Ho Chi Minh City, Vietnam

Capitolo dedicato ad Ho Chi Minh City (Saigon), estrapolato da un mio lungo diario relativo ad un viaggio in Sud Est Asiatico (Thailandia, Laos, Cambogia e Vietnam)
Scritto da: Bibu84
ho chi minh city, vietnam
Partenza il: 16/08/2011
Ritorno il: 01/09/2012
Viaggiatori: 1
Spesa: 2000 €
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“Sono ancora soltanto a Saigon. Ogni volta penso che mi risveglierò di nuovo nella giungla…”

Così iniziava Apocalypse Now, con il Capitano Willard completamente ubriaco nella sua stanza, in attesa della sua prossima missione segreta.

Dopo la caduta di Saigon e la riunificazione del Vietnam, la città fu ufficialmente rinominata Ho Chi Minh City, ma tutti continuano a chiamarla Saigon, e così farò anch’io. Saigon è completamente diversa da come me l’aspettavo. E’ la cosa più simile al mondo occidentale che ho visto da quando calpesto il terreno asiatico. L’influenza coloniale francese, la presenza di cattedrali cattoliche, la concezione romanica dell’organizzazione delle strade hanno un tocco magico se mischiate alle pagode buddiste, allo street food vietnamita ed a quella bellissima tradizione asiatica che ancora oggi pervade le strade della città. Se New York è la Grande Mela, immagino che Saigon sia il Grande Mango. Prima di parlare delle mie impressioni sulla vita a Saigon, ed in generale in Vietnam, voglio spendere due parole sul traffico.

Non ho mai visto nulla di simile in vita mia. Tutti guidano uno scooter, ce ne sono decine di migliaia che brulicano all’impazzata nelle larghe strade, senza minimamente far caso alla segnaletica e le precedenze. Ognuno indossa un caschetto in pieno stile vietnamita: sono come capellini americani da baseball con visiera, però di plastica. Ho affittato uno scooter e mi sono lanciato in quel marasma: il primo impatto è allucinante, uno stress continuo, nessuno rispetta le precedenze o i semafori, tutti usano il clacson. Dopo un po’ ho capito come si guida: si segue semplicemente la propria via, e gli altri ti evitano qualche centimetro prima dell’impatto. Tutti suonano il clacson ma nessuno si arrabbia, nessuno impreca, nessuno si innervosisce.

I semafori sono uno spasso: avete presente al Giro d’Italia quando le biciclette avanzano in un gruppo fittissimo? Qua succede lo stesso ma con gli scooter, bisogna guidare in un metro quadrato e una leggera accelerata, frenata o sterzata provocherebbe inevitabilmente un incidente. La situazione ricorda molto l’uscita al liceo, quando tutti gli studenti, me compreso, si allontanavano contemporaneamente dal parcheggio riversandosi in strada in sella agli scooter in ordine sparso. Quando arriva un autobus in direzione degli scooter, succede qualcosa di unico. Avete presente quando tirate un sasso in acqua nel mezzo ad un banco di pesci? Oppure quando spaventate un gruppo di piccioni e questi volano tutti assieme in ogni direzione? Beh, qua gli scooter fanno lo stesso quando arriva un autobus. Traffico a parte, la città è del tutto organizzata e pulita, efficiente e decisamente bella da vedere, esplorare e visitare in lungo e in largo.

La prima sera a Saigon è stata eccezionale, sono finito in un bar in centro chiamato Red, dove ho avuto immediatamente modo di fare amicizia con varia gente, tra cui un inglese sui quarantacinque anni, da dodici anni a Saigon, dove dice di aver trovato il suo paradiso e dove pare passerà “the rest of his time”, un ragazzo francese innamorato del Vietnam ed il gestore del locale, con doppia nazionalità cinese-vietnamita. C’era una band che suonava dal vivo e poco dopo chiunque prendeva il microfono e cantava. A Saigon la birra più bevuta è la “Saigon Red”, buonissima. Quella sera ne devo aver bevuta parecchia, dato che, poco dopo, sono stato coinvolto in un gioco tanto stupido quando eccezionale, che non mancherò di riproporre al mio ritorno: in pratica si prende un guanto per lavare i piatti, si allarga e si infila in testa del compagno, poi inserendo una cannuccia tra la gomma e la testa, si gonfia il guanto finché non si solleva la “cresta”. Mentre il gioco stava prendendo piede, ho assistito ad una delle scene più divertenti mai viste, e sto ancora ridendo al pensiero: un calvo e grasso vietnamita, amico degli altri, si era faticosamente infilato il guanto in testa, ma dopo averlo gonfiato, il guanto è schizzato in aria. A quel punto, in una frazione di secondo, l’inglese completamente ubriaco gli ha tirato uno schiaffo sulla testa pelata urlando “good boy!”, il tutto con una forza incredibile, tant’è che lo schiocco ha risonato in tutto il locale. Io ed il francese ci siamo guardati e siamo esplosi a ridere come pazzi, il vietnamita si è guardato intorno frastornato e ha tracannato una pinta di birra in un sorso. Siamo finiti in un altro locale, finché esausto non ho deciso che era ora di tornare all’ostello. Serata assurda e divertentissima, il Red è un locale decisamente da frequentare se si visita l’entusiasmante Saigon.

Il giorno successivo non potevo che visitare il famoso Museo della Guerra del Vietnam, una tappa a dir poco obbligatoria. Saigon, quartier generale del comando statunitense, caduta quel famoso 30 Aprile 1975, sede del governo dell’ex-Vietnam del Sud, oggi testimone di ciò che la guerra è stato e di ciò che la guerra continua ad essere nel cuore di ogni vietnamita. Il museo racchiude dettagliate informazioni sulle armi utilizzate, sulle strategie di guerra, sulle decisioni e pareri di organi sovranazionali, sulla posizione dell’opinione pubblica mondiale, ma soprattutto sui danni permanenti che la guerra ha provocato al paese ed a chi lo abita, aspetto purtroppo talvolta trascurato quando studiamo la storia.

Sarò molto breve e tenterò di non scadere in banalità, ovvietà o qualunquismi, un rischio che si corre quando si parla di certi avvenimenti storici.

Ho speso circa quattro ore all’interno del museo, spesso soffermandomi su una sola foto per svariati minuti. All’interno delle sale ci si sente come Dante che scende i gironi infernali e va verso Lucifero. L’Orrore domina le esposizioni, l’orrore negli occhi dei civili terrorizzati, l’orrore sulla pelle carbonizzata dei bambini esposti al napalm, l’orrore dei reduci americani, dilaniati e distrutti da una guerra ingiusta.

Oggi, in Vietnam, 40 anni più tardi, ci sono intere aree contaminate dalla diossina e dall’Orange Agent, dove nascono bambini malformati in quantità spaventose, dove chi arriva a 30 anni è fortunato.

Vittime di guerra, chiunque abbia partecipato, qualsiasi fosse stato il fronte, è stata persa la ragione. La pazzia del governo americano lascia una voragine nella coscienza del popolo vietnamita, della società globale, del proprio esercito di giovani ragazzi americani, una voragine che mai si rimarginerà.

Oggi, in Vietnam, ci sono varie organizzazioni internazionali che tutelano e stanno a fianco dei numerosi bambini, ragazzi ed adulti con problemi fisici legati allo spietato e indiscriminato utilizzo di sostanze nocive da parte dell’esercito americano. Hanno uno stand all’interno del museo, dove suonano strumenti, costruiscono oggetti artigianali e parlano con i turisti. Tutto questo è agghiacciante, non starò qua a descrivere le menomazioni che questi poveri ragazzi hanno, né la dolcezza che nutrono nei confronti dei visitatori, vi dico soltanto che in quei quattro piani di museo aleggia la morte, la paura, le grida di terrore e il delirio dell’uomo che perde totalmente e profondamente l’etica, l’umanità. Mi chiedo soltanto come un paese occidentale sia potuto arrivare a questo.

Il Vietnam ha tenuto duro, ha pagato cara, carissima la propria indipendenza, la propria identità, la propria libertà. Oggi è un nuovo giorno, ma ciò che è stato lascia una ferita indelebile nel cuore di ognuno di loro, e così sarà per molto tempo.

Musei come quello di Saigon dovrebbero esser aperti in ogni capitale di ogni Paese del mondo, perché la gente conosca e non commetta gli errori del passato, perché la gente abbracci la pace, senza mai lasciarla scivolare via.

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