I gatti di Počitelj

Viaggio breve in Bosnia Erzegovina
Scritto da: gnappetto68
i gatti di počitelj
Partenza il: 28/10/2011
Ritorno il: 01/11/2011
Viaggiatori: 2
Spesa: 500 €
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Anteviaggio

Perché un viaggio in Bosnia Erzegovina? Quante volte me lo sono sentito chiedere, prima di partire. Quanti mi hanno chiesto “A Sarajevo? Ma non hai altri posti dove andare?” oppure “Ma che ci vai a fare, lì?”.

Si sa, i pregiudizi sono tanti. Ma, con questo viaggio, sono stati smentiti tutti.

La mia voglia di vedere Sarajevo risale a molti anni fa. E’ sempre stata, per me, una città piena di atmosfera. Nel 2006 ho visto “Il segreto di Esma” un film della documentarista bosniaca Jasmila Zbanic: un vero e proprio pugno allo stomaco. Eppure, quelle atmosfere di periferia abbandonata e distrutta, con la neve non bianca, ma sporca di fango e di terra, mi aveva affascinato. Avevo voglia di vedere quei posti, quei luoghi, rivivere quelle sensazioni. Proprio in quegli anni l’amica Giovanna che lavorava per un’Ong, era di stanza a Sarajevo e più volte ci aveva invitato a raggiungerla ed avevamo addirittura pensato di andarci proprio ai primi di novembre. Ma poi, per un motivo o per l’altro, c’erano sempre altri posti da vedere, da visitare, da assaporare. La mia attrazione (se così possiamo chiamarla) per quei posti è aumentata a dismisura leggendo “Venuto al mondo” il libro di Margaret Mazzantini. E finalmente, quest’anno, ci sono riuscito.

Tutto nasce da un viaggio nei Balcani fatto da Massimo quest’estate, durante il quale aveva visitato parecchie città dell’area fra le quali, appunto, Sarajevo e Mostar. Ma ne aveva assaporato poco l’atmosfera per vie dei tempi ristretti di un viaggio lungo: mezza giornata qua, due ore là. E quindi è scattata la proposta di dedicare qualche giorno alla Bosnia. I preparativi sono partiti un po’ in ritardo anche perché non si sapeva bene, ancora, chi sarebbe venuto. Alla fine i tre moschettieri (Massimo, Luca di Monfalcone ed io) si sono messi in moto. Prenotazioni della guesthouse, studio del tragitto in macchina, della lingua bosniaca (???), dei posti da vedere. Decidiamo, inizialmente, di fermarci due giorni a Sarajevo e poi di avvicinarci al confine tra Bosnia e Croazia, passando una giornata nella zona di Bihac, con i suoi bellissimi parchi naturali. La settimana della partenza è tutto pronto, tutto a posto, tutto in ordine. Purtroppo il mercoledì, la mamma di Luca si fa male e lui è costretto a dare forfait. La cosa, lì per lì, mi getta nel panico: per la prima volta nei miei numerosi viaggi, mi trovo completamente impreparato; Luca di Monfalcone era già stato un paio di volte a Sarajevo e ci avrebbe… fatto da guida. Non potendo più contare sulla nostra “guida vivente” e, soprattutto, senza Lonely Planet (che avevo deciso di non prendere…), mi si apriva un mondo di incertezze. Ma, rassicurato sia da Massimo sia dal fatto che Luca di Monfalcone ci avrebbe dato la Lonely, decido comunque di affrontare questa avventura. Cambiamo programma al volo, decidendo di passare l’ultima notte a Mostar anziché a Bihac, prenotiamo una guesthouse dal nome italiano (Villa Botticelli) che, dal sito, pare molto carina, prepariamo i bagagli e siamo pronti a partire.

28.11.2011 Udine-Sarajevo

La sveglia suona presto, ma Massimo perde tempo a non finire (poi accuserà me di non aver neanche lavato le tazze della colazione!) e quindi si parte con mezzora di ritardo sulla tabella di marcia. Sono le 7.00 e la città è ancora mezza addormentata. Imbocchiamo l’autostrada direzione Trieste-Basovizza-Pesec, dove attraverseremo il confine con la Slovenja. Massimo imposta il tomtom e già Luca (si, anche la “voce” del tomtom si chiama così… ufff, siamo in troppi) comincia a rompere le balle “fra 100 metri girate a destra”, “al prossimo incrocio girate a sinistra”. Entriamo in terra Slovena trovando (quasi) subito il confine che cerchiamo, tappa per benzina, sigarette e colazione (ci spartiamo l’unica mezza brioche rimasta al baretto) e poi via verso la Croazia, direzione Zagabria. La strada corre in mezzo a boschi ed è fantastica: le foglie degli alberi hanno tutti i colori dell’autunno con varie sfumature di giallo e di rosso. Passiamo cartelli che avvertono della presenza in zona di lupi e orsi (!), passiamo il confine Slovenja-Croazia ed entriamo in autostrada dove, subito, troviamo una “cestarina” che non è altro che i casello dell’autostrada. Paghiamo in euro senza problemi e premiamo il pedale sull’acceleratore. A pranzo ci fermiamo in un autogrill croato e subito veniamo letteralmente assaliti da un gruppo di ragazzi che… puliscono i vetri della auto! Ci capiterà molte altre volte lungo la strada e sarà inutile negare… loro sono più furbi! Ti spruzzano un po’ di detersivo sul vetro così sei costretto a fartelo pulire! Inventiva balcanica! Passiamo finalmente anche il confine Croazia-Bosnia all’altezza di Velika Kopanica, passando quindi oltre Slavonsky Brod: leggendo la cartina Massimo aveva preferito scegliere questa strada che si trovava a valle, costeggiando il fiume invece che quella da Slavonsky Brod che correva in mezzo alle montagne. I frontalieri Bosniaci sono molto gentili, ci fanno aprire il cofano dell’auto che controllano in tre nano secondi e, finalmente, entriamo in terra Bosniaca. Non ci sono autostrade fino a Sarajevo: o meglio, ce n’è un piccolo pezzo che corre tutto intorno alla città. Quindi percorriamo strade bellissime di campagna facendo attenzione ai limiti che variano da 40 a 60 km all’ora. Questo ci rallenta, ma ci dà anche l’occasione di goderci questi posti sicuramente inusuali: la strada corre parallela ad un fiume, ogni tanto incrociamo un piccolo paese con delle basse case, tipici “pekara” (panifici) e negozietti che vendono frutta e verdura, minuscoli cimiteri con lapidi bianche erette sotto ad un gruppo di alberi con le foglie gialle (siamo pur sempre in un paese dove la recente guerra ha lasciato segni indelebili) covoni di fieno, carretti trainati da cavalli. Facciamo benzina in un distributore dove, con grande sorpresa, scopriamo che c’è il collegamento gratuito wi fi (ma quando mai, da noi?). Abbiamo giusto il tempo di scaricare la mail di Snjezana, proprietario della guesthouse di Mostar, che ci dà conferma della prenotazione e si riparte con direzione Doboj, importante snodo stradale bosniaco. Nei pressi di Sarajevo imbocchiamo l’autostrada e ci fermiamo alla prima cestarina bosniaca: la ragazza del casello è molto simpatica e carina, ci dice che possiamo pagare in Euro, purchè siano banconote, e che ci darà il resto in KM (marco bosniaco convertibile, 1 KM = 0,50 Euro più o meno). Arriviamo finalmente nei pressi della capitale bosniaca: l’estrema periferia è bruttina e, sorpresa delle sorprese, pare che i cinesi l’abbiano presa d’assalto! Lungo la strada, infatti, ci sono moltissimi negozi “kinesa” che vendono cianfrusaglie, abbigliamento a poco prezzo, parrucche e quant’altro. Mancano ancora 15 chilometri e… improvvisamente le auto davanti a noi si bloccano. Comincia una lunga coda che ci farà attendere quasi un’ora per entrare in città. Arrivati a passo d’uomo nei pressi dell’inizio del tristemente famoso Viale dei Cecchini (Zmaja od Bosne) troviamo l’ampio vialone sbarrato da auto della polizia che ci costringono a fare una deviazione. Pensiamo subito ad un incidente o ad una manifestazione, ancora ignari di quello che è appena accaduto. Imbocchiamo quindi una strada laterale e dopo qualche centinaio di metri ci ritroviamo sul viale principale.

E’ decisamente buio quando arriviamo nei pressi del centro storico costeggiando la Miljaka, il fiume che attraversa Sarajevo e, seguendo le indicazioni stampate sulla piantina, arriviamo al parcheggio che dovrebbe essere vicino alla nostra guesthouse. Non sapendo, ovviamente, dove di preciso si trovi, chiediamo ad un militare di guardia ad un caseggiato il quale, molto disponibile e con un inglese impeccabile, ci indica la stradina da imboccare. Goran della Kandilj mi accoglie con un sorriso di benvenuto e mi indica la strada per arrivare al parcheggio dove lasceremo la Punto di Massimo parcheggiata per tre giorni. Con armi e bagagli torniamo verso la Kandilj dove Goran ci assegna una camera tripla anche se siamo in due, in mansarda. La stanza è carina, pulita ed accogliente. Usciamo finalmente a piedi e ci dirigiamo verso Baščarsija, la città vecchia di Sarajevo in cerca di un bancomat dove prelevare un po’ di marchi e di un posto dove cenare. La scelta cade sul Mori Han, un ristorante costruito dentro a un vecchio caravanserraglio. Il locale è completamente vuoto ed il cameriere annoiato è seduto a un tavolo che fuma. Ma quando entriamo scatta subito in piedi e ci accoglie con un sorriso. La serata passa tranquillamente tra ćevapčići, insalata di kapuz (il cavolo cappuccio che impera da queste parti: lunghe le strade ci sono vere e proprie piramidi di cavoli in vendita), baklava e acqua minerale Sarayewska gasatissima, finchè non arriva un messaggio da mio papà di questo tipo “Fai attenzione perché a Sarajevo sparano in strada”. Non so se ridere o se agitarmi. Penso ad uno scherzo (di pessimo gusto) anche perché il messaggio è scritto in dialetto veneto e per un po’ me ne dimentico. Passeggiamo lungo le strette viuzze di Baščarsija con i suoi negozietti, le sue moschee, chiese e sinagoghe illuminate, finchè non decidiamo di rientrare alla base. Massimo si addormenta all’istante, io invece approfittando del free wi fi mi collego col mio iPod e… scopro la notizia dell’attentato all’ambasciata Usa ed ho la conferma che quello di mio padre non era uno scherzo! A quanto pare un pazzo si è messo a sparare contro l’edificio dell’ambasciata, ma è stato subito bloccato dalla polizia che non si capisce se l’ha ammazzato o solo ferito… bel modo di iniziare una vacanza, mi dico. Ma poi il sonno prende il sopravvento… speriamo che vada tutto bene.

29.11.2011 Sarajevo

Mi sveglio presto a causa del lucernario che si trova esattamente sopra la mia testa, ma me ne sto tranquillo sotto le coperte fino alle otto. Scendiamo a fare colazione (molto abbondante! Le omelette fatte al momento dalla gentile signora bionda della pensione che fuma come una turca, sono buonissime!) e poi via. Ci dirigiamo verso la periferia, percorrendo a piedi il lungo fiume. La giornata è grigia e con un po’ di nebbia, tempo ideale per Sarajevo: col sole non sarebbe stata la stessa cosa. Ci perdiamo dentro a stradine con case che un tempo dovevano essere bellissime, con un sacco di fregi sulle facciate, ma delle quali non rimane più molto: alcune sono disastrate, altre piene di buchi causati dalle pallottole, altre mezze bruciate. Incrociamo un vero e proprio ecomostro, un palazzo altissimo abbandonato in corso di costruzione che secondo noi non riprenderà mai. I cartelli lungo la staccionata illustrano fotografie di quello che doveva essere e cioè un centro commerciale con appartamenti di lusso… difficilmente lo diventerà. Accanto c’è il parlamento bosniaco, una costruzione di vetro e cemento con un’alta torre. Militari passeggiano avanti indietro, imbracciando armi (che qui, evidentemente, sono di casa). Massimo si ferma per fare una fotografia ed il militare gli chiede “Tourist?”. Lui è tentato di rispondere “No, terrorist”, ma capisce che non è il caso. Quando mi raggiunge mi racconta l’episodio e scoppiamo a ridere come dei matti! Certo, un terrorista con la macchina fotografica e lo zainetto non lo si vede tutti i giorni! Proseguiamo lungo il viale ammirando le twin towers, due alte torri in vetro e cemento, quasi completamente distrutte durante l’ultima guerra e rimaste a lungo in rovina quasi a rappresentare un simbolo della devastazione Serba. Da qualche anno sono state ricostruite ed ora svettano imponenti a guardia della città segnando praticamente il limite con Novo Sarajevo.

Arriviamo alla nostra meta, il Museo di Storia, che si trova proprio accanto al Museo Nazionale. Il Museo è collocato all’interno di un edificio risalente agli anni 70, spoglio e quasi fatiscente. Ci giriamo intorno perché attraverso i vetri sporchi sembra che l’edificio sia abbandonato. Oltretutto, la scaletta che porta all’entrata è bloccata da un nastro di plastica giallo della polizia con la scritta (in bosniaco e inglese!) “Do not cross”. Sotto al museo c’è il famoso Cafè Tito, un particolarissimo bar pieno di memorabilia del grande statista yugoslavo, ma anche questo è chiuso. Che disdetta! Siamo decisi a tornare indietro quando ci accorgiamo di un’altra scala che arriva ad una porta a vetri dove scorgiamo… due impiegati seduti in una specie di guardiola. Ma allora è aperto! Facciamo i biglietti (4 KM) e saliamo le scale. Arriviamo in un grande stanzone e cominciano i colpi allo stomaco. Fotografie, articoli di giornale, pezzi di artiglieria fatta in casa, carte d’identità e documenti di gente che non ce l’ha fatta, perfino la ricostruzione di una cucina di un appartamento, stanza dove la gente si rintanava per sfuggire ai colpi dei cecchini che, all’impazzata, sparavano sulle finestre. Non si possono descrivere le mille emozioni che colpiscono nel visitare questo museo. Bisogna per forza venirci. Lascia stupiti il fatto che non parliamo delle due grandi guerre, quelle sono accadute in un tempo lontano e noi non eravamo nemmeno nati; qui si parla degli anni ’90 quando noi pensavamo solo a divertirci…e questo mette ancora più tristezza. Usciamo dal museo con il muso un po’ lungo, riflessivi e pensosi. Proseguiamo lungo il Viale e decidiamo di concederci una pausa caffè in un centro commerciale dove tutto sembra stonato rispetto a quanto abbiamo appena visto. Ma tant’è, la gente di Sarajevo continua a vivere e noi dobbiamo fare altrettanto. Dopo qualche acquisto in un negozio di casalinghi (i prezzi qui sono davvero ottimi), ci dirigiamo verso un altro centro commerciale che ci è stato segnalato dall’amico Luca. Skenderija è un complesso in cemento armato a ridosso dello stadio di Sarajevo. Entriamo da alcune porte solo per scoprire che all’interno non ci sono negozi, ma una specie di esposizione locale con tante bancarelle che vendono miele, marmellata, abbigliamento da caccia e trofei impagliati. Usciamo di nuovo e scopriamo che il vero centro commerciale è… nei sotterranei! Facciamo il nostro ingresso e curiosiamo in mille negozi che vendono soprattutto abbigliamento sportivo di dubbia provenienza visto che costa la metà rispetto all’Italia. Facciamo qualche spesuccia (lo shopping va fatto rigorosamente in ogni parte del mondo!) e torniamo verso Baščarsija. Ci fermiamo a mangiare dei burek (una specie di pastasfoglia cotta al forno e ripiena di formaggio, carne, spinaci) e poi verso Marsala Tita, una delle vie principali di Sarajevo dove fotografiamo la fiamma eterna che commemora le vittime della seconda guerra mondiale. Poi ci dirigiamo verso le colline a nord di Sarajevo, nel quartiere Bjelave dove ammiriamo il bellissimo palazzo della Facoltà di Scienze Islamiche, la Casa Svrzo (una tipica residenza ottomana) anche se solo da fuori visto che il sabato pomeriggio è chiusa, le bellissime moschee, un cimitero molto suggestivo. Dall’alto Sarajevo è bellissima, anche se la nebbia rovina un po’ il paesaggio. Torniamo verso il centro dove ci fermiamo a bere una caffè “bosnian style” (simile a quello turco: non mescolatelo troppo sennò i fondi non si depositano e vi entreranno nello stomaco insieme al liquido!). Massimo decide di tornare in camera per riposarsi un po’ e io mi perdo nelle stradine di Baščarsija con le sue mille bancarelle di prodotti tutti uguali. Dopo una doccia, decidiamo di cenare alla famosa Pivnica Hs, una specie di birreria di lusso costruita all’interno della fabbrica della Sarajewska (che oltre a produrre l’omonima birra, imbottiglia anche l’acqua minerale gassatissima bevuta ieri sera). Il menù è abbastanza ristretto e quindi optiamo per un classico wursterl&frites annaffiato ovviamente da una buonissima birra scura. Con la pancia piena ci dirigiamo verso Ferhadija, il bel viale pedonale di Sarajevo, dove ammiriamo lo struscio della capitale: essendo sabato sera, c’è un sacco di gente, non fa freddo e quindi si passeggia volentieri. Stanchi morti, alle dieci e mezza siamo già sotto i piumoni.

30.10.2011 Sarajevo

Ancora mezzo addormentato sento Massimo che si agita in stanza. Si veste ed è pronto per scendere. Strano perché dieci minuti prima erano le sei e mezza e non capisco che cavolo ci fa in piedi a quest’ora. Chiedo lumi e mi dice che sono quasi le otto e che possiamo scendere per fare colazione. Ahi ahi, Massimo! Ti sei forse dimenticato il cambio dell’ora? Sono quasi le sette non le otto! Ormai vestito e con il giubbotto addosso, esce per fare un po’ di foto che poi scopriremo esser venute malissimo (cosa strana per lui, fotografo esperto… forse era ancora assonnato). Dopo la solita abbondante colazione ci dirigiamo verso il quartiere di Vratnik situato a nord est di Sarajevo. Visitiamo l’immenso cimitero dei martiri di Kovači dove si trova il mausoleo di Alija Izetbegović, ex Presidente Bosniaco. Dovrebbero esserci dei militari, a guardia della tomba, ma in giro non c’è assolutamente nessuno. Giriamo assorti tra le bianche lapidi che riportano quasi tutte come data di morte gli anni tra il 93 ed il 95… Usciamo da questo luogo triste e ci dirigiamo verso la Torre Kula Ploče, uno dei bastioni ancora intatti collegati dalle mura che circondavano la cittadella di Vratnik. Purtroppo il museo è chiuso e quindi non possiamo fare la bella passeggiata lungo le mura fino alla Torre Širokak Kula che raggiungiamo attraverso una via alternativa passando in mezzo a giardinetti, case in legno e moschee. Dopo aver attraversato la porta della vecchia cittadella, arriviamo ad un belvedere sovrastato da un immenso noce, dal quale si gode un bellissimo panorama di Sarajevo dall’alto, con le sue belle moschee, le chiese, il quartiere vecchio, le colline. I colori della natura sono stupendi. Saliamo ancora più in alto verso la vecchia caserma asburgica, oggi edificio devastato dalla guerra e abbandonato in rovina. Proseguiamo verso il piccolo centro di Vratnik ed arriviamo alla piazza con il bel negozio di frutta e verdura e la gente ferma a chiacchierare e a fumare. Scendiamo di nuovo verso il centro per le strette viuzze e ci prendiamo il solito caffè bosnian style in un piccolo baretto dove il giovane proprietario si attarda con un cliente a giocare a backgammon e a fumare il narghilè. Rinfrancati partiamo alla ricerca di un taxi perché vogliamo andare a visitare il Museo del Tunnel che si trova fuori Sarajevo. Un tassista ci chiede 53 KM (circa 27 Euro) e la cifra ci pare esagerata. Un altro ci dice che non sa quanto ci verrà a costare, ma che ha il tassametro. Decidiamo quindi di affrontare questa avventura utilizzando i mezzi pubblici: tra la descrizione della Lonely e le info che troviamo sull’opuscolo Sarajevo Navigator che distribuiscono gratuitamente un po’ ovunque, capiamo che dobbiamo prendere prima il tram n. 3 per Ilidža e da lì il bus n. 32 per Kotorac. L’impresa sembra ardua, ma noi non abbiamo fretta e… non ci perderemo mica! Dalla piazza principale di Baščarsija, chiediamo informazioni ad una signorina che gestisce il chiosco dove vendono i biglietti dei bus. Non parla in inglese e quindi non sa se il biglietto giornaliero che vogliamo comprare è valido sul bus n. 32 visto che si trova in periferia. Chiediamo ad un autista del tram che ci dà conferma e quindi facciamo l’affare! Spendiamo 5,30 KM (circa 2,50 euro) per il biglietto valido tutto il giorno su tutti i mezzi della città e ci imbarchiamo sul tram n. 3. Sulla stretta rotaia percorriamo il viale dei cecchini e ci spingiamo molto fuori Sarajevo. La periferia è molto affascinante, se questo aggettivo mi è concesso. Tutti questi casermoni stile soviet, mezzi sparati, mezzi diroccati, molto decadenti. Massimo fa foto all’impazzata che promette poi di vendermi ad un prezzo onesto (ma che poi io baratterò con la mitica foto del cartello stradale con le indicazioni stradali Capajebo e Mocktab, ossia Sarajevo e Mostar…). Arriviamo al capolinea di Ilidža, un enorme piazzale pieno di pensiline dalle quali partono i bus diretti verso le città satellite di Sarajevo. Qui chiediamo informazioni ad una gentile ragazza che ci conferma di essere nella corsia giusta per il bus n. 32. Massimo compra due burek belli unti da mangiare durante il viaggio. All’una e mezza arriva il nostro bus sul quale saliamo insieme ad una donna che ha comprato un tavolino da salotto che, a fatica, riesce a sistemare nel corridoio del bus e a due robuste donne baffute che si siedono davanti a noi. Tiriamo fuori dalla borsa i cartocci di burek belli unti e ce li gustiamo guardando il paesaggio spoglio fuori dal finestrino. Facciamo appena in tempo a finire l’ultimo boccone che l’autista (dopo aver sbraitato contro la donna col tavolino che ci ha messo un sacco di tempo a scendere… povera, te credo, con quel peso!) pianta il bus in mezzo alla strada e urla “Tuneli, Tuneli”. Non capiamo che cosa sta succedendo, ma le due donne baffute ci fissano e con il dito ci indicano una stradina laterale dicendo anche loro “Tuneli, Tuneli”. Ahhhhhh tunnel! Ora capiamo! Senza che chiedessimo nulla all’autista, questo ci ha comunque fermato vicino al Museo! Questi bosniaci a volte ci sorprendono! Ringraziamo e scendiamo al volo, ritrovandoci su una strada assolutamente deserta senza nessuna indicazione. Imbocchiamo la stretta via indicataci dalle donne baffute fermandoci ogni tanto a chiedere informazioni agli abitanti che ci confermano la direzione. Dopo qualche centinaio di metri (su un paio di pali della luce c’è, in effetti, una scritta con la vernice che indica “Tunnel Museum”) arriviamo alla casa di campagna occupata forzatamente dalle forze bosniache durante l’ultima guerra: dalla città, infatti, non si poteva uscire visto che la strada principale era bloccata dall’aeroporto che, per “gentile” concessione dei Serbi era controllato dall’Onu. Nessuno poteva entrare e nessuno poteva uscire, senza passare sotto il fuoco dei Serbi. E, nulla poteva entrare o uscire, e per nulla intendo viveri, carburante e mezzi di sostentamento. I furbi bosniaci allora decisero di provare a scavare un tunnel che dalla città, passando sotto l’aeroporto, conducesse verso i territori liberi, le alte colline poste a ovest di Sarajevo. Ingaggiati giovani ingegneri i lavori cominciarono e si conclusero dopo parecchi mesi: con la costruzione del tunnel (un budello largo poco più di un metro, alto circa un metro e mezzo e lungo 800 metri) molti problemi furono risolti a Sarajevo durante gli attacchi dei Serbi. Nel tunnel passavano viveri, carburante, armi, persone che volevano fuggire, ma anche i fili dell’elettricità e dei telefoni. Migliaia di persone si salvarono attraversando il tunnel: certo, non fu una soluzione ai mali della guerra ma un aiuto ai sopravvissuti di sicuro. Entrati nella baracca dove c’era l’ingresso del Tunnel (5KM= 2,50 Euro), scendiamo in una cantina dove viene proiettato un filmato che spiega, con riprese dell’epoca, come funzionava e a che cosa serviva il tunnel. La cosa impressionante è che a volte, a causa delle forti piogge, il tunnel si allagava fino a tre quarti e la gente era costretta a percorrere la distanza totalmente immersa nell’acqua. Oppure il fatto che si trasportassero casse di armi lungo lo stesso spazio dove correva il tubo del carburante, con grande pericolo di scoppio. Anche questo posto è un colpo allo stomaco, soprattutto quando percorriamo i 20 metri di tunnel ancora intatti. La sensazione di claustrofobia è molto forte. Fuori, nel giardino, un sacco di fotografie e di documenti dell’epoca. Impossibile dimenticare. Con un altro peso di coscienza ma rinfrancati dal sole, terminiamo la visita e ci avviamo nuovamente verso la strada dove l’autista ci aveva fermato ma non vediamo nessuna tabella che indichi una fermata. Sappiamo che nei giorni festivi l’autobus passa circa ogni 45 minuti e che questa strada dovrebbe essere l’unica per arrivare a Ilidža… dovrebbe… Chiediamo informazioni ad una giovane ragazza che sta annaffiando i fiori che, in un inglese stentato, ci dice che la fermata del bus è 200 metri più avanti. Finalmente vediamo la tabella rossa… dobbiamo aspettare quasi un’ora ma alla fine l’autobus arriva a ci riporta al parcheggio dei bus di Ilidža. Non vogliamo tornare subito in città e ci facciamo un giro per il bel parco della cittadina, imboccando Velika Aleja, un lungo viale con gli alberi pieni di foglie gialle, la gente che passeggia mangiando castagne (le compriamo anche noi giusto per non essere da meno, ma non si riveleranno un gran acquisto), i bambini che corrono scatenati dietro alle carrozze dei cavalli. Il sole è sceso e fa freschetto quindi decidiamo di tornare verso il centro. Riprendiamo il tram n. 3 e, una volta scesi vicino al ponte latino, ci dirigiamo in stanza per una bella doccia calda e un po’ di riposo. Decidiamo di consumare la nostra ultima cena all’Inat Kuća un ristorante situato in una vecchia casa turca che sorge sul fiume. Tutti consigliano questo posto, dalla Lonely, a Luca, al Sarajevo Navigator. Il posto è molto carino, lo devo confermare. Ma altrettanto non si può dire di cibo e prezzi. Il mio spezzatino di manzo bollito con riso scotto immerso in una broda tiepida, non mi ispira per niente ma tant’è, qualcosa bisogna mettere in pancia. Massimo invece apprezza appieno il piatto tipico bosniaco: peperoni stufati con riso, involtini di carne, verdure varie. Come di solito accade, posti tanto acclamati e pubblicizzati si rivelano poi non all’altezza. La nostra ultima sera a Sarajevo si conclude in Baščarsija: passeggiamo, beviamo un caffè con un buon baklava al bar del caravanserraglio pieno di fumo e di gente che chiacchiera (in Bosnia si fuma ovunque…) e salutiamo questa città che ci ha regalato un sacco di emozioni.

31.10.2011 Sarajevo – Konjic – Mostar

Sveglia presto stamattina. Facciamo colazione, paghiamo e ringraziamo Goran della pensione, ritiriamo la Punto (intatta) dal parcheggio che, misteriosamente, aumenta di prezzo (l’avevamo prenotato a 10 euro a notte e l’abbiamo pagato più di 12!) e partiamo in direzione Mostar. Prima di lasciare Sarajevo, però, Massimo vuole vedere un immenso cimitero che… dovrebbe essere da qualche parte in periferia. Continua a dirmi “Si vede dalla strada, si vede, te lo giuro…”. Ma, sulle colline non si vede assolutamente nulla. Girovaghiamo un po’ in auto per gli alti palazzoni della periferia e dopo una mezzoretta Massimo si arrende ed imbocchiamo di nuovo la E73. Fatto un pezzetto di strada, cominciamo a salire sui monti attraversando verdi vallate, imponenti fiumi che ci scorrono a fianco, colori incredibili che la natura continua a regalarci. Su suggerimento di Goran, facciamo una breve tappa a Konjic per visitare il bellissimo ponte ottomano a sei archi che fotografiamo da tutte le angolazioni. Massimo sostiene che da queste parti c’è il bunker che Tito si era fatto costruire durante la guerra, aperto al pubblico da poco tempo e sede di una mostra d’arte. Chiediamo informazioni alle persone per strada (è impressionante: tutti capiscono l’inglese, ma nessuno lo parla. Risultato? Tu fai la domanda in inglese e loro ti rispondo in bosniaco… ma vanno a vanti a parlarti anche per dieci minuti, come se tu capissi tutto!) e ci inerpichiamo su una strada di montagna. Arriviamo ad un lussuoso resort dove chiedo informazioni. L’addetto mi dice che il bunker non è lontano, ma che è sotto il controllo del ministero della difesa e che non si può entrare. Un Massimo triste e sconsolato è costretto a fare retromarcia… ma, tornato in Italia, scoprirà che c’era e che era tranquillamente visitabile.

Verso l’una arriviamo a Mostar che ci accoglie con un sole strepitoso ed una temperatura più che primaverile. La guesthouse che ho prenotato (Pansion Botticelli, Euro 46 a notte) è molto carina e la camera ha un terrazzo che si affaccia direttamente sul fiume, non proprio pulito, ma pittoresco.

Usciamo senza giubbotto, con la felpa ed una mappa (che non ci servirà, visto che Mostar è davvero piccola) e ci abbuffiamo di ćevapčići seduti fuori col sole a picco che sembra quasi di essere a settembre. Dopodichè gironzoliamo per i mille negozietti, ammiriamo il favoloso ponte vecchio (ricostruito), ci sediamo (sempre fuori) per un caffè ed un pezzo di baklava (il migliore mai mangiato in questi giorni!), visitiamo una moschea con un cortile bellissimo dal quale si gode di una meravigliosa vista sul ponte e su tutta Mostar vecchia e poi ci spingiamo fuori del centro storico. Qui i turisti non ci sono, solo gente del posto che va a negozi, a comprare il pane, la frutta, la verdura. Imbocchiamo una stradina per fare una piccola sosta al cortile dove sono stati ammazzati i giornalisti italiani durante la guerra, un posto difficile da trovare e, dura a dirlo, dimenticato da Dio. Visitiamo la casa turca (secondo me 2 Euro buttati: sali la scala e vedi due stanze con mobili tipici… e basta! Sconsigliata.) Poi ancora più all’esterno dove ammiriamo a bocca aperta i resti di quello che, secondo noi, doveva essere un nuovo centro commerciale (da me subito ribattezzato centro commerciale Le Piramidi) costruito con immensi lastroni di pietra sui quali sono incisi dei geroglifici e delle immagini simil-egiziane, saliamo su una scalinata fino ad arrivare a quello che sembra un palazzo viennese sede di non abbiamo capito che tipo di istituzione locale, altra scalinata per arrivare ad una bellissima moschea e splendida vista su Mostar dall’alto.

Torniamo giù verso il centro storico ed imbocchiamo dei minuscoli vicoli laterali che danno su angoli molto pittoreschi di Mostar: belle case in pietra, piccoli ponti a cavallo di ruscelli gorgoglianti (e pieni di bottiglie di plastica e rifiuti vari!), piccole luci che si accendono ovunque visto che è quasi il tramonto. Ad un certo punto, ai piedi di una moschea, il muezzin lancia il suo richiamo e, improvvisamente dieci, venti altri fanno altrettanto. Me ne sto lì, seduto sul muretto, a guardare la città con le sue mille luci fioche, col sole tramontato quasi completamente, tutto intorno il silenzio rotto solo da quel canto che in tante parti del mondo ho sentito ma che riesce sempre a stregarmi. Gironzoliamo ancora un po’ per la città, ora svuotata dai turisti (moltissimi italiani in visita giornaliera da Medjugorie), sbuchiamo in una terrazza deserta dalla quale si ha una bella veduta del ponte illuminato e poi decidiamo di rientrare per una doccia e un po’ di riposo. La sera andiamo a cena al ristorante Sdrvan, un locale tipico di Mostar: certo, la sua bellezza sta nei tavoli nel piccolo giardino, radunati intorno ad una fontana, ma alla sera non è così caldo come a mezzogiorno e quindi entriamo nell’accogliente saletta. I camerieri indossano i costumi tradizionali dell’Erzegovina e sono molto cortesi e professionali. Io mi fiondo, ovviamente, su una classica pljeskavica (una sorta di hamburger di carne di ćevapčići ma più… succulenta, non so come spiegare) con una montagna di patate fritte, mentre Massimo si fa portare la classica corba (zuppa tipica bosniaca) e un piatto di paprika (peperoni) ripieni di carne e riso con panna acida. Tutto buonissimo e spediamo anche poco (28 KM, circa 14 euro in due). Usciamo rinfrancati dall’ottima cena e ci dirigiamo verso il supermercato che chiude alle 22.00 per comprare un po’ di baklava (che però, una volta arrivati a casa, si rivelerà non particolarmente buono…r oba industriale) e bottiglie di birra per Luca. La cassiera ci fa ammattire borbottando qualcosa in bosniaco e scuotendo la testa. Solo dopo un bel po’ capiamo che quel tipo di birra non si può prendere se non si porta il vuoto indietro! Come accadeva una volta in Italia. Cambiamo ben tre marche di birra ma alla fine, carichi come muli, torniamo verso la nostra pansion e carichiamo già tutto in macchina per la partenza del giorno dopo.

1° Novembre Mostar- Počitelj – Udine

Sveglia presto alla pansion Botticelli. Facciamo le valigie e andiamo a fare colazione. Non sappiamo quando né come, il proprietario ha preparato una fantastica tavola imbandita (la saletta per fare la colazione è attaccata alla nostra camera… non un rumore, non uno sbattimento di piatti… niente di niente). Ci abbuffiamo (come al solito), paghiamo al figlio del titolare che mi tocca svegliare (si presenta in pigiama a riscuotere il dovuto) e partiamo in direzione Spalato. Percorriamo i nostri ultimi chilometri in terra bosniaca passando accanto ai soliti bei corsi d’acqua ed ai paesi tranquilli. Facciamo una piccola sosta a Počitelj, una cittadina fortezza d’epoca romana considerata da molti come uno dei più bei tesori della Bosnia Erzegovina. Parcheggiamo la Punto di fronte ai due negozietti che vendono le solite chincaglierie; nessun turista in vista. Saliamo lungo la ripida scalinata in pietra e subito mi si affianca un bellissimo gatto che Massimo qualificherà come “…un perfetto comunista! Figlio di una cooperativa” in quanto ha il mantello di tutti i colori: rosso, marrone, bianco, nero e grigio. Con il gatto al mio fianco che ogni tanto miagola, si butta per terra, mi si struscia sulle gambe, visitiamo la bella moschea interamente in pietra e saliamo su fino alla fortezza. Lui è sempre lì vicino a me, ma poco prima della porta che conduce alla torre si blocca e si rifiuta di seguirmi. Dall’alto godiamo di un paesaggio fantastico: il fiume sullo sfondo e la bella moschea contro il cielo azzurro (anche oggi c’è il sole e siamo senza piumino). Ad un certo punto sentiamo un rumore alle nostre spalle ed un vispo gatto bianco scende a precipizio giù dalla scala. Torno verso l’esterno giusto in tempo per assistere ad una battaglia tra il gatto guardiano ed il gatto comunista: ecco perché il “mio” si era rifiutato di proseguire! Evidentemente la torre era terreno del gatto guardiano! Scendiamo passando vicino a orti rigogliosi e ad un bell’ammasso di rifiuti (alla vista del quale Massimo esclama: “Beh, almeno qui buttano tutto in un unico posto!”), ma il luogo è talmente bello che niente ci distrae. Col gatto comunista sempre tra le gambe (è risbucato da un piccolo vicolo, dopo avermi dato buca per seguire due turiste bionde e avvenenti) facciamo qualche acquisto ai negozietti (ce ne sono tre ed in ognuno compriamo qualcosa… bisogna pur far andare l’economia bosniaca) e poi ci rimettiamo in macchina. Lungo la strada notiamo un sacco di bancarelle che vendono i famosissimi (?) mandarini bosniaci, uguali ai nostri mandarini ma senza semi. Ci chiediamo dove li coltivano visto che la zona è semi montuosa. La risposta l’avremo un po’ più avanti: passata la frontiera Bosniaco-Croata, infatti, costeggiamo vere e proprie piantagioni di questi buonissimi agrumi (che qui si chiamano mandarinko) il che induce Massimo ad uno stop per acquistarne qualche chilo. Ci perdiamo in mezzo alle aspre montagne croate (l’autostrada non è ancora completata e per raggiungerla è necessario fare una deviazione su per passi ripidi e scoscesi), imbocchiamo la cestarina e via verso Spalato. Ci fermiamo in un autogrill per uno spuntino veloce e da lì il viaggio verso casa si fa silenzioso e un po’ nostalgico. Da Spalato a Fiume, da Fiume al confine Croato-Sloveno e poi su fin verso Pesec e Basovizza (non prima di aver fatto uno stop per l’acquisto delle sigarette!). Arriviamo a Udine alle 18.30, giusto il tempo di riposarmi un’oretta visto che alle otto il mio treno mi riporterà a Treviso. L’avventura è finita. Una bella avventura. Ciao Bosnia-Erzegovina!

Sensazioni e consigli

Un viaggio in Bosnia si può fare tranquillamente in macchina. Le autostrade croate sono ottime e ai caselli si può pagare in Euro (e ti chiedono anche se vuoi il resto in Euro o in Kune). In Bosnia non ci sono autostrade se non per entrare ed uscire da Sarajevo (il costo è contenuto, circa un euro a tratta: anche qui si può pagare in Euro ma accettano solo banconote, non monete. E ti danno il resto in Km il che può essere una buona occasione per cambiare al tasso ufficiale giusto prima di arrivare in città), ma le strade sono tutte in ottimo stato. L’unica cosa a cui fare attenzione sono i limiti a volte un po’ troppo bassi (si va da un minimo di 40 km/h ad un massimo di 80km/h, sempre ben segnalati). Abbiamo incontrato parecchi posti di polizia lungo la strada, con agenti molto rispettosi e gentili. Sia a Sarajevo che a Mostar ci sono un sacco di sistemazioni, dall’ostello all’hotel 4 stelle. Preferite guesthouse tipiche, possibilmente vicino a Baščarsija. Noi abbiamo speso 62 Euro alla Kandilj di Sarajevo (camera e colazione) e 46 Euro alla Botticelli di Mostar (sempre camera e colazione) e le consigliamo entrambi. Per mangiare, nessun problema. Potete tranquillamente scegliere i posti dove vendono i burek per uno spuntino veloce e ve la cavate con qualche euro oppure i ristoranti di Baščarsija a Sarajevo o vicino al ponte vecchio a Mostar, dove si spende tra i 12 e i 20 Euro in due, compreso il dolce (ovviamente se non avete pretese di farvi fuori tutto il menù, vino compreso). La birra Sarayewska è buonissima. Chiedete quella scura, anche se pochi ce l’hanno. A Sarajevo chiedono quasi sempre Km (pare addirittura che ci sia un divieto di pagare in Euro) mentre a Mostar si può quasi dappertutto pagare in Euro senza problemi. Sul viale pedonale di Sarajevo ci sono decine di bancomat ma conviene cambiare ai change (ce ne sono un paio che tengono aperto fino alle undici di sera), così si evitano le commissioni delle nostre banche che sono molto alte. Il caffè (sedetevi in un tavolino e gustatevi quello bosniaco, accompagnato da un buonissimo cubetto di gelatina alla rosa) costa 1,50 Km (circa 0,70 Euro). Le sigarette non le abbiamo prese in Bosnia anche perché non ne abbiamo viste di marche conosciute. Meglio prenderle in Slovenja. I musei costano tutti relativamente poco: ad esempio il Museo di Storia di Sarajevo, 4 Km (2 Euro circa), quello del Tunnel 5 Km (2,50 Euro). I cortili delle moschee sono tranquillamente visitabili. In alcune si può entrare a pagamento (circa 2 Km, 1 Euro).

Un viaggio quindi, perfettamente fattibile.

E’ tutto. Se avete necessità, contattatemi senza problemi.



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