Caleidoscopio namibiano
Finalmente il quattro settembre partiamo da Siracusa per Francoforte, dove facciamo uno stop over di 36 ore; tempo più che sufficiente per visitare questa splendida città. L’albergo “ Radama”, che prenotiamo per € 60 con colazione la doppia, è al centro della città e vicino la stazione. I ristoranti sono molto economici. Il secondo giorno ci capita di pranzare, con un po’ di faccia tosta, per € 5, alla mensa degli impiegati del Comune, situata in uno splendido e raffinato locale di fronte la chiesa di San Paolo. La sera del 5 settembre ci imbarchiamo su un Airbus dell’Air Namibia il quale, con nostra somma sorpresa, arriva con dieci minuti di anticipo. Altra sorpresa, la rapidità con la quale sbrighiamo le formalità doganali. Le valigie le troviamo già sui nastri. Ci chiediamo: il pole-pole (piano-piano) dell’Africa, dov’è? All’uscita troviamo ad attenderci la nostra guida/autista. Altra sorpresa: ci dice di chiamarsi Vittorio Siligato e di essere di… Catania, ma residente in Sud Africa e non sta nella pelle per la gioia di avere, per la prima volta dopo 35 anni, un gruppo tutto di siciliani da portare in giro per la Namibia. Per prima regola ci impone di parlare in dialetto. A questo punto non mi azzardo a dirgli, per non deluderlo, che sono un sannita di Benevento e che, quindi, il gruppo è un po’ eterogeneo. Poiché il mondo è piccolo scopro, successivamente, che nel 1970, quando lavoravo a Catania, passavo ogni mattina davanti al laboratorio di coiffeur gestito da Vittorio.
Si parte subito, con una Toyota in ottimo stato (prima che la portasse Vittorio), diretti a Sud verso il deserto del Kalahari. Arriviamo per ora di pranzo all’Anib lodge. Nel primo pomeriggio ci addentriamo, nella riserva del lodge, con una jeep: avvistiamo le prime giraffe, gli springboks, gli orici e numerosi uccelli tessitori. Una caratteristica delle dune fossili di questo deserto è che corrono in maniera parallela al vento, per una lunghezza che va dai 5 ai 50 Km. La mattina successiva, mercoledì 7 settembre, partiamo verso il sabbioso ed inospitale deserto del Namib, diretti al Mirage Desert Lodge. L’albergo è qualcosa di mezzo fra un forte della legione straniera ed un castello; da un punto di vista dell’ambiente è un pugno negli occhi ma ha tutti i comfort e, ciò che è più importante, è in una posizione splendida da dove si gode un paesaggio dall’incomparabile bellezza. La mattina successiva si prosegue per Sossusvlei, attraversando un deserto di altissime dune, le cui tonalità variano dal color albicocca al mattone, secondo l’inclinazione dei raggi solari. Fa un freddo cane. Le dune sono parzialmente coperte da una nebbiolina prodotta dall’incontro della corrente marina fredda del Benguela, proveniente dall’ antartico – che scorre a circa 80 Km ad ovest di dove ci troviamo – con l’aria calda del deserto. Grazie a questa corrente si crea, lungo tutta la fascia costiera, per un’ampiezza di circa 20 Km, un microclima che consente la vita a piante endemiche ed animali che vivono solo in questa parte del mondo. Intirizziti dal freddo, raggiungiamo, con una jeep del parco, la Hiddenvlei: un sito dove il fiume Tsauchab, ora insabbiato, ha formato un piccolo laghetto. Saliamo sulle dune circostanti per ammirare il paesaggio. Quindi ci rechiamo al Sesriem Canyon, di scarso interesse e, infine, scaliamo la famosa Duna 45 da cui si gode la vista mozzafiato di una larga fetta del Namib, costituito da dune su un piedistallo di arenaria e perciò altissime, intervallate da ampie spianate di steppa dall’erba colore oro. Venerdì 9 settembre, lungo la strada che ci porta a Swakopmund, ci fermiamo ad ammirare la “welwitschia mirabilis”, una pianta endemica, ultramillenaria, il “dollar bush” dalle foglie simili ad un dollaro ed estesi campi di licheni. Ci divertiamo a fare rinverdire alcuni di questi licheni irrorandoli di acqua. All’improvviso si materializzano dei laghi all’orizzonte: è un miraggio! Da un altopiano ci godiamo una splendida veduta lunare della valle formata dal fiume Swakop. Nel tardo pomeriggio arriviamo a Swakopmund, una brumosa cittadina tedesca dove consumiamo una cena pantagruelica a base di aragoste, ostriche ed altro pesce freschissimo (€ 20); la mattina successiva, su un catamarano, solchiamo le acque gelide della laguna di Walvis Bay ove abbiamo incontri ravvicinati con balene, otarie, delfini, cormorani, pellicani. Alcune otarie salgono addirittura sul catamarano e si fanno accarezzare. Fa freddo ma l’ottima organizzazione ci fornisce bevande calde e plaid, champagne ed ostriche. Nel pomeriggio l’aria si riscalda e facciamo una escursione, in 4X4, a Sandwich Harbour. Siamo ritornati in Africa con i suoi fenicotteri e le sue dune sulle quali uno spericolato autista fa cocktail di noi passeggeri. L’11 settembre, percorrendo la rettilinea strada “salina”, ci dirigiamo verso il Damaraland. Sosta d’obbligo alla colonia di otarie di Cape Cross ed alla “Costa degli scheletri”. Un posto sinistro, quest’ultimo, cosparso di relitti di navi, arenatesi a causa dei bassi fondali e della nebbia, e di scheletri degli sfortunati marinai naufragati in uno dei luoghi più inospitali del pianeta. Il giorno successivo visita della “foresta pietrificata” con i suoi 50 tronchi di alberi pietrificati che risalgono a 260 milioni di anni fa; alle colonne di dolerite dal taglio poligonale, denominate “Organ Pipes” per la loro sonora somiglianza alle canne d’organo e, infine, alle incisioni rupestri di Twyfelfontein, effettuate dalle popolazioni boscimani circa 5.500 anni fa. L’ambiente in cui sono situate queste incisioni è fantastico perché lascia immaginare i rivolgimenti e i crolli che ha subito l’antico continente del Gondwana. Un po’ al di sotto delle aspettative i graffiti: probabilmente perché avevo presente quelli dell’Akakus. Il 13 settembre passiamo tutta la mattina in auto a causa di uno spostamento, direzione nord, di circa Km 500. Strade sterrate, assolate, deserte, dritte con improvvisi dossi o avvallamenti, per la gioia della nostra schiena e per tenerci svegli. Arriviamo, giusto per il pranzo, semi distrutti, nello splendido Opuwo Country Lodge. Rapida doccia ed imbarco su un “ camion bestiame”, adattato a trasporto passeggeri, per la visita ad un villaggio Himba. Il tragitto, di appena una decina di Km, ci sembra interminabile per i continui sballottamenti. Arrivati al villaggio, ci tocca aspettare sul camion il permesso di scendere da parte del capo villaggio che, per il momento, la nostra guida namibiana non trova. Il villaggio è formato da capanne costruite con fango, rami e sterco di vacca. Si vedono solo nugoli di bambini guardati da poche donne anziane. Finalmente arriva il permesso di scendere, insieme ai doni che portiamo. Dopo circa mezz’ora arrivano gli uomini con gli armenti e, dal bush, anche le donne cariche di fascine di legna, di manna e di altri prodotti della savana. Le donne, dal portamento altero, sono seminude e molto belle. Non si lavano mai; usano, per l’igiene intima, un fumo prodotto da piante profumate. Il corpo è ricoperto da un impasto di grasso e di argilla rossastra. I capelli, ricoperti da uno strato durissimo di argilla e sterco, indicano lo stato civile delle donne. Capelli con due trecce in avanti per le bambine; tante grosse trecce per le ragazze da marito; cuffietta di pelle di pecora per le sposate. La conchiglia sul petto significa che trattasi di una moglie che ha il predominio sulle altre (c’è poligamia). Tutti, compresi i maschi che si raccolgono dietro una capanna, si comportano come se non ci fossimo. Solo i bambini si affollano attorno e ci fanno festa per via dei dolcini che distribuiamo. Nello loro estrema povertà sembrano felici. Quello che colpisce è che vivono tutti insieme, come un’unica famiglia. Osservandoli mi viene da pensare al…”buon selvaggio”. Un mondo senza stress la cui comprensione sfugge alla nostra cultura occidentale. Al ritorno mi chiedo se, con i doni e la nostra presenza, non abbiamo contribuito a rompere un secolare equilibrio.
Il giorno successivo (14 settembre) un ulteriore balzo, direzione sud, ci porta all’Okaukuejo Resort, situato nella parte Ovest dell’Etosha Park. Questo Resort è famoso per la sua pozza d’acqua artificiale dove si abbeverano, a tutte le ore del giorno e della notte, gli animali della savana. Seduti comodamente, a pochi passi dal nostro chalet e protetti da una barriera, ove scorre anche la corrente elettrica, osserviamo in silenzio elefanti, leoni, orici, zebre, rinoceronti, antilopi, kudu etc. che vengono a dissetarsi seguendo un rito prestabilito il cui scopo è quello di assicurarsi che non ci siano predatori che possano aggredirli mentre bevono. Il giorno successivo facciamo game-drive nel parco. Avvistiamo praticamente tutti gli animali della savana, compreso un leopardo ed un serpentario. Di leoni ne vediamo almeno una decina. Uno a pochi metri dall’auto si lascia fotografare mentre sbadiglia annoiato. Arriviamo al cuore del parco, il Pan: una depressione salina, estesa quanto la Sicilia, che solo raramente si riempie parzialmente di acqua attirando fenicotteri e diventando una trappola mortale per gli animali selvatici che rimangono invischiati nella melma. Venerdì 16, ancora una giornata di foto safari sino ad arrivare a Namutoni situata all’estremo levante del Parco. Nel pomeriggio arriviamo all’Emanya Lodge, a pochi Km dall’uscita est del Parco. A prescindere dalla sensazione di candore e di freschezza dell’arredamento dei servizi comuni del lodge e dal comfort dell’alloggio, l’accoglienza ci lascia stupiti ed anche un po’ imbarazzati per le coccole riservateci dal personale dell’albergo il quale, oltre alla solita bevanda di benvenuto, ci offre fette di torte ed insiste per lavarci e massaggiarci i piedi. La serata passa piacevolmente fra balli e canti, proposti da tutti i giovani lavoranti dell’albergo, canti ai quali partecipiamo anche noi, e si conclude con una piacevole conversazione con la proprietaria del lodge. A malincuore il giorno successivo ci rimettiamo in viaggio, direzione sud, destinazione l’Okonjima lodge. Qui giunti, ospiti della fondazione Africat, partecipiamo ad un safari fotografico, con una jeep del lodge, accompagnati da due ranger muniti di antenna portatile deputata a captare i segnali provenienti da un Gps installato nel collare di alcuni ghepardi raccolti feriti, curati e poi rimessi in libertà. I ghepardi, ci assicurano, abituati alla presenza dell’uomo che li ha curati, si lasciano avvicinare per circa sei mesi dalla loro liberazione. Poi, rinselvatichiti, vengono liberati del collare e reintrodotti nei vari parchi nazionali. Dopo avere girovagato a lungo, intercettato il segnale Gps, scendiamo dalla jeep e, dopo qualche centinaio di metri di camminata nel bush – stando attenti a non calpestare qualche serpente e a captare ogni fruscio che riveli la presenza di animali della savana malintenzionati – ci troviamo di fronte ad uno spettacolo incredibile: quattro ghepardi stanno divorando un orice. Ci avviciniamo prima timorosi. Poi, accertato che i ghepardi si comportano come se non ci fossimo, ci avviciniamo quasi fino a toccarli. Euforici dell’incontro, brindiamo, da un belvedere, al tramonto africano. Verso le 23 ci incamminiamo in gruppo, con le torce e sotto un magnifico cielo stellato, verso una piccola pozza artificiale, nei pressi del lodge, dove osserviamo tre istrici banchettare con i residui della nostra cena. Il safari fotografico, alla ricerca dei leopardi, del mattino successivo, salta perché la guida ci dice che bisogna arrivare quattro ore prima in aeroporto. In effetti, successivamente, constatiamo che si sono imbarcati anche quelli arrivati mezz’ora prima della partenza. A malincuore ci dirigiamo verso Windhoek da dove, dopo una breve visita della città, andiamo in aeroporto.
Conclusioni
A mio avviso la Namibia, malgrado i costi elevati per l’aereo e gli alberghi, è un Paese che va visitato prima degli altri in quanto è un condensato di luoghi dove, magari, non si andrà mai nella vita. E’ Africa quando incontri Boscimani, Himba, Herero, Nama etc… Non è Africa, ma è Germania quando giri per le città e ti trovi circondato da edifici e chiese luterane dal caratteristico profilo tedesco. E’ Svizzera e non Africa per la pulizia, l’igiene (abbiamo bevuto, per l’intero viaggio, acqua di rubinetto), la sicurezza, la puntualità, l’ordine ed il silenzio. E’ Antartico e non Africa lungo le coste le cui acque sono popolate di animali che vivono ai poli. E’ Africa ed anche Patagonia lungo le coste dove capita di vedere sciacalli (fino a pochi anni fa, anche leoni), in mezzo ad un branco di otarie, pronti a ghermire le piccole foche lasciate incustodite. E’ Sahara e non Africa meridionale per le dune sulle quali si arrampicano ruggendo e mordendo la polvere le jeep dei turisti. E’ Akakus e non Africa australe per i graffiti e le incisioni rupestri di 5000 anni fa. E’ Serengeti per il numero e varietà di animali nell’Etosha. Insomma la Namibia è, per chi ha molto viaggiato, un condensato di luoghi dell’anima vissuti in contesti diversi. Per chi si affaccia all’avventura ed alla conoscenza del pianeta è un concentrato, la “Summa”, di tutto ciò che approfondirà nella futura vita di viaggiatore.