Andalusia itinerante

Il nostro viaggio tra Siviglia, Granada e Cordoba
Scritto da: connemara
andalusia itinerante
Partenza il: 13/12/2011
Ritorno il: 18/12/2011
Viaggiatori: 2
Spesa: 1000 €
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ANDALUSIA

L’assalto ai posti vicino al finestrino della Ryan ormai è un classico, ci si tuffa cercando di ficcare il bagaglio a mano spingendo e sbattendo le valigie del vicino. Un volo economico comporta anche questo. Il viaggio per Siviglia è di circa due ore e mezza, ci accompagna in Spagna una baraonda di persone. L’aereo è pieno. Vicino a noi una famiglia: lui italiano, figlie e moglie spagnole, sivigliane, la più piccola urla, ha un tono di voce così allucinante da spaccare i timpani, ma anche questo è low coast. Di fronte a noi un signore brizzolato, litiga con l’hostess che non trovando posto per il suo bagaglio a mano l’ha spedito in stiva. Il tipo si lamenta con veemenza, dice che nel bagaglio c’è il suo passaporto e ha paura che possa essere rubato; l’hostess si affanna a far capire che difficilmente qualcuno può entrare nella stiva, aprire il bagaglio, e prelevare il suo passaporto. Il tipo, un po’ cafone non sente ragione, vuole che sia recuperato subito e… in volo. Dice che non si fida dell’aeroporto di Siviglia, come se Ciampino è più sicuro. Aggiunge che lui fra tre giorni dovrà essere a Los Angeles… lo dice con voce impostata alzando il tono, tanto per farsi sentire da tutti. Quello che riceve dall’intero aereo è uno sguardo di assoluta indifferenza, che se si potesse esprimere con una frase sarebbe “e sti c***I”! L’hostess non riesce a rassicurarlo e decide di mollarlo al suo posto dove per tutto il viaggio continuerà a borbottare con moglie e amici. Siamo partiti in una giornata fredda e piovosa è il tredici Dicembre e non sappiamo cosa troveremo in Andalusia. Sono preparata ma non troppo, avrei dovuto studiare di più ma questa volta la valigetta è ancora più pesante rispetto alle altre volte.

Siviglia

Arriviamo puntuali con la solita picchiata dell’aereo, caratteristica dei piloti Ryan. All’apertura del portello ci troviamo di fronte a un piccolo aeroporto, scendiamo e ci dispongono in fila indiana, qui non ci sono neanche i pulmini, camminiamo lungo la pista, dalla parte opposta un altro gruppo di persone cammina in senso contrario, prenderanno il nostro aereo per tornare a Roma. L’aria è tranquilla non fa molto freddo, noi siamo in attesa di un autista che dovrebbe portarci al parcheggio della macchina che abbiamo affittato. Chiaramente sbagliamo il punto d’incontro ma nessun problema qui la puntualità è un optional, il tizio si presenta dopo una ventina di minuti. Francesco ha trovato quest’autonoleggio fuori dall’aeroporto è per questo motivo, costa la metà. La macchina che ci assegnano è grandissima è una Ford cmax nera bellissima. Carichiamo valigie, sentiamo le disposizioni, dovremo riportare la macchina senza carburante e partiamo. Francesco ha portato il navigatore. Accendiamo la radio, per noi è un classico è il primo saluto con cui ci accoglie il paese che ci ospita. In radio c’è un programma di scherzi telefonici gli speakers si divertono un modo. Che bella la risata spagnola, è musicale, gioiosa, cristallina, per niente volgare. Mette gioia sola a sentirla, anche se chiaramente non capiamo quello che dicono. Seguiamo il navigatore che tanto per farci capire quella che sarà una costante del viaggio, ci porta uno sprofondo in aperta campagna, nell’assoluto nulla. Ritorniamo indietro e questa volta prestando attenzione ai cartelli imbocchiamo una superstrada. L’albergo è un quarto d’ora dall’aeroporto e a venti muniti da Siviglia. E’ bello grande ed economico, trovato anche questo su booking. Saliamo, il tempo di lasciare le valigie e partiamo alla volta di Siviglia. Sono solo venti minuti l’ingresso in città assomiglia a tutte le periferie spagnole, palazzoni e palazzoni grigi. Cerchiamo il centro, ma qui ci rendiamo conto che il navigatore ha una viabilità vecchia di qualche anno. Tutti i sensi unici sono cambiati, e intere zone sono chiuse al traffico. Sono le 20,00 quando inizia il nostro giro disperato. A questo punto devo fare un inciso: è assolutamente impossibile entrare con la macchina nelle zone del quartiere antico, il Barrio Santa Cruz, parliamo della zona della Cattedrale, Giralda, Alcazar ecc., anche perché i vicoli sono larghi non più di 1,70 metri e sono in sostanza solo pedonali. Bene, per ragioni assolutamente sconosciute e che hanno del soprannaturale, noi con una Ford Cmax, enorme (la stessa per cui poco prima ci eravamo inorgogliti…), ci ritroviamo tra i vicoli ciottolosi e spesso chiusi del barrio. Sono travolta dal panico, autentico panico, qualcosa oltre una crisi di nervi. Vicoli stretti, svolte a gomito, strade con pochissima luce, passanti che si schiacciano al muro al nostro passaggio, specchietti che grattano i muri, marce indietro su larghezze di uno, sessanta con una macchina che arriva a 1’55. Ci vogliono cinque manovre per fare una svolta avanzando di qualche centimetro per volta. La cosa incredibile è che la guida dice chiaramente che è impossibile entrare nel barrio con una machina sia per i divieti sia per l’assoluta impossibilità di girare con un mezzo appena più grande di una smart. Noi siamo in mezzo a tutto questo, dopo tre o quattro vicoli non controllo neanche più, Francesco mi chiede se stiamo portandoci via un muro, ed io senza guardare rispondo di no, la mia crisi di nervi è diventata assoluta disperazione. Un vicolo è addirittura occupato da secchi della spazzatura, che rimuoviamo alla chetichella, trainandoli su un marciapiede. La gente che passa si arrampica sulla nostra macchina facendo acrobazie per passare, ci sorride con affetto, straordinari questi andalusi, invece di inveire cerca di aiutarci nelle manovre al millimetro. Capitiamo in un vicolo cieco, rassegnati a fuggire lasciando la macchina incastrata nel vicolo. A questo punto entrano in gioco quelle forze soprannaturali che come ci hanno fatto entrare in maniera del tutto misteriosa, altrettanto misteriosamente e in maniera assolutamente insperata ci fanno sbucare all’improvviso in una strada normale. Non crediamo ai nostri occhi siamo salvi, la macchina non ha un graffio. Il cuore riprende a battere, sono le ventidue, abbiamo vissuto un’autentica avventura mozzafiato, Francesco alla guida è stato fantastico, io invece ho ceduto con i nervi. Usciamo su una piazzetta e parcheggiamo o meglio accostiamo la macchina, consapevoli che c’è un divieto di sosta, ma con quello che abbiamo passato una multa, è per noi come un invito a cena con il sindaco di Siviglia. Siamo sfiniti e affamati, finalmente possiamo calpestare il suolo andaluso. Siamo in una piazzetta, la serata è dolce, non fa freddo e arriva una fragranza profumatissima di arancio. Guardo meglio e mi accorgo che tutti gli alberi dei viali sono pieni di frutti enormi e succosi. Ci fermiamo a un ristorantino, sono le ventitré, zero ma ci accettano, ci sediamo fuori ed ordiniamo le nostre prime Tapas. Il cameriere non è proprio felicissimo, ma è cortese, sarà la stanchezza ma sembra tutto buonissimo, anche se le porzioni sono piccolissime. La cosa più buona è la birra, una ghiacciatissima, profumatissima Cruz Campo. Andiamo via, mi giro per guardare il vicolo strettissimo dal quale siamo appena usciti, e sollevati torniamo in albergo.

siviglia di giorno

Ci svegliamo la mattina dopo con una fitta nebbia. Scendiamo fa freddino, saliamo in macchina e ci dirigiamo a Siviglia, finalmente di giorno. Ho letto che qui la tradizione della colazione è con Churros e cioccolata calda, e noi siamo pronti per l’esperienza. Lasciamo la macchina a un parcheggio e ci inoltriamo nel cuore della Siviglia antica, nel quartiere della “ Puerta della carne “lì a pochi passi troviamo una churreria. E’ un negozietto su strada, il tizio fa filare della pasta attraverso uno strano arnese, e poi la frigge in un catino d’olio bollente. Davanti a noi i clienti prendono questi torciglioni fritti sono incartati in buste del pane. Noi ce ne dividiamo uno e poi ci facciamo dare un bicchiere di cioccolata bollente. Usciamo con questo tesoro e ci sediamo fuori appoggiando la colazione su un tavolino ancora umido per la nebbia. I Churros sono buonissimi ed anche la cioccolata è una delizia. È ancora fresco e non c’è il sole. Rinfrancati dalla colazione super, partiamo alla scoperta del Barrio Santa Cruz, questa volta a piedi senza macchina, e ora non fa più paura.

Percorriamo gli angusti vicoli di ieri sera, con il giorno sono bellissimi, siamo diretti alla Cattedrale. Mentre camminiamo, sentiamo della musica che esce da una chiesa. Entriamo, veramente la curiosa sono io, Francesco mi segue bofonchiando. Dentro è una meraviglia, una chiesa barocca bellissima, è la Chiesa di Santa Cruz. Oro, stucchi e statue incredibili. È il nostro primo approccio con questa forma di arte religiosa. Le statue sono a dimensione umana, vestite con abiti ricchissimi fatti di velluti, ori, merletti, pietre preziose. I visi sono scenici esprimono una sofferenza eroica e bellissima, affascinanti. Hanno lacrime e viso contrito ma non inducono a sentimenti di pietà o commiserazione, si rimane stregati dalla bellezza delle espressioni, cosa che non avrei mai immaginato, paurosa ansiosa nonché depressa quale sono, noto un fascino nella sofferenza che non avrei mai immaginato. I vestiti sono la cosa più straordinaria, sono incredibili. Chiaramente non dimentico lo scopo per cui sono entrata, la musica. In questa chiesa barocca austera piena di statue che sembrano persone pietrificate, quasi un museo delle cere, ci sono dei bimbetti che cantano e ballano. È un asilo che sta facendo le prove per la recita di Natale, hanno quattro o cinque anni, le bimbe hanno un grambiulone sopra una gonna, i bimbi hanno i calzoncini al ginocchio e gilè. Sono sull’altare e incuranti della teatralità dolorosa della chiesa, ballano e cantano ripetendo i gesti della maestra che di fronte a loro li guida. La musica viene da uno stereo portatile attaccato alla spina dove si accendono le candele votive che per il momento sono spente. La musica è gioiosa ed allegra ed i bimbi si divertono un mondo. Anche le statue dolorose sembrano rallegrate dalla leggerezza umile e pulita dei bambini. Facciamo qualche ripresa, questi bimbi riempiono il cuore di gioia. Usciamo dalla Chiesa che ancora risuonano le canzoncine natalizie. Giriamo un po’ di vicoli guardiamo e non ci rendiamo conto come abbiamo potuto fare queste strada in macchina, meno male che era notte.

Dieci minuti ed arriviamo alla Cattedrale di Siviglia. Austera, maestosa, gotica e barocca. Le guide dicono che è più grande di San Pietro: possibile. È un edificio enorme dove ogni cappella è una chiesa. Tanta oscurità severa termina nell’altare maggiore con un tripudio di baracco pomposo e ricco. Sulla sinistra il monumento a Colombo. Enormi soldati spagnoli di marmo, sollevano un sarcofago dove, però, non c’è il corpo di Colombo che subì diverse vicissitudini tra furti e riconsegne agli eredi. Sembra che la sua attuale dimora è un Convento di Siviglia. Anche se Colombo non c’è il monumento è maestoso e severo. Devo confessare lo guardo con una punta di orgoglio, era uno di noi un tipico Italiano affabulatore, un po’ furbetto, coraggioso e visionario. Continuiamo la visita, la grandezza della Cattedrale stordisce e dopo un po’ ci accorgiamo che giriamo a vuoto. Facciamo le foto, la più bella è quella davanti a un enorme specchio concavo messo in maniera strategica riflette le nostre immagini con alle spalle la magnificenza barocca dell’altare maggiore, sembriamo dentro un quadro. L’aspetto scenografico è incredibile, la teatralità di questo popolo è in qualunque cosa fanno, sono sempre protagonisti nel divertimento e nel dolore con la fierezza, un po’ sopra le righe.

Dopo questi scatti decidiamo di andare a vedere la meraviglia di questa cattedrale, la torre campanaria… la Giralda. Usciamo da un’uscita laterale e ci incamminiamo dentro la torre. Non ci sono scalini ma ben 37 rampe che salgono sino alla cima e che tolgono il fiato. Francesco cerca di motivarmi dalla 16° rampa in poi mi dice è l’ultima. Arrivo senza fiato in cima, ma ne valeva la pena. La vista di Siviglia dall’alto è meravigliosa, quello che abbiamo scalato era il Minareto di questa città governata dagli arabi, da qui il Muezzin chiamava alla preghiera, ora è una torre campanaria con tanto di marchingegni che governano enormi campane di bronzo. La vista di Siviglia è bellissima, è passato un anno ma quello che vedo mi riporta ai tetti di Marrakech. La parte antica di Siviglia ha conservato tutto, le terrazze al posto dei tetti, su una scorgo addirittura una piscina, calce bianche sui muri, meravigliosi patii nascosti. Mi godo la brezza di un dicembre dolcissimo e guardo in lontananza il Guadalquivir, il grande fiume che attraversa Siviglia, che si snoda per la città. Facciamo la nostra intervista nel mezzo di una scolaresca vociante, e riscendiamo lungo la Giralda guadagnando l’uscita. È quasi l’una, un po’ presto per pranzare secondo le abitudini spagnole, ma noi abbiamo fame. Troviamo un bar ristorante segnalato nella nostra guida, è il Bar Giralda. Siamo soli nel locale, seguendo qualche consiglio e ordiniamo: pymentos straordinari ed enormi peperoncini rossi ripieni di carne, una delizia. Patate stufate con dell’ottimo salmone pieno di maionese e spolverata di erba cipollina. Le patate “Domingo”, patate lessate incise verticalmente con dentro fettine di camon serrano, il tutto irrorato da un sughetto di cipolle e vino bianco, ottimo. Non contenti ordino il polpo alla griglia, ma non è all’altezza della pulperia di Barcellona, e un uovo fritto affogato in una ciambotta di porri, zucchine, e peperoni. Chiaramente i Sivigliani prendono uno solo di queste piatti per un pranzo, abituati a fare uno spuntino senza mai abbuffarsi. Noi invece abbiamo fatto proprio questo, ogni piccola singola porzione per noi è diventata un semplice antipasto, i camerieri ci guardano un po’ tra lo stupito e il divertito. Non c’è niente da fare le nostre abitudini italiane contemplano il pranzo e la cena e non degli stuzzichini. Mentre ci rimpinziamo, leggo su una parete che questo locale era un antico bagno turco, ci sono le piastrelline azzurre e verdi a mosaico, e le volte sul soffitto. Usciamo notevolmente appesantiti, ma sazi e contenti.

Ora ci aspetta l’Alcazar, la dimora dei signori arabi della città. Entriamo nel primo pomeriggio con un sole caldo e morbido, varcata la soglia, lasciamo un mondo per essere trasportati nelle residenze delle favole arabe. Sono visioni d’incomparabile bellezza, portici, patii, fontane, giardini privati, stanze, mosaici meravigliosi. Non parliamo ci lasciamo dalle sensazioni, i miei gridolini riempiono ogni anfratto che scopro, e in quell’attimo diventa mio. Entriamo nella zona dell’Harem che in arabo vuol dire luogo proibito, una piccola città dove abitavano, sorvegliate da eunuchi centinaia di donne. Un luogo di lusso e ricchezza, dove erano trattate come preziosi uccellini in gabbia. Eppure penso come in quel contesto, la vita nell’Harem poteva essere estremamente piacevole. Una prigione dorata, certo, ma ricca di vestiti meravigliosi, gioielli preziosi, trastulli oziosi, piscine e saune, massaggi, musica, penso che per alcune poteva essere un punto di arrivo, dove con un po’ di furbizia si poteva costruire una piccola fortuna. Il termine schiava, mi sembra improprio, e fra tutte le sciagure di questa condizione, penso che la peggiore fosse di avere a che fare con altre, due donne possono essere amiche, in tre diventa già un problema, figurarsi in 800! Rivalità, fazioni, congiure, dispetti, cattiverie, invidie, questo poteva rendere la vita impossibile. Entriamo nel patio delle Donzelle, ambiente magico costituito da archi, mosaici e da canali d’acqua sul pavimento che portano a una fontana al centro. L’acqua vi scorre leggera, continua. Queste fontane e canali li ritroverò in tanti altri posti in questo viaggio, l’acqua scorrendo in questa stanze diventa una musica dolce e continua una filastrocca che rapisce il cuore. Mi sforzo di tornare alla realtà, e mi costringo a leggere un po’ di storia. Il nome del patio ricorda un odioso pagamento costituito da 100 vergini cristiane che erano donate al signore arabo. Le ragazze sfilavano lungo la passarella, pronte a entrare nella prigione dorata dalla quale non sarebbero più uscite. La storia non è bella parla di soprusi ai danni delle vittime di sempre: le donne. Eppure anche questa volta, mi lascio conquistare dalla bellezza e dalla favola di questo posto, mi piace immaginare queste ragazze diventare delle splendide principesse arabe, mi piace immaginarle felici, mentre si trastullano nei giardini ascoltando musica, o si rilassano nei Bagni, dopo una sauna o un bagno turco, magari massaggiate con essenze e olii profumati… ma probabilmente la realtà fu un’altra. Continuo la mia visita al palazzo. Le stanze all’interno dei patii sono piccole e curatissime, segno evidente che la maggior parte della vita era vissuta all’esterno. Usciamo nel fantastico giardino della Signora, la sultana, e qui con Francesco ci dividiamo, io seguo profumi e colori. Costeggio un’enorme vasca esterna, dal tetto dell’edificio che la sovrasta, si butta una piccola cascata d’acqua. Cammino per il giardino scoprendo angoli che creano piccoli labirinti, e guidata dal profumo scopro un gelsomino alto 3 metri, è fantastico, i fiorellini bianchi sono piccole orchidee lattee e carnose. Non resisto ne mangio due, mastico i fiori con lentezza, voglio mangiare un profumo voglio che faccia parte di me. Questi piccoli fiori hanno sempre rapito i miei sensi procurandomi stati d’immenso piacere. L’iniziale sapore amaro è coperto dal profumo che dalle papille gustative sale verso il naso e la testa, è un’esperienza unica e conturbante. Continuo a girare tra le piccolissime fontanelle e canali che gorgogliano a terra, e scopro per caso una serie di panchine davanti ad una simpatica vasca con dei bellissimi papiri. Mi siedo per raccogliere le emozioni, quando all’improvviso la fontana si “accende”, e un organo ad acqua incomincia a suonare una musica allegra. Sono stupita, mi alzo e scopro l’ingranaggio, l’acqua scorre e l’organo suona. Mi rimetto seduta e chiudo gli occhi, penso alla grandezza degli architetti arabi, impegnati a ricreare la bellezza, con colori, forme, geometrie, piante, fiori, suoni. La musica mi porta lontano e immagino svolazzanti e preziose vesti che girano tra questi giardini, signore velate che godevano di queste meraviglie. Mi alzo a forza e recupero Francesco, anche lui abbandonato all’estasi su una panchina, questo posto è proprio magico, lo porta all’organo ad acqua, la musica è terminata, si deve ricaricare il meccanismo. Continuiamo la nostra passeggiata nel giardino e scopriamo eccitanti alberi di frangipani, dal profumo intenso ed agrumato, ed alberi, dico alberi, di stelle di natale.

Siamo a dicembre, penso alle insulse piantine delle nostre parti, rachitiche e piccole destinate a morire di freddo nell’arco di qualche settimana. Niente a che vedere con questi alberi dai fiori enormi, il caldo qui rende giustizia a questa pianta tropicale, la fotografiamo sbalorditi e perduti nella loro bellezza. Attraversiamo il parco, una ragazza con cavalletto, colori e sgabellino sta dipingendo il giardino, la invidio tantissimo. Nel giro troviamo altre fontane, queste sono grandi con statue di animali, ne fotografiamo una, dove nuotano dei pesci rossi enormi, sorvegliati da un grande orso di pietra. Arriviamo dalla parte opposta c’è una piccola dependance riccamente decorata a mosaico, tra le tipiche piastrelline, le azuelos, ve ne sono alcune con animali mitologici, scopro centauri, unicorni, ma anche segni astrologici, questo posto è delizioso, ed anche qui c’è una fontanella piccola con canaletto a terra. Siamo storditi, usciamo da questo posto a fatica, giro lo sguardo salutando con amore e nostalgia e nel farlo mi accorgo dell’ultimo regalo che mi riserva l’Alcazar, sotto i miei piedi, un mosaico di pietra, è un enorme margherita, con lunghi petali che prendono tutto l’androne. L’emozione è forte, la margherita mi riporta indietro di quaranta anni, è identica da quella voluta da mio padre nel patio esterno della nostra casa a Cefalù, la dimora dei miei sogni, dove ho passato per venti anni le mie estati. Questa casa fu costruita e arredata in stile moresco, con patio, archi e mosaici e tra questi mosaici, una grossa margherita sul patio davanti alla casa. Mi accorgo solo ora della stranezza di questa scelta, la mia famiglia non ebbe mai rapporti con il mondo e l’arte araba eppure ora mi trovo sulla stessa margherita su cui ho giocato, camminato conversato ballato per venti anni. Mi soffermo, ancora un momento, Francesco mi guarda un po’ incuriosito, non riesco a trasmettere i sentimenti che provo, sento brividi lungo la schiena. Certe cose sono difficili da raccontare.

Decidiamo di uscire storditi da tanta bellezza, questa sera ci aspetta il flamenco, nell’attesa chiedo a Francesco di portarmi vedere la via dello shopping di Siviglia, Calle Sierpes. Questa richiesta scatena il muso di Francesco convinto di poter evitare quello che Lui considera un autentico supplizio. A me, questo atteggiamento, scatena la rabbia. È incredibile con quale facilità abbiamo dimenticato la bellezza, la pace, la fiaba dell’Alcazar. Ripassiamo davanti alla cattedrale e la costeggiamo sul lato destro, dove si apre un allegro mercatino di Natale. Qui il presepe è una cosa seria ci sono pastorelli di tutti le fogge, misure e colori, i più belli sono quelli con tratti e vestiti arabi, stupendi! Niente Madonne bionde e bambinelli con occhi cerulei, o San Giuseppe con barbe rosse. Questi sono proprio con tratti e colori nord africani, esattamente come dovevano essere i vecchi signori di questo posto e di come dovevano essere realmente i protagonisti del Natale. L’umore di Francesco è nero e non mi permette di comprare niente, neanche quei pali da appendere alle finestre con il bimbo della Feliz Navidad. Attraversiamo una piazza e iniziamo a percorrere Calle Sierpes. Siamo quasi alla vigilia di Natale ed è piena di gente, i negozi sono belli ma carissimi. Francesco mi segue come uno zombi, si riprende solo in un negozio di cose assolutamente inutili. Qui scova un’utilissima bilancina pesa valigie, per noi una salvezza, considerando che il peso dei bagagli è il nostro cruccio ricorrente ogni volta che partiamo con Ryanair. Dopo l’acquisto ritorna nello stato catatonico e cattivo degli zombi. Condizione che lo porta quasi ad azzannarmi quando mi fermo per comprare da un ambulante un misto di mirra, incenso e fiori d’arancio. Sono inutili le mie ragioni “romantiche” riportare a Roma il profumo di questa città. Il mio shopping nella via principale di Siviglia si ferma qui, impossibile avvinarsi a negozi di mantiglie, pettini, vestiti, scarpe per flamenco, spille e fermagli, sono sicuramente opere d’arte ma costano quanto Bulgari. Ritorniamo dopo questa deludente e irritante seduta di shopping verso il Barrio che per noi non ha più segreti. Abbiamo comprato i biglietti per questa sera evitando attentamente la paccottiglia turistica. Questa sera abbiamo prenotato presso un’associazione culturale che riserva pochi posti (30) con allievi e insegnati di musica, ballo e canto flamenco. Lo spettacolo inizia alle 21,30 ma bisogna essere lì mezz’ora prima, decidiamo quindi di andare a cenare al ristorante “da Modesto”. Sarà per l’orario le 20,00 sicuramente troppo presto per le abitudini spagnole, ma il locale non ci convince per niente, siamo i soli clienti, è già questo mi mette una tristezza incredibile, ma anche il cibo è assolutamente “modesto”.

Usciamo insoddisfatti, arriviamo al Barrio e alle ventuno puntuali entriamo nel palazzo che ospiterà lo spettacolo. Il palazzo è un’antica dimora araba, tanto per cambiare, bellissima. All’interno del patio solo una pedana in legno, trenta sedie intorno, e quattro lampade arabe a olio posate a terra. L’atmosfera è magica, le fiammelle dei lumi illuminano il palco in maniera morbida e fioca, sopra di noi un cielo stellato meraviglioso. In silenzio attendiamo l’arrivo degli artisti. Sono contenta di essere in questo posto non avrei sopportato la carnevalata turistica, qui è una cosa seria c’è un calendario mensile con il nome dei vari artisti che si esibiranno. Gli spettatori sono quasi tutti spagnoli. Un ragazzo sale sul palco e spiega che non potranno essere fatte riprese, saranno solo consentite delle foto, gli ultimi cinque minuti di esibizione. Peccato avevamo già preparato telecamera, va bè scatteremo foto. Entrano quindi due uomini uno biondo, l’altro bruno con una piccola barbetta, sono vestiti con pantalone, camicia e scarpe nere. Il biondo occupa posto su uno dei due sgabelli e incomincia a suonare la chitarra, la musica è cantilenante, il moro ogni tanto dice un OLE’ e batte i tacchi sulla pedana. Non riesco a capire se è casuale o risponde a passaggi precisi della musica o segue una sua ispirazione, sta di fatto che a occhi chiusi quasi rapito da una visione estatica, torna tra noi con queste due azioni. Guardo Francesco, siamo preoccupati ci diciamo “ sarà tutto così?”… Va bè, che non volevo la carnevalata, ma se è tutto, così è un po’ una palla. Non finisco di dire questo che all’improvviso il moro incomincia un lamento gutturale che sembra uscire dalle profondità della terra. A occhi chiusi, con la faccia contrita continua il suo lamento cantato. Dopo un primo brivido iniziale, ci viene da ridere, il tipo canta facendo smorfie incredibili, sempre a occhi chiusi dice frasi incomprensibili allungando a dismisura tutte le sillabe delle parole, afferro qualcosa che assomiglia a un “Jo rosicooooooo” e lì mi becco una spallata di Francesco che a stento si trattiene dall’esplodere in una fragorosa risata. L’idea di stare in prima fila non è stata una grande idea. Guardo gli altri spettatori e tutti sono coinvolti nel dolore esistenziale della canzone flamenca, siamo proprio due ignorantoni a noi provoca un riso irrefrenabile. Mi mordo le labbra, e chiedo con occhi supplici aiuto a Francesco che fa finta di mettere a posto qualcosa in borsa per non farsi vedere. Il tipo continua a cantare tutte le disgrazie, suppongo amorose, a me fa venire in mente Asterix in Iberia, dove Goscinny e Uderzo avevano disegnato in maniera fantastica questa situazione rendendola assolutamente buffissima. Finiscono il pezzo e senza ringraziare il pubblico si girano l’uno verso l’altro e si ringraziano alzando la mano destra in alto con forza a mo’ di saluto, gesto intenso e fiero. Si rimettono seduti e ricomincia il lamento, Qualcuno mi aiuti sto per perdere il controllo, a salvarci da un lato del Patio sbuca Maribel, la ballerina di Flamenco. È una signora sulla quarantina, bellissima, ha un corpo affusolato racchiuso in gonna lunga con le ruche, e una camicetta bianca stretta in vita da una fusciacca che circonda un vitino incredibile. I capelli sono raccolti con cura ed eleganza sulla testa, con una morbida onda su un lato fermata da fermaglini di strass, ai piedi delle incredibili scarpette di marocchino. L’abbigliamento è serio, elegante e composto, niente scollature audaci, o vestiti a pois squillanti e finti. Lei guardandoci negli occhi incomincia a muovere i piccoli piedini accompagnandosi da evoluzioni delle braccia e delle mani che disegnano nell’aria ricchi arabeschi. Sono stupita ed estasiata, la postura, i movimenti delle braccia, della testa, hanno qualcosa di regale inarrivabile per grazia e bellezza. Ma quello che mi rapisce sono i piedini che fanno cose incredibili è come se vivessero di vita propria, staccati dal corpo di cui non sentono il peso. Nella danza, sbattono, si attorcigliano, scivolano sulla pedana incuranti di qualunque legge fisica. Maribel sembra non essere la padrona di quei piedini e si lascia trasportare, la sua espressione è fiera e seria. Orgoglio, dignità, forza, bellezza, i movimenti sono un linguaggio che mi piacerebbe capire fino in fondo seguono la melodia della canzone. Certo c’è una grande differenza tra l’uomo che si lagna cantando, e la forza della danza della ballerina. Continuano i saltelli, piroette, balla persino sulle punte, e sui tacchetti, incrocia i piedi, e ad un tratto fa dei passettini piccolissimi, che danno l’idea che stia scivolando su una lastra di ghiaccio. Maribel entra ed esce dalla scena mentre i due giovani uomini cantano e suonano. Non possiamo riprendere con la telecamera, la cosa è assurda, so che non troverò le parole adatte per descrivere la magia a cui stiamo assistendo. È una grande ballerina, scopriremo che è una famosissima artista che ora insegna all’Accademia di Flamenco. Il concerto volge al termine è strano ma con il passare del tempo siamo catturati dal canto e dalla musica che incomincia ad avere spessore e significato, Maribel con la sua danza ha veicolato il suono rendendolo comprensibile a noi profani. Ci avvisano che possiamo fotografare, Francesco fa il furbo e riprende con la macchinetta fotografica. Pochissima roba rispetto a quello che abbiamo visto.

Usciamo dal Patio, Francesco mi dice che assistere a questo spettacolo gli ha fatto bene, sente di aver recuperato forza e vitalità, forse incomincio a capire il senso del Flamenco. Dolore e sofferenza, nel canto e ballo, diventano forza e reazione, vitalità e orgoglio, uomini e donne diventano guerrieri eroici contro il fato che mai li doma o annienta. Ok, batto anche io i piedi sul ciottolato, reagisco, e poca importa se sto camminando lungo il Barrio, questo è il momento per farlo, vivo l’onda di questa grande emozione. Torniamo verso l’inizio di Santa Cruz e ci regaliamo per festeggiare la serata un’altra Cruz Campo e l’ultima Tapas del Dia: petti di pollo a bocconcini, affogati in un sughetto delizioso. La Cruz Campo gelata alle 23,00 è un’estasi di piacere, giusto corollario a tutte le emozioni forti di questa giornata. Riprendiamo la macchina che avevamo lasciato dalla mattina al parcheggio, dopo l’esperienza di ieri sera con il tour automobilistico del terrore. Costo per l’intera giornata, 10 euro, tutto sommato pochi. Il tizio all’ingresso non ci fa pagare alla macchinetta e si intasca i nostri soldi facendoci uscire con un suo biglietto sgualcito e sbiadito, buon per Lui… Olè. Torniamo in albergo sfiniti, abbiamo comprato dei dolcetti ad un forno a Calle Sierpes domani saranno la nostra colazione con un succo di frutta. Siviglia ci ha conquistato e prenotiamo per un’altra notte. Questa città è fantastica e merita di essere visitata con più calma. Ripenso a quei piedini i miei sono a pezzi, quelli di Maribel sembravano animati da forze sconosciute.

Nel quartiere Mararena

Ci svegliamo e pianifichiamo il nostro giro, oggi ci aspetta la Macarena. Il quartiere è famosissimo, è quello dei gitani. Noi chiaramente ci finiamo dentro con la macchina, anche qui stradine e vicoletti, ma per fortuna niente a che vedere con Santa Cruz. Ci allontaniamo a fatica, e cerchiamo un parcheggio fuori dal dedalo di viuzze. La zona non è bella è un quartiere popolare senza particolari attrattive. Parcheggiamo senza paura e senza ansia ad un 1 Km. Ci mettiamo in cammino, qui gira un’umanità fatta d’immigrati e gitani. Sento caldo, il cappotto qui è di troppo e ventitré gradi si sentono tutti. Decidiamo quindi di entrare in un negozio dei “cari amici cinesi”, come li chiama Francesco, è lì improvviso il mio guardaroba sivigliano: giacchetta corta, stivaletti bassi, (e non i miei pesantissimi stivali lunghi). Esco con gli acquisti e ritorniamo in macchina, dove mi cambio. Finalmente alleggerita, ritorniamo sui nostri passi, questa volta diretti alla Macarena. Attraversiamo uno stradone e ci ritroviamo negli ormai noti vicoletti sivigliani che portano a delle spettacolari mura moresche. Sono una meraviglia, risplendono di una luce arancione sotto un sole caldo e luminoso. Seguendo le mura attraversiamo un arco e ci troviamo di fronte alla chiesa della Macarena. Non è una chiesa grande e non è antica, tutta in calce bianca all’esterno, ha uno stile neobarocco. C’è tanta gente fuori ed avanziamo a fatica. All’interno vediamo qualcosa di assolutamente sbalorditivo, davanti a noi in mezzo alle tantissime teste scorgiamo in cima ai gradini dell’altare la più straordinaria ed incredibile Madonna: la Macarena. È bellissima, in piedi sotto l’altare riceve il bacio sulle mani da parte dei fedeli in coda. È il bacio della Speranza. La Macarena è ad altezza naturale vestita ed ingioiellata, sembra che scruti le persone da cui riceve un bacio, accanto a lei persone in divisa puliscono le dita dopo il bacio con un candido fazzolettino, sono della confraternita della Macarena. La guardo e non riesco a definirla una statua, qualche viaggiatore prima di me l’ha descritta come una Bambolona in piedi. È truccata, con un pomposo manto in velluto e oro, il vestito tempestato di pietre preziose, ha dei gioielli incredibili, prima fra tutti una Corona stratosferica, degna di una regina araba, ma ha anche spille di diamanti, alcune delle quali donate da Toreri per grazia ricevuta… La Signora in piedi sembra altissima, come se fosse reale e viva è lì impettita pronta a ricevere i baci dal popolo suddito. La Chiesa è piena di gente, c’è un battesimo collettivo che per fortuna è al termine, a breve la Signora sarà restituita alla devozione del suo popolo. Qualcuno percorre il breve tragitto che porta all’inizio dell’altare, in ginocchio, qui si chiedono grazie importanti, qui, si arriva carichi di speranze. Ci mettiamo in fila, va prima Francesco, poi andrò anche io, anche se mi sento in difficoltà, ho la gonna corta e mi sento a disagio. Ma qui non ci fanno caso. Francesco china la testa e bacia le mani che sono ad altezza della vita. Dopo il bacio prontamente il signore accanto alla statua pulisce con il fazzolettino le dita della Macarena. Cerco di fotografare, ma le teste mi sovrastano, quando tocca a me, avviene il “cambio della guardia”. Il signore accanto alla Macarena ha finito il turno e cede il fazzoletto ad un altro, ma non va via senza aver baciato come un innamorato, le mani della Bella Signora. Arriva il mio turno e decido di fare una cosa diversa abbasso la fronte e sfioro con il capo le mani, forse cerco protezione. Nell’abbassare la testa, guardo la Macarena, è di una bellezza sconvolgente, mi accorgo che sul volto ha delle grosse lacrime che splendono, (sono dei diamanti), è una Regina dolorosa, come quasi tutte le statue andaluse, ma no ha niente di straziante, è un dolore fiero che dà forza. Mi sovrasta, è incredibile, magnetica, provoca emozioni fortissime. Usciamo dalla Chiesa e vado a prendere un ricordo nel negozio di souvenir. Due signore, all’interno, si intrattengono in una conversazione fiume con la commessa. Qui siamo in Spagna il tempo è assolutamente relativo, poco importa che è quasi l’una, qui prima delle due non si pranza. La signora parla, parla, per ingannare l’attesa provo a capire cosa si stanno dicendo e scopro che si stanno confrontando con la commessa su che tipo di sguardo aveva la Macarena mentre le erano baciate le mani. La signora dice che aveva lo sguardo dolce e amorevole, la commessa conferma il fatto che la Macarena guarda ognuno con uno sguardo diverso… Potere della fede e della suggestione. Ripenso all’incrocio dei nostri sguardi, quello che mi è arrivato aveva un che di stupito, forse poggiare la fronte non è stata una grande idea, come al mio solito ho fatto di testa mia stravolgendo il rito e la tradizione. Compro un ricordo, e incuriosita chiedo a Francesco che impressione aveva avuto guardando la Macarena, mi dice che aveva uno sguardo dolce sorridente e divertito, con Francesco non potrebbe essere diversamente… Ci penso su, voglio tornare e rispettare la tradizione, ma è l’ora di pranzo e bisogna cercare un posto. Facciamo un giro, ma nei vicoli adiacenti non troviamo nulla d’interessante, stiamo quasi per desistere, quando sul proseguimento della via della Chiesa della Macarena, troviamo un locale con delle botti sulla strada dove fanno i famosi panini spagnoli, i Montaditos. Il posto non è proprio economico, ma i panini con il formaggio e camon serrano sono ottimi, e poi la Cruz Campo, servita con la giusta temperatura da zero gradi a -2, è favolosa. Mi guardo intorno ci sono solo uomini che bevono, sul muro oltre a manifesti di corride, ci sono tutta una serie di fotografie della Madonna della Macarena, e della Semana Santa momento in cui la Macarena esce su un carro incredibile portato a braccia dalle persone della confraternita e cammina tra il suo popolo che le urla “ Guappa”. Penso al potere di questa statua, alimentato dall’energia di tutte le persone che sfilano giorno dopo giorno davanti a Lei. Guardo le foto e scopro che la Macarena ha anche un ricco guardaroba, infatti, cambia d’abito secondo le occasioni. Io l’ho vista con un vestito bianco e oro tempestato di pietre preziose, ma dalle foto vedo che ha un abito nero, probabilmente indossato durante la Quaresima, uno rosso e uno viola. Mangiamo i panini e ci rilassiamo, anche se sono pronta a rifare il giro. E così una volta usciti dal locale, rientro in chiesa dove continuano sfilare i devoti. E’ cambiato il picchetto d’onore accanto alla Signora. Mi riavvicino e questa volta sfioro con un bacio le mani, chiaramente guardandola prima negli occhi, questa volta la Macarena ha lo sguardo è un po’ scocciato, come dargli torto, sono una grande rompiscatole… è bellissima… Do un ultimo saluto alla Macarena, raccomando come al solito tutto e tutti, ed esco. Indimenticabile questa mattinata.

È il primo pomeriggio e decidiamo di andare a vedere Triana, il vecchio quartiere di pescatori, di là dal Guadalquivir. Giriamo un po’ per il parcheggio, io sono alla caccia di un negozio, parcheggiamo non proprio vicino e ci incamminiamo lungo fiume, ci sono casette carine che costeggiano l’argine che si chiude su un ponte con un graziosissimo barretto con sedie ed ombrelloni. Mi piace tantissimo il sole è dolce ed indugia sulle persone che mollemente si rilassano bevendo qualcosa al bar. Ritorniamo verso il quartiere e passeggiamo sulla via principale piena di negozi, trovo Mary Paz la catena economica di negozi di scarpe, la collezione estiva era un amore quella invernale fa cagare. Continuo a passeggiare, è una via commerciale e davanti ad un negozio di scarpe per bambini non resisto e compro un paio di scarpettine di flamenco alla bimba della mia collega. Irresistibili, per fortuna non ho nipotine o in questo viaggio mi sarei rovinata. Mangiamo qualcosa ma sono le quattro ed i tipi del bar devono aver esaurito ogni voglia di lavorare siamo nel pieno della siesta e le cose che prendiamo sono pessime. Cerco un altro negozio è storico vende mantiglie ed altri oggetti da flamenco. È così storico che nel frattempo ha chiuso! Il sole ormai sta tramontando e si allungano le prime ombre della sera. Decidiamo di andare a vedere la Plaza de Espana, non faceva parte dei nostri programmi, anzi io non l’avevo proprio presa in considerazione è un idea di Francesco ma si rivelerà felicissima.

Arriviamo passando per il centro e senza sapere come parcheggiamo a 10 metri dalla piazza. Rimaniamo senza fiato è fantastica, molto grande ha un laghetto con al centro un isola collegata ai laterali da ponticelli graziosissimi sotto cui passano barchette che si affittano ad un piccolo pontile. L’isoletta al centro è piena di lampioni tutti maiolicati secondo la tradizione andalusa con dei colori stupendi. Intorno sui laterali una serie di quadri di mattonelle di maiolica. Ogni quadro propone le città della Spagna, in ognuna ci sono le caratteristiche che le contraddistinguono. Inizia un gioco tra me e Francesco, cerchiamo le città della Spagna che abbiamo visitato, troviamo Valencia, Alicante, Sant’Ander, Pamplona, Barcellona, Siviglia, e le città che vedremo nei prossimi giorni, Granada e Cordoba. Poi vediamo tutte le altre, questi grandi quadri circondano tutta la piazza e culminano con l’adorata Siviglia. Fotografiamo come folli. Siviglia ci ha riservato l’ultima grande sorpresa, un regalo bellissimo. Che città meravigliosa!

Torniamo verso l’albergo cercando, lungo la strada, un posto dove cenare, Francesco ha trovato qualche indirizzo, ma capitiamo in una grigia periferia, c’è persino una tizia che scende in pigiama per strada per buttare la spazzatura. Scappiamo convinco Francesco a passare per Corte Ingles, la grande catena spagnola tipo, la nostra Rinascente. Sono curiosa voglio vedere com’è. Provo qualche vestito per Capodanno ma non mi sento ispirata. Riprendiamo la macchina, Francesco sta cercando un altro locale usciamo da Siviglia e ci dirigiamo a Italica la città romana di origine fenicia, dove nacque Adriano. È notte non si vede niente, le rovine saranno anche belle, ma la cittadina è solo un paesotto triste. Torniamo verso l’albergo, dobbiamo ancora cenare sono le 22,00. Sotto l’albergo c’è uno strano locale, anche questa sembra una pescheria, invece è come il locale di Barcellona, ti scegli il pesce e loro te lo cucinano. Entriamo, siamo i soli clienti, a me questa situazione mi dà sempre un po’ fastidio, non mi piace, ma bisogna cenare. Ancora una volta non siamo gli ultimi ma i primi! Scegliamo il pesce per una frittura. Sono acciughe, piccole triglie calamari e gamberi, ordiniamo anche un vino bianco ghiacciato, potremmo prendere anche solo un bicchiere ma non ne vale la pena, andiamo per un’intera bottiglia. E’ buonissimo, insieme alla frittura, Francesco si fa portare anche olive e capperi freschi. Entrano dopo una decina di minuti, una comitiva di uomini, mi dà l’idea della cena tra colleghi prima di Natale. Occupano posto, e poco dopo entrano enormi fiamminghe cariche di pesce crudo, un vero e proprio tripudio di ostriche, calamari, ricci, ricciole gamberi, e vari conchiglioni, tutto accompagnato da enormi boccali di Cruz-Campo gelata. Li osservo ormai completamente stordita dal vino, che mi fa il solito effetto, abbatte ogni mia barriera e mi rende allegra e felice. Ho ancora fame e c’è ancora vino, ordiniamo dei gamberi alla plancia (alla griglia). Sono gamberoni reali, sono su di giri e non capisco più niente, mangiamo benissimo e beviamo ancora meglio. Non so come farò a tornare in albergo che per fortuna sta praticamente a fianco. Pesce e vino bianco in quantità hanno per me l’effetto di un fungo allucinogeno (non l’ho mai provato, ma se sballa così, è una meraviglia). Perdo ogni freno e non so neanche come faccio a tornare in stanza, spero che non ci siano telecamere nascoste. Mi sveglio la mattina dopo con la testa che pesa un quintale. Prepariamo le valigie prossima tappa, Granada. Mentre prendiamo il raccordo saluto Siviglia, penso al saluto dei due tipi alla sera di Flamenco in questa immagine è racchiusa la Siviglia, fiera, orgogliosa, tragica, magica e mai doma. Detto tra noi tutta la sofferenza e tragicità della vita la superano alla grande, mangiano, bevono, ballano, vivono con “mucho gusto”. Rimpiango di non avere comprato il telo della Felix Navidad, quello con il bambinello con i capelli neri che assomigliava tanto a Claudio, un tipico bimbo gitano dai tratti arabi.

Granada

Arriviamo a Granada alle 14,00. Qui la temperatura è completamente diversa, fa veramente freddo, del resto siamo sotto la Sierra Nevada, carica di neve. L’albergo è carino, accanto il ristorante. Ormai lo sappiamo entrare a pranzare alle 14,30 è normale in Spagna. Infatti, siamo come al solito i primi anche se a ruota entra un gruppo di donne più altre persone, e il locale si anima. Mangiamo con dieci euro, qui non ci sono Taperie ma veri ristoranti, non si stuzzica, si mangia bene e tanto. Ci alziamo che potremmo rotolare dall’alto dell’Alhambra. Ed è la prima cosa che facciamo, controlliamo la strada che faremo domani. Saliamo per una strada tutte curve, troviamo l’ingresso dell’Alhambra, proseguiamo fino ad arrivare a una vecchia stradina moresca che scende sotto un albergo stupendo. Questa strada è una delizia, strettissima, pedonale, tutte curve, scende a Granada costeggiando muri in calce bianca da cui si affacciano rami di buganvillee, gelsomino e aloe. È freddo in questo periodo si vede solo qualche timido fiore, ma deve essere uno spettacolo in giugno, quando tutto fiorisce. Vorrei fare la stradina fino a giù, ma la discesa non è corta e poi sarebbe impensabile risalire per riprendere la macchina. Faccio solo qualche curva e torno indietro. Riprendiamo la macchina e scendiamo in città. La città è incasinata dal traffico e a un primo sguardo ci sembra meno bella di Siviglia. Lasciamo la macchina a circa un chilometro e mezzo dal centro. A me scappa la pipì, sarà il freddo tagliente, entro di corsa in Corte Ingles, Francesco entra poco dopo e rimane stupito dalla velocità con cui risolvo il mio problema, nel giro di cinque minuti trovo i bagni. Del resto dopo trentacinque anni di onorato servizio nello shopping compulsivo, so cosa trovare in qualsiasi centro commerciale del pianeta.

Il centro di Granada è veramente carino e mi ricredo sul mio primo giudizio. Camminiamo in una piazza, dove c’è un mercatino di Natale, con ai lati tanti negozi e bar, dietro s’intravedono vicoli tortuosi, regno indiscusso di commercianti arabi sbarcati da Tangeri. I prodotti che vendono sono quelli tipici dei Suk, ci teniamo un po’ alla larga, il ricordo che abbiamo di Marrakech è che ci hanno trattato come autentici polli da spennare. Ma qui scopriremo che è un’altra cosa questi sono ispano-mussulmani. In piazza compro qualcosa, l’atmosfera è allegra e festosa, una banda di Babbi Natale suona lungo le strade, ha tamburi, fisarmoniche e chitarre. Sui marciapiedi è pieno di gitani che vendono biglietti della lotteria. Questa della lotteria mi sembra un’autentica fissazione, ad ogni angolo c’è qualcuno che vuole venderti quello che sostiene essere il biglietto vincente, peccato che ogni singolo biglietto costa € 20,00. Non ce la facciamo a cenare compriamo qualche dolcetto ad un forno, oltre a delle tisane e spezie in un negozio fantastico vicino la Cattedrale. Su questo negozio avevo letto nei consigli di altri viaggiatori. Dentro c’è qualsiasi cosa appartenga al regno vegetale, da solo o in mix. Qui ho trovato una tisana ai fiori di arancio con passiflora, ananas e chissà cos’altro, la beviamo praticamente tutti i giorni… Un thè verde con altra roba tipico “sapore di Granada” speziato all’inverosimile. Oltre a questo si può acquistare curry, senape, harissa, cumino, noce moscata, menta, cocco, malva, origano, zafferano, pepe in grani, curcuma, insomma tutto lo scibile delle erbe e delle spezie. Sono tutti messi in grandi sacchetti di iuta, e sono venduti a peso. Ci sono poi delle gelatine fatte con delle cose incredibili, noi ne compriamo al rabarbaro, all’aloe, e al cocco. Quella al rabarbaro, adatta per la digestione, è così forte che fa venire le lacrime agli occhi. Non sono propri economici ma comunque sono irresistibili. Se non fosse che Francesco mi ha minacciato, avrei comprato tutto. Siamo stanchi, domani alle nove dovremo essere all’Alhambra, abbiamo prenotato i biglietti sul sito. Torniamo in albergo, stanchissimi.

Alhambra

La mattina dopo ci alziamo con la nebbia, la sierra Nevada sembra sospesa in aria. Ci mangiamo qualche dolcetto e partiamo, In questa vacanza abbiamo scelto di non prendere la colazione in albergo costa molto e fuori si trovano cose buonissime. Usciamo velocemente pronti a esplorare il palazzo delle mille e una notte, armati di telecamera, macchina fotografica e guida. Arriviamo in anticipo, e sarà perché è inverno, ma non abbiamo problemi nell’acquistare i biglietti, c’è fila ma niente di drammatico. Ci prenotano per l’entrata delle 10.30, qui le entrate sono scadenzate, attendiamo per una buona mezz’ora insieme al nostro gruppo, saremo circa una quarantina. La giornata volge al bello, c’è il sole, ma continua a fare tanto freddo. La vista è anche da qui bellissima, Alhambra posta in alto domina la vallata a cui piedi si prostra come un fedele servitore, Granada. Il colle dove è stata costruita crea una separazione naturale, isolando, di fatto, un posto ameno e sicuramente fresco in estate, dalla città affossata e gremita di gente. A Granada in estate si raggiungono i quarantacinque gradi. Alle dieci e trenta entriamo dai tornelli e ci troviamo nella prima stanza, ci siamo presi un audioguida. Il narratore della macchinetta mi dice che questa prima stanza era quella destinata alle udienze processuali, l’accesso da dove siamo entrati, probabilmente non era quello originario e sembra che la stanza abbia avuto vari rifacimenti tanto che non si è riusciti a risalire all’originale orientamento. Da questa prima descrizione mi rendo conto che qui sarà duro capire e ricostruire il palazzo delle mille e una notte che avevo sognato. Seguiamo la mandria di turisti, il percorso è obbligato non possiamo fermarci abbiamo due ore di tempo per vedere tutto e non conoscendo le distanze diventa una corsa. Entriamo e usciamo, da patii e stanze il posto è sicuramente bello, ma non sento la magia, la guida spiega in maniera asettica, mi consolo pensando che presto vedrò il patio dei leoni, l’immagine su tutte le cartoline di Granada. Rimango colpita dalla sala delle Comares, con due colonne altissime ed il soffitto in legno di cedro intagliato e tantissime azuelos sulle pareti. Dappertutto ci sono scritte in arabo che invocano Allah, fantastica questa scrittura sembra un ricamo. Forse questo posto non è sufficientemente curato o forse tutta questa gente non fa cogliere la magia ma c’è qualcosa che non mi convince. Altra stanza, vista di corsa ma bellissima è quella delle due sorelle, la guida non spiega bene il motivo del nome, sembra sia dovuto a due lastroni di marmo sul pavimento, ma non può essere tutto. Mi dispiace che manchino le storie di vita, gli aneddoti di questi posti, vedendoli così, sembrano privi di quel fascino tanto narrato da renderlo una delle meraviglie del mondo. La mia delusione sarà presto colmata da un inaspettato acquisto, ma di questo parlerò dopo… Continuiamo ad uscire ed entrare e, finalmente, in fila indiana ci dirigono al patio dei leoni. Mi predispongo allo stupore, ma quando entro scopro che la fontana è in restauro, ci fanno passare per un lato del patio attraverso travi, polvere ed operai, la fontana di alabastro è completamente smontata, i leoni accantonati su un lato. Mi sto arrabbiando, non capisco se questa visita è solo una fregatura. Usciamo e attraversiamo il palazzo di Carlo V, qui finalmente ci possiamo fermare un po’ e ragionare. Questo palazzo voluto da Carlo V, e non sarà mai finito. Il posto è bello dalle finestre si vedono in basso i tetti di Granada, anche se questa costruzione sembra un intrusa rispetto alle altre. Vorrei stare di più, ma Francesco mi dice che dobbiamo correre il tempo scorre. E’ un casino girare con il cronometro sapendo che questo posto non è solo un palazzo ma una cittadella. Usciamo seguendo le indicazioni e ci ritroviamo su un sentiero che sale lungo la montagna. La giuda continua parlare saliamo lungo il pendio che porta al Genaralife, la residenza estiva dei sultani posta su una collinetta che sovrasta la cittadella dell’Alhambra. Qui si rifugiavano i signori arabi quando faceva molto caldo. Lungo la strada sterrata, tra dei giardini, passiamo davanti a due torri. La prima è detta dei bambini, sembra che i bimbi stavano lì dentro protetti e curati da donne, poi quella delle ragazze. La Torre de las Infantas, costruita nel 1445, è la meglio conservata, è una piccola casa con banchi all’entrata per gli eunuchi, mentre il piano superiore era riservato alle donne. Fu la residenza delle sorelle Zaida e Zoraida. Proseguendo si arriva al palazzo superiore. Nel Corano il Paradiso è rappresentato come un giardino alberato ed ombreggiato, dove i fortunati oziano sdraiati sotto alti baldacchini. E’ questo è il Generalife un lussureggiante parco con patios, giardini, interni, sentieri e giochi d’acqua, il nome significa il giardino dell’architetto. La guida ci racconta che tra questi parchi si consumò una storia di tradimento, nel Patio dei cipressi dove s’incontravano la moglie del sultano Zoraya con il capo delle guardie Hamet. Di questo tradimento è rimasto un tronco di cipresso di 700 anni. Questo fu anche il luogo d’ispirazione di Bizet per la sua Carmen. Tra le meraviglie del Genaralife rimango colpita dal Camino della Cascadas una scalinata, dove l’acqua scorre giù dalle balaustre in pietra, sotto si trova il fiabesco palazzo estivo con i suoi belvedere decorati. Questa particolarità era una raffinatezza per i signori e le signore che così potevano godere, anche mentre salivano delle scale, del suono gorgogliante dell’acqua, ritenuta una delle caratteristiche del Paradiso Islamico. E’ favoloso, non so perché ma mi viene in mente che se fosse stato fatto in Irlanda avrebbero ucciso l’architetto… Passeggiamo con una sensazione di serenità tra patii, fontane, giardini, questa parte è bellissima. Abbiamo corso e in due ore abbiamo terminato il nostro viaggio. Sono arrabbiata abbiamo perso la zona militare e non abbiamo apprezzato adeguatamente il Palazzo sotto il Genaralife. In sostanza siamo delusi.

Lasciamo l’Alhambra con la sensazione che non abbiamo visto niente. Torniamo verso la città è sabato pomeriggio, troviamo parcheggio in un posto incredibile, la solita stradina stretta andalusa a senso unico e senza uscita che finisce in un parcheggio, entrata ed uscita disciplinata da un tizio. Scendiamo anche perché diversamente non sarebbe stato possibile tornare indietro. Siamo al parcheggio della Vittoria, dopo Vicolo Stretto, ci sembra di vivere nel Monopoli. Ci incamminiamo a piedi alla ricerca dell’Albayzin, il quartiere ebraico. Francesco ha selezionato alcuni posti per pranzare. Attraversiamo il centro e ci troviamo nella Plaza Nueva, piazza molto bella che si apre sulla parte antica sotto l’Alhambra. Scorgiamo alla nostra destra un piccolo fiume con graziosi ponti in pietra che collegano le due rive. Siamo nella parte più caratteristica e antica di Granada, suppongo che questo sia il posto amato da ragazzi, artisti e strippati, insomma il nostro posto. Dall’alto domina l’Alcazar, la zona militare dell’Alhambra, posta lì a difesa della cittadella dei signori arabi, primo e invalicabile limite per la popolazione da basso. Plaza Nueva fu testimone del rogo di 80.00 libri dell’antica università mussulmana, durante la Reconquista. Nel rogo andarono bruciati preziosi scritti dei più grandi scienziati, filosofi, medici arabi. E’ strano ma il comportamento è sempre lo stesso, i libri fanno paura ieri come oggi ed è la prima cosa che finisce tra le fiamme quando scoppia una rivoluzione. Incominciamo a salire sull’Albayzin di fronte l’Alhambra. Si sale su per dei vicoli ciottolosi, sono quasi le due e sono discretamente stanca. Le case di questo quartiere sono abbarbicate una sull’altra, tutte in calce bianca in perfetto stile Moresco. Non ce la faccio più ho fame ed ho finito il fiato. Francesco si è incaponito nel cercare un ristorante segnalato dalla guida: “Il Ladrillo”. Sono sfinita vorrei fermarmi ad ogni piccolo ristorantino che incontro lungo l’ascesa, ma non riesco a convincere Francesco. Sto perdendo tutte le speranze sono quasi le tre e Francesco continua a cercare il posto con il navigatore, sembra un rabdomante con il suo bastone in cerca dell’acqua. Quando ormai sono rassegnata, Francesco trova il ristorante dietro un vicolo. E’ molto carino, ha una scala che sale ad un piano superiore tutto decorato a mosaico. Per niente intimoriti dall’orario i camerieri ci danno il menu, tra l’altro insieme a noi entrano un gruppo di donne e due coppie. Noi siamo in imbarazzo per l’orario e ordiniamo il menù turistico, tutti gli altri invece ordiniamo alla carta per niente intimoriti come se fosse l’una. Noi finiamo in fretta abbiamo preso un pesce bonissimo, mentre gli altri continuano a ingurgitare litri di birra sganasciandosi dalle risate. Mentre Francesco paga, scendo per fare qualche passo, dal piano di sotto sento cantare. Vado a vedere, nel bar del locale i clienti cantano a squarciagola canzoni natalizie, nessuna nenia, sono tutte rivisitate in maniera gitana. Feliz Navidad è sola una delle tante, ma qui anche Bianco Natale e Silent Nigth diventano allegre e festose. Al banco ci sono due donne che cantano e ballano, hanno bevuto diversi bicchierini e sono allegrissime. Mi sorridono e senza sapere come mi ritrovo a cantare con loro, mi offrono da bere, Francesco scende e mi trova con queste due nuove amiche, le tipe sono Imma e Carmen, è come primo atto per sancire la nascita della nuova amicizia ci offrono un Chiupito. Incominciamo a parlare ci chiedono del nostro viaggio. Raccontiamo della nostra delusione rispetto all’Alhambra. Loro ci confidano che la porta più bella non è aperta al pubblico così come alcune stanze, cortili, patii. Quella che ci hanno lasciato è visitare la minima parte, ma la vera Alhambra è nascosta ai turisti, ma ben conosciuta dagli abitanti di Granada che attraverso un complicato giro di amicizie e parenti hanno modo di visitarla. Lo sapevo che doveva esserci un’Alhambra nascosta, le mie sensazioni erano giuste. Rimango affascinata dalla forza e allegria di queste due andaluse, che sempre più abbeverate ci dispensano altri consigli di viaggio. Ci dicono di non andare a Sacro monte, il territorio dei gitani. Le grotte, dove vivono, gli abiti le canzoni sono ad uso e consumo di turisti che si illudono di essere capitati nel mezzo di una festa gitana, dove sono coinvolti ed adeguatamente alleggeriti in mance o furti. Effettivamente la nostra guida ci aveva avvertito, e dopo questa dritta ci convinciamo che forse non è il caso. Riparte il giro degli shortini, questa volta a base di rhum, la musica è sempre più a palla, così come la gente del bar che improvvisamente inizia a cantare il “po’ pom pom pero”. Si balla, è una situazione fantastica, io mi lascio trascinare in una sorta di flamenco con Imma, l’altra chiede a Francesco notizie dell’Italia, siamo a dicembre e loro sono rimaste colpite dalle lacrime del nostro ministro rispetto alle nuove disposizioni in materia di crisi. Facciamo capire che a noi non ha prodotto alcuna emozione ma solo rabbia. Loro sono altrettanto arrabbiate con il loro governo, si dichiarano di sinistra e andaluse (sembra che una è rafforzativa dell’altra). Francamente qui hanno un modo diverso di vivere la crisi e non ho visto in giro recessione. Continuiamo a ballare ed abbracciarci con tutto il bar che è in delirio. Le due andaluse, però devono andare via Imma lavora di notte, è una guardia giurata all’Ospedale, e Carmen deve andare dal nipote. Ci scambiamo indirizzo e telefono e si offrono di farci da giuda domani, saremo entusiasti, concordiamo di scriverci per @ per i dettagli. Carmen mi regala un’immagine della Madonna Andalusa, mi dice che è molto più forte della Macarena. Qui il campanilismo con Santi e Madonne è una cosa seria. Ringrazio di cuore e lasciamo anche noi il bar e l’Albayzin. Scendiamo, sono le 19,30 e fa freddo, il parcheggio non è proprio vicino. L’appuntamento da confermare è per domani a Plaza Nueva alle dieci, torneremo in albergo, invio un messaggio ad Imma ed dopo un bagno bollente andiamo a dormire.

La mattina mi sveglia il pc con un messaggio di Imma, purtroppo bisogna annullare tutto ha avuto una notte difficile, sono le sette e trenta ed è appena tornata a casa. Che delusione, mi sarebbe piaciuto fare un tour fuori dai sentieri battuti dal turismo di massa. Ma non c’è niente da fare, domani ripartiremo e non c’è tempo.

Decidiamo comunque di andare a Plaza Nueva. Fa un freddo cane ci sono due gradi. Infreddoliti, decidiamo di andare nel bar dove avevamo previsto di incontrarci con Imma e Carmen. E’ un bar famoso, il “Lisbona” dentro è pieno di gente che fa colazione. Ci ordiniamo una cioccolata, che abbiamo letto essere la specialità del posto e, in effetti, è eccezionale: densa, morbida, vellutata, profumata, l’accompagniamo a un dolce grandissimo e zuccheratissimo. Dopo questa botta di calorie adatta al freddo, andiamo a vedere la cappella reale, dove sono sepolti Isabella, Ferdinando e Filippo il bello e Giovanna la pazza. Insomma tutta la famiglia c’è anche il piccolo Michele. L’ambiente è piccolo e a pagamento, ma vale la pena visitarlo, ci sono due grandi statue che riproducono le fattezze dei famosi reali di Spagna, e nella cripta sono conservati i loro sarcofaghi, semplici in stile monacale, come decise la cattolicissima Isabella. Guardo la sua corona, anche questa semplicissima, la sua storia e quella della figlia è un romanzo appassionante, Isabella sposò Ferdinando di nascosto, preferendolo ad un candidato indicato dalla famiglia. Impose una vita dedicata al cattolicesimo più integralista. Diede vita alla Reconquista con la cacciata degli Arabi dai territori spagnoli. Dopo la riconquista di Granada e la cacciata della dinastia araba dei Nasridi, impose il battesimo obbligatorio per Mori e d Ebrei (anche loro cacciati) introducendo l’Inquisizione per riaffermare la purezza della Religione Cattolica. I feroci gesuiti si occuparono di scovare e giustiziare con il rogo ebrei e mori che pur se convertiti continuavano in segreto a praticare la loro religione. L’anno 1492 fu l’anno di Isabella con Colombo e le Americhe, la conquista di Granada e dell’Alhambra. Uno dei quadri più famosi la ritrae nell’atto di entrare a Granada con un Crocifisso in mano. Il favoloso mondo arabo con le sue bellezze architettoniche e con le sue suggestioni artistiche però conquistò anche la cattolicissima Regina che scelse di abitare nel favoloso palazzo e si fece seppellire nella chiesa di San Francesco al Generalife, salvo poi essere spostata nella cappella reale giù in città. Personaggio controverso e ricco di sfumature, non ebbe problemi a mandare al rogo ebrei e mori, a istituire un governo votato al più oscuro bigottismo, amò la figlia, ma non capì mai il suo affrancamento dalla religione, il suo essere ribelle e appassionata. Ardore, fuoco, furore furono il loro comune denominatore, Isabella verso Dio e la causa religiosa, Giovanna verso l’amore carnale e profondo per il suo uomo, Filippo il bello. Tutte e due folli nelle loro ossessioni, ora riposano nella città araba ed ebrea, conquistate dalla bellezza immaginifica del suo Palazzo e dallo spirito che scorre nelle sue strade.

Terminata la visita, usciamo e andiamo nel suk di Granada. Dietro la cattedrale si aprono, infatti, piccole botteghe gestite da arabi con oggetti, vestiti, borse e tutto quello che è possibile trovare in un mercato di una città del Marocco. Facciamo acquisti, trovo una borsetta di nabuk molto carina, che a Marrakech avrei pagato il doppio, dopo estenuanti trattative. Compro anche due cd di Flamenco da un tizio che suona seduto su un marciapiede, suona divinamente ed è un piacere ascoltarlo. Acquisto anche un libro, preziosissimo i “Racconti dell’Alhambra” di Washington Irving, sarà la mia guida per l’Alhambra che non ho potuto visitare e nei suoi racconti rivivrò la bellezza struggente e romantica di questo posto. Sono quasi le due decidiamo di andare a pranzo, scegliamo un ristorante, con la scritta “Andaluso”. E’ turistico ma non male, certo prendere il gazpacho in inverno non è stata una grande idea, soprattutto se fuori ci sono sei gradi. Ritorniamo verso Plaza Nueva, è uscito un timido sole e questo posto ci piace tanto. Camminiamo lungo il muretto del fiume e vediamo un cartello su un portone, l’avevamo notato anche il giorno prima ma il portone era chiuso. Ci incuriosisce, vediamo entrare signore che escono dopo qualche minuto cariche di buste che profumano di mandorle e pistacchi. Mi avvicino al cartello, riesco a capire che lì vendono dolci. Entriamo nel portone e scopriamo che siamo in un convento. Rimaniamo interdetti, c’è una ruota che gira tipo quella degli esposti, con a lato un elenco di dolci corredati da foto e descrizioni. Sono i dolci realizzati dalle suore di clausura di questo convento. Non sappiamo come fare, usciamo, ma poi ritorniamo sui nostri passi, abbiamo deciso di comprarli. Davanti a noi ci sono due signore, studiamo tutto attentamente e quando tocca a noi spingo Francesco verso la ruota. E’ imbarazzato non sa cosa fare gli dico di avvicinarsi ad una piccola grata dove ho visto parlare le tipe. Francesco si avvicina e chiama la suora, le dice “ Seniora” non è molto pratico di ordini religiosi… Vediamo avvicinarsi l’ombra di un velo scuro. Attraverso la grata dorata, una voce bassa e flebile chiede cosa vogliamo. Per fortuna ci viene in aiuto l’elenco, scegliamo per non sbagliarci una confezione di dolci assortiti. La voce oltre la grata ci dice di attendere un momento, vediamo girare la ruota. Arriva un sacchetto con una grande scatola, la prendiamo e lasciamo 20 euro dando un colpo alla ruota, altro giro ed arrivano 5 euro di resto. Saluto la suora con termini appropriati memore degli anni al liceo San Sisto Vecchio di Roma. Usciamo e apriamo la scatola, rimaniamo sopraffatti dal profumo di mandorle, gelsomini, pistacchio, liquore di rose, anice, cioccolato, menta. Scartiamo qualche dolcetto, sono tutti avvolti in cartine leggere e colorate, ci mettiamo seduti ed assaporiamo queste delizie morbide che si sciolgono in bocca e ricordano i dolci arabi. Sono sapori assolutamente incredibili, i sensi sono rapiti e cullati dalla dolcezza, e dal profumo. Rimaniamo con aria sognante e gli occhi chiusi. Chiudiamo la scatola questa meraviglia dobbiamo assolutamente condividerla con la famiglia, e ci imponiamo di non assaggiarne più fino al ritorno a Roma, un’autentica impresa. Il posto è assolutamente da visitare e l’aspetto coreografico dell’acquisto, aggiunge fascino e gusto ai superbi dolcetti. E’ aperto solo la domenica per un’ora dalle 16,00. Il posto si chiama Convento de Safra della M.M. Domenicas a Carrera Del Darro 39. I dolcetti ci hanno scaldato per un po’, ma ora con l’arrivo della notte, il freddo diventa insopportabile, passiamo dall’altra parte del fiume e sentiamo da una finestra spalancata una chitarra che suona un flamenco, il suono mi strega, rimaniamo per qualche minuto ad ascoltare, sento la magia dei profumi, suoni, sapori di questo posto, sono assolutamente conquistata. Ritorniamo verso la macchina, salutiamo Granada, domani Cordoba.

Torniamo in albergo, mi allungo su una poltrona e parto per la mia visita privata all’Alhambra in compagnia di Irving. La storia di questo libro è singolare il suo scrittore Washington Irving soggiornò in una Alhambra abbandonata e dimenticata nel 1829. Quando arrivò la cittadella era abitata da una popolazione di fuorilegge e senza tetto. Nel periodo che vi rimase ebbe modo di girare, scoprire i luoghi incantati, le storie del Rosso Palazzo. Raccontò nel suo libro di questa residenza dominata dallo splendore e dal lusso asiatico, vissuta come paradiso in terra, ultimo baluardo dell’impero moro in Spagna; qui sentì raccontare le storie leggendarie come quella dell’ultimo re arabo lo sfortunato Boabdil, El Chico per gli abitanti di Granada, della sua cacciata a seguito dell’ingloriosa sconfitta. Ma di storie e leggende questo libro è pieno, storie meravigliose come quella della splendida regina Lindaraja, con il suo giardino da sogno posto sotto un balcone we3 n.\. dal quale si affacciò tempo dopo una nuova regina, Isabella di Parma. Leggo avidamente e scopro che nel patio dei Leoni tra i vasi di alabastro che lasciano cadere gocce diamantine si aggirano di notte i fantasmi di quattro mori, vagano alla ricerca di qualcuno disposto a sentire dove è nascosto il tesoro arabo. Quello del tesoro fu un’autentica ossessione per gli abitanti di Granada che lo cercarono per anni convinti che fosse stato nascosto in tutta fretta durante la ritirata dei mori. Durante il soggiorno di Irving le fontane ancora zampillavano come al tempo di Boabdil. Le storie, i dati di questa città fortificata priva di grazia all’esterno, e che non lasciava percepire l’eleganza e la bellezza del suo interno, mi sono finalmente svelati, solo la guarnigione al suo interno contava 40.000 uomini. L’Harem reale aveva grate dorate attraverso le quali le concubine potevano guardare senza essere viste. Bagni ricchissimi, stanze riccamente decorate dove riposavano la concubine. Irving racconta che nella sala sottostante ad ogni lato vi erano nicchie ed alcove con canapè e ottomane dove riposavano i signori arabi, dalla cupola sovrastante arrivava il ricambio d’aria e la luce diffusa mentre dall’altra parte si sentiva lo scoscio dolce della fontana di Lindaraja. In questo palazzo Isabella di Spagna convocò Cristoforo Colombo per redigere il trattato che portò alla scoperta dell’America. Le vicende di questo palazzo mi rapiscono come le sue leggende, come quella delle “tre principesse” o delle “statue discrete” o della “Rosa dell’Alhambra” o del “soldato incantato”… Mi addormento lasciandomi trasportare in questo mondo incantato.

La mattina partiamo con calma, saluto il palazzo, le sue torri, cerco di scoprire il balcone il “Mirador de la Daraxa” l’occhio della sultana, ma tutto è avvolto dalla nebbia e come nei sogni della notte appena terminata tutto scompare ma mano che ci allontaniamo Ci vorrà circa un’ora e un quarto per arrivare a Cordoba. Il viaggio è tranquillo, attraversiamo la splendida Vega, con le sue morbide colline ricca di ginestre, fichi d’india e piante di aloe, qui immagino al galoppo altezzosi e impavidi cavalieri berberi in sella ai loro destrieri. Tra queste colline c’è il paese dove nacque Garcia Lorca, emblema tragico dello spirito andaluso. Io sono ancora in uno stato ipnotico, dopo la lettura di ieri sera durata diverse ore, associo le parole ai posti che ho visto, o solo intravisto, restituendo grandezza e splendore ad una delle meraviglie del mondo.

Cordoba

Arriviamo a Cordoba e lì impazzisce il navigatore… pretende che passiamo attraverso un ponte pedonale, non contempla altre opzioni, lasciandoci interdetti sul da farsi. Siamo costretti a chiudere e ad andare un po’ a caso, Cordoba è circondata dal fiume con ponti e strade pedonali, dappertutto troviamo divieti di accessi al centro della città, dove abbiamo il nostro albergo. Ci aiuta la guida che ci racconta che per entrare in centro bisogna trovare un accesso dove c’è un citofono ed un “pisellone” sulla strada. Troviamo il posto Francesco esce e citofona, dall’altra parte non risponde nessuno, ma magicamente il pisellone si abbassa lasciandoci entrare nella città vecchia. Anche qui ritroviamo vicoli strettissimi, ma niente a che vedere con l’incubo Siviglia. Facciamo qualche curva e ci ritroviamo incredibilmente con la macchina sotto la Mezquita con le sue porte dorate e gli archi. Ancora più stupefacente l’albergo che è a soli 10 metri. Un albergo lussuoso a quattro stelle pagato 32 euro con Booking. Si chiama il Conquistadores. Qui è tutto perfetto il personale prende le valigie, le porta in camera, parcheggia la macchina nel garage sotterraneo, del resto non ci sarebbe modo di parcheggiarla per strada, a meno che non la lasciamo dentro la Mezquita. Saliamo in camera ed esco sul balcone, sono a pochi metri, posso quasi toccare una delle porte dorate, mi sembra di sognare. Francesco è tutto preso dal posto e mi tira con forza, vuole andare in giro. Scendiamo e ci addentriamo tra i vicoli della Juderia, siamo diretti al ristorante “Raphael”, consigliato dalla guida. Lo troviamo con facilità il centro di Cordoba è piccolo. Dentro il locale è un tripudio di oggetti, manifesti, filmati, dedicati alla corrida. Scopro così che il grande torero Manolete era nato qui. Qui il rito taurino è ancora molto sentito, c’è addirittura un museo dedicato al toro, con oggetti, copricapi, teste di toro, code, banderilla, manti, noi lo troveremo chiuso in fase di ristrutturazione, ma francamente non mi sento così trasportata, anche perché le teste dei tori conservate nel museo, sono quelle degli animali che hanno ucciso i toreri, considerate come delle divinità. Penso che al toro vada sempre e comunque male, o è infilzato o se riesce a far fuori il torero è comunque accoppato per diventare un nume tutelare. La tauromachia è una pratica antichissima, che dalle regioni del vicino oriente antico arrivò a tutto il mediterraneo. Da Minosse con il Minotauro a Mitra. Il sangue versato dell’animale attribuiva forza e potere. Sangue e religione si confondono e si mescolano in Andalusia, toreri e tori ma anche Angeli, è qui oltre alla patria del grande Manolete, tra l’altro ucciso da un toro, c’è anche l’Arcangelo Raffaele, la guida caritatevole dei viaggiatori, il guaritore delle religione cattolica. E’ il protettore delle città e da una colonna scruta e protegge Cordoba e i suoi abitanti, non a caso qui tutti si chiamano, Raphael. Sacro e profano, vita, morte, sono componenti della vita andalusa a, mai in antitesi, si fondono e mescolano insieme.

Camminiamo per le strade della Juderia e troviamo in una di queste il museo dell’Inquisizione. Di questi pseudo musei ce ne sono un po’ dappertutto, del resto ogni centro aveva il suo tribunale, con tortura di dotazione annessa. A me non sono mai piaciuti, i macchinari mi fanno venire i brividi e mi danno la nausea sono vere ed autentiche “ diavolerie” mi disgustano. Queste macchine eccitano in maniera perversa unicamente gli uomini, che non a caso riservarono questi “trattamenti” soprattutto alle donne. Anche se qui il tribunale lavorò in maniera “diversa” si dedicò a scovare e punire mussulmani ed ebrei. Fu n periodo di terrore con Isabella e Giovanna, integralismo cattolico o anche semplice delazione per vendetta, rivalità, invidia portava alla denuncia di ebrei e mussulmani rei di praticare di nascosto la fede di appartenenza. La tortura per estorcere una confessione era una prassi consueta per quei poveretti, a cui seguiva la purificazione del rogo. Aspetto per un bel po’ Francesco che si dilunga nel museo, io sono uscita e rimango a guardare qualche negozio della Juderia. Ci sono botteghe graziose con oggetti molto particolari. Finalmente Francesco esce da quel posto orrendo lui ne è entusiasta e si dilunga in ricostruzioni orrende, io mi isolo e cerco di non ascoltare.

Finalmente si zittisce davanti all’insegna turistica che indica in un vicolo un museo Andaluso. In realtà è una casa andalusa del periodo Nasride, il prezzo è esoso e forse non vale la visita, ma comunque apre uno spaccato su quella che doveva essere la vita ai tempi degli arabi. Il dominio degli ispano-mussulmani fu potente e duraturo, anche se oggi quasi completamente dimenticato, erano una nazione senza nome, una forza fulminea che se non fosse stata fermata a Tours “forse la mezzaluna oggi risplenderebbe su Parigi e Londra”, come dice Irving. Un periodo florido e di pacifica convivenza religiosa, con grandi scienziati e medici, una vita ricca e prospera assolutamente diversa da quella che sarà in seguito con la Reconquista, dove al benessere e al progresso si sostituiranno povertà, miseria, bigottismo, paura. Lontani dalle loro case questi arabi si affezionarono a queste terre per loro dono di Allah è per questo lo abbellirono con il solo scopo di rendere felice l’uomo che vi soggiornava. Fondarono il loro potere su leggi giuste ed eque formando un impero che non fu mai eguagliato da quello cristiano. La loro conoscenza, l’arte, si diffuse da qui in tutta Europa e le loro università furono luoghi d’élite per gli studiosi Europei. Cammino e penso che per queste strade passeggiasse il grande Averroè. Lui era nato qui, filosofo, medico, matematico, sosteneva che religione e ragione non sono in antitesi, da strade diverse tutte e due possano arrivare a Dio. Grande studioso di Aristotele ne sosteneva la grandezza anche per i mussulmani. Questo pensiero luminoso è ancora oggetto di discussione ai nostri giorni, dove religione e ragione camminano su binari diversi lontani l’una dall’altra, lasciandoci orfani di una conoscenza completa. Ma oltre Averroè, qui vi erano grandi medici, filosofi, astronomi, ricordati nei vicoli con busti che li ritraggono con barba e turbante.

Assurdo che tutto questo andò perduto con la Reconquista facendo precipitare la Spagna nel fanatismo religioso ed in secoli di oscurità. L’annientamento del popolo arabo fu definitivo, sparirono gli ispano-mussulmani uccisi o esiliati in Africa destinati ad essere berberi, persi e dimenticati tra le sabbie del tempo. La loro amata terra adottiva che occuparono per anni e che resero grande e bellissima li ricorda a malapena descrivendoli come invasori e usurpatori.

Cordoba è bellissima, i suoi vicoli, la sua gente, i suoi illustri figli, a proposito da non dimenticare che Seneca e Lucano, nacquero qui. Ma Cordoba è anche famosa per i suoi patii, purtroppo siamo in inverno e non c’è quell’esplosione di fiori che vediamo nelle foto e cartoline, ma nonostante tutto buganvillee in fiore e zagare occhieggiano da cancelli aggraziati con volute e merletti in ferro battuto. I patii sono una caratteristica ed in estate sono celebrati con una festa che coinvolge gli abitanti della città vecchia che si disputano il titolo di “patio più bello”. Giriamo tutto il pomeriggio siamo alla ricerca della Taberna più famosa di Cordoba, “Casa Salinas”, a pranzo abbiamo assaggiato uno vino incredibile che sembrava un liquore, e che ci ha lasciato senza parole, provocando un sorriso di apprezzamento da parte dei camerieri del Raphael. Parlo della Montilla e noi siamo alla ricerca del posto dove è possibile fare una degustazione.

La Taberna è ben segnalata, entriamo con un po’ di timore, sembra un grande ristorante, ci viene incontro una signorina che ci inviata a visitare le cantine. Visita imperdibile, assolutamente bellissime, stipate di botti di Montilla, sui muri firme di turisti eccellenti, come presidenti, scienziati, attori, calciatori, oltre agli immancabili Toreri. La cosa più straordinaria è che le cantine non sono luoghi oscuri o umidi, ma sale decorate. Ritorniamo all’ingresso e ci dirigiamo al bar qui è possibile degustare diversi tipi di Montilla. Scopriamo che questo vino ad alta gradazione è prodotto nell’entroterra di Cordoba, ed ha un colore e scuro, al palato è denso, forte e profumatissimo. Il cameriere ci fa assaggiare due diversi tipi facendoci notare la differenza, a noi piacciono tutti e due, il problema è che sono autentiche tranvate, a me gira la testa e sono costretta a comprare qualcosa da mangiare per cercare di assorbire la gradazione alcolica. Decidiamo comunque di comprare due bottiglie una per tipo, anche le bottiglie sono uno spettacolo. Usciamo piuttosto allegri, vorremmo andare a cenare nella Cordoba moderna, ma abbiamo le gambe molli, ci accontentiamo di andare vicino all’albergo, purtroppo capitiamo in un posto dove si mangia male e si spende tanto, abbiamo fatto tardi è qui nella zona vecchia le attività chiudono alla partenza dei turisti che per la maggior parte vengono per una sola giornata. Torniamo verso l’albergo, la Mezquita è di fronte a noi illuminata come una sultana con i suoi più bei gioielli, misteriosa e magica ci attrae e noi le giriamo intorno, è una notte buia senza luna e stelle, ma lei brilla attraverso l’oro delle sue porte, e avvolge di mistero la piazza deserta. Saliamo in camera e io esco sul balcone per vedere ancora questa meraviglia, vado a letto lasciando le tende aperte, appoggiata sul morbido cuscino mi addormento guardando gli archi e la porta.

Ci svegliamo molto presto, dalla luce dei faretti, siamo passati alla luce del sole che colpisce l’oro e i lapislazzuli dei mosaici, l’emozione è diversa ma bellissima.

Abbiamo scoperto che se entriamo prima delle dieci l’ingresso è gratis, il motivo è che la Mezquita è la cattedrale di Cordoba è come tale celebra la messa del mattino alle 9,00 e per loro è impensabile far pagare l’ingresso ai fedeli che vogliono assistere alla Santa Messa. Mi viene da ridere, ripenso alle chiese della mia città, Firenze, dove basta che varchi l’ultimo gradino dell’ingresso e devi pagare fior di quattrini la cosa mi fa veramente schifo. Savonarola aveva ragione… Entriamo alle nove e rimaniamo stupiti, ci ritroviamo in una selva di archi e colonne poste diametralmente, sembra di essere in un labirinto, perdi il senso dell’orientamento e non riesci a definire lo spazio , colonne ed archi si inseguono, e tu entri ed esci da corridoi. La luce filtra sembra di essere finiti in un posto irreale. Camminiamo con Francesco senza riuscire a capire il senso del posto che ci cattura. Ci allontaniamo dalle colonne e ai lati scopriamo nicchie riccamente decorate da mosaici colorati, che sovrastano stridenti cappelle con Santi, Madonna, Gesù Bambino, ecc. Siamo stupiti da questa Moschea, che doveva essere un’autentica meraviglia, costruita 1200 anni fa, ha 856 colonne con capitelli diversi. Oggi è la Cattedrale di Cordoba e quindi dedicata e piegata al culto cattolico. Devo essere sincera la stranezza del posto mi attira è tutto così assurdo, camminiamo verso il centro e lì troviamo tra archi e colonne, l’altare Maggiore, è l’ora della messa e nella Moschea/Chiesa si diffondono le note di un organo che non riusciamo a scovare, è una sensazione intensa, dopo la musica incomincia la litania della messa in Latino. L’acustica del posto è incredibile, le voci ed i suoni rimbombano tra le colonne, producendo tonalità che danno i brividi. Francesco fotografa come un pazzo, io provo a raccapezzarmi ed incomincio a camminare in circolo, così scovo il Mihrab l’abside che normalmente è orientato verso la Mecca, qui invece è orientato verso la Moschea di Damasco, una libertà dell’architetto Abd Al Rahman. Questa è una particolarità da non sottovalutare, saper dove è la Mecca è sapere dove si deve pregare, e in qualunque moschea del mondo è un fondamento della pratica islamica. Qui è ignorato dimostrando come questi arabi si fossero affrancati da un certo tipo di religione. Dall’altro lato della Moschea sono conservate iscrizioni arabe, messali cattolici, libri antichi. Non riesco a capire, in quel periodo, in questo posto, come in tutta l’Andalusia, vigeva la libertà di culto, ebrei, cristiani, mussulmani vivevano gomito a gomito nel rispetto e fiducia reciproca, creando, di fatto, una società multiculturale. Perché un’esperienza così unica è andata perduta di chi fu la colpa, chi distrusse questo mondo ideale, noi… forse. E chi mi dice che il nostro fanatismo religioso è frutto dei tempi antichi rispondo che la modernità non è rappresentata dall’evoluzione tecnologica ma da quella delle coscienze, è da questo punto di vista noi siamo in pieno medio evo, cechi, ottusi, villani, e ladroni, incapaci di offrire soluzioni. Della Cordoba ispano-mussulmana rimangono selve di colonne ed archi, dove perdersi, e da dove non si vorrebbe mai trovare la via d’uscita. Usciamo dopo due ore, ancora esterrefatti e in omaggio al posto andiamo anche a visitare la sinagoga. E’ rimasta poca roba, erano diverse ma è rimasta solo questa. E’ ora di partire, compriamo qualcosa, e andiamo a salutare la Creatura alata che protegge questo posto. Siamo sotto EL Triunfo di Rafhel, ringrazio di aver visitato questo posto dove tolleranza, bellezza, sapienza, spiritualità hanno saputo convivere per tre secoli.

Ripartiamo alle dodici, zero lasciamo Cordoba ripassando per il varco con il citofono. Abbiamo ancora del tempo Francesco decide di fare una piccola deviazione, prima di arrivare a Siviglia, facciamo una breve sosta a Carmona – questa piccola cittadina fu fondata dai cartaginesi, occupata dai romani è abbellita dagli arabi, E’ graziosissima, anche qui vicoletti stretti con strade fatte di ciottoli. Francesco ha trovato un ristorante posto sulla parte alta era un vecchio mulino. Arriviamo alle 13,30 ma ancora non è aperto ci dicono di aspettare bisogna aspettare all’arrivo del “Cabalerò “ il cavaliere, supponiamo il proprietario, ci sediamo e rimaniamo un ora ad aspettare. Affamati e stanchi senza che nessuno si sia fatto vedere, ce la svigniamo, tanto qui il cabalerò non arriva e non si mangia.

Riprendiamo la macchina, Siviglia è a una ventina di chilometri. Andiamo al solito parcheggio al centro, lasciamo la macchina, e ci infiliamo nella Taberna che si chiama Mezquita… non poteva essere diversamente. Divoro pymentos e tortiglia nel frattempo mi arrivano notizie dall’Italia, dal mio ufficio. Mi dicono che la mia azienda è in crisi che ci saranno esuberi, che noi dipendenti dovremo fare sacrifici che la crisi strozzerà tutti. Ascolto e in quel momento prendo la mia decisione, andrò via, ricomincerò da capo, costruirò qualcosa di mio, questo posto mi ha infuso una forza e fierezza che non credevo di avere. Andrò via e mi prenderò anche un periodo sabbatico, per pensare, scrivere, dipingere, vivere i miei affetti. Faccio un altro giro per la Cattedrale cerco il drappo con il bambinello bruno della Feliz Navidad, ma è l’ora della siesta e i negozi sono chiusi. Faccio un ultimo saluto alla Giralda che con il sui rintocchi delle campane ci abbraccia, per le strade i bimbi escono con le loro divise scolastiche, le ragazzine più grandi si atteggiano a vamp con i loro kilt cortissimi che lasciano scoperte le gambe. Bellezza, fascino, gioco della seduzione, passione, in Andalusia sono cose importanti e che s’imparano da piccoli.

Qui si chiude la storia di questo mio viaggio, cerco parole conclusive che possano riassumere ed esprimere le mie emozioni, le forti sensazioni, ma tutto mi sembra inadeguato. In aiuto mi vengono incontro i “Racconti dell’Alhambra” e nelle parole conclusive del viaggiatore, Washington Irving mi riconosco: “Questi erano i miei pensieri mentre proseguivo il cammino verso le montagne. Non mancava molto al momento in cui la Vega, Granada e l’Alhambra sarebbero scomparse dalla mia vista”. Ciò concludeva uno dei più bei sogni di una vita che al mio lettore potrebbe apparire forse troppo intessuto di Chimere”.

Susanna La Valle

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