Amazing Zimbabwe
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Come mai tanta uniformità? ci chiediamo, oltre a domandarci perché Africa, nell’immaginario collettivo, è sempre sinonimo di caldo, siccità, fame, malattie, pericoli di varia natura.
E’ infatti folta la schiera di chi, dopo aver chiesto quale sarà la nostra prossima destinazione e non si ferma a un laconico “ah, Zimbaue!”, si preoccupa di quanto caldo patiremo, di come faremo a lavarci e se e cosa ci daranno da mangiare…
Dedico questo resoconto di viaggio a tutti coloro che si sono posti e si porranno le stesse domande.
Come nasce l’idea di visitare lo Zimbabwe?
Può sembrare superficiale, comunque un paio di immagini e un articolo ben scritto è la risposta esatta. Ma andiamo per ordine.
All’incirca due anni fa, in aeroporto a Victoria Falls, al termine di un viaggio in Botswana, annotavo nominativi e indirizzi di operatori locali pubblicizzati su grandi cartelloni, con la speranza che in futuro la pesante crisi economica che allora soffocava il Paese si smorzasse e che lo Zimbabwe tornasse a essere la meta di un tempo, frequentata da molti visitatori.
Un viaggio in Zimbabwe era dunque un progetto riposto in un cassetto, in attesa di tempi migliori.
Una rivista di nuova pubblicazione, “La nostra Africa”, periodico trimestrale, nel secondo numero, uscito lo scorso dicembre, riporta – tra gli altri – un interessante articolo dal titolo “A spasso tra i giganti”.
Il reportage sulle Matobo Hills, corredato da belle immagini e indirizzi utili, accende la miccia e mette in moto quella “urgenza” che spinge Sandro e me a pensare “andiamoci!”.
L’Ambasciata italiana, con sede nella capitale dello Zimbabwe (Harare), sconsiglia il viaggio, appellandosi a ipotetici e mai verificatisi disordini.
Tale risposta non ci meraviglia e neppure ci turba. Ormai è un classico, per quasi ogni meta africana la “storia” si ripete senza significative variazioni.
Basta invece chiedere informazioni fuori dal nostro Paese, a Londra per esempio, per ricevere rassicurazioni in merito alla fattibilità del viaggio e per convalidare il sospetto che il ruolo delle nostre ambasciate all’estero è quello di non avere un ruolo e di evitarsi qualsiasi tipo di problema scoraggiando, immotivatamente, il turismo.
Arrivano quindi risposte incoraggianti e proposte di itinerari sia da Londra che direttamente dallo Zimbabwe.
La nostra idea è quella di visitare le Matobo Hills, di spostarci poi a nord per trascorrere alcuni giorni nell’isolamento di Hwange N.P., raggiungere la valle dello Zambesi con sosta al lago Kariba e, infine, prima di rientrare ad Harare, ultima tappa a Mana Pools.
Gli operatori interpellati propongono programmi molto simili e la sistemazione, per quanto riguarda i Parchi Hwange e Mana Pools, nei safari camp di proprietà Wilderness Safaris.
Ho l’impressione che, dopo anni di interdizione, crisi economica, dittatura dell’inossidabile Mugabe, epidemie, non ci sia ancora una rete turistica molto estesa e che sia saggio e prudente non cercare soluzioni alternative, evitando di uscire da quelli che sono evidentemente considerati circuiti sicuri.
Wilderness Safaris è un nome noto, una garanzia, oltre che un’organizzazione impegnata in diversi progetti volti alla tutela dell’ambiente e delle comunità locali.
Stabilito un contatto via e-mail, le risposte ricevute sono alquanto soddisfacenti: il viaggio è fattibile in totale sicurezza, inoltre il preventivo di spesa è inferiore a quelli già esaminati.
Soddisfatta, confermo date e programma.
E’ fatta! in realtà manca ancora tanto tempo, siamo solo a gennaio, ma la partenza è ormai una certezza ed è fissata per il giorno 11 luglio 2011.
Anche per quanto riguarda i voli, la fortuna è dalla nostra parte. Tramite Expedia trovo una combinazione di voli Afriqiyah Airways, per la tratta Milano/Johannesburg con scalo a Tripoli, più 2 voli South African Airways, da Johannesburg a Bulawayo e da Harare a Johannesburg, a un prezzo incredibilmente basso.
La compagnia aerea libica Afriqiyah, che non conosco, ma che viene utilizzata da noti operatori turistici italiani, può offrire tariffe molto convenienti grazie al fatto che la Libia è uno dei maggiori produttori di petrolio.
La serenità, però, dura poco. Tempo un paio di mesi dall’acquisto dei biglietti aerei, la situazione in Libia precipita inaspettatamente: dalle proteste popolari alla sanguinosa guerra il passo è breve.
Nessuno più risponde dei nostri biglietti.
La società italiana di rappresentanza della compagnia aerea si eclissa e anche Expedia, con esasperanti messaggi “fotocopiati” contenenti ringraziamenti per la preferenza accordata e generici inviti a ulteriori contatti, fa orecchie da mercante alla serie di reclami. Gli operatori del call center non sembrano meno automi di un risponditore automatico.
La data di partenza si avvicina, ormai rassegnati a considerare carta straccia i biglietti già acquistati e per non rischiare di trovarci a piedi o costretti a pagare tariffe molto elevate, opzioniamo altri voli per Johannesburg con Ethiopian Airlines.
Qualche settimana dopo, del tutto inaspettatamente, Expedia comunica telefonicamente d’aver emesso nuovi biglietti in sostituzione di quelli inutilizzabili.
Non so a cosa devo tale decisione. Ho collezionato inequivocabili rifiuti sia per iscritto che per telefono, sta di fatto che la comunicazione verbale è seguita da conferma via e-mail recante date e orari dei nuovi voli e non mi pare vero.
Per precauzione attendo qualche giorno, poi per correttezza annullo le opzioni Ethiopian.
Ansiosa, ricontrollo le prenotazioni quotidianamente, sino al brutto giorno in cui… panico, incredulità, desolazione, rabbia… sono spariti tutti i voli!
Contatto telefonicamente e scrivo alle compagnie aeree inserite nel ns. itinerario (Lufthansa, Saa, Swiss) minaccio Expedia, non ci posso credere, deve esserci una spiegazione, ma tutti confermano che non siamo prenotati su alcun volo.
Manca poco più di un mese alla partenza, ho annullato le opzioni Ethiopian, pagato il saldo a Wilderness Safaris… non può andare tutto in fumo!
Passato qualche giorno, le cose si aggiustano.
Nessuno ha saputo spiegarmi per quale ragione siano state cancellate le prenotazioni, ma tutto è bene quel che finisce bene.
Il check in online e la stampa delle carte d’imbarco dissipano ogni timore residuo.
11 luglio 2011
A Malpensa tutto fila liscio, esibiamo i documenti e spediamo i bagagli che ritireremo una volta giunti a destinazione finale (Bulawayo).
Il volo Lufthansa per Francoforte parte in perfetto orario, il volo Saa per Johannesburg decolla invece in ritardo, ma poco importa.
Dopo la distribuzione del pasto, ci rilassiamo e ci addormentiamo.
La nottata in volo scorre velocemente.
12 luglio 2011
A Johannesburg, il cielo grigio, le nuvole basse, il suolo bagnato, rappresentano ormai il consueto “panorama” di questa città dove transitiamo per l’ennesima volta.
Non facciamo pertanto caso al freddo, imputando i primi brividi al nostro look estivo e all’impianto di condizionamento che soffia aria gelida all’interno del terminal.
Così, anche il personale sudafricano dei vari desk, uffici, shop ci pare bizzarro con i cappotti scuri, i pellicciotti sintetici, alcuni indossano addirittura guanti, sciarpe, stivali…
Strani, molto strani, ci ripetiamo, mentre dal bagaglio a mano sfiliamo una felpa e seguiamo il percorso fino al gate di imbarco sul volo diretto a Bulawayo.
Sorvoliamo uno spesso strato di nuvole, dall’aspetto inquietante, e nel grigiore diffuso raggiungiamo lo Zimbabwe.
Nel modesto aeroporto di Bulawayo realizziamo che fa freddo e non a causa dell’aria condizionata.
Siamo fuori luogo e ridicoli con i sandali, i piedi nudi e i polpacci scoperti.
L’inverno australe ci accoglie con una temperatura diurna (è circa mezzogiorno) di 8°-10° e ride bene chi ride ultimo direbbero i sudafricani che abbiamo giudicato persone un po’ naif.
Recuperati i bagagli e, in fila, in attesa di sottoporci ai controlli, non possiamo fare a meno di notare le lunghe casse metalliche dei passeggeri che hanno qualche cosa da dichiarare.
Osserviamo la complicata trafila cui devono sottoporsi, per scoprire che le casse contengono fucili da caccia e che i loro possessori sono individui che a breve, dopo aver speso una fortuna, poseranno per una foto rituale accanto all’animale abbattuto.
Il disgusto per tale fetta di umanità supera di gran lunga il nostro stupore per la bassa temperatura.
Una donna ci attende all’uscita e questo appuntamento segna l’avvio concreto di quanto stabilito solo sulla carta e via e-mail. Una soddisfazione, indubbiamente!
Circa 50 km ci separano da Amalinda Camp e dalle Matobo Hills.
Le Colline Matobo (World Heritage Site): Percoriamo un tratto di strada asfaltata che giunge al dwala chiamato World’s View (la vista sul mondo), ovvero il kopje che ospita la tomba del personaggio più controverso dell’intero Zimbabwe: Sir Cecil John Rhodes.
Nell’anno 1896, al ritorno da una cavalcata tra le colline, in compagnia di Lord Grey, Cecil John Rhodes disse: “abbiamo compiuto una meravigliosa scoperta. Abbiamo trovato una collina dalla cui sommità si gode di un panorama che merita d’esser visto…”
Ritornato successivamente alla collina con alcuni amici, egli espresse il desidero di esservi seppellito: “alla mia morte sarò seppellito qui, rivolto verso nord. Anche i resti di Allan Wilson e dei suoi valorosi saranno trasferiti da Fort Victoria e tumulati qui, in un monumento che erigerò alla loro memoria… lo chiamo questo posto World’s View!”.
Sei anni più tardi, il 26 marzo 1902, Rhodes morì.
Questo luogo, scelto dallo stesso Rhodes quale sua estrema dimora, è un luogo di grande fascino, il cui sapore mistico incontra la veduta incantevole sulle colline sottostanti, che gli ha valso il nome.
Gli Ndebele chiamano questo kopje Malindidzimu, che significa, per singolare ironia della storia, “il luogo degli spiriti benigni”. Rhodesesercitano un’attrazione particolare che costituisce la loro essenza. Ci sono altri grandi massicci di granito in Rhodesia (Zimbabwe), ma c’è qualcosa nelle Matopos che le distingue dalle altre formazioni rocciose, qualcosa di mistico, che riecheggia la profonda devozione di tutti coloro che le hanno, per secoli, ritenute un luogo sacro […]
L’accesso più comune alle Matopos è da nord, ma è giungendo da sud che il nobile massiccio roccioso appare in tutto il suo splendore, elevandosi come un bastione dal grande mare d’erba del basso veld.
In ogni angolo delle colline, scene di incredibile bellezza selvaggia si succedono: i licheni pennellano di rari e delicati colori le rocce, nella luce tenue del primo mattino e in quella calda del tramonto.
Inoltre, una serie numerosa di eventi di fondamentale importanza storica per il Matabeleland, sembrano avere origine proprio dalle Matopos.
Le Matopos sono uniche […] Qualcuno le ha definite la Svizzera della Rhodesia […] Ma le Matopos sono semplicemente le Matopos. Le nostre Matopos, così vicine al cuore della nostra nazione”.
Liberamente tradotto da “The Matopos”, Sir Robert Tredgold. 1956
Il viaggiatore che percorre i sentieri delle colline di granito del Matobo, non potrà non condividere la sensazione espressa da Sir Robert Tredgold, in cui la meraviglia per l’opera selvaggia e maestosità della natura, lo smarrimento al cospetto di tante e tali testimonianze storiche (dall’alba dell’uomo alla contemporaneità) di cui questo luogo sembra pregno, e il timore mistico tipico dei luoghi di culto, si fondono, catalizzati dal vento, che sempre spazza le cime arrotondate dei kopje, lasciandoci in muta contemplazione.
Le colline sono di tale bellezza che anche il Parco Nazionale, ricco di fauna, rimane, al loro cospetto, un ricordo secondario.
Nel Matobo, si raccolgono le formazioni di “rocce in bilico” (balancing rocks) più spettacolari e numerose dello Zimbabwe.
Alcune assumono equilibri talmente impossibili da sembrare ciclopiche opere dell’uomo, paragonabili ai dolmen e menhir dell’età del ferro. La natura granitica conferisce loro un colore rossastro di grande effetto, accentuato dalle “pennellate” di colore dei licheni che le ricoprono.
Da sempre, le colline del Matobo, sono parte fondamentale della tradizione Ndebele, che da secoli le venera quali luogo magico e di culto. Molte di queste colline sono sacre e vi si svolgono ancora oggi cerimonie mistiche legate al culto di Mwari. Nei momenti più difficili della nazione Ndebele, le colline sono state un punto di riferimento insostituibile e la tradizione vuole che tra queste cime inaccessibili di granito, risiedesse l’Umlimo, una sorta di strega profetessa, alla quale i re si rivolgevano per prendere decisioni importanti.
Ai piedi di queste rocce, si è svolta una parte importante della storia del paese. Dalle battaglie del secolo scorso tra gli impi di re Mzilikazi e l’esercito inglese, alle repressioni sanguinose degli anni ’80 contro i “dissidenti” Ndebele, da parte del neo-costituito governo nazionalista dello Zimbabwe.
Le formazioni rocciose: balancing rocks e dwala:
Le rocce del Matobo sono principalmente formate da granito, cioè roccia intrusiva, formatasi in seguito alla solidificazione lenta del magma sotto la superficie terrestre.
Soltanto in alcuni punti il granito è venato di quarzo, generato dalla metamorfosi di rocce sottoposte a temperature e pressioni elevatissime.
Queste rocce si distinguono in due tipi, facilmente riconoscibili: le tipiche “balancing rocks” formate da pile di massi squadrati dalle forme bizzarre, e le grandi colline tondeggianti, dalla superficie liscia e dalla forma a dorso di balena, denominate “dwala”.
Qui, in un bellissimo lodge incastonato tra enormi blocchi di granito, trascorriamo 3 giorni.
Il paesaggio è a dir poco stupefacente. La sistemazione, con pochi “cottage” di pietra costruiti accanto o attorno ai massi, è molto particolare. Le abitazioni e le zone comuni sono distribuite su più livelli di una collina e collegate tra loro da passaggi sospesi e gradini scavati nella roccia.
Apprezziamo l’insolita architettura e i dettagli dei vari ambienti, ma l’assenza di vetri alle finestre nelle camere, gli spazi “open” e la temperatura che durante la notte scende sotto lo zero, ci preoccupano un poco, così come le cene all’aperto, su una panoramica terrazza ricavata da un basamento roccioso.
Ci vestiamo in modo più appropriato, pranziamo e ci godiamo una prima uscita a piedi, guidati da Edgan, giovane guida africana con tanta passione per l’ambiente e gli animali.
Seguiamo, avvicinandoci cautamente, una famigliola di zebre composta da maschio, femmina e un piccolo. Le zebre ci annusano e si bloccano: è un successo perché generalmente se si tenta di avvicinarle con una jeep tendono a fuggire.
Ci fermiamo a lungo a osservarle, scattando qualche bella fotografia.
Saliamo in cima a una collina, un insieme di pietroni tondi pennellati dal giallo dei licheni, che ci regala una superba vista su una porzione molto ampia di territorio. Il cielo grigio penalizza luogo e colori, ma al tramonto alcuni raggi di luce forano le nubi colorando le rocce di calde sfumature arancio.
Raggiunto un laghetto ammiriamo alcuni kudu intenti a bere e, infine, tra le altre cose, Edgan ci mostra, maneggiandoli e ispezionandoli con fare esperto e disinvolto, gli escrementi bianchi, ormai secchi, di un leopardo, predatore notturno qui presente, ma raramente visibile durante il giorno per la sua natura molto elusiva.
Conosciamo ormai le abitudini di questo animale davvero schivo e sappiamo che occorre una gran dose di fortuna per incontrarlo.
Il buio incombe, rientriamo per la cena che consumiamo, anziché seduti attorno al grande tavolo, vicino al fuoco.
Raggiunta la nostra “casetta”, rabbrividiamo al pensiero di spogliarci e infilarci nel letto gelido, ma una provvidenziale termocoperta rende decisamente meno drammatico lo zero termico e gli spifferi d’aria che soffiano dalle tante finestre chiuse soltanto da “tendine” di paglia.
13 luglio 2011
In barba a chi ci immagina grondanti sudore e disidratati, prendiamo posto sui sedili di una jeep scoperta, infagottati in voluminose trapunte.
Ci spostiamo attraverso le Matobo Hills e le innumerevoli formazioni costituite da massi di granito sovrapposti in posizione – solo in apparenza – precaria a formare statue, profili e figure cui è intrigante attribuire sempre diverse fisionomie.
La più bella e famosa tra le balancing rocks è senza dubbio la “mother in charge”, così chiamata per la sua straordinaria somiglianza al profilo di una donna che reca un bimbo legato sulla schiena. La “scultura” è imponente e la sua mole spicca già da molto lontano. Avvicinandosi non ci si può sottrarre al fascino di questa ciclopica opera della natura.
Visitiamo una delle tante grotte qui presenti, ricca di pitture rupestri risalenti a diverse migliaia di anni fa.
Ci perdiamo nei dettagli e il tempo sembra essersi fermato mentre, sulle pareti di roccia, riconosciamo orici, eland, kudu, rinoceronti e tutta l’antica fauna africana, raffigurata con tratti quasi stilizzati, ma con tale esattezza di particolari da risultare inconfondibile.
Consumiamo il pranzo, contenuto in graziosi cestini di paglia, sulla sommità di un kopje che domina un’immensa vallata verde punteggiata da colline di granito.
Mentre osservo il paesaggio, riconosco i luoghi descritti da Wilbur Smith in diversi suoi romanzi e, nel silenzio e nella quiete, portati dal vento che soffia in questo preciso momento, sembra quasi di udire in lontananza il suono dei tamburi dei valorosi guerrieri Ndebele e l’echeggiare degli spari dei cacciatori bianchi.
Dedichiamo il pomeriggio alla scoperta del Matobo N.P.
Ci indirizziamo, seguendo le indicazioni dei ranger, verso l’area dove sono stati avvistati, solo poche ore fa, almeno una mezza dozzina di rinoceronti, ma la nostra “caccia” si rivela infruttuosa.
Una diga sbarra il corso di un fiume creando un piccolo lago color smeraldo, perfetto habitat per ippopotami e coccodrilli.
Superato lo sbarramento artificiale e la scenografica “caduta” di enormi massi, il vecchio letto del fiume, dove ormai non scorre più l’acqua, ci addentriamo nel cuore del parco che ospita una discreta varietà di animali i cui numeri però sono risicati, contiamo infatti non più di 4 o 5 esemplari per ogni specie.
Non proviamo delusione, la maggior attrazione di questa località è rappresentata, senza dubbio, dal paesaggio e dalla sua vastità.
Ancora una volta, nel riconoscere le impronte ben marcate di un leopardo, si conferma la sua presenza, ma non abbiamo la fortuna di incontrarlo.
Dopo aver assistito al tramonto che, nonostante il cielo grigio, ci omaggia dei suoi caldi colori, torniamo al lodge e, ospiti della proprietà, oltre ad alcuni turisti nuovi arrivati, sono le zebre.
Ceniamo di nuovo seduti attorno al fuoco. Il freddo notturno è pungente, rabbrividiamo nel rimpiangere i caldi indumenti ripiegati negli armadi di casa che non immaginavamo potessero essere tanto utili anche a queste latitudini.
Le fiamme crepitanti, le chiacchiere con due donne belghe, un bicchierino di Amarula (tipico liquore africano) attenuano il nostro disagio e, infine, il tepore del letto scaldato grazie alla termocoperta ci abbraccia prima del sonno.
14 luglio 2011
Seduti a tavola, mentre gustiamo la ricca colazione, concordiamo con Edgan il programma della giornata che preferiamo spezzare in due parti dedicando la mattinata alla visita del luogo dove è sepolto Rhodes, prendendoci poi una pausa per pranzare qui al lodge e tenendo in standby un eventuale secondo game drive nel Matobo N.P.
Per raggiungere la località prescelta dobbiamo superare la diga già vista ieri, ci fermiamo sulla riva del lago per scattare una foto, oggi con una luce migliore.
Edgan ci fa notare lo strano comportamento di un babbuino, si tratta di una femmina che trascina un cucciolo, purtroppo senza vita, lasciandolo cadere a terra e allontanandosi di corsa, nel disperato tentativo di farsi rincorrere. Non vedendo reazioni, la madre torna a recuperare il piccolo babbuino e la sequenza si ripete più e più volte. E’ evidente che la poverina non ha ancora abbandonato la speranza, infatti, non fu certo l’uomo bianco più amato dal popolo Ndebele. Semmai, fu il più temuto.
Rhodes sconfisse Mzilikazi e disperse i suoi Impi, assoggettando il popolo Ndebele. La sua tomba, nel cuore sacro della nazione Ndebele, può risultare perciò, per alcuni, una sorta di atto sacrilego, un’estrema umiliazione nei confronti di un popolo sconfitto.
Eppure, nella logica di un popolo guerriero e fiero, come fu quello Ndebele, tutto ciò può assumere un aspetto ben diverso.
Come Mzilikazi, giungendo da una terra straniera, conquistò il Matabeleland e ne assoggettò le genti, così, anche Rhodes, giunto da lontano, conquistò questa terra, sconfiggendo uno degli eserciti più forti, agguerriti e ben organizzati che l’Africa abbia mai visto.
Questo gli riconobbero i guerrieri Ndebele. Alla potenza di tale nuovo sovrano, giunto da terre lontane, essi si inchinarono, rispettosamente, senza rinunciare alla riscossa, ma accettando la sconfitta, come solo un fiero guerriero sa fare.
Il 10 aprile 1902, infatti, alla salma di Cecil John Rhodes, tumulata sulla collina di Malindidzimu, gli Induna della Nazione Ndebele resero il saluto riservato ai Re: Bayete!
Fu la prima e unica volta che ad un uomo bianco fu reso simile omaggio.
Prima di compiere questo storico atto simbolico, tuttavia, gli Induna chiesero e ottennero che non venisse compiuta la cerimonia di estremo saluto con la salva di fucile, affinché gli spiriti della collina non venissero disturbati.
Posteggiata l’auto, ci incamminiamo verso la più grande e spettacolare collina di granito, sulla cui sommità sono disseminati diversi enormi blocchi di pietra tondeggianti.
I licheni gialli crescono sulla roccia come un immenso prato fiorito, il sole – che brilla per la prima volta da quando siamo giunti in Zimbabwe – è piacevolmente caldo ed esalta i colori.
Piccole nubi bianche spiccano nel cielo terso e azzurro. Tutto attorno le colline si susseguono a perdita d’occhio elevandosi da un “mare” d’erba verde.
Non occorre molto sforzo, davanti a un panorama tanto meraviglioso, a percepirne la spiritualità.
Giunti in cima al World View’s ci impressionano maggiormente gli equilibri e le dimensioni dei massi piuttosto che la tomba di Rhodes. Si è quasi indotti a pensare che i macigni siano stati posati al suolo da un artista stravagante e si ha l’impressione che possano rotolare a valle solo con un soffio.
Sostiamo a lungo, godendoci il tepore del sole e lo straordinario paesaggio sottostante: 360° di nulla e di silenzio ad eccezione delle colline.
Prima di risalire in macchina, visitiamo una sorta di museo all’aperto che raccoglie, su diversi pannelli, una rassegna fotografica dedicata alla vita di Cecil John Rhodes.
Il personaggio non ci emoziona, non ne apprezziamo l’operato e non ne facciamo mistero, ma Edgan, facendo spallucce, molto diplomaticamente afferma che anche questa è storia.
Tornati al lodge, ci viene servito il pranzo. Trascorriamo poi diverso tempo in un salotto allestito in una zona appartata, ammirando il panorama e beneficiando del calore del sole che continua a splendere.
Ospiti del giorno un certo numero di facoceri, decisamente buffi quando corrono con il codino ritto in verticale.
La temperatura mite ci invoglia ad uscire per un nuovo game drive nel Parco.
Ripassiamo dal bel lago verde, fermandoci a osservare da vicino gli ippopotami, per il resto facciamo il pieno degli incredibili scenari delle Matobo Hills con le rocce incendiate dai colori di un intenso tramonto.
La serata è meno rigida, la cena all’aperto meno drammatica, nel cielo senza nubi luccicano milioni di stelle, ma protagonista indiscussa di questa notte africana è la luna piena che diffonde una tenue luce argentea.
15 luglio 2011
Il sole sembra aver finalmente vinto la partita contro le nuvole, la luce filtra attraverso le finestre e la nostra abitazione di pietra e roccia – mentre chiudiamo i bagagli – appare ancora più bella.
Lasciamo Amalinda camp verso le 9, a bordo di un confortevole minibus dai sedili larghi e distanziati come quelli di una business class aerea, guidato dal boss cui fanno compagnia la moglie e il figlio adolescente.
Prossima destinazione Hwange National Park.
E’ questo il Parco Nazionale più grande dello Zimbabwe, con i suoi 14.650 km2 di superficie, e probabilmente anche il più popolato di fauna. A parte gli elefanti, numerosissimi in ogni angolo del parco (il censimento aereo del 1995 ne ha contati circa 22.000!), si possono osservare più di 105 specie di animali tipiche dell’Africa meridionale, dalle più comuni, quali il leone, la iena maculata e il bufalo cafro, alle più rare, quali nove delle dieci specie di mammiferi protette in Zimbabwe: il licaone, il pangolino, il rinoceronte nero e quello bianco, la iena bruna, il protele, il ghepardo, l’antilope roana e l’orice, tra le quali, orice e iena bruna, vivono, in Zimbabwe, esclusivamente nel territorio di Hwange.
Già nel 1873, Frederick Courtney Selous, cacciava in quella che oggi è la zona orientale del parco, mentre l’ufficializzazione di Hwange a Parco Nazionale avvenne nel 1929, quando nell’aerea più meridionale, a ridosso del confine col Botswana, viveva ancora una comunità di Boscimani San, e Ted Davison divenne il primo ranger del Wankie National Park.
Il nome Wankie, come per l’omonima cittadina, era la traslitterazione inglese del nome di un capo tribù locale: Hwange. Alla fine degli anni ’80, quando il processo di “re-africanizzazione” dello Zimbabwe (ex Rhodesia) interessò anche i nomi delle località geografiche, Wankie mutò in Hwange.
I compagni di viaggio si rivelano altezzosi, facendoci sentire niente di più che “bagaglio”. Parlano tra loro scavalcandoci (siamo seduti nei due sedili di mezzo) senza mai rivolgerci uno sguardo e la parola.
A Bulawayo facciamo una sosta, la bionda signora necessita di una toilette.
Ovviamente tale funzione fisiologica non può essere espletata in un bar qualsiasi e neppure in un campo o dietro un cespuglio. Non sia mai!
Questa donna africana, dalla pelle bianca, sceglie di fare pipì solo in un club per bianchi, il Bulawayo club appunto, storico, pomposo e ubicato in un edificio coloniale che si affaccia su una piazza importante.
L’episodio simboleggia quanto siano ancora lontane le distanze tra bianchi e neri.
Mentre la signora “visita” il club, noi ammiriamo il bel centro cittadino che vanta ampi viali fiancheggiati da alberi di jacaranda, edifici coloniali ben conservati e poco traffico.
L’impressione è gradevole, le auto parcheggiate sono in buono stato, le persone, neri perlopiù, indossano abiti decorosi e ovunque regnano ordine e pulizia.
Riprendiamo il viaggio lungo una strada asfaltata, diritta, con pochi altri automezzi in circolazione. Siamo però costretti a fermarci spesso per via dei molti posti di blocco presidiati da militari.
Ci stupisce, in presenza dei personaggi che di volta in volta ci intimano l’alt, l’atteggiamento sottomesso cui lo spavaldo “bwana” è costretto a piegarsi.
Provo un piacere quasi perverso nel vedere un uomo tanto pieno di sé, abbassare la cresta e far ricorso a uno sfoggio di convenevoli, spudoratamente falsi ai nostri occhi, ma evidentemente necessari per poter proseguire il viaggio senza intoppi.
Attraversiamo, per circa 4 ore, un paesaggio monotono, costituito in prevalenza da bush.
Varcato l’imponente ingresso di Hwange N.P., ci accoglie e ci prende in consegna Brian, cordiale e sorridente guida di Wilderness Safaris che ci invita ad attendere per qualche minuto l’arrivo di un gruppo di canadesi, provenienti da Victoria Falls.
I 4 nuovi arrivati si rivelano fin da subito persone amichevoli e gioviali.
Montiamo su una jeep scoperta e ci trasferiamo, godendo di un primo lungo game drive della durata di 3 ore, nella concessione di Davison’s camp.
Strada facendo non mancano gli incontri con la fauna africana: elefanti, kudu, giraffe, graziose antilopi di taglia minuscola, waterbuck e uccelli colorati.
Il paesaggio alterna tratti di bush a savane dal bel colore dorato, numerose le pozze d’acqua che ospitano indolenti ippopotami e richiamano all’abbeverata molti animali.
La pista costeggia – per alcuni chilometri – una ferrovia, un unico binario segna il confine tra il parco nazionale e la riserva di caccia.
Non essendovi recinzioni o sbarramenti di alcun tipo, è evidente che gli animali si spostano liberamente in entrambe le aeree e mentre nella zona protetta l’unica forma di “caccia” praticabile è quella con l’obiettivo di una macchina fotografica, solo pochi metri al di là della ferrovia è consentito sparare.
Contraddizione che ancora una volta non comprendiamo, domandandoci come si possa puntare il fucile e sparare a un animale, non prima di aver speso somme da capogiro per il suo abbattimento.
Allontanandoci dalla via ferrata ci concentriamo sulla bellezza e varietà paesaggistica e sugli animali che incontriamo, sfuma così un po’ di quell’amaro che il pensiero della caccia ci procura ogni volta.
Facciamo una pausa in un luogo attrezzato, all’ombra di un padiglione circolare, per consumare il pranzo e – ripreso il viaggio – raggiungiamo nel tardo pomeriggio Davison’s camp, allestito all’ombra di alberi di mopane, che accoglie poche spaziose tende affacciate su una grande pozza d’acqua.
Ci viene proposta un’uscita immediata per un breve game drive serale, invito che però decliniamo.
Siamo infreddoliti e, dopo l’intera giornata trascorsa in macchina, la stanchezza reclama una doccia calda.
Preferiamo quindi goderci la pozza, già frequentatissima dagli elefanti. Infatti non abbiamo neppure il tempo di posare le borse in tenda che il documentario è già iniziato. Bocca spalancata dalla meraviglia, binocolo e macchine fotografiche in azione.
Qui, nonostante lo spettacolo continuo offerto dagli animali che affollano la pozza, l’Africa ci dispensa la prima lezione…
Mentre contempliamo il cielo nero e la luna piena, appena sorta, a poca distanza dal campo sentiamo i versi striduli e insistenti di un gruppo di babbuini.
La jeep che sta rientrando dal game drive si blocca nei pressi di un albero di mopane.
Dalla nostra postazione vediamo la luce dei fari e la macchina che si sposta in cerchio.
Il fracasso prodotto dai babbuini è incessante, comprendiamo che sta accadendo qualche cosa di speciale, non sappiamo però esattamente cosa.
Poco dopo fanno ritorno al campo i canadesi e Brian, sono molto eccitati mentre ci riferiscono di aver visto un leopardo camminare molto vicino alla jeep, probabilmente di ritorno dalla pozza oppure alla ricerca di una preda da cacciare.
Non è esagerato ammettere che ci viene da piangere per la frustrazione.
Dopo anni di safari è la prima volta in assoluto che rinunciamo a un’attività e il leopardo perso è un castigo durissimo da “digerire”.
Per i canadesi questo è il primo viaggio in Africa, il primo Parco visitato e il primo game drive… la cosiddetta fortuna dei principianti.
Dopo la cena e un raduno attorno al fuoco, ci ritiriamo tutti velocemente.
La notte è gelida, nel letto troviamo una borsa d’acqua calda ciascuno e vari strati di coperte. Spogliarsi e infilarsi tra le lenzuola richiede un atto di coraggio, poi grazie al calore diffuso dalla “bula” le cose vanno meglio, ma fatico a prendere sonno, il peso delle coperte mi opprime, mi giro e rigiro a fatica rimuginando e dandomi della sciocca per aver sottovalutato – nel preparare i bagagli – il freddo e il disagio conseguente alla mancanza di indumenti più adatti a questo clima.
Associare la parola “freddo” all’Africa risulta molto difficile alla maggior parte delle persone, questo aspetto ha colto di sorpresa anche noi che da anni “predichiamo” che in Africa non fa solo caldo, ma prima d’ora non avevamo mai viaggiato in luglio, nel cuore dell’inverno australe, sperimentando solo il freddo notturno provocato dalla forte escursione termica.
Avremmo dovuto soppesare meglio la morfologia del territorio della parte centrale dello Zimbabwe: un vasto altopiano posto al di sopra dei 1000 metri di altezza dove anche durante le ore diurne le temperature non sono elevate.
16 luglio 2011
Laddove siamo carenti (indumenti caldi), sopperisce il guardaroba “griffato” Wilderness Safaris in dotazione su ogni veicolo: morbide coperte e mantelle impermeabili foderate di pile.
Eccoci, dunque, all’alba, su una classica jeep da safari, ben coperti, senza più temere le basse temperature e carichi di aspettative che, sappiamo bene, l’Africa non deluderà.
Il terreno pianeggiante con vaste distese di savana solo punteggiata qua e là da acacie, alberi di mopane e persino qualche slanciata palma, offre una visuale molto ampia che favorisce l’osservazione degli animali.
Le numerose pozze d’acqua costituiscono, inoltre, per le molte specie, un punto di arrivo obbligato, e per noi maggiori opportunità di emozionanti incontri.
Sono infatti 5 giraffe a costringerci all’immobilità mentre, a turno, si avvicinano ad una pozza, si piegano sulle zampe anteriori e allungano il collo, bevendo avidamente.
La sequenza dura a lungo e possiamo beneficiarne da una distanza molto ravvicinata.
Tutte le giraffe riescono a bere, non è scontato che ciò accada con facilità in quanto sono molto guardinghe e basta un nonnulla perché si disperdano rinunciando a soddisfare la necessità di acqua. Terminata l’abbeverata, si dispongono in fila, incamminandosi con quella tipica movenza elegante e flessuosa, infine si perdono in lontananza tra le fronde di un boschetto di acacie.
Poi è la volta degli ippopotami che ci scrutano da un azzurro specchio d’acqua.
Incontriamo una antilope sable, merce rara, in tanti anni è solo la seconda volta che ne vediamo una.
Salutiamo un branco di waterbuck e proviamo tenerezza nello scorgere, nei pressi di un termitaio, il cucciolino di leone più piccolo mai visto sino ad ora, poco più che un gattino.
Nelle vicinanze sicuramente c’è mamma leonessa, ma non riusciamo a localizzarla.
Rientrati al campo per il brunch e una pausa, non è certamente terminata la possibilità di vedere animali.
Una processione di elefanti, kudu, facoceri, babbuini, impala e persino un branco composto da oltre una ventina di antilopi sable, raggiungono il grande bacino d’acqua antistante le tende e vi sostano, tenendoci impegnati con binocolo, macchina fotografica, carta e penna per annotare quanto stiamo vedendo.
Il programma giornaliero, in un safari camp, prevede due attività: la prima all’alba, la seconda nel pomeriggio. Il game drive pomeridiano può terminare al tramonto, oppure – per chi lo desidera – può protrarsi in notturna per altre due ore.
La nostra scelta ricade, senza dubbio, su un game drive notturno.
Si parte dopo il tradizionale tè con dolcetti e salatini, ci allontaniamo parecchio dal campo, attraversando savane, bush e differenti altri ambienti.
Con immenso piacere constatiamo che questo parco è eccezionalmente popolato da antilopi sable. Tra le tante scene, assistiamo alla lotta di due stupendi maschi che si prendono ripetutamente a cornate.
Incrociamo branchi di elefanti e diversi sciacalli.
Mentre il sole sta tramontando, ci troviamo in una vallata molto aperta e vasta che improvvisamente si riempie di animali.
Con una luce calda e i bellissimi colori rosso/aranciati del cielo, ammiriamo una sfilata di giraffe, branchi di gnu, zebre, kudu, waterbuck, impala, che si spostano in massa e in assoluta libertà. Tutti gli animali, prima invisibili, ora – con il favore delle tenebre – sembrano muoversi più disinvoltamente.
La notte africana sopraggiunge repentinamente, nel cielo pennellate di nero sempre più ampie cancellano ogni traccia di colore, a questo punto il game drive prosegue e a illuminare la scena è il raggio conico di una spotlight rossa che mette in luce fosforescenti coppie di occhi appartenenti a tante bestiole notturne (volpi e gatti africani, manguste, kangaroo rabbit, etc.) e ad animali di taglia più grande tra i quali si riconoscono gli impala e altre antilopi.
Nel buio spiccano le sagome più scure degli elefanti e poi, finalmente, esattamente sulla pista, ci precedono 5 giovani leoni, evidentemente affamati, che si muovono furtivi, unendosi alla leonessa immobile e intenta a fiutare possibili prede, mentre il leone maschio, che blocca la strada, osserva l’intera famiglia con simulato distacco.
Il bellissimo maschio si incammina, allontanandosi nella notte e mostrandoci il dorso esattamente quando, sopra il suo corpo muscoloso, sorge la luna piena.
Una splendida “fotografia” che si stampa nella mente.
Ci aspettano ancora molta strada e qualche incontro prima di rientrare al campo.
Mentre ceniamo, una fila interminabile e nera raggiunge la pozza: centinaia di bufali circondano lo specchio d’acqua, sollevando nuvole di polvere e spezzando il silenzio con i loro richiami.
La massa scura si avvicina poi al campo, raggiunge la zona del fuoco dove abitualmente ci si raduna prima e dopo il pasto serale, spingendosi oltre fino ad attorniare le tende poste a sinistra del luogo in cui ci troviamo. I bufali invadono il campo oltrepassando anche il passaggio che normalmente utilizziamo per spostarci tra le abitazioni e questo ritrovo.
Siamo, i canadesi e noi, bloccati e impossibilitati a raggiungere le tende.
Accompagnati da due guide armate, tentiamo di disperderli, ma il muro di animali è compatto, non c’è alcun segnale di ritirata.
Costretti a desistere, torniamo sui nostri passi in attesa di nuovi eventi.
Trascorso diverso tempo senza che accada nulla, ci caricano su una jeep che compie un ampio cerchio creandosi un varco tra i bufali che continuano a opporre resistenza, o meglio, sono totalmente indifferenti ai tentativi di allontanarli.
Raggiungiamo le tende avvicinandoci al lato anteriore, saltiamo dal massiccio automezzo che ci fa da scudo, non senza esitazione, rifugiandoci velocemente all’interno in silenzio e senza accendere la luce.
Grazie al chiaro di luna, attraverso la zanzariera, stiamo ancora un po’ di tempo a osservare gli oltre 600 bufali che hanno deciso di accamparsi qui, grati alla natura africana per questo fuori programma.
17 luglio 2011
Usciamo all’alba, con gli ormai inseparabili canadesi, l’avventura della scorsa notte ha ulteriormente rafforzato la nostra intesa e mentre commentiamo le nostre prodezze, un leone maschio, bellissimo esemplare adulto, che troneggia in mezzo alla pista, ci zittisce di colpo. Seduto, in posa statuaria e regale, si concede ai nostri obiettivi, poi si muove lentamente addentrandosi tra l’erba alta e dorata, fino a sparire del tutto.
Inizia così, con il felino solitario, una carrellata di incontri, ne cito solo alcuni.
Mentre osserviamo una colonia di babbuini, un piccolo attira la nostra attenzione e ci regala un buffo siparietto: l’inesperto cucciolo, nel tentativo di arrampicarsi su un albero, scivola più volte, si aggrappa fortunosamente ai rami, ma cade inevitabilmente. Ostinato ci riprova, l’epilogo tuttavia è sempre uguale.
Due waterbuck saggiano la solidità delle corna battendosi in una serie di duelli e, infine, uniscono le proprie forze per scacciare un intruso: un terzo waterbuck.
Gli ippopotami, questa mattina, all’acqua fredda di una pozza, preferiscono l’ombra di un albero.
I musetti di due leoncini fanno capolino tra l’erba gialla. Sono ben mimetizzati mentre gli adulti quasi certamente sono a caccia, sostiamo nei paraggi qualche minuto, ma non accade nulla, non riusciamo a vederli.
Nonostante ci troviamo a debita distanza dai piccoli, i due – per innato istinto – vanno a nascondersi, fino a rendersi invisibili, dietro un cespuglio.
Incontriamo molti elefanti che, in questa stagione, ostentano parecchi piccoli.
Tornati al campo, rivediamo i bufali, meno numerosi rispetto alla notte passata, ma comunque tanti, tra di essi ci sono i nuovi nati, si sono stabiliti attorno alla pozza e vi bivaccano per l’intero pomeriggio, mentre le famiglie di pachidermi vanno e vengono.
Nel momento di maggior affluenza contiamo tre branchi di elefanti da non meno di 30 individui ciascuno. Uno a ogni estremità della pozza e uno al centro, nelle immediate vicinanze i bufali immobili e attorno una “corona” di altri animali in attesa del proprio turno per bere.
Alcuni piccoli elefanti rotolano nella melma contenuta in una conca, ne escono totalmente ricoperti e lucidi, gli adulti invece si spruzzano di terra con le proboscidi.
In poche parole un documentario senza fine anche nei momenti di pausa.
Oggi guardo e annoto tutto direttamente dal mio letto e attraverso le zanzariere.
Rasentando la pozza e avanzando tra gli elefanti che continuano a fare la spola nei dintorni, ci allontaniamo dal campo per un nuovo, avvincente e lungo game drive.
Si susseguono gli incontri con antilopi sable, impala, minuscoli dik-dik, waterbuck, babbuini.
Vediamo altri due leoncini, parzialmente nascosti dalla vegetazione e posizionati su una cunetta.
In una immensa spianata si fatica a tener conto degli elefanti. Ci troviamo a passare di fianco ad alcuni di essi che attingono acqua da una buca scavata a ridosso della pista. Ci fermiamo per sondarne le intenzioni, i pachidermi si allontanano, non di molto e neppure volentieri dopo aver sventolato le orecchie. Siamo tanto vicini da rubare un bel primo piano a un giovane esemplare.
Una mamma elefante e il suo piccolo inconsapevolmente ci regalano ottime opportunità fotografiche mentre, rivolgendoci il posteriore, bevono da una piccola cavità.
Assistiamo a un tramonto da lasciare senza parole in una radura interamente circondata da alberi e palme che perdono i loro connotati trasformandosi in sagome nere mentre il cielo, sullo sfondo, è color rosso sangue.
Il game drive notturno ci riserva tante emozioni: nel buio si profilano cinque leoni, poco dopo ne incontriamo altri cinque, uno di questi quasi viene schiacciato dall’unica altra jeep che abbiamo incrociato. Per fortuna non è successo.
Il cielo è nerissimo, punteggiato da milioni di stelle, come sempre, ma questa sera è attraversato dalla scia luminosa della via lattea.
La notte è fredda, si sta volentieri attorno al fuoco.
Ci ritiriamo e ci infiliamo velocemente sotto le coperte scaldate dalla borsa d’acqua calda, ci addormentiamo mentre passiamo in rassegna la tante immagini che questo parco ci ha regalato.
18 luglio 2011
E’ malinconico lasciare una situazione piacevole e persone con le quali si sono condivise giornate intense. In balia di questo sentimento, con i canadesi e Brian, prendiamo posto sulla jeep, ancor prima del sorgere del sole e per l’ultimo viaggio insieme.
Il freddo è a dir poco tagliente, siamo stretti nelle mantelle e silenziosi, concentrati sul paesaggio che si svela, colorandosi di tinte delicate, all’alba.
Attraversiamo una serie di savane sconfinate, dalla bellezza struggente, incontrando solo qualche coppia di minuscoli dik-dik, sparuti gruppi di impala e un magnifico serpentario, uccello predatore di grandi dimensioni.
Innumerevoli bufali in corsa, come un fiume impetuoso, attraversano la pista. Brian avanza, rallentando solo un poco, interrompendone il flusso. E’ un peccato perché i bufali si disperdono e li perdiamo di vista, ma a discolpa della guida va detto che quello di questa mattina è solo un trasferimento, la strada da percorrere è ancora molta e il tempo è misurato.
Infatti, raggiunto l’airstrip, una striscia di terra spianata nel nulla di una prateria, due piccoli Cessna 206 ci stanno già attendendo.
I canadesi partono per primi, tornano a Victoria Falls per trasferirsi subito dopo sul fiume Chobe.
Trascorsi pochi minuti, anche noi prendiamo il volo.
Adoriamo questo mezzo di trasporto che sorvola paesaggi sempre meravigliosi.
Lasciato il Parco Hwange, si vola sull’altopiano centrale, l’alto tavolato scende gradualmente, con due netti “gradini” formati da cordoni di colline, e si esaurisce in una vallata pianeggiante attraversata dal fiume Zambesi, il cui corso, bloccato più a valle da una colossale diga, forma l’immenso lago artificiale Kariba, lungo più di 220 chilometri, ha una larghezza massima di 40 chilometri, copre un’area di 5.580 km².
Dall’alto possiamo ammirare lo stupendo contrasto di colore della terra rossa che si stempera nell’azzurro del lago costellato da piccole isole.
Atterriamo su una pista di terra ritagliata tra il bush e la riva sabbiosa, ci aspettano ancora un’ora di strada sconnessa tra la vegetazione fitta e, dopo aver parcheggiato la jeep nella boscaglia, un breve tragitto a bordo di una piccola imbarcazione dal fondo piatto.
Musango Safari camp è situato su un’isola. La prima impressione non è delle migliori, si tratta di una struttura vecchia: tende, coperte e biancheria sono consunte, il cibo distribuito all’ora di pranzo è misurato e nulla di speciale, il proprietario – Steve Edwards – è un personaggio egocentrico. Siede al centro di una tavolata, parla quasi ininterrottamente senza ascoltare i commensali, indossa una divisa color kaki perfettamente pulita e stirata, attorno e dietro a sé lascia una scia di profumo, quasi fuori luogo in un contesto “wild”, mentre il personale che lavora alle sue dipendenze sfoggia una varietà di magliette e calzoncini pieni di rattoppi, strappi, macchie e odora di sudore acre. E’ inoltre imbarazzante vedere i ragazzi che servono il cibo a tavola inchinarsi davanti al padrone.
Le differenze denotano che il bianco boss non investe nulla nella gestione del campo e che, con tutta probabilità, il personale è malpagato e alloggiato molto precariamente. E’ evidente che lo Staff ha difficoltà a lavarsi e a tenere in ordine il proprio guardaroba.
Non siamo schizzinosi, proviamo anzi immediata solidarietà e simpatia nei confronti dei ragazzi che lavorano qui, ma resta il fatto che il rapporto qualità/prezzo di questa struttura non è affatto proporzionato.
Dopo pranzo e prima dell’attività pomeridiana, ci ritiriamo nella tenda che ci è stata assegnata.
Mentre stiamo ancora “prendendo le misure” della nuova sistemazione, un bushbuck ci osserva dubbioso. Muovendomi lentamente mi trasferisco in veranda, temo di vederlo fuggire, invece la timida bestiolina non si muove, ci separano solo due passi, ma non oso avvicinarmi oltre, guadagno così un lungo scambio di sguardi. Il solitario bushbuck è bellissimo con quegli occhioni languidi, le grandi orecchie, il pelo raso e rossiccio a macchie bianche. Una sorta di cerbiatto.
Dove l’uomo fa danno, la natura ripaga e la piccola antilope, senza esserne cosciente, mi riporta il buonumore.
Scegliamo di uscire in barca. Conrad è il nostro angelo custode, nonché barcaiolo, guida e compagno di avventure.
Dall’isola si attraversa il lago e si costeggia il Matusadona N.P.
Elefanti e impala si specchiano nell’acqua mentre bevono.
Ci avviciniamo, a motore spento, a una femmina d’elefante che, insieme al piccolo, si nutre strappando l’erba dal fondo del lago. E’ curioso osservare come la proboscide, una volta sradicate le piantine acquatiche, scuota più volte il raccolto per lavarlo e liberarlo da residui di terra.
Grazie alla vicinanza e all’assenza di rumore, possiamo goderci la sequenza fino a che la coppia di elefanti decide di andarsene, riuscendo anche a scattare una bella serie di fotografie.
Un giovane coccodrillo, molto audace e curioso, ci segue e, raggiunto il battellino, sembra davvero intenzionato a salirvi, allunga la testa fuori dall’acqua e poggia le tozze zampe sull’estremità della chiatta. Ci spostiamo, ma di nuovo il coccodrillo nuota veloce e riguadagna quella che evidentemente è la sua postazione preferita.
Si tratta di un comportamento insolito perché, generalmente, i coccodrilli da terra scivolano furtivi in acqua e si immergono velocemente fino a nascondersi del tutto. Sono abili nel celarsi e proprio per questo pericolosi.
L’acqua del lago è poco profonda, si possono osservare ancora molti scheletri di alberi semisommersi, risultato della costruzione della diga e della piena d’acqua che ha invaso quella che in passato era una fertile vallata.
Differenti specie animali popolano questo ambiente lacustre, in particolare abbondano ippopotami, coccodrilli, elefanti e uccelli.
Di questi ultimi se ne vedono molti, di tutte le dimensioni e colori. Il “menu” giornaliero serve eleganti aironi neri che, posati sui rami degli alberi emergenti dall’acqua, spiegano le ali e stanno immobili ad asciugare. Spettrali figure su altrettanto spettrali tronchi.
Il sole tramonta dietro le montagne mentre cielo e acqua si arrossano. Conrad promette tramonti magici e questo primo calar del sole è indubbiamente spettacolare. I rossi, gli arancio e tutti i colori si spengono, rientriamo al campo galleggiando sulla superficie immobile del lago, avvolti dal buio totale. Il cielo si riempie di stelle e la via lattea pare schiacciarci tanto è vicina.
Vedo una stella cadente la cui scia luminosa si sposta in orizzontale compiendo un piccolo arco.
Infine la luna sorge, incredibilmente rossa, spargendo un lungo riflesso sull’acqua placida. Sbiadisce man mano che sale e alla grande sfera argentea questa sera manca solo uno spicchio, in alto. In questo emisfero la luna è “storta”!
La nostra scoperta astronomica continua…
Attraverso un telescopio vediamo nitidamente Saturno, con l’anello in verticale, riconosciamo poi, a occhio nudo, varie costellazioni e la mitica Croce del Sud.
Un concentrato di emozioni che ci fanno fare pace con questo luogo mal gestito.
La temperatura è gradevole, finalmente godiamo di un sonno ristoratore e senza interruzioni.
19 luglio 2011
Teoricamente le attività praticabili sono diverse, ma anche per questa mattina le nostre scelte vengono pilotate da Steve che propone, con troppa insistenza per i nostri gusti, la visita a un villaggio di pescatori e alla Croc Farm poco lontana.
Il programma non ci convince, accettiamo comunque la proposta, ma ovviamente non riusciamo a manifestare eccessivo entusiasmo.
Con una lancia a motore sfrecciamo sul lago sino a raggiungere un agglomerato di casette di fango e paglia che ospita una comunità di pescatori.
Il “tour” – guidato da uno degli abitanti – prende una piega piacevole, si rivela soprattutto verace e spontaneo. Non è la finzione a beneficio dei turisti che purtroppo viene rappresentata sempre più spesso.
L’approccio con donne, bambini, adulti e anziani che incontriamo è gradevole e soddisfacente da ambo le parti.
I bimbi più piccoli, che ancora non frequentano le lezioni scolastiche, diffondono una ventata di colori, quelli dei loro indumenti, e di allegria.
Con discrezione e spontaneità mi coinvolgono in un gioco fatto di parole, nomi e filastrocche che non conosco e che ripeto, lasciando che mi prendano in giro per poi ridere insieme.
Mi perdo le spiegazioni dell’uomo che, via via, ci introduce nei vari settori del villaggio: la scuola, l’infermeria, gli orti, la zona della lavorazione del pesce o dove si riparano le reti…
Poco male, i “miei” bimbi mi regalano momenti intensi, è bello tornare alla spensieratezza dell’infanzia, anche se solo per poco.
Alcuni adulti e l’uomo più anziano, il saggio del villaggio, rispettato dall’intera comunità, ci chiedono di fotografarli per il vezzo di rimirarsi nel display delle digitali.
Il turismo, anche se non di massa, ha già lasciato il segno, ma non possiamo negare a queste persone un po’ di divertimento, considerato che in cambio di una fotografia non chiedono nulla, ci omaggiano anzi di sorrisi e risate divertite.
Rimpiangiamo di non avere una vecchia Polaroid e di non poter lasciar loro le stampe dei ritratti.
La visita alla Croc Farm, come temevamo, non è stata di nostro gradimento.
Migliaia di coccodrilli, di tutte le dimensioni, vengono confinati in grandi recinti e nutriti a sproposito (anche con carne di coccodrillo!) per essere poi macellati e commercializzati.
Gli esemplari all’ultimo stadio di ingrasso sono smisurati, allo stato libero non esistono coccodrilli di tali dimensioni, faticano a muoversi, sono ammassati in un intreccio di corpi e squame tanto da faticare a distinguerli singolarmente. Si addentano, infliggendosi sanguinose ferite, in uno “spettacolo” macabro e penoso allo stesso tempo. Povere bestie, ci diciamo, rinunciando a proseguire la visita guidata e limitandoci a scattare solo qualche foto davanti alle vasche con i coccodrilli più giovani.
Lasciamo pieni di amarezza questo “lager” cintato da alte reti metalliche, con il filo spinato e le guardie armate, le telecamere piazzate ovunque e le alte ciminiere che diffondono un odore nauseabondo.
Durante il pranzo, non facciamo mistero di non aver apprezzato quel genere di allevamento.
Forse, per questa ragione, Steve propone di accompagnarci personalmente in un game drive nel Parco Matusadona.
Finalmente, pensiamo, e ci rassereniamo spendendo le ore di pausa in assoluto ozio.
Merenda con tè e dolcetti, poi, traversato il lago con il battellino, recuperiamo da sotto il fogliame la jeep.
Il game drive sembra promettente, attraversiamo paesaggi dai colori incantevoli, individuiamo e pediniamo un branco di elefanti che si sposta su uno stretto lembo di terra rossa che separa due lagune.
Prevedendo che gli elefanti faranno ritorno a breve, ci fermiamo appostandoci in un luogo riparato dalla vegetazione, convinti di “rubare” scatti molto ravvicinati.
Non sempre, però, i comportamenti degli animali sono prevedibili, la nostra attesa si rivela infruttuosa.
Ci allontaniamo dal lago, addentrandoci nel bush dove incontriamo gruppi di impala e seguiamo le tracce fresche lasciate da una mandria di bufali.
Improvvisamente la jeep ha un sussulto, il motore si spegne, inutili i tentativi di riavviarlo.
Musango safari camp non dispone di altri automezzi, Steve chiama via radio i ragazzi che presidiano il lodge, dando loro indicazioni di passare a recuperarci, con la lancia a motore, in un punto preciso lungo la riva del lago.
Siamo costretti ad abbandonare la jeep e a incamminarci nella boscaglia.
Steve non è armato e non sembra tanto disinvolto nei panni di “walking guide”, non è neppure esclusa la probabilità di incontrare elefanti o i bufali di cui seguivamo le impronte.
Per la prima volta, in Africa, mi sento inquieta, non nutriamo fiducia in questo ambiguo personaggio, ma non avendo scelta non possiamo far altro che seguirlo e sperare di raggiungere quanto prima il luogo fissato per il nostro salvataggio.
Tuttavia, una volta giunti sulla riva del lago, non una zona aperta e sabbiosa, bensì un insieme di massi scuri e vegetazione, l’inquietudine aumenta.
L’imbarcazione tarda ad arrivare, il sole sta tramontando, in acqua ci sono numerosi coccodrilli e altrettanti ippopotami che a breve usciranno per cibarsi d’erba.
Il buio incombe, l’angoscia è in crescendo. Solo dopo un’interminabile ora, il rumore lontano del motore e la sagoma della barca che si avvicina scacciano i brutti pensieri.
Saliamo a bordo rapidamente, un ultimo brivido mi percorre la schiena nel constatare che è buio pesto e il cielo si va riempiendo di stelle.
Siamo stati molto fortunati, non c’è altro da dire, preferiamo goderci il sollievo senza più pensare al pericolo cui siamo stati esposti.
20 luglio 2011
Sempre più pentiti d’aver scelto di trascorrere qui 3 giorni interi, ci rassegniamo alla monotonia del luogo e all’assenza di alternative alle escursioni in barca che sono comunque meno “claustrofobiche” di Musango, delle tende consunte immerse nel bush e della vista limitata che ciascuna offre affacciandosi su una minuscola porzione di spiaggia attraversata da filo elettrificato per impedire agli animali acquatici di avvicinarsi.
Accettiamo quindi di uscire con la chiatta prima e dopo pranzo, ma siamo ormai impazienti di dire addio per sempre a questo infelice cotesto e, soprattutto, al suo irritante proprietario.
La mattina scorre abbastanza velocemente, dal battellino ci godiamo il silenzio della natura interrotto dai richiami degli uccelli che sono innumerevoli, così come i coccodrilli che nuotano a pelo d’acqua e gli enormi ippopotami che affollano una penisola sabbiosa.
Gruppi di impala popolano le lagune e le loro figurine snelle si riflettono nell’acqua.
La navigazione pomeridiana ci regala, oltre alla quiete, waterbuck, impala e un elefante cui scattiamo una raffica di foto mentre si nutre di terra rossa, ricca di sali minerali.
L’animale occupa una stretta striscia di terreno che scavalca due specchi d’acqua.
Azzurro in primo piano e anche sullo sfondo, al centro il rosso mattone dell’istmo e il grigio del corpo massiccio del pachiderma. Decisamente una bella gamma cromatica valorizzata dalla calda luce di un imminente tramonto.
Del lago Kariba, triste e, in quanto artificiale, “finto”, ricorderemo con nostalgia solo gli infuocati tramonti, i cieli “drammaticamente” stellati, la “gravità” della via lattea tanto vicina da aver l’illusione di poterla toccare e la Croce del Sud, affascinante costellazione che appare subito dopo il tramonto e prima di ogni altra stella.
I tre giorni sono scaduti, il nostro umore migliora, ma Steve riesce a farci andare di traverso anche l’ultimo pasto con la notizia che domani voleremo a Mana Pools alle 16,20. Ci domanda anche se abbiamo nulla in contrario a dare un passaggio alla figlia, che proseguirebbe poi il viaggio verso Johannesburg e quindi in Nuova Zelanda, dove risiede con la madre.
Compreso che la manovra ha il solo scopo di far volare la ragazza a scrocco e, soprattutto, di accorciarle i tempi di attesa delle varie coincidenze che la riporteranno in patria, non tolleriamo di essere trattenuti in ostaggio per un altro intero giorno.
Seguono diverse telefonate ai vari funzionari e al pilota di Wilderness Safaris, ma questa sera è tardi per qualsiasi cosa. Il responso è rinviato a domani mattina.
Siamo molto alterati, non cediamo ai meschini tentativi di Steve di trattenerci organizzando attività che impegnino tutta la giornata, ci barrichiamo dietro al lapidario ultimatum: “vogliamo lasciare Musango al più presto e come da programma!”.
21 luglio 2011
Mentre facciamo colazione arriva la buona notizia: si vola a Mana Pools in mattinata.
Tanto è forte il desiderio di andarcene, i bagagli sono già pronti. Lasciamo un commento negativo sul libro degli ospiti e salutiamo con un sorriso forzato il boss e la figlia che, guarda caso, non parte con noi e così presto.
Il trasferimento via terra è un incubo, la jeep non è stata oggetto di una seria riparazione, rischiamo di bloccarci nuovamente. Conrad, per tutto il viaggio, è costretto a utilizzare una sola marcia.
Dopo un’ora di ansia, con l’orecchio teso a captare anche la più piccola vibrazione meccanica, in ritardo, raggiungiamo la pista di terra e l’aerino che decolla in pochi minuti.
Bollino nero su Musango Safari camp e su chi lo possiede. Con il senno di poi, avremmo dovuto evitare questo luogo.
Il volo da Kariba a Mana Pools è invece uno spettacolo, da solo vale il viaggio.
Si sorvola il lago, poi, superata l’imponente diga di Kariba, si segue il corso irregolare del fiume Zambesi.
Valle dello Zambesi / Mana Pools National Park
Fondato nel 1963, è stato dichiarato World Heritage Site dall’Unesco nel 1984, per la ragguardevole concentrazione di animali selvatici che ospita, tra cui spiccano grandi mandrie di bufali ed elefanti, e molti predatori, e per l’insolita concentrazione di coccodrilli del Nilo.
L’area si estende sulla sponda meridionale del fiume Zambesi e forma un ecosistema particolare che ruota intorno a una serie di anse abbandonate dal fiume Zambesi nel lento spostamento del suo corso verso nord. In questo tratto, la piana alluvionale dello Zambesi ha originato alcune lunghe pozze permanenti e una serie di piccole pozze stagionali su un territorio di 2000 kmq che si estende dalla diga di Kariba ad ovest fino al confine con il Mozambico a est.
Tra le gole (strettoie) di Kariba e di Mupata (dove sventuratamente da anni si discute la crazione di un’ulteriore diga, che farebbe inondare e scomparire la valle dello Zambesi), il fiume è molto largo e sabbioso, con alcune isole e lunghe lingue di sabbia assai frequentate dagli animali.
A delimitare la piana alluvionale di un quarto di milione di ettari è lo Zambesi Escarpment, dove il territorio si alza improvvisamente di circa 1000 metri, incorniciando la piana a sud, e analogamente a nord, sulla sponda opposta, in Zambia; qui però si ergono anche scoscesi monti, più a ridosso del fiume. La valle è attraversata da vari affluenti stagionali dello Zambesi. Questo luogo incontaminato è attraversato da enormi branchi di bufali, specialmente in ottobre e novembre quando, nel periodo più caldo della stagione secca, molte specie scendono ad abbeverarsi al fiume. Grandi famiglie di elefanti discendono lungo i loro sentieri abituali le sponde del fiume e possono essere viste in grande numero, come pure i kudu, le zebre, le antilopi d’acqua e spesso gli eland, oltre a grandi quantità di impala, babbuini e cercopitechi.
Esistono 380 specie di uccelli, tra cui il piviere, il parrocchetto di Nyasa e varie aquile: il nicator orientale, vari bianconi, il pigliamosche di Livingstone, oltre all’aquila urlatrice.
Una caratteristica propria del parco di Mana Pools è la densità di rare Acacia albida, gli alberi che con la loro colorazione argentea abbelliscono le sponde. Su di esse si rende evidente la linea dell’altezza uniforme raggiunta dagli elefanti nel nutrirsi; ghiotti dei loro semi ricchi di proteine, possono essere spesso visti ergersi persino sulle zampe posteriori, intenti a strapparli dai rami più alti.
Anche gli alberi di Kigelia africana, Trichilia emetica e grandi Ficus, oltre ad alti termitai, punteggiano le sponde del fiume.
Il fiume è un paradiso per i pescatori, i pesci più ambiti sono la tilapia, il pesce tigre, il barbo, il vundu.
L’esperienza più emozionante per godere della pace del fiume e per avvicinare gli animali senza disturbarli è il safari in canoa, che molti operatori gestiscono da Kariba a Kanyemba. Tuttavia il numero di passaggi è regolato, quanto il numero di auto ammesse nel parco, per non determinare un eccessivo impatto turistico.
Prima di atterrare, il pilota vola in cerchio un paio di volte abbassandosi sempre più sul fiume.
Beneficiamo dello spettacolo di colori e della straordinarietà di un paesaggio ricco di acqua, di verdi praterie, di isole di sabbia candida e di animali.
Penso a Steve per l’ultima volta e a ciò che avremmo perso, oltre ad un’intera giornata, arrivando in questo Eden con il buio.
Apprezziamo fin da subito la caratteristica principale del Parco: ambiente molto aperto, alberi radi con alte chiome, visibilità ampia che facilita la ricerca degli animali.
Percorrendo la pista che conduce al campo, in poche decine di minuti vediamo un’esagerazione di elefanti, impala, waterbuck, kudu e babbuini.
Ruckomechi camp è una struttura moderna, elegante, funzionale, composta da un corpo centrale con sala da pranzo, libreria, lounge, bar e da una decina di tende. L’intero complesso è a zero impatto ambientale, si affaccia sul fiume ed è collegato da una lunghissima passerella di assi di legno.
In primo piano, eretta sul fiume, una terrazza a pianta quadrata, ospita un “salotto”. Eleggiamo questo spazio fatto di legno e cuscini colorati quale nostra postazione preferita per osservare il via vai degli elefanti che, disceso il terrapieno, attraversano il fiume a nuoto, raggiungono le isole sabbiose e fanno ritorno al campo, visitando spesso le tende e tutta l’area circostante.
Dopo i soliti convenevoli, prendiamo possesso della nostra nuova abitazione.
Varcata la soglia, il termine “tenda” ci pare riduttivo: 50 mq di superficie per 4,5 metri di altezza, pareti con zanzariere a tutta altezza e arredi molto originali.
Davanti a tanto buon gusto e spazio, indirizziamo mentalmente un elogio all’architetto che ha ideato il campo impiegando solo materiali locali quali sassi di fiume, legno grezzo, rami, ferro, tela e bellissimi oggetti d’artigianato africano.
Siamo ancora nella fase contemplativa di questo particolare alloggio quando gli elefanti oscurano un lato della tenda, sfilano senza far rumore e uno, il più giovane del gruppo, avvicinatosi, allunga la proboscide verso di noi.
Ci separa solo la sottile rete della zanzariera e questo è sicuramente l’incontro più emozionante e ravvicinato con un elefante… Amazing!
Come nell’altro campo Wilderness Safaris, anche qui la giornata è scandita da appuntamenti precisi: un’attività la mattina presto, rientro per il pranzo, pausa, merenda, una seconda uscita fino al tramonto che, a scelta, si protrae in notturna per altre due ore, cena e a letto presto.
Durante il pranzo, che si consuma osservando il fiume, prendiamo accordi per il game drive del pomeriggio, ovviamente con proseguimento serale.
Ci accompagna Kevin, abile guida nonché simpaticissima persona, con noi c’è una coppia di coltivatori di tabacco, residente in Zimbabwe.
Kevin non si sofferma a lungo davanti ai “soliti” kudu, impala, elefanti, uccelli, è evidente che, accertato che nessuno di noi è alla prima esperienza di safari, è a caccia di effetti speciali.
Non passa molto tempo e, infatti, riceviamo in omaggio una prima assoluta…
Da un boschetto provengono una serie di suoni inquietanti: rumore di rami spezzati, latrati, barriti.
Un piccolo elefantino, grazie alla prontezza e all’aggressività dei consanguinei adulti, è scampato all’attacco di un branco di licaoni.
Allontanatisi gli elefanti e tornata la quiete, ci concentriamo sul gruppo di licaoni, animali che non si possono definire “belli”.
Tutto concorre alla loro bruttezza: sembrano un incrocio tra iena, lupo e cane randagio, il pelame pare un disordinato “collage” di avanzi di pelliccia di tanti animali, sono famelici. Ciò nonostante, come tutti i predatori, sono affascinanti.
La loro ferocia è leggendaria, agiscono in squadra, attaccando la preda con una particolare tecnica e con un’alta percentuale di successo, sbranandola ancora in corsa e finendola, nel senso che non resta più nulla, nel giro di pochi minuti. Nella scala dei predatori occupano il quarto posto.
E’ piuttosto raro avvistarli, è infatti la prima volta che li vediamo e siamo raggianti.
Kevin ci invita a scendere dalla jeep…
Temendo di aver capito male, lo guardo interrogativa, ma quando estrae il fucile dalla custodia e lo carica con il proiettile, non ci sono più dubbi.
Ci impartisce poche e ben precise istruzioni, dobbiamo muoverci con circospezione, mantenere il silenzio e accodarci, dietro di lui, in fila indiana.
Proviamo un misto di preoccupazione e di eccitazione mentre, anziché osservare solo escrementi e impronte tenendoci a debita distanza da qualsiasi animale, ci avviciniamo ai sei licaoni, con il solo obiettivo di scattare foto più ravvicinate.
Avanziamo sino a raggiungere una distanza che Kevin ritiene sicura, ci soffermiamo poi silenziosi ad osservare i licaoni mentre rotolano nella sabbia per camuffare il loro forte odore, sollevando nuvole di polvere. In seguito li vediamo urinare a turno e nello stesso preciso punto. Seguono momenti di attività convulsa. Infine, quando il branco riguadagna la posizione inattiva e sonnolenta, ci allontaniamo dalla scena.
Un gruppo di impala riscuote l’attenzione dei sei canidi, ma le antilopi, fiutato il pericolo, si mantengono in formazione compatta e si allontanano, facendo così sfumare un’occasione di caccia.
A questo punto, ancora “febbricitanti” per l’esperienza appena vissuta, proseguiamo il game drive cambiando zona.
Il paesaggio è straordinario, sterminate praterie verdeggianti si affacciano sul fiume e le pozze, basse colline interrompono la pianura, imponenti alberi impreziosiscono uno scenario già bellissimo. Di fronte, al di là del fiume, una catena di montagne delimita e racchiude la valle dello Zambesi.
Ci fermiamo a osservare la bevuta collettiva di una famiglia di elefanti, incantati dalla perfetta sincronia dei movimenti: tutte le proboscidi sono allungate verso il basso per attingere acqua, poi si sollevano in aria arricciandosi verso le bocche, come se un regista, dietro immaginarie quinte, stesse impartendo istruzioni precise.
La natura però non sempre è perfetta, notiamo – tra tutti – un grosso esemplare costretto a strane contorsioni per via di un’evidente imperfezione, ha infatti una zanna regolarmente curva e una totalmente diritta.
Incredibile la quantità di antilopi presenti in questo Parco, ovunque si incontrano kudu, impala e waterbuck.
Dopo il tramonto la temperatura si abbassa drasticamente, ma calde e morbide coperte ci riparano dal freddo.
Il game drive prosegue e il raggio di luce rossa della spotlight evidenzia tante creature grandi e piccole: impala ancor più numerosi ora con il favore delle tenebre, bufali, ippopotami che vagano alla ricerca di erba da brucare, elefanti, genette e persino un enorme porcospino.
Felici torniamo al campo, ceniamo e ci infiliamo velocemente sotto le coperte, stretti alla borsa dell’acqua calda, con il desiderio che arrivi presto domani e ben predisposti a nuove avventure.
22 luglio 2011
Sveglia alle 6, colazione e una nuova guida, Sean, per il game drive di questa mattina che condividiamo con Anna e Carlo, i soli italiani incontrati in Zimbabwe.
Strada facendo rivediamo i licaoni, se ne stanno indolenti a beneficiare dell’ombra.
Riconosciamo, tra la vegetazione, le massicce figure di due eland, vediamo sfilare impala e elefanti. Sostiamo davanti ad un gruppo di kudu che, dopo aver attraversato la pista, si insinua in un corridoio ricavato nell’erba alta tanto da scoprirne solo le teste.
In una spianata, gli avvoltoi si cibano dei resti di un piccolo animale.
Sean, walking guide come Kevin, altrettanto professionale, ma dal carattere più serio e taciturno, carica il fucile, ci fa cenno di scendere dalla jeep e di seguirlo.
Ci avviciniamo agli avvoltoi che interrompono il pasto andando a posarsi sui rami di un albero poco lontano.
Esaminando lo scheletro, che conserva intatti la scatola cranica, la colonna vertebrale, il bacino con la lunga coda, una sola anca e il femore, identifichiamo la corporatura di un babbuino.
Terminata la lezione di anatomia togliamo il disturbo, certi che – tra qualche ora – del malcapitato non resterà più nulla.
Per quanto possa sembrare macabra, la catena alimentare è affascinante. In natura tutto ha un senso: un animale morto, predato, si traduce in cibo e continuazione della vita per molte altre creature.
Rientrati al campo, mentre pranziamo, gli elefanti nuotano nel fiume, lo attraversano, si cibano allungando le proboscidi verso il fogliame e, una volta sazi, tornano per la stessa via insediandosi esattamente attorno alla nostra tenda. Ci appostiamo nelle vicinanze, insieme alla manager che invano – a gesti – tenta di scacciarli.
Non riusciamo a ritirarci nella nostra abitazione, ma poco importa, ci rallegriamo di un nuovo “vis-à-vis” con questi maestosi animali.
Nel corso del game drive pomeridiano, sono ancora gli elefanti a dar spettacolo.
Ci troviamo al centro di un fiumiciattolo, il classico guado che “inghiotte” la jeep fino all’intera altezza delle ruote. Dalla sponda opposta, una fila di pachidermi ci viene incontro e, mentre ci blocchiamo nell’acqua, i massicci corpi sfilano tanto vicini che per fotografarli occorre il grandangolo.
Adulti e piccoli, uno alla volta, ci passano a fianco silenziosi e indifferenti, tranne un giovane esemplare che esita a ricongiungersi ai compagni, intrattenendosi ad annusarci… Amazing!
Proseguendo l’esplorazione del Parco, attraversiamo habitat differenti:
– alberi e verdi praterie con l’erba naturalmente rasata dagli erbivori, nelle vicinanze del fiume;
– colline boscose, tappezzate di muschio, solcate da modesti corsi d’acqua, nella zona intermedia;
– terra arida, sabbiosa, ricoperta da un tappeto di secchie foglie dagli splendidi colori autunnali e una foresta di arbusti completamente spogli, più all’interno.
Nel raggio di qualche chilometro cambiano le caratteristiche del territorio e le tinte, si ha l’impressione di compiere un suggestivo viaggio attraverso le diverse stagioni.
Gli elefanti, con schiere di piccoli, sono in ogni dove.
Le zebre al tramonto chiudono la prima parte di questo ricco tour fotografico.
Torniamo al campo solo per pochi minuti, giusto il tempo di sorseggiare un aperitivo e per consentire ai nostri compagni di avventure, Anna e Carlo, di terminare a questo punto il safari.
Ripartiamo. Kevin – abilissimo – scova nella notte tenebrosa genette, african civet, piccoli predatori, una iena che frantuma rumorosamente le ossa di un animale.
Sempre numerosi si susseguono elefanti, impala, antilopi e ippopotami.
Kevin ci dimostra, senza allontanarsi da questi ultimi, quanto, con i fari e il motore spento, mantenendo il silenzio, siano indifferenti a noi, aggirandoci come un qualsiasi ostacolo naturale.
Per la prima volta ci troviamo tanto vicini all’animale africano che, tra gli umani, miete più vittime, siamo tuttavia rilassati grazie alla competenza di una guida estremamente professionale che ci trasmette sicurezza e tranquillità, stati d’animo assolutamente necessari per godere di incontri di questo tipo senza provare timore.
Il tempo è scaduto, dipendesse da noi continueremmo il game drive per tutta la notte, ma precise regole impongono di tornare alla base.
Salutiamo pertanto le creature africane, fissando un nuovo appuntamento per domani, alle prime luci dell’alba.
23 luglio 2011
Stabilito un feeling con Kevin, è di nuovo con lui che ci troviamo a inseguire uno splendido kudu maschio dalle possenti corna. Il nostro obiettivo è quello di avvicinarci e di rubare primi piani, ma l’animale sembra voler giocare a farci dispetto, spostandosi in controluce, all’ombra e andando a nascondersi tra l’erba alta più della sua statura.
Con le femmine, meno elusive e quindi più facilmente avvicinabili, abbiamo più successo.
Cerchiamo di rintracciare tre iene incontrare da Sean, che ci segnala l’avvistamento via radio, ma non riusciamo nell’intento.
In compenso, seguendo gli avvoltoi che volano in cerchio sopra una precisa zona, troviamo il frutto della caccia di un gruppo di leoni.
Percorrendo un difficile fuoripista tentiamo di avvicinarci alla valletta dove scorre un ruscello, dalla nostra postazione leggermente elevata, scorgiamo, nell’acqua bassa, i resti di un bufalo, presidiati da un leone seminascosto tra l’erba secca.
La scena non è facilmente fotografabile, ma sostiamo in attesa dei movimenti del felino che prima di allontanarsi si palesa un paio di volte.
Ci spostiamo in una piana verdeggiante, orlata da alberi e affacciata su un tratto del fiume con isole e banchi di sabbia candida.
Incantati dalla bellezza del luogo, non ci sfugge tuttavia un grosso coccodrillo che scivola in acqua furtivo mentre uno stormo di uccelli spiega le ali e spicca il volo, spostandosi veloce a pelo d’acqua.
Il nome di questi straordinari uccelli è African Skimmer e, nel vederli volare, comprendiamo da cosa sia stato ispirato il logo di Wilderness Safaris.
I licaoni, con i quali ormai abbiamo un appuntamento quotidiano, si sono spostati qui, hanno percorso molta strada e si dimostrano attratti da un branco di impala.
Inizia un lungo agguato, con diversi lenti avvicinamenti alternati a soste all’ombra degli alberi.
Attendiamo eventuali sviluppi, ma i licaoni probabilmente non sono affamati, si rivelano troppo rilassati, dormicchiano più di quanto si muovono e gli impala si allontanano, quasi impercettibilmente, ma senza mai interrompere il loro arretrare.
Sul niente di fatto dei licaoni termina il primo game drive della giornata e la permanenza presso Ruckomechi camp di Anna e Carlo. Ci salutiamo con la promessa di risentirci in Italia.
Gli elefanti ci fanno visita all’ora di pranzo, “solito” copione con una sola variante, anziché indirizzarsi verso le tende, sostano a bere davanti al “salotto” che si affaccia sul fiume.
Kevin ci adotta per l’intero pomeriggio, con noi non ci sono altri ospiti, faremo quindi un game drive non stop in sua sola compagnia. Non potremmo chiedere di meglio.
Assistiamo all’accoppiamento di due aquile pescatrici posate sulla sommità di un termitaio. Pochi secondi ed è tutto finito, ma siamo riconoscenti all’Africa per questa esclusiva.
Tra le novità ci sono anche le faraone (Guineafowl) che roteano nella sabbia, sollevando sbuffi di polvere.
L’obiettivo di Kevin è costituito dai licaoni. Li troviamo più o meno dove li abbiamo lasciati prima di pranzo, all’ombra di un albero.
Kevin ci ha studiato, evidentemente abbiamo superato l’esame, ci propone infatti una “passeggiata” che ci porterà a poca distanza dai licaoni.
Accettiamo, ma com’è ovvio, non siamo del tutto rilassati. Quando ci troviamo a una distanza di 30 metri e dobbiamo sederci davanti ai 6 feroci predatori, non compio gesti incontrollati ma già mi immagino tragicamente aggredita, sbranata, a brandelli in un lago di sangue…
Kevin, dal canto suo, ha l’abilità di comprendere il nostro stato d’animo e di infondere tranquillità e sicurezza facendoci notare che i licaoni, dopo un po’ di agitazione, ma soprattutto dopo averci annusato e compreso che non siamo cibo apprezzabile, perdono totalmente l’interesse nei nostri confronti.
Più rasserenati, ci spostiamo – sempre con circospezione e in perfetto silenzio – ancora più avanti, dimezzando la distanza. A 15 metri dai licaoni ci risediamo a terra, solleviamo lentamente gli obiettivi e scattiamo una serie di foto.
Il cuore si ferma in gola nel momento in cui un licaone si stacca dal gruppo, si muove nella nostra direzione, si ferma a non più di 7 metri…
Kevin, a gesti ci invita all’immobilità, la bestia si è allontanata dai compagni solo per identificare un luogo dove urinare. Ci assale una nuova ondata di preoccupazione nel ricordare quanto abbiamo visto il primo giorno: nel giro di pochi minuti ciascun licaone annuserà quello stesso punto preciso, urinando esattamente lì. Vale a dire ben 6 licaoni e solo 7 metri tra noi e loro.
Sono “solamente” tre gli animali che ripetono la sequenza e che, senza più degnarci d’uno sguardo, tornano apatici all’ombra del grande albero.
Ormai totalmente rilassati e come se fosse la cosa più naturale del mondo, stiamo accovacciati a lungo a osservarne i movimenti. I licaoni alternano sonnacchiosi pisolini a lotte durante le quali si sollevano sulle zampe posteriori, “abbracciandosi” con quelle anteriori, oppure si dispongono uno sopra l’altro in una sorta di accoppiamento. Kevin ci spiega che si tratta di un rituale volto a determinare la supremazia, si stabilisce così chi domina il branco.
Alcuni impala si profilano all’orizzonte e i licaoni, contemporaneamente, esattamente come abbiamo visto fare ai leoni, si indirizzano con lo sguardo verso la stessa direzione.
Speriamo in una scena di caccia, ma ben presto è evidente che l’interesse dei predatori nei confronti delle antilopi si esaurisce.
I licaoni, infine, si spostano di pochi metri, lasciando la zona in ombra e, mentre scattiamo fotografie con la luce del tramonto che esalta i colori, nel vedere nitidamente i particolari degli animali ravvicinati dall’obiettivo, provo quella forte sensazione di appartenenza al documentario che l’Africa ci regala in forme sempre diverse e che già mi fa pensare a un ritorno in questa meravigliosa terra.
Ci allontaniamo, voltando le spalle alle sei belve, solo quando scorgiamo un’altra jeep che transita in lontananza.
Ancora eccitati e colmi di felicità raggiungiamo un terrapieno che si eleva dal fiume.
Oggi – sabato – l’aperitivo è occasione di festa. Troviamo qui riuniti tutti gli ospiti di Ruckomechi, le guide, lo Staff, la luce soffusa di una fila di candele e una tavolata con stuzzichini e bevande.
Non disdegniamo le polpettine di pesce pescato nelle acque del fiume e neppure una birra fresca, ma a insaporire questo evento sono sicuramente i neri profili degli elefanti che attraversano un banco di sabbia e che si stagliano sullo sfondo di un tramonto all’ultimo stadio, con il cielo in cui predominano i colori porpora, viola, blu, nero.
Ripreso il safari, la notte ci regala un carosello di immagini ed emozioni.
Nei pressi del bufalo morto si aggirano i leoni, ma non solo, il forte odore di putrefazione ormai diffusosi a distanza richiama una processione di iene.
Dopo aver osservato l’ultima che annusa l’aria in direzione della carcassa, spenta la luce rossa, ci fermiamo, nel buio più totale e sotto la volta stellata, ad ascoltare il richiamo delle iene lontane. Verso inquietante e straordinario nello stesso tempo che ci rende partecipi e muti spettatori di uno dei più grandi fenomeni della natura: la vita che continua!
Vediamo inoltre e per la prima volta uno splendido serval, ancora qualche genetta e un african civet.
24 luglio 2011
Oggi, ultimo giorno a Mana Pools, ci accordiamo per un game drive al mattino, un’escursione in barca fino al tramonto e un safari notturno.
Kevin è impegnato con un gruppo di francesi, ci viene assegnata una diversa guida: Champion, il cui nome non ne rispecchia la personalità. E’ infatti un ragazzo molto giovane, piuttosto insicuro, in fase di addestramento.
A Champion, per ora, mancano esperienza e abilità nell’individuare gli animali. In alcuni casi, concentrato nella guida del veicolo, non vede quelli che invece noi indichiamo. Sosta troppo a lungo dinanzi a scene del tutto ordinarie.
Ci dobbiamo accontentare di ben poche “vibrazioni” emotive.
Dopo un paio d’ore infruttuose, consci che per noi il tempo di permanenza in Africa è agli sgoccioli, chiediamo all’inesperta guida di condurci nel sito dove giacciono i resti del bufalo.
Siamo fortunati, troviamo un leone con la testa infilata sotto le pelle sventrata e scura intento a spolpare gli ultimi brandelli di carne da un osso, probabilmente un femore, che si stacca da quel che resta del bufalo, ormai irriconoscibile.
Terminato il pasto, il leone si allontana dalla carcassa e si china a bere l’acqua del fiumiciattolo. Nel silenzio si ode il rumore del lungo risucchio.
Il felino si sposta di qualche altro passo per urinare, infine torna a bere ancora rumorosamente e copiosamente.
Lasciato il “luogo del delitto”, non aspettandoci altro, ci concentriamo sulla bellezza del paesaggio.
Ci spingiamo in una zona lontana, per noi nuova, particolarmente suggestiva, caratterizzata da un immenso bosco con alberi dall’alto fusto che permettono ampia visibilità. Qui crescono anche alcuni massicci baobab.
Percorriamo letti sabbiosi di fiumi asciutti che solcano vaste distese di bassi cespugli verdi, il suolo è in prevalenza secco, terroso.
Tranne gli impala, che incontriamo a branchi, e i babbuini che affollano una estesa conca affacciata su un tratto del fiume, non vediamo molti altri animali.
L’ultima immagine del game drive con Champion è rappresentata dai licaoni che camminano in fila, lentamente, indirizzati verso una zona fittamente vegetata.
Torniamo al campo all’ora di pranzo e, chiacchierando con gli ospiti francesi, veniamo a sapere che quando – poco fa – abbiamo visto i licaoni per l’ultima volta, quella ritirata oltre la boscaglia era la fase conclusiva di un teatro di caccia.
I francesi, arrivati ieri sera, alla prima uscita, non solo hanno incontrato i licaoni, ma li hanno seguiti e osservati mentre braccavano, catturavano e sbranavano un impala, con una ferocia tale da terminare il pasto in soli 5 minuti.
Fatichiamo a inghiottire questo secondo amaro boccone: dopo gli appostamenti, il tempo dedicato a osservare i licaoni in totale immobilità e silenzio, dopo aver osato avvicinarli a piedi, il gran finale, con la predazione, spettava a noi, ma ancora una volta dobbiamo prendere atto che in natura nulla è scontato…
Siamo piuttosto risentiti con i licaoni e anche con il leopardo di Hwange N.P., ma, pazienza, speriamo di rifarci la prossima volta!
Gli elefanti, oggi, si aggirano nella parte centrale del campo. Mi immobilizzo mentre, davanti a me e senza alcuna barriera a separarci, un grosso esemplare si sposta silenzioso tra il ristorante e il “salotto” affacciato sul fiume.
Trascorriamo il resto della giornata in compagnia di Kevin.
Navighiamo sul fiume aggirando isole di sabbia e costeggiandone le sponde per una scorpacciata di coccodrilli di ogni dimensione, ippopotami, elefanti e un’infinità di uccelli.
Gli ippopotami giocano a nascondino, immergendosi uno alla volta, impedendoci così di fotografarli, e riaffiorando ancora uno ad uno.
Un giovane ippopotamo si rende ridicolo, e ci fa sorridere, nel momento in cui emerge con la testa vicinissima al battello. Non gradisce la nostra compagnia, si spaventa e si rituffa rumorosamente soffiando acqua.
Tre bestioni adulti affiancano la barca, ci rincorrono, lasciandosi alle spalle altrettante scie schiumose.
Sono buffi e nello stesso tempo ci ricordano i delfini che nuotano veloci seguendo le imbarcazioni.
L’escursione dura fino al calar del sole.
Con la barca dal fondo piatto ci avviciniamo silenziosi ai tanti uccelli, colorati e bellissimi, che “catturiamo” con gli obiettivi in una ricca collezione di immagini.
Dopo aver assaporato l’ultimo tramonto africano e le figure degli elefanti che avanzano su una lingua di sabbia, assistiamo al breve volo delle faraone che, numerose e per eludere i predatori notturni, vanno ad appollaiarsi sui rami di un albero caduto nel fiume.
Termina così, con questa poetica immagine, l’escursione sullo Zambesi.
Recuperata la jeep, ha inizio il game drive notturno.
L’Africa sembra volerci salutare regalandoci tanti animali e, soprattutto, a multipli di due.
L’euforia di Kevin è contagiosa, ci divertiamo a contare coppie di genette, di iene, di eland, di honey badger (tasso del miele), di african civet e persino due african wildcat che, secondo il nostro amico, si vedono ancor meno spesso di un leopardo.
Elefanti e ippopotami compaiono all’improvviso in questa notte prodiga di incontri, anche molto ravvicinati.
Sulla via del ritorno, un enorme elefante maschio (Bull) dalle zanne possenti e perfette, ci precede a passo lento e silenzioso. Interrompe la sua andatura solo per allungare la proboscide e per selezionare dai rami più alti degli alberi le foglie migliori.
Il posteriore nero, un muro che avanza davanti a noi per diverse centinaia di metri, è una scena che mi emoziona e costituisce la perfetta conclusione di questo nostro straordinario viaggio in Zimbabwe.
L’elefante ha però deciso di raggiungere il campo e di farci visita anche nel corso della notte.
Siamo ormai sotto le coperte, abbiamo da poco spento la luce, dietro la nostra tenda sentiamo il rumore di rami spezzati. Attraverso la zanzariera ne riconosciamo lo scuro profilo, ci godiamo la sua ingombrante presenza e la magia del cielo stellato… Amazing! esclamerebbero ancora una volta i compagni d’avventura che si sono alternati a tavola o sulla jeep.
25 luglio 2011
Dopo aver fatto colazione, lasciamo Mana Pools e Kevin con un groppo in gola.
Il pilota, che già conosciamo, manovra il piccolo aereo che vola a bassa quota per 90 minuti prima di raggiungere Harare.
Superiamo dapprima una fascia verde, poi una zona secca ricoperta di bush, campi coltivati e irrigati, piccoli laghi, fiumi e, infine, sorvoliamo la città con gli agglomerati di casette basse e i moderni palazzi del centro.
Harare è una città piacevole, più gradevole di altre metropoli africane già visitate in passato, ma dopo l’isolamento dei parchi non riusciamo ad apprezzare il brusco ritorno tra la folla, il traffico, i rumori. Ci limitiamo a una passeggiata di un paio d’ore nelle vie del centro, rifugiandoci per il resto della giornata nella quiete del giardino dell’hotel dove consumiamo anche i pasti.
26 e 27 luglio 2011
Il lungo viaggio di rientro, con transiti a Johannesburg e Zurigo, ha inizio alle ore 13 e termina a Malpensa un giorno dopo.
Non ricordo molto dei voli e delle soste negli aeroporti, nella mente c’è spazio solo per le emozioni, le immagini e per quelli che ormai sono già nostalgici ricordi.
The End!