto ciò si aggiungono normalità come le biciclette, le quali improvvisamente attraversano raso nel buio più totale, le moto che zigzagano, i carretti, i muli, le mandrie, tutti spesso in contromano. In questi frangenti ringrazio il mio “navigatore” ed i suoi 10 decimi. E’ un susseguirsi di richiami, albero a destra, moto, bici, carretto….occhio! Pedone in mezzo alla strada…ma almeno sorridi! Arriviamo al ZIWA RHINO SANCTUARY dopo un viaggio interminabile, tardissimo, sani e salvi e, spero, senza aver ammazzato nessuno, tribolando anche un po’ per trovare la stradina d’accesso al gate e suscitando la sorpresa dei rangers, i quali, molto carini, non ci fanno pesare nemmeno il fatto di averli tirati giù dal letto. Ricaccio finalmente gli occhi nelle orbite e mi rilasso. Optiamo per le bandas del parco 80,00 Usd, una follia, ne pago 40,00, oggi non è giornata, non ho voglia di tirare fuori la tenda ma meno ancora di permettere a qualcuno d’approfittarsi della situazione. http://www.ziwarhino.com/ http://www.rhinofund.org
Questo piccolo parco è stato istituito per reintrodurre i rinoceronti in Uganda, una volta numerosi ed ora totalmente scomparsi. L’ultimo esemplare fu abbattuto nel ‘78 dai soldati di Amin ai quali, invece della paga, era stato permesso di cacciarli e venderne i corni.
La particolarità della visita consiste nel fatto che la stessa si svolge a piedi, cosa non molto usuale.
I rinoceronti provengono da vari zoo riabilitati alla vita selvatica e da capi bradi importati dal Sud Africa. Il progetto sta avendo un ottimo successo, coronato dalla nascita di diversi cuccioli.
La mattina dopo indugiamo a letto, la tranquillità del luogo stimola un po’ di relax, ormai siamo allo svacco totale. Carichiamo in seguito un ranger e dopo un breve tragitto in macchina ci incamminiamo nel bush. In circa 10 minuti raggiungiamo una radura dove due rhino dormono tranquilli.
Li osserviamo un po’, ci giriamo attorno ma quelli al massimo muovono le orecchie, fa comunque un certo effetto trovarsi al loro cospetto a piedi, ci si avvicina fino ad una 50ina di metri dopo di ché il ranger dice stop.
A dire il vero il tutto non ci entusiasma, il paesaggio è mediocre ed averli trovati in piena siesta non ha permesso di goderseli appieno. Devo però rimarcare l’impegno, anche economico e gli sforzi profusi per la salvaguardia di questi magnifici animali. Essi sono monitorati e difesi dai bracconieri 24 ore al giorno da almeno due ranger armati, 365 giorni all’anno. L’ingresso è gratuito, la visita costa 75,00 Usd a testa, spesi bene. Accettano volontari.
Riprendiamo la strada per Jinja, nostra ultima tappa. Optiamo per passare da Kampala pensando fosse più veloce invece, da prima della capitale fino all’arrivo, veniamo inglobati da un traffico mostruoso e giungiamo a destinazione a pomeriggio inoltrato con circa quattro ore abbondanti di viaggio per 250 km. Raggiungiamo il Nile River Camp, situato in bella posizione sul nuovo lago. E’ si, le famose cascate non esistono più, sacrificate allo sviluppo, sono sparite a causa della diga costruita sul Nilo per produrre energia elettrica.
Ci sistemiamo nei dormitory, sorta di bungalow a schiera di legno, spartani ma confortevoli, al costo di 10 Usd. Il campeggio ne costa 5,00. Tutto gratis se si effettua il rafting. Il posto è carino, rilassante con un bel bar e barbeque a disposizione, lo sfrutteremo appieno dando fondo a tutte le nostre risorse in un ultima lauta cena. . http://www.camponthenile.com/
Nonostante non sia prestissimo facciamo una bella camminata in zona, fra sparse case a graticcio lungo stradine immerse nel verde, banani, avocado e ogni sorta d’albero da frutto, l’atmosfera è decisamente equatoriale.
Per prenotare il rafting è sufficiente rivolgersi alla reception del camp, cosa fatta subito all’arrivo, siamo fortunati, con noi si forma un gruppo completo. Alla mattina, con calma, veniamo raggiunti dal camioncino della Nalubale, http://www.nalubalerafting.com/ , il quale ci trasporta presso la loro sede. Qui ci riempiono di caffè, panini, banane, succhi e, sempre con molta calma, dopo il briefing partiamo con i gommoni al traino verso il fiume. 120,00 Usd a testa. Dopo l’esperienza scioccante dello Zambesi, confesso di essere stato parecchio timoroso al riguardo, pure qui ci sono due o tre rapide grado 5, ma è uno degli highlights dell’Uganda, non si può andare via senza fare questa esperienza.
I nostri compagni sono canadesi, americani ed una simpatica colombiana, si riveleranno tutti decisamente tosti e formeremo insieme un’ottima squadra. L’accompagnatore è un ragazzo sud africano molto bravo e competente.
Come in tutti i rafting prima si eseguono due manovre in acque tranquille, tanto per capire i comandi basilari, fra i quali uno solo viene eseguito a dovere: “get down”, cioè: accucciati giù, tienti forte e spera! Siamo seguiti da un canotto di supporto e da un nugolo di kayak condotti da una serie di personaggi fuori di testa nell’accezione buona del termine.
Alla prima rapida di 5° il capo ci chiede se la vogliamo affrontare o evitare per un passaggio più facile. Il coro dei giovani è unanime: the hard one, li mortacci vostra a voi e a tutti i “brave” anglosassoni e chi li ha inventati!
Ce la caviamo benissimo, tanto che a volte il sud africano ci fa remare indietro e ripetiamo la rapida. A metà strada sosta per il pranzo e riposino, il tutto dura 4/5 ore abbondanti.
E’ organizzato e condotto in modo molto professionale, con ottimi standard di sicurezza, mezzi recenti e di qualità. Un vero divertimento, adrenalinico ed entusiasmante. Anna è raggiante ed io mi sono veramente divertito dimenticando ogni indugio iniziale. Poi volete mettere: è il Nilo! Assolutamente imperdibile, per tutti, anche per chi non abbia, come me, molta dimestichezza con l’acqua.
Nel costo sono oltre al pranzo sono compresi tutti i beveraggi e, nel viaggio di rientro, l’ordine è: non lasciare nulla pieno, in primis la birra. Due ore sul cassone del camion con personaggi del genere in una atmosfera d’allegria sono piuttosto deleteri. Eseguiamo con dedizione ed arriviamo in uno stato pietoso. In teoria dovremmo partire subito ma aspettiamo il cd con le foto, 30,00 Usd. In ogni caso non sarei stato in grado. Ci riprendiamo al calar del sole, avremmo dovuto preparare anche i bagagli ma pazienza lo faremo dove ci fermeremo a dormire, tanto a quest’ora non ci sarà traffico ed Entebbe è a circa due ore di viaggio. Le ultime parole famose due: a volte tornano!
Infatti la strada Jinja Kampala è un gran casino. Viaggiamo a passo d’uomo incolonnati ma il vero e proprio incubo inizia entrando nei primi suburbi della capitale. Se qualcuno volesse studiare a fondo l’Entropia è inutile che si s’affatichi con l’universo tutto, basta venga a Kampala alle 8 di sera per scoprire come il Kaos totale della moltitudine non sia altro che un ordinato flusso di unità dal movimento casuale, illogico, imprevedibile ed assolutamente indifferente a qualsiasi cosa non sia il minimo spazio libero di fronte. Appare incredibile che seppur lentamente in qualche modo si proceda, il tempo? Un concetto inutile, Einstein qui forse avrebbe venduto bibite.
So guidare in questi frangenti, c’è un solo modo: procedere a velocità moderata, non che questa sia sempre una scelta, decisi, lasciandosi inglobare senza mai fare movimenti bruschi, inaspettati, repentini. Mai fermarsi ad aspettare cose assurde quali precedenze o essere tentennanti, indecisi, vado non vado? Il sistema non lo prevede e con un effetto domino potrebbe autodistruggersi con migliaia di vittime e forse uno tsunami sul lago Vittoria. Vige una regola sola: se c’è uno spazio, esso va occupato, punto! La tangenziale, se così si vuol chiamare, ha due corsie per senso di marcia, è una fiumara di mezzi d’ogni tipo, chi li ha usa gli abbaglianti, altri nulla ma fa lo stesso, i quali tentano di sormontarsi in ogni modo. Ai lati della strada una teoria senza fine di baracche adibite alla vendita, mercati, case, negozi, concessionarie d’auto, mobilieri, fioristi, ambulanti, bar, ristoranti, caffè e qualsiasi altra cosa vi possa venire in mente. Ovviamente tutto ciò animato da una quantità di persone smisurata, le quali spesso e volentieri occupano, attraversano, percorrono, sostano sulla strada, con biciclette, carretti ed ogni mezzo di movimento possibile compresi i carrelli della spesa. Il top sono però le moto. Come vespe impazzite passano ovunque, cariche d’ogni cosa, moglie e nugolo di figli compresi. Si infilano dovunque, contromano, a raso, senza guardare, rallentare o fermarsi. Due mi passano davanti proprio quando mi affianco ad un’auto presso una rotonda e non li prendo in pieno solo per una questione di millimetri e Grazia (loro) ricevuta, se si fermano li ammazzo io con le mie mani.
Arriviamo ad Entebbe più distrutti rispetto alla Kidepo road, in circa cinque ore per 120 km, anche stavolta senza sopprimere nessuno ed è, vi assicuro, una cosa d’andarne fieri. L’unica nota positiva sono i venditori di spiedini, costano pochissimo, sono ottimi e ci permettono di non saltare la cena.
Alloggiamo alla Kidepo, e ti pareva, Guest House, a due passi dall’aereoporto. Contattati telefonicamente gentilmente ci hanno aspettato nonostante l’ora, per questi lidi, tarda. Comoda, spartana,pulita e dignitosa, 35,00 Usd.
Il giorno seguente siamo ancora provati dal viaggio della sera prima e decidiamo, per le poche ore a disposizione, di non andare al lago ma di fare i bagagli con comodo e riposarci. Ci raggiunge Moses per ritirare l’auto e ci sediamo per discutere il saldo. Quando vede la macchina si spaventa ed inizia a fare l’inventario di ciò che manca e di ciò che è rotto, chiama il concessionario e mi fa pure il preventivo. Io tiro fuori le mie ricevute e gli dico che mi sta bene tutto ma fanale e freccia non intendo pagarli. Se fossero stati fissati bene non li avrei persi, e costano una sassata. La discussione è breve, lo scrivo per rimarcarlo, l’accordo trovato è assolutamente equo e corretto e mi sconta anche la differenza di prezzo fra la Toyota e la Mazda.
Gli lasciamo tutto quello che non vogliamo o possiamo portare indietro, dalla vaschetta di palstica alla birra, e lui pare apprezzare. In effetti è proprio un bravo ragazzo.
Corsa all’aeroporto e l’avventura finisce.
Devo ammettere che è stata dura e faticosa ma è stato proprio bello viverla.
Stavolta mi sono dilungato, ho ceduto alla grafomania, ma grazie ancora a voi ho voluto, intanto che i ricordi sono freschi, metterli nero su bianco per rileggerli un domani.
Un grazie a Pier per i suggerimenti, i consigli e per l’impegno nel progetto con Julius.
Ed a tutti per la pazienza e lo stimolo.
Tutte le foto:
Il tragitto su Googlemaps, se ci capite qualcosa sono ben tre pagine.
http://goo.gl/maps/vdkap
Informazioni pratiche:
NOLO AUTO ed AGENZIA: Valutati i costi di un 4wd in Kenya abbiamo preferito noleggiare direttamente in Uganda. Fra le varie proposte , non che ci fosse una vasta scelta, il self drive qui non è molto diffuso e siamo lontani dagli standard di paesi come Namibia o SA, ho scelto questa, senza un motivo particolare, diciamo a naso. Nonostante la Toyota abbia avuto qualche problema il giudizio sull’agenzia è positivo. Mr Kizito è sempre stato disponibile, prodigo di ottimi consigli e suggerimenti precisi, molto corretto. Ci ha fatto pervenire la macchina a Fort Portal gratis, rimborsandogli giustamente solo la benzina per il viaggio di ritorno. Alla riconsegna, l’accordo sul saldo dovuto, fra danni da noi arrecati all’auto e rimborsi ruota, freccia, e saldature varie, equo e corretto. Costo per giorno Usd 80,00 la Mazda, 100,00 Usd la Toyota, ma noi abbiamo pagato la quota minore per tutte e due. L’agenzia fornisce anche pacchetti e servizi completi, guide, ecc. e mi ha dato una mano fondamentale per i gorilla tickets.
Un grazie ed un saluto anche al buon Moses, sempre gentile, servizievole e disponibile.
Quindi, affidabile e consigliata, di seguito link. travel@kariburwanda.com mpagi@habariafrica.com www.kariburwanda.com, www.habariafrica.com , www.ugandarwandacarhire.com Telephone Nos: +256.779.459.917, +44.790.863.9450,
Car hire; http://www.kariburwanda.com/directory/kampala-uganda-car-hire.html
MALARIA: E’ endemica in tutti e due i paesi alle quote più basse. Non ci sono nugoli di zanzare ma il rischio è alto. Tutti gli operatori e cooperanti incontrati l’hanno contratta, qualcuno più volte e mi hanno confermato la serietà della situazione. Per una permanenza di 20 e più giorni abbiamo preferito fare la profilassi con il malarone e mi sento di consigliarla.
LA GUIDA:E’ innegabile, se si legge il diario, che ci sia stato qualche problema, non è comunque una cosa proibitiva o che si debba essere provetti rallysti. L’importante è essere consapevoli di cosa si fa, dove si è ed essere pronti ad affrontare qualche imprevisto. Escluso il Kidepo nella stagione delle piogge, evitabile, strade e piste non comportano particolari difficoltà. Il paese è molto antropizzato, è impossibile perdersi in modo grave, al massimo non si sa bene dove si è. In caso di guai non si è quasi mai abbandonati. Ovviamente prudenza e due dita di testa non guastano. Una scorta d’acqua e di cibo d’emergenza deve essere sempre in auto. Il Gps non l’avevamo e non ne abbiamo sentito la mancanza, di una buona carta invece si. In Ruanda guida a destra, in Uganda a sinistra.
CLIMA: In Ruanda a Nyungwe ed ai Virunga in agosto la sera è decisamente freddino, l’umidità non aiuta. Una giacca a vento leggera ed un buon pile, oltre che felpa o camicia da usare a cipolla, sono da portare. Non si va sotto zero ma si può arrivare a 5/6 gradi. Per il resto dei due paesi varia a seconda della quota. Il sacco di piumino è stato molto gradito.
GORILLA PERMITS: Prenotati a febbraio per il 27 luglio e presi gli ultimi due posti disponibili. Avrei preferito andare direttamente da Kigali all’arrivo in Ruanda ma non c’era altra scelta, già avevo perso i posti per il 25. Per assicurarmeli ho fatto un bonifico all’agenzia, la stessa del nolo auto e loro sono andati fisicamente ad acquistarli. Per il servizio chiedono 50 Usd che vanno ad aggiungersi al già notevole costo della visita. Viste le difficoltà e le incognite nel trattare direttamente con il booking center è stata una buona scelta e la consiglio a chi si rechi autonomamente senza comprare un pacchetto completo. Confermo che il costo ora è 750 Usd, ottobre 2012 momento dello scritto.
http://www.ugandawildlife.org/
VISTO: Se si attraversa il confine via terra è indispensabile avere il passaporto già vistato, sopratutto venendo dal Ruanda in direzione Uganda.
Per il Ruanda si fa tutto on line, si riempie un formulario e nel giro di una settimana arriva la conferma. https://www.migration.gov.rw/ Valido 30 gg. http://www.migration.gov.rw/singleform.php
Se si vola direttamente in Uganda il visto si può fare comodamente all’arrivo in aeroporto. 50 Usd.
Per ottenerlo in anticipo ho spedito passaporti, foto e denaro qui:
Sezione Consolare Viale Giulio Cesare, 71 scala B int. 9°/9b – 00192 Roma Tel. 063225220 063207232 – Fax 063203174 Email: ugandaembassyrome@hotmail.com
In una decina di giorni lo rispediscono senza problemi.
VALUTA: I parchi accettano anche gli euro ma nel paese il dollaro è praticamente valuta corrente. Meglio portarsi quindi buona scorta di moneta yankee. Con il bancomat abbiamo avuto qualche problema, prelevando principalmente alla Barclays, dove c’era, con la Visa. Il mio bancomat, cirrus, maestro, ecc, non siamo mai riusciti ad usarlo, quello di Anna elargiva somme miserevoli.
ATTREZZATURA:Ognuno ha la sua a seconda delle proprie necessità ed abitudini, di seguito qualche nota.
Tutto è stato pressato in due sacchi ferrino da spedizione. I vestiti ed effetti personali in due borse poste all’interno degli stessi. Durante il viaggio sacchi sotto il sedile, attrezzi sparsi per l’auto e bosrse su e giù a seconda del pernottamento.
Tenda: Non serve ipertecnologica ma che abbia una buona resistenza alla pioggia.
Sacchi a pelo: Come detto di notte fa freddo, noi siamo stati molto contenti di aver portato quelli di piumino.
Scarponcini ed infradito o sandali bastano per tutto il viaggio, calzettoni alti da trek indispensabili. Anche del nastro da pacchi per stringere i pantaloni sulla scarpa è una ottima idea, le formiche sono veramente bastarde. Ho visto gente con le ghette!
Noi ci siamo portati le nostre solite cose per cucinare, volendo si possono comprare pentole ed utensili a costi bassi.
Razione K: Qualche liofilizzato Knorr d’emergenza è venuto buono. Sopratutto il minestrone. La polenta l’ho regalata a Moses, mi piacerebbe sapere cosa ne pensa.
Pile ricambio: Portarne una buona scorta quelle locali non durano molto.
Ho portato un inverter per caricare tutto e l’ho trovato molto comodo.
Anche il solito foglio di plastica da imballo, quella con le bolle per capirci, ed è stata una idea furba. Da confort, protegge dalle spine sul terreno e sopratutto isola dall’umidità e dal bagnato infine è molto gradito quando lo si regala prima di partire.
Le cinque borracce piene di Porto ed altri generi di conforto sono tornate vuote. Il vino ha costi proibitivi, dove c’è, ma sopratutto cosa c’è!
Detersivi, sale, olio, vaschetta di plastica per lavare, spugnette ecc. acquistato in loco e regalato alla partenza. In città si trova tutto quello che serve.
Anche solo per informazioni di prima mano, suggerimenti, dubbi, l’amico Julius è a disposizione. L’homestay ed i local people tour sono molto consigliati.
http://mountaingoriillacoffeetours.shutterfly.com/
Per Info scrivetemi pure a: pipot-pipot@virgilio.it