Centro giorni d’Africa di seconda parte

Autostop, mezzi pubblici, sistemazioni improvvisate... un viaggio fai da te nel continente più difficile e insidioso
Scritto da: farfesio
centro giorni d'africa di seconda parte
Partenza il: 23/09/2010
Ritorno il: 29/12/2010
Viaggiatori: 2
Spesa: 4000 €
Ascolta i podcast
 

Parte 15, Rafting da paura e ripartenza verso Kasane e il Chobe National Park

Nonostante la località sia molto popolare e ben organizzata non rinunceremo ad una vista delle cascate Vittoria un po’ più alternativa: un pomeriggio ci uniamo ad una coppia di viaggiatori anglo-australiana in macchina e ci incamminiamo dall’altro lato della recinzione, saltando da una roccia all’altra sul fiume Zambezi, fino a raggiungere l’orlo della cascata più esterna. Sarà una bella emozione e tanta adrenalina,abbiamo un punto di vista privilegiato, sotto i nostri piedi l’acqua che si getta giù in caduta libera, restiamo lì fino a quasi buio; sottolineo che nel fiume ci possono essere coccodrilli ed ippopotami, anche se è un po’ raro trovarli in presenzadi forti correnti.

Le cascate Vittoria sono uno di quei posti al mondo da vedere prima di morire e noi abbiamo deciso di provarci, dedicando una giornata intera alla più popolare delle attività, il rafting nel fiume Zambezi: a quanto pare muoiono “solo” 1 o 2 persone all’anno, quindi abbiamo buone possibilità di ritornare vivi, specialmente se pensiamo che è uno sport molto commerciale da queste parti. C’è una concorrenza spietata tra i vari operatori e noi riusciamo a trattare bene il prezzo, scegliamo uno che parla italiano e che per un periodo ha fatto rafting sul fiume Lao in Calabria, dove io ero stato qualche anno fa; lui mi aveva anche promesso di farmi provare la sua canoa singola per un tratto del fiume, ma le promesse in Africa, si sa, volano, quindi dovrò rimandare ad un’altra volta questo mio desiderio.

Il percorso consiste in 21 rapide, molte di quarto e quinto livello, a me basteranno le prime 3 per rompermi il naso; eppure avevo già fatto rafting diverse volte in passato, ma questa esperienza è stata la più bella, la corrente è molto forte, siamo finiti in acqua diverse volte ed all’inizio ho quasi avuto la sensazione di affogare. Inoltre nel fiume ci sono i coccodrilli, ma gli istruttori ci assicurano che vista la vicinanza con le cascate, sono presenti solo quelli di dimensioni piccole,in quantosono gli unici a riuscire a nuotare con una corrente così forte, e quindi non pericolosi… bene, ora mi sento più tranquillo. Anche Alba non è stata un grande esempio di coraggio nel rafting: andavamo con 2 gommoni da 6 o 7 persone ciascuno, inizialmente lei si è voluta unire con me nell’imbarcazione destinata a prendere le correnti più difficili, dopo la seconda rapida è caduta in acqua ed ha subito chiesto di cambiare barca e andare in quella più facile.

Le cascate Vittoria sono state il giro di boa del nostro viaggio in Africa, sono passati 50 giorni dalla partenza e siamo esattamente a metà strada. Abbiamo deciso di fermarci qualche giorno in più per riprendere l’energia giusta e pianificare bene il resto dell’avventura. D’ora in poi la nostra Africa avrà un aspetto diverso, viaggeremo in paesi non più così poveri come quelli appena visitati, ma d’altro canto avremo molte più difficoltà negli spostamenti, in quanto sia il Botswana che la Namibia sono nazioni praticamente deserte: 1,6 milioni di abitanti la prima, poco più di 2 milioni la seconda, nonostante abbiano entrambe un territorio 2 e 3 volte più vasto rispetto all’Italia.

Siamo alla continua ricerca di informazioni utili e vorremmo trovare un fuoristrada a noleggio per muoverci, ma non sarà cosa facile. Abbiamo trascorso un paio di serate in un vicino ostello per scambiare 2 chiacchiere con altri viaggiatori (nessuna traccia di italiani naturalmente) e 2 ragazze svizzere ci hanno passato un paio di recapiti utili di compagnie namibiane che affittano fuoristrada a prezzi non proibitivi. Molti dei viaggiatori conosciuti stanno in giro diversi mesi e si condividono esperienze e consigli; una coppia di inglesini in particolare pare non essere stata proprio fortunata: hanno cominciato il viaggio nel corno d’Africa dove lui si è preso una brutta malaria (nonostante facesse la profilassi) e poi in Tanzania sono stati rapiti in un taxi autorizzato e portati in giro ai vari bancomat,costretti a prelevare i contatti dalle carte di credito in loro possesso; sembravano abbastanza scioccati, anche questa è Africa.

Ripartiamo da Vittoria Falls pronti ad affrontare la seconda parte del nostro viaggio, siamo di nuovo in forma, freschi, lavanderia appena ritirata; fino alle ultime ore i ragazzi per strada non ci mollano: ad ogni angolo c’è sempre qualcuno che ti ferma e prova a venderti qualcosa; l’articolo più diffuso sembrano essere le ormai vecchie banconote dello Zimbabwe in disuso, quelle con tanti zeri (ad Harare le avevamo trovate anche per terra al mercato). Lasceremo lo Zimbabwe senza aver provato l’esperienza tanto pubblicizzata di stare a contatto con i leoni ed accarezzarli: ci sono un paio di centri nel paese che pubblicizzano questo progetto di riabilitazione dei felini, ma a me sembra solo business in puro stile zoo, quindi niente gita coi leoni.

Prendiamo un passaggio con 3 ragazzi sudafricani di Città del Capo, conosciuti durante il rafting e ci dirigiamo verso Kasane, in Botswana. Anche loro si raccomandano con noi di non andare nei quartieri neri una volta giunti in Sudafrica, questa storia del razzismo ormai sta diventando un ossessione direi. In strada una specie di autovelox ci sorprende ad alta velocità ed uno dei nostri amici se la caverà con una mancetta da 10 dollari al poliziotto di turno. Alla frontiera ci fanno disinfettare piedi e macchina, non paghiamo niente per il visto e appena entrati in Botswana un cartellone pubblicitario ci dà il benvenuto sottolineando la lotta del governo verso qualsiasi forma di corruzione; e infatti il Botswana pare sia il paese meno corrotto d’Africa, siamo entrati in un’altra dimensione del nostro viaggio.

Arrivati a Kasane ci fiondiamo verso l’ufficio informazioni turistiche; credo che in tutti i viaggi fatti nella mia vita non abbia mai trovato un accoglienza così efficiente: i depliant promozionali che ci vengono offerti sono quasi dei book fotografici, alta la definizione delle immagini, ci sono un paio di computer a disposizione per la navigazione in internet e la signorina di turno si mette a completa disposizione per aiutarci a trovare un alloggio, l’agenzia giusta per fare un’escursione nel vicino parco Chobe, addirittura telefonerà per noi ad un paio di autonoleggi in Namibia, dei quali mi ero procurato i contatti; ma niente da fare, trovare una macchina che vada bene per i nostri gusti e tasche pare sia un’impresa.

Troviamo una stanza privata molto bella, ma anche la più cara di tutto il viaggio; lo sapevamo, fa parte delle scelte politiche del Botswana non rendere il turismo accessibile a tutti e riservare i grandi parchi ad una nicchia di clienti che abbiano soldi da spendere. Salutiamo i nostri amici sudafricani, ce ne stiamo un po’ in centro città per capire quale sarà il nostro destino a questo punto del viaggio, ci sono un paio di zone commerciali con supermercati in stile occidentale dove facciamo la spesa e alcune agenzie di viaggio che offrono escursioni nel vicino parco. Kasane è una cittadina piccola, ma offre molti servizi e si trova in una posizione strategica al confine tra quattro paesi: Zimbabwe, Zambia, Namibia e, appunto, Botswana.

Il giorno seguente siamo di nuovo all’ufficio informazioni, sempre molto gentili ed efficienti, in Italia ce li sogniamo uffici del turismo così; riprovo a contattare le compagnie di noleggio, ma niente, è difficile organizzarsi, quindi ci rassegniamo all’idea di dover appoggiarci ad un’agenzia per fare una semplice escursione pomeridiana al parco Chobe e provare il giorno seguente a prendere un paio di bus al mattino presto per raggiungere Maun, centro turistico principale del Botswana e punto di partenza per le escursioni nel famoso Delta dell’Okavango; non credo si possa visitare altro in questo paese se non si è ben organizzati, perciò il piano è di proseguire poi direttamente in Namibia con la speranza di riuscire a noleggiare una buona auto ed essere finalmente indipendenti.

Camminiamo sulla strada principale alla ricerca dell’operatore giusto per il nostro mini tour pomeridiano al Chobe National Park, entriamo in un’agenzia, poi in un’altra, siamo di nuovo stanchi, sentiamo che in Botswana non riusciremo a muoverci in completa libertà. Ma ecco che ad un certo punto una macchina si ferma dall’altro lato della strada; ci metto pochi secondi a focalizzare il tutto: sono le nostre amiche venete conosciute in Zambia! Non ci possiamo credere! Dopo 2 settimane e oltre 1000 chilometri di distanza! Spettacolo! Questa si che è una bella coincidenza. Sono in due, Anna e Piera, la terza amica è ripartita per l’Italia qualche giorno fa. Ci invitano all’istante per un safari con il loro fuoristrada da poco affittato ed ecco che il nostro umore cambia completamente, non è neanche mezzogiorno che ci ritroviamo all’interno del Parco Nazionale Chobe con una macchina privata, completamente indipendenti, con le nostre amiche e senza nessuna guida che debba dirci quando, dove e perché. Fantastico!

Facciamo un safari costeggiando il fiume Chobe, il paesaggio è molto verde, la vista si perde all’orizzonte, vediamo tanti elefanti, buffali, antilopi, le tartarughe, i babbuini; c’è una carcassa di non so quale animale, speriamo di avvistare un felino… eccole: le leonesse. Ci fermiamo per più di mezz’ora a fotografarle in tutte le posizioni, dormono, poi sbadigliano, si appostano scrutando le possibili prede all’orizzonte. Siamo veramente soddisfatti di come sia andata la giornata, ma il tempo inizia a perturbarsi ed è meglio iniziare a rientrare. In serata un’ottima cena in quattro al ristorante del nostro alloggio, con tanto di acquazzone e appuntamento per l’indomani con le nostre amiche: abbiamo deciso di proseguire insieme fino a Maun attraversando il parco Chobe da un estremo all’altro e pernottando all’interno.

Parte 16, Esplorando i grandi parchi del Botswana

Ci godiamo il lettone comodo e sveglia con calma, anche perché Anna non è proprio una mattutina.

E poi meglio approfittare in pieno della bella stanza che abbiamo, non si sa se e quando ci ricapiterà; abbiamo focalizzato come il Botswana punti decisamente su un turismo diverso rispetto a quanto visto finora: ieri a cena c’erano persone vestite per bene e famiglie con bambini, tutti in vacanza programmata e safari ben organizzati.

Anna e Piera passano a prenderci, ci fermiamo al supermercato per acquistare le provviste necessarie, cambiamo la macchina, il pieno di benzina e a metà mattina siamo di nuovo all’interno del Chobe. Ripercorriamo il lungofiume: tra gli altri avvistiamo 2 leonesse che proteggono sotto un albero la testa di un buffalo (probabilmente ucciso la sera prima), ma ormai non diamo più la stessa importanza delle prime volte; le due venete vorrebbero vedere un leopardo o il rinoceronte, animali ben più difficili da avvistare (noi per fortuna li abbiamo già incontrati nelle settimane passate in Zambia e Sudafrica). Vediamo anche ilkudu, il coccodrillo, tante specie di uccelli, paesaggi mozzafiato eccetera. La strada ci porta ad uscire dal parco e rientrare un po’ più a sud, incontriamo pochissime auto e qualche lavoro in corso perenne; è incredibile come la gente possa vivere e lavorare qui, nel bel mezzo del niente.

Arriviamo a Savuti, area centrale del parco e zona dove pernotteremo, mostriamo alla reception il pagamento effettuato in mattinataall’ingresso del parco eincontriamo altri turisti, tutti ben organizzati e in sicurezza, con il fuoco acceso e le tende sul tetto della propria auto; noi 4 invece, avevamo pensato bene di dormire in macchina. Devo dire che a primo impatto le due “tardone” (scherzosamente si definiscono così) sembravano turiste ben organizzate; e sicuramente lo sono, ma non disdegnano le avventure un attimino più estreme: dormire in 4 in un’auto con gli animali della savana che ti gironzolano tranquillamente intorno non sarà proprio il massimo della vita! E per fortuna non andrà così: intorno a noi ci sono delle mega tende in costruzione, pare proprio un campo safari che sta per nascere, non ci pensiamo molto, utilizziamo il bagno pubblico prima che sia buio e parcheggiamo l’auto proprio davanti alla tenda che abbiamo deciso di prendere in prestito; portiamogli zaini, le torce ei sacchi a pelo, le provviste alimentari e ci chiudiamo dentro: cena, cruciverba di Anna e a nanna, io dormirò divinamente, le signorine un po’ meno, svegliate da qualche animale a caccia che gironzolava intorno alla nostra dimora improvvisata.

In mattinata spariamo, pare non si sia accorto nessuno del nostro movimento, continuiamo il nostro safari in completa autonomia, sul nostro cammino le zebre, gli elefanti… giungiamo all’uscita del Chobe e dopo un po’ di strada ci ritroviamo all’interno di un’altro parco: la riserva Moremi, parte dell’immenso delta dell’Okavango; prima di entrare acquistiamo degli snack ad un chioschetto costruito nel bel mezzo del niente! Ma non esploreremo la riserva come meriterebbe, Piera ed Alba sono abbastanza stanche e inoltre arriveremo di fronte ad un fiume che Anna proprio non se la sentirà di attraversare: non ci fidiamo della profondità e per paura di restare incastrati con l’auto ritorniamo per la stessa strada e usciamo dal parco; vedremo ippopotami, vari tipi di fiori, uccelli, scoiattoli… ma la visita alla Moremi non sarà completa e dovremo rimandarla per un’altra volta; quanto meno siamo riusciti a non pagare l’ingresso.

Anna e Piera si fermano di strada ad un negozio di souvenir/artigianato e alla fine giungiamo a Maun, principale città turistica del Botswana. Piccolo giro tecnico per visionare alcuni alloggi ed alla fine ne scegliamo uno che ci offre tende con letti molto comodi, biancheria e bagni puliti, piccola piscina e mega colazione inclusa a prezzi non esageratissimi per queste zone. La squadra ormai è rodata e le tardone ci chiedono di rimanere insieme ancora qualche giorno per esplorare i parchi vicini; il team pare funzionare proprio bene: Anna il pilota, Alba la cuoca, io il navigatore, Piera la scovatrice di animali (ma anche con l’aiuto mio e di Alba direi).

Alla fine resteremo a Maun per ben 6 notti, due giorni saranno di completo relax (dolce far niente in piscina, internet e giro in città). Già in Zambia e Zimbabwe avevamo cominciato a cucinarci da soli, ma ora è diventata proprio un’abitudine; inoltre con i supermercati ben forniti che il Botswana offre ed Alba nelle vestidi cuoca è ancora più facile. Ne avevamo proprio bisogno, un posto dove stare fermi, safari comodi con partenza di mattina e ritorno entro la sera stessa; e niente più sveglie proibitive, gli incubi del Mozambico sembrano lontanissimi ormai.

A Maun una sera abbiamo beccato di nuovo un forte temporale, era già successo anche in Zambia, in Zimbabwe e a Kasane; ma è sempre un evento incredibile, da queste parti i lampi si vedono marcatissimi nel cielo. Mi ricordo che un giorno ad Harare, di ritorno in macchina con Angelbert, durante un acquazzone si distinguevano benissimo le luci bianche dei lampi tra le nuvole. Mai visti così prima d’ora. Spettacolo! Il manager del camp di Maun mi ha raccontato di quando ha visto un lampo scaricarsi proprio a pochi metri da lui, dice che è normale e le probabilità di essere colpiti sono davvero minime, da non preoccuparsi insomma; incoraggiante, questa è Africa.

Il camp dove alloggiamo è abbastanza grande e c’è un via vai di turisti e non: vicino a noi una tenda piccolissima, all’interno un viaggiatore inglese che sta risalendo tutta l’Africa da solo e se ne sta in giro per il mondo per 2 anni. Un po’ più in là un gruppo di ragazzi giovani sudafricani in cerca di lavoro come pilota d’aereo: qui sono diffusissimi i piccoli aerei privati che portano i turisti nel bel mezzo del Delta, ma a quanto pare bisogna sbattersi per alcuni mesi prima di ottenere un contratto di lavoro; il sogno di questi giovani piloti è quello di completare le ore di volo necessarie per poi poter accedere alle grandi compagnie ed ottenere un contratto oneroso per pilotare gli aerei di linea. Una sera mi hanno mostrato un video, fatto con il telefonino il pomeriggio stesso, di un volo sopra il delta dell’Okavango: quando l’aereo è atterrato sulla piccola striscia di pista nel bel mezzo della natura, c’erano sull’asfalto dei leoni che mangiavano tranquillamente la propria preda, non curandosi minimamente del velivolo; anche questa è Africa. Spettacolo!

Una mattina stavamo tranquilli in piscina quando vediamo il solito manager del camp sparare con un fucile, io mi avvicino un po’ troppo alla zona interessata ed egli mi dice di stare alla larga. Dopo un po’ mi fa vedere il serpente velenoso che aveva appena ucciso; e questa non è forse Africa?

Ad ogni modo con base a Maun effettueremo 3 escursioni interessanti: due con il fuoristrada di Anna e Piera ed in completa autonomia, una organizzata in mokoro, tipica imbarcazione per navigare i canali del delta. Per la prima uscita indipendente dedichiamo una giornata intera all’esplorazione della MakgadikgadiPans Game Reserve, riserva poco battuta e con grandi aree di saline, savana, praterie e foreste di palme. Ormai siamo immersi nell’esplorazione vera e propria, percorriamo centinaia di chilometri ed è veramente difficile incontrare qualcuno. Queste piste andrebbero percorse con spedizioni ben organizzate o quanto meno bisognerebbe avere gli strumenti giusti (navigatore, bussola, nozioni di emergenza eccetera); eppure noi ce la caviamo lo stesso con un po’ di fiuto ed unico riferimento la direzione del sole, sapendo semplicemente che sorge ad est e tramonta ad ovest. Naturalmente ci siamo persi e non raggiungeremo mai alcuni famosi alberi di baobab consigliati dalla guida, ma comunque siamo riusciti ad attraversare buona parte del parco, abbiamo avvistatointeri branchi di zebre (probabilmente gli ultimi della recente migrazione stagionale), gli orici, gli gnu, ma soprattutto abbiamo raggiunto i tanto desiderati pan di sale: li attraverseremo per un po’, ma non appena ci siamo resi conto che diventavano sempre più umidi, causa le recenti piogge, non abbiamo azzardato più per paura di restare incastrati con l’auto e non essere visti per chissà quanti giorni, quindi ci siamo diretti verso l’uscita più vicina del parco. Tutti gli anni sugli immensi pan di sale ci sono turisti che si perdono omuoiono isolati, i pan sono ipnotizzanti: orientamento, ragione e senso comune svaniscono; ci vogliono mappa, bussola, egps, bisogna sempre viaggiare in gruppi, più sicuro esplorarli con una guida.

Per la seconda gita fuori porta ci dirigiamo verso lo Nxai Pan Park, più piccolo del primo e che prendiamo un po’ sottogamba, infatti, date le dimensioni ridotte diamo per scontato che sia facile girarlo, quindi prestiamo poca attenzione ai pochi punti di riferimento e ci perdiamo completamente, stavolta neanche la direzione del sole ci aiuterà. Passiamo qualche ora per cercare la via d’uscita e alla fine con un po’ di fortuna imbocchiamo la strada giusta per il ritorno a Maun, con un po’ d’amaro in bocca: tolto un bell’elefante che beveva da una pozza d’acqua e qualche altro animaletto, non abbiamo visto granché. Per ben 2 volte abbiamo chiesto all’entrata indicazioni per raggiungere il pan principale ed abbiamo girato mezzo parco senza accorgerci che sul pan ci eravamo passati già diverse volte, ma era diverso da quello visto nel parco precedente, quindi semplicemente non ce lo aspettavamo così. In compenso prima di entrare al parco Nxai Pan ci siamo goduti la vista dei grandi Baobabs Baines, famosi per essere stati immortalati dall’avventuriero Thomas Baines a metà dell’800; pare chedopo 150 anni solo un ramo si sia rotto; belli ed imponenti, e sullo sfondo una grande salina.

Parte 17, Delta dell’Okavango e 4 sprovveduti nel Central Kalahari

A cavallo tra le due escursioni in fuoristrada abbiamo dedicato una giornata all’esplorazione in mokoro di una delle attrazioni principali del viaggio: il Delta dell’Okavango, un ecosistema unico, complesso ed immenso, con i suoi 18 miliardi e mezzo di metri cubi d’acqua che si spargono ogni anno e vengono inghiottiti dalle sabbie del Kalahari, attraendo animali selvaggi ed una miriade di uccelli. Noi vedremo solo una minuscola parte del delta orientale, ci accompagnano per un tratto con una barca a motore che sfreccia velocissima tra i canali e poi tutto il giorno con la tipica imbarcazione locale (il mokoro appunto) guidata dal poler di turno. Navighiamo tra la fitta vegetazione, fiori, foglie, radici lunghissime e camminiamo a piedi su un isolotto; ma fa incredibilmente caldo: non basta coprirsi la testa e bagnarla di frequente, il sole picchia e questa gita sembra un suicidio; oltre ad alcuni elefanti a distanza, una carcassa di animale ricomposta giusto per mostrarla ai turisti, alcuni nidi enormi ed uccelli, non vedremo granché e nel primo pomeriggio non vediamo l’ora di ritornare alla base prima di svenire. Il Delta dell’Okavango meriterebbe qualche giorno in più e mi sono pentito di non averne esplorato il cuore con l’aiuto di un volo aereo, tra l’altro ho poi scoperto che se ne trovano di non troppo cari andando direttamente in aeroporto e bypassando le varie agenzie; alla fine la parte più divertente è stata il viaggio di ritorno con la barca a motore velocissima ed il forte temporale alle spalle con i soliti lampi che ci inseguivano. Da bravi turisti organizzati ci siamo lamentati con il biondino bianchissimo e scoppiato che ci aveva venduto l’escursione, sottolineando il fatto che a quelle temperaturenelle ore più calde del giorno davvero si rischia di morire. E la sua giustificazione qual è stata? T-I-A: This Is Africa! Peccato però che l’escursione se la pagano a prezzi europei e non africani, solita risposta del cazzo direi.

Fin dall’inizio Anna aveva espresso l’idea di esplorare tutti insieme la Central Kalahari Game Reserve, l’area protetta più grande d’Africa, praticamente deserta, uno di quei posti completamente isolati e senza servizi che solitamente non si visitano durante una vacanza “normale”. Ma arrivati a questo punto io non ho proprio voglia di farmi sfuggire un’occasione simile, chissà se mai ci ritornerò in Botswana; potrebbe essere l’ultima vera avventura del viaggio, probabilmente la più estrema. Ormai siamo una piccola famiglia, le venete ci hanno letteralmente adottato, loro sono appassionatissime di animali e tutti gli anni esplorano posti diversi dell’Africa.

Ci prepariamo per bene, compriamo le provviste alimentari, raccogliamo informazioni varie, io nel ruolo di navigatore leggo le 2 o 3 guide che abbiamo a disposizione; ma niente più: lasciamo definitivamente la nostra base a Maun senza neanche una semplice bussola e ci avviamo verso una spedizione che andrebbe fatta almeno con un gruppo di altre macchine, per non parlare degli strumenti giusti che non abbiamo. Riprendiamo la solita strada percorsa nei giorni passati per la visita dei Pans, Alba capricciosa come sempre; solita fermata per la disinfestazione vicino le recinzioni veterinarie, reti lunghe centinaia di chilometri che tagliano il Botswana in lungo e in largo per non far attraversare gli animali da una zona all’altra, così da non far mischiare gli allevamenti agli animali selvaggi e viceversa; questo purtroppo ha determinato un blocco dei naturali flussi migratori causando la morte di migliaia di esemplari e critiche forti nei confronti del governo.

Ed eccoci entrare nel miraggio dei parchi africani: la Central Kalahari Game Reserve. Stavolta non sbagliamo strada come era successo ai Makgadikgadi qualche giorno prima; e per fortuna, visto che ogni volta che si commettono errori bisogna fare centinaia di chilometri extra per tornare indietro e riprendere la via giusta. In tutti i parchi visitati finora ci era sempre stato detto che era obbligatorio prenotare in anticipo, ma anche in questo caso ci presentiamo direttamente all’ingresso con la solita faccia tosta, paghiamo il solito ingresso e ci registriamo direttamente sul librone delle presenze come visitatori giornalieri (nonostante è nostra intenzione pernottare all’interno… un po’ incoscienti direi, ma proprio non ci piace programmare); all’entrata ci sono esposti i soliti teschi con i vari nomi degli animali morti.

Iniziamo con l’esplorazione della zona nord del parco, quellameno difficilechiamata Deception Valley. Chiediamo indicazioni all’unica macchina incontrata in tutta la giornata, una guida che accompagna una coppia di turisti: lui è uno di quelli un po’ convinti con il cappello da cowboy e ci dice che è già tardi per addentrarci se non abbiamo prenotato una piazzola per restare all’interno del parco di notte. Ma noi nel parco ci vogliamo restare e come, quindi entriamo pian piano nel cuore del Central Kalahari: a dire il vero ce lo aspettavamo molto più difficile, invece ci sono addirittura dei cartelli segnaletici abbastanza funzionali; inoltre siamo tutti ben concentrati, perciò non perdiamo mai i pochi punti di riferimento a nostra disposizione.

I paesaggi sono bellissimi, viste lunghissime all’orizzonte, ma non ci sono tanti animali. E’ un posto talmente isolato che anche nelle zone adibite a sosta per i visitatori spesso ci sono solo 2 o 3 piazzole (tra l’altro vuote). Vediamo i soliti orici, gli scoiattoli e vari animali adattati al deserto, ma il nostro obiettivo è quello di trovare il grande leone del Kalahari, difficilissimo da avvistare. Anna guida piano e noi 3 incollati al finestrino a cercare. Eccolo, lo avvisto proprio io: il leone del Kalahari! Bellissimo! Gli gironzoliamo intorno per un bel po’ e lo ammiriamo con la sua enorme criniera. Scattiamo un’infinità di foto. Poco più avanti troviamo anche alcune leonesse che dormono all’ombra di un albero. Possiamo ritenerci soddisfatti, la vista del solo leone vale l’intera visita della riserva.

Ci fermiamo in una piazzola sperduta prenotata da nessuno, Alba prepara la cena, io e Piera proviamo ad accendere il fuoco. A turno utilizziamo una specie di bagno attrezzato, poi mangiamo e a nanna, questa volta non ci sarò nessuna tenda in costruzione da prendere in prestito, ci toccherà stare stretti in macchina: Anna e Piera sui sedili, io ed Alba sul retro con dei materassini, intorno a noi la natura più selvaggia e nient’altro. Spettacolo!

All’indomani si riparte, proseguiamo verso sud, gli animali che avvistiamo non sono molti, finalmente incrociamo un’altra auto; la strada diventa sempre più sconnessa, sabbiosa e fastidiosa da percorrere: i dossisono uno attaccato all’altro. Arrivati nei pressi di un ingresso in zona centro-ovest del parco cerchiamo il ranger di turno e chiediamo indicazioni sulle condizioni del terreno: Anna vorrebbe attraversare tutto il Central Kalahari ed uscire dall’ultima uscita a sud, ma per quanto mi riguarda è un’idea un po’ pazza; la stanchezza si fa sentire ed anche il ranger ci conferma che se continuiamo la strada diventerà sempre peggio e ci vorranno ore ed ore per percorrerla, sicuramente avremo bisogno di una notte in più da trascorrere all’interno del parco. Allora chiediamo se conosce una via non segnata sulle mappe che ci porti comunque verso sud, fuori dal parco. Il ranger ci indica una pista che costeggia la recinzione della riserva e dopo circa 200 km sbuca su una strada asfaltata del paese. 200 km significano almeno 5 ore, pare che le condizioni non siano impossibili e che qualcuno abbia utilizzato tale via “solo” una settimana fa. Solo? Cioè vuol dire che se ci blocchiamo nel mezzo del niente potrebbe essere che non passa nessuno per un’altra settimana e rimaniamo lì a morire di stenti? Non è un’idea molto entusiasmante, ma pare l’unico modo veloce per uscire dal Central Kalahari verso sud, quindi ci facciamo coraggio.

Sempre con il solito gioco delle tre carte, firmiamo l’uscita senza pagare il pernottamento né il secondo giorno di visita al parco. Inizia anche a piovere, i soliti lampi marcatissimi spaventano un po’, a tratti il tragitto è molto sabbioso, ma Anna cerca di non utilizzare mai la prima marcia 4×4, in quanto sarebbe l’ultima chance; ora ci sentiamo più che mai soli e abbastanza tesi. Verso la fine del tragitto finalmente incontriamo un essere umano, un uomo che in completa solitudine lavora nel bel mezzo del niente, spaventoso! Chiediamo indicazioni e ci perdiamo anche, per un attimo entriamo in panico; ma oramai siamo nei pressi di un villaggio abitato e finalmente possiamo chiedere informazioni alla gente del posto. Tiriamo un sospiro di sollievo e discutiamo dell’ennesimo sbaglio appena fatto; stavolta era proprio grosso, sarebbe bastata la più stupida avaria alla macchina per rimanere in mezzo alle sabbie del Kalahari a marcire chissà per quanti giorni prima che qualcuno se ne accorgesse. E’ buio quando troviamo un posto per dormire in un alberghetto di Kang con stanze abbastanza accomodanti. Ci accontentiamo di un freddo fish & chips take away, in quanto è abbastanza tardi ed i ristoranti sono tutti chiusi.

In piena notte succede un avvenimento straordinario: Alba resta bloccata all’interno del bagno della stanza. Proviamo a giocare con la serratura, ma niente da fare. Allora chiamo la reception e man mano arrivano i rinforzi con i mezzi più disparati (coltelli, cacciavite etc.). Alla fine la porta si apre, i ragazzi intanto si erano fatti delle gran risate e io, tipo film di Totò, mi invento la storia della nostra prima notte di nozze andata in fumo per colpa di una porta del bagno che non si apriva. Mi hanno dato un assist troppo bello per non prenderlo al volo. Risultato: rimborso totale e dormita gratis in albergo. T-I-A: This Is Africa!

Parte 18, In viaggio verso Windhoek e parco nazionale Etosha

E’ arrivato il momento dei saluti: Anna e Piera vanno a est alla ricerca dei rinoceronti; io ed Alba siamo diretti ad ovest, direzione Namibia, nonostante l’invito a seguirle ancora una volta. Gran bell’incontro questo con le amiche “tardone” venete, simpatiche, disponibili e di compagnia, 10 giorni di full immersion nei parchi del Botswana che mai avremmo pensato di vedere senzaavere un fuoristrada. Abbiamo viaggiato in un paese nel quale avremmo avuto poche possibilità di muoverci, un posto di natura incontaminata, tante riserve naturali, zone off limit riservate all’estrazione dei preziosi diamanti che questa terra offre (e perciò interdette agli estranei), poca corruzione e anche un certo tipo di benessere rispetto agli altri stati africani. Scambio indirizzi e appuntamento a Venezia per il Carnevale dunque, a casa di Anna.

E ora? Come arriviamo in Namibia? Il prossimo bus diretto a Windhoek passa tra qualche giorno e Kang è un posto di passaggio senza attrazioni particolari da rimanerci ancora. Le nostre amiche ci lasciano ad un incrocio importante dove la fermata dei bus è il solito albero che aiuta a fare da ombra. Le persone in attesa ci dicono che in tarda mattinata dovrebbe arrivare un minibus proveniente dalla capitale Gaborone e diretto a Ghanzi, bisognerebbe dormire lì una notte e all’indomani cercare un altro bus che ci porti in frontiera; oppure si può optare per l’autostop, essere scaricati ad un incrocio e con un po’ di fortuna cercare un altro passaggio verso la Namibia. Anche in Botswana tutte le persone in attesa del bus provano la carta dell’autostop, bisogna fare la fila anche per chiedere un passaggio, ma non avvertiamo quella pressione che avevamo subito agli incroci degli altri paesi africani nella prima parte del viaggio. Ogni tanto si ferma qualche auto, gente che sale e gente che scende, come se fossero dei bus. Passano anche alcuni tir e una signora in attesa mi dice di fermare proprio gli autotreni, i quali sono tutti diretti in Namibia: siamo sulla Trans-Kalahari, un’arteria importantissima in Africa meridionale, che collega Johannesburg a Windhoek, attraversando il Botswana.

E’ già mattinata inoltrata, un po’ tardi per tentare di raggiungere la Namibia prima del tramonto, la capitale Windhoek si trova a poco più di 700 chilometri da qui, ma con un po’ di fiducia ci proviamo ugualmente. Dopo pochi tentativi riesco a fermare un tir che va nella direzione giusta: il conducente viaggia da solo, tratto un po’ il prezzo da pagare e per meno di 20 €uro siamo tutti e due a bordo, seduti comodi, io addirittura mi stendo sulla cuccetta della motrice. Studio un po’ l’autista, tipo di poche parole, ma mi convinco che possiamo stare tranquilli, gli offriamo i nostri snacks e addirittura riesco pure ad addormentarmi. Questo è davvero un modo di viaggiare comodi devo dire, magari avessimo fatto tutti gli spostamenti con gli autotreni. Peccato però che quasi verso la fine del nostro tragitto il conducente non riesce proprio ad evitare una delle tante mucche che attraversano la strada principale, inchioda le ruote del tir, Alba si spaventa, esce il fumo dai copertoni, ma il botto sarà inevitabile; solo pochi minuti e l’animale sanguinante emetterà l’ultimo grido prima di morire. Un episodio tristissimo. Subito arriva un funzionario del governo che si trovava in zona e prende nota dell’accaduto; siamo nuovamente pronti per proseguire, con il muso della motrice rotto, ma come se niente fosse. Anche questa è Africa!

Arrivati in frontiera paghiamo e salutiamo il nostro caro camionista, come d’accordi presi in precedenza non sarà lui a portarci in Namibia, dice che avremmo perso tempo per le sue lunghe pratiche doganali. Invece sbrighiamo velocemente le nostre di pratiche doganali e mi rimetto subito a cercare un altro passaggio verso la capitale: proveremo ad arrivare a Windhoek in serata stessa. Sarà un po’ più difficile questa volta, alcuni turisti a cui chiedo non si fidano, altri namibiani ci dicono di fermarsi a pochi chilometri da qui etc. Ma un poliziotto di frontiera mi chiama e mi indica un altro tir diretto verso la capitale, stavolta i conducenti sono in due, mi accordo velocemente ed eccoci a bordo di un altro grande autotreno. Nel momento in cui salgo la scaletta i due camionisti sudafricani notano subito la mia diffidenza e mi dicono che devo stare tranquillo, in Africa è una cosa normalissima, tutti arrotondano lo stipendio dando passaggi a tutti. Sarà un altro viaggio comodo, stavolta restiamo svegli e in guardia però, inizia a diluviare forte, i soliti lampi luminosissimi all’orizzonte e soprattutto si fa buio. Arriviamo a Windhoek che è sera inoltrata, i due insistono per accompagnarci sotto la porta di un ostello che avevo selezionato dalla mia guida e ci portano anche gli zaini davanti all’entrata; avevano un’aria poco affidabile, ma alla fine si sono rivelati gentilissimi, ringraziamo, paghiamo e saluti.

Un’altra giornata lunga, ma finalmente siamo in Namibia, per fortuna troviamo una stanza privata disponibile che si rivelerà bellissima e pulitissima, con tanto di bagno privato e sistemi avanzati per salvaguardare lo spreco di acqua e riciclare tutto ciò che è possibile. Nell’area comune un’ampia cucina ed anche una piccola piscina… e tanti altri viaggiatori intorno a noi. Non ci resterà che cenare al KFC, unico fast food rimasto aperto fino a tardi.

Windhoek si presenta ai nostri occhi come una piccola città tedesca, pulita ed organizzata, alcuni monumenti e musei più o meno interessanti ed un ufficio informazioni molto efficiente; quasi non si direbbe che siamo in Africa, anche se dopo il Botswana e i racconti di altri viaggiatori ce l’aspettavamo proprio così. Gironzoliamo un po’, pranzo al ristorante, visite varie e passeggiate nei centri commerciali, cerchiamo di ammazzare l’attesa: già da molti giorni siamo in contatto con un tizio che affitta fuoristrada attrezzati che forse ha ancora qualche mezzo a disposizione, ma ci ha chiesto di richiamare nel pomeriggio; tutte le altre agenzie di noleggio e piccoli padroncini non hanno disponibilità immediata oppure chiedono cifre proibitive. Il numero telefonico me lo aveva passato una ragazza conosciuta alle Cascate Vittoria e questa è davvero l’ultima spiaggia per riuscire a visitare la Namibia come si deve. Prendiamo un taxi collettivo (che sono macchine private a tariffa popolare, in quanto non esistono bus a Windhoek) e giungiamo a casa del tipo, un signore di una certa età, bianco naturalmente, sicuramente di origine tedesca; è poco gentile e diffidente nei nostri confronti, sembra la versione namibiana di Hitler. La macchina che ci aveva promesso a quanto pare tarderà a rientrare, lui cerca di appiopparci un’auto più vecchia, io insisto nel noleggiarne una più nuova allo stesso prezzo concordato via e-mail. Fa un po’ il furbetto “Hitler”, gioca un po’ come gli pare sui prezzi e le date di immatricolazione, ma ad ogni modo ci accordiamo come dico io, circa 60 €uro al giorno per una Toyota 4×4 con tenda e materasso apribili montati sul tetto, 2 ruote di scorta, doppio serbatoio di benzina, frigo, bombola con fornellino, tavolino, sedie, piatti, padelle eccetera. Non potevamo chiedere di meglio.

Approfittiamo di un passaggio per tornare in ostello e all’indomani ci vengono a riprendere: siamo felicissimi, pronti per ripartire con il nostro nuovo fuoristrada: è molto spazioso, ci sarebbe stato posto anche per 4 persone, visto che si poteva montare una tenda extra. Facciamo il pienone di benzina (ben 120 litri) e ci fermiamo ad un supermercato: questa volta compriamo l’impossibile, ci riforniamo di provviste alimentari per una settimana.

Siamo di nuovo in strada, il nostro viaggio acquista ancora un’altra dimensione: completamente autonomi, su strade asfaltate e molto scorrevoli. Ci fermiamo in una delle numerose aree picnic sparse per la Namibia, pranziamo al volo e di nuovo in strada verso nord, quella che porta al Parco Nazionale Etosha. Per la prima notte ci fermiamo ad un campeggio in collina ben attrezzato, poco prima dell’entrata al parco, bagni puliti, piazzole molto distanti l’una dall’altra e panorama mozzafiato, un posto spettacolare. Alba prepara la cena, il frigo nel retro dell’auto pare raffreddi benissimo, io penso ad aprire la tenda che si rivelerà comodissima. Intanto all’orizzonte un bel tramonto, mangiamo e a nanna presto nel silenzio più assoluto e completamente circondati dalla natura.

Riprendiamo con le svegliatacce all’alba, la mattina presto chiudiamo la tenda e ripartiamo, dopo pochi chilometri siamo già all’entrata del parco più famoso della Namibia. Sono appena passate le 7 che già ci ritroviamo catapultati nel primo safari namibiano e in completa autonomia: il parco pare subito molto facile da girare, le strade non sono asfaltate, ma ben battute, i segnali sono abbastanza precisi. Ci sono molti turisti in giro ed è tutto ben organizzato, più o meno come al Kruger Park in Sudafrica. Giriamo l’Etosha per 2 giorni pieni, ci fermiamouna notte in un camp all’interno del parco, attrezzato con piscina, pompa di benzina, bar, ristorante etc.:sembrano finiti i tempi delle avventure estreme. Esploriamo più o meno tutti gli angoli del parco, vediamo tantissime zebre, giraffe, qualche elefante un po’ invecchiato e varietà di antilopi, ma non avvisteremo i grandi predatori, tranne che per un incontro veloce con un piccolo ghepardo proprio nelle ultime ore prima di uscire. All’interno dell’Etosha ci sono anche delle lagune abitate da fenicotteri, ma l’attrazione principaleè probabilmente l’immenso pan, un deserto di sale che si perde alla vista e, forse più di ogni altro pan visto in precedenza in Botswana, crea quello strano effetto della fata morgana, dove le terre lontane sembrano sollevarsi nel cielo. Spettacolo!

Parte 19, Alla scoperta degli angoli più remoti dell’Africa meridionale

Il parco Etosha è organizzato con una pozza d’acqua vicino al camp dove abbiamo dormito, di fronte delle panchine isolate da reti: la notte viene illuminata, così i turisti ci vanno a piedi per trascorrere del tempo e tentare di avvistare il raro rinoceronte; io ci proverò, ma nessuna traccia del rhino. Siamo stanchi di fare safari, è da 2 settimane che siamo sempre all’interno dei parchi, all’Etosha Alba è riuscita anche ad addormentarsi mentre io guidavo tra i vari animali. E’ il momento di voltare pagina. Arriviamo all’uscita nord dell’Etosha pochi minuti prima della chiusura del parco, ma abbiamo qualche problema ad uscire: il guardiano di turno ci blocca dentro perché il nostro permesso è scaduto in mattinata; ne nascerà un lungo tira e molla dove lui fa l’attendista cercando di farsi pagare la giornata extra senza rilasciarci la ricevuta, noi proviamo ad uscire e basta. Arriviamo anche a parcheggiarci davanti al cancello pronti a dormire lì con la nostra tenda ed il giorno seguente tornare in reception a pagare, pur di non dargliela vinta; ma quando la guardia capisce che ha di fronte uno più testardo di lui e che stasera mazzette non ne guadagnerà, ci parlo un po’ per addolcirlo ed apre il cancello. Ora abbiamo il problema di trovare un posto per dormire, è buio ormai e una delle regole principali in Africa è proprio quella di non viaggiare mai di notte, sia per le persone male intenzionate, sia per gli animali che gironzolano liberi. Per fortuna dopo pochi chilometri troviamo un centro per lo sviluppo di non so cosa (territorio o agricoltura o qualcosa del genere) che in pochi minuti accetta di farci parcheggiare all’interno del proprio recinto ed aprire la nostra tenda al sicuro, in cambio di denaro naturalmente; ad ogni modo il posto non è malissimo e ci faranno utilizzare dei bagni discretamente puliti all’interno di un appartamento attrezzato.

Dormiamo qualche ora in più stavolta e ripartiamo ancora verso nord. La strada attraversa diverse comunità e cittadine anche piuttosto grandi, pare che il nord sia più popolato. In giro solo gente di colore, mentre invece nella capitalei bianchi erano tantissimi; anche l’aspetto urbano è molto differente e meno organizzato, sicuramente non sembra più di stare in Germania. Ci fermiamo in un supermercato per incrementare le nostre provviste alimentari e ritroviamo il nostro caro parcheggiatore abusivo onnipresente davanti alle zone commerciali d’Africa. Siamo di nuovo gli unici bianchi in giro e tutti ci guardano un po’ così, ma la cosa strana che non siamo proprio riusciti a spiegarci è che spariscono le cose dal nostro carrello della spesa e spesso ce ne infilano delle altre, tanto che alla fine ci ritroviamo in cassa a pagare per alimenti che non avevamo mai preso dagli scaffali; questa cosa rimarrà totalmente inspiegata.

Di strada cerchiamo una vecchia base militare sudafricana, nel secolo scorso gli eserciti del Sud Africa avevano occupato la Namibia, dopo la sconfitta dei tedeschi; ma non la troveremo mai, quindi proseguiamo verso il confine con l’Angola: i paesaggi diventano veramente interessanti, viste panoramiche mozzafiato, tutto verde intorno a noi. Incrociamo anche i primi nomadi delle tribù himba, gruppo etnico di circa 50000 persone, famosi per coprirsi il corpo con un mix di burro d’ocra ed erbe per proteggersi dal sole. Prima del tramonto prendiamo visione del posto dove pernottare, un camping spartanissimo e isolato gestito dalla comunità himba locale, e ci dirigiamo subito verso il confine con l’Angola, firmiamo l’uscita in frontiera, ma solo per andare alle cascate Ruacana, che si trovano in terra di nessuno. Parcheggiamo l’auto e sotto consiglio di alcuni ragazzi locali ci avventuriamo scendendo centinaia di scalini per raggiungere delle piscine naturali: il paesaggio intorno è bellissimo, ma delle cascate neanche l’ombra, la diga angolana Calueque ha deviato già diversi anni fa il flusso dell’acqua, perciò le cascate si ammirano solo in periodi di fortissime piogge; peccato, pare che lo spettacolo sia comparabile alle cascate Vittoria.

Ritorno in Namibia dunque, ci fermiamo nel nostro camp, accanto a noi le Hippo Pools, ma niente ippopotami all’orizzonte. La reception pare completamente abbandonata, nel pomeriggio avevamo anche incontrato una coppia della Lombardia che preso atto delle condizionidel posto aveva intenzione di dormire direttamente in macchina e fuori dal cancello, in strada. In effetti fa abbastanza impressione questo camp e ci sono molte zanzare, siamo ritornati in una zona a rischio malaria; cerchiamo quindi di cenare in fretta e metterci a nanna. La mattina seguente in uscita incontriamo finalmente qualcuno al ricevimento pronto a riscuotere la tariffa per il pernottamento: allora questo camping esiste davvero! Fa abbastanza strano pagare la quota alle signore con le tette completamente al vento.

Proseguiamo la nostra avventura verso ovest, lungo il confine angolano, decidiamo di percorrere una via alternativa per raggiungere le cascate Epupa. Per la prima parte si viaggia a velocità ridotte, la strada è molto sconnessa, ci fermiamo diverse volte per chiedere informazioni sulla direzione da seguire e riceviamo le risposte più disparate; ma i paesaggi sono veramente incredibili ed incontriamo diverse comunità himba: al rumore del nostro fuoristrada donne e bambini si avvicinano e chiedono doni e caramelle; noi ci limitiamo ad offrire un po’ di riso e diamo anche un passaggio ad un tipo che viaggerà per chilometri appeso sul retro della nostra auto, ma senza le scarpe che sono nuove di zecca (chissà dove le avrà trovate?), preferisce non sporcarle e farsele custodire da noi in macchina. Spettacolo! Giunti alle cascate Epupa prendiamo posto in un campeggio bello e organizzato proprio davanti al fiume, gestito da tedeschi naturalmente. Esploriamo la zona, camminando per più di un’ora lungo dei sentieri, fino a raggiungere una bella spiaggia; al rientro io concluderò la giornata con un bel bagno in una piscina naturale insieme ad alcuni ragazzi locali. C’è abbastanza gente intorno ed un angolo dove gli himba vendono collanine e cianfrusaglie varie. Cena e a nanna, circondati da altri turisti tutti organizzati con le auto simili alla nostra e la tenda montata sul tetto.

E’ arrivato il momento di ripartire per un’avventura estrema: ho letto che il Nord-Ovest della Namibia, chiamato Kaokoveld, è la zona più primitiva del paese, attraversata solo da piste di sabbia tracciate dall’esercito sudafricano all’epoca dell’occupazione. Quest’area viene descritta come l’ultima vera frontiera selvaggia dell’Africa meridionale, non esiste il trasporto pubblico ed avere un 4×4 ben equipaggiato è d’obbligo. E noi stavolta ce l’abbiamo, quindi ho deciso di rimettermi in gioco con l’ennesima pazzia e Alba non ha scelta: sarà praticamente costretta a seguirmi.

Percorriamo il primo tratto su una strada scorrevole (ma non asfaltata), ma subito la prima sfiga: a prima mattina buchiamo un pneumatico. Mi metto all’opera, per la prima volta in vita mia sostituisco una ruota (per fortuna che al momento del noleggio mi avevano dato un’infarinatura generale sulle situazioni d’emergenza) e si riparte. Dall’incrocio di Okongwati in poi inizia il bello: la pista diventa sabbiosa, a tratti con pietre enormi, fossi, zone rocciose, corsi d’acqua d’attraversare; altro che rally! Siamo completamente sperduti, la segnaletica stradale non esiste più e non credo di essere riuscito ad andare oltre i 15 chilometri orari di media. Viaggiamo per ore completamente soli e non siamo sicuri di essere sulla strada giusta, diverse volte incontriamo sul nostro cammino le solite tribù himba: chiediamo loro delle informazioni, ma parliamo 2 lingue diverse, quindi io provo a dire il nome della località che voglio raggiungere e loro disegnano sulla sabbia il percorso. Tanto per cambiare ci vengono chiesti regali in cambio e i bambini al nostro passaggio gridano “sweet, sweet”: se in Mozambico ero rimasto sorpreso dalle molte persone povere con il telefonino in mano, qui proprio non mi aspettavo richieste di caramelle in un angolo del mondo completamente dimenticato; ma evidentemente la globalizzazione è talmente forte che è arrivata anche nel Kaokoveld e i turisti idioti che regalano caramelle in Africa sono tanti e non capiscono che questi bambini probabilmente non vedranno mai un dentista in tutta la loro vita.

E’ pomeriggio inoltrato, attraversiamo un villaggio e siamo ormai vicini ai due passi montani di nostro interesse: vorremmo oltrepassare il passo Otjihaa, che pare sia bellissimo e un po’ meno pericoloso del Van Zyl; ma le indicazioni che ci hanno dato sono così confuse da non essere sicuri della direzione in cui stiamo andando. La strada diventa sempre peggio, usare le 4 ruote motrici è ormai una scelta obbligata, proviamo a seguire a fiuto le tracce lasciate da altri veicoli sulla sabbia, quando tutt’un tratto incrociamo un pick up rosso: è guidato da un bianco ed alcuni ragazzi di colore viaggiano sul retro, ci dicono di tornare indietro e seguirli, siamo nella direzione sbagliata. Siamo molto stanchi, proviamo ad utilizzare il loro aiuto, quando ad un certo punto foriamo di nuovo. Mi è caduto il mondo addosso, dallo specchietto retrovisore del pick up non ci vedono più, capiscono che qualcosa non va, quindi tornano indietro ad aiutarci: i ragazzi si danno da fare ed in pochi minuti sostituiscono la ruota bucata con la seconda ed ultima scorta a nostra disposizione. Veramente troppo gentili, ma oramai è chiaro che non ci resta altra soluzione che seguire loro verso la città di Opuwo dove sono diretti, così da essere quanto meno visti da qualcuno in caso di ulteriore emergenza sul nostro veicolo. Rassegnazione totale: non attraverseremo mai più il passo Otjihaa. This Is Africa!

Parte 20, Namibia, Kaokoveld e Damaraland, fino a Cape Cross

Viaggiamo a velocità elevate e per gran parte del tragitto al buio, in pratica mi fido solo della scia del pick up che stiamo seguendo, i nostri amici sono del posto e quindi dovrebbero conoscere bene la zona. Un paio di volte sfioriamo di poco l’incidente con dei grandi animali (credo fossero mucche): la strada è sterrata e con l’alta velocità la terra sollevata dai nostri amici occupa tutta la mia visuale, non mi resta che fidarmi di seguire le loro luci di posizione posteriori, aiutato dalle segnalazioni con le 4 frecce che ogni tanto mi fanno in presenza di pericoli. Ad un certo punto siamo anche costretti a tornare indietro di qualche chilometro e deviare il tragitto, in quanto l’acqua di un fiume era troppo alta da attraversare. E’ assurdo come quei ragazzi viaggino sul retro totalmente aperto, riempiendosi completamente di terra! Per fortuna alla fine arriviamo a destinazione sani e salvi, è notte ormai, ci accompagnano in una pensione dove possiamo parcheggiare ed aprire la nostra tenda, la giornata è stata immensamente lunga, siamo esausti e anche un po’ spaventati.

Opuwo è la capitale ufficiosa della terra degli Himba, da qui le agenzie organizzano le escursioni nei vari villaggi; l’avremmo volentieri evitata, visto che gli incontri con le tribù li abbiamo avuti in modo più vero e diretto durante l’esplorazioni dei giorni passati. E’ anche vero chea sapere in anticipo le sventure che ci dovevano capitare, avremmo guidato direttamente fino qui, invece di stare in giro come i pazzi dalla mattina presto fino a notte inoltrata senza essere arrivati dove volevamo; in fondo siamo solo a 2 o 3 ore di distanza dalle cascate Epupa visitate precedentemente.

Comunque è stata una gran bella avventura, ci siamo perduti in zone dimenticate dal mondo ed abbiamo conosciuto i viaggiatori più assurdi mai incontrati finora: infatti a metà giornata, proprio nel bel mezzo del niente e dopo che avevamo viaggiato da soli per ore, abbiamo visto davanti a noi una via di mezzo tra un camper ed un camion: suono il clacson, il mezzo si ferma, io scendo dalla macchina e manco fosse un miraggio un uomo bianco olandese appare davanti ai miei occhi. Io gli chiedo sorpreso: “ma tu cosa cavolo ci fai qui nel bel mezzo del niente?” E lui mi replica con la stessa domanda! Mi ha raccontato che sta viaggiando da 5 anni con il suo mezzo insieme ad una coppia di amici che si trovavano qualche chilometro più avanti su un camion simile; girano tutto il mondo e tornano ad Amsterdam una volta l’anno per “le ferie”. Ed io: “5 anni? Le ferie? E quando avete intenzione di fermarvi?” E lui: “quando finiamo i soldi”. Spettacolo! Mi sono sentito così piccolo nei suoi confronti, eppure di viaggiatori che stanno in giro per tanto tempo ne ho incontrati molti, ma 5 anni con lo stesso camper super attrezzato sono davvero tanti. Intanto era arrivata la coppia di amici che si era preoccupata di non vederlo più. Per l’ultimo tratto della loro avventura sono partiti dall’Olanda e arrivati fin qui guidando lungo tutta la costa ovest dell’Africa, una passeggiata insomma! Io gli avevo anche chiesto qualche informazione sul tragitto davanti a noi, ma lui ne sapeva poco o nulla, era intenzionato come noi ad oltrepassare il passo Otjihaa; però non ci aveva saputo dare ulteriori indicazioni. Ci siamo salutati così, abbiamo sorpassato il camper dei nostri amici (loro viaggiavano più lenti rispetto a noi ed hanno un infinito tempo a disposizione per fermarsi quando e dove vogliono); e la giornata sappiamo già com’è andata a finire.

Pronti per rimetterci in carreggiata: il signore alla guida del pick up che ci ha recuperato ieri ci viene a prendere e ci indica uno pseudo meccanico dove riparare le 2 ruote forate. Lui sta costruendo un ospedale da qualche parte nel Nord-Ovest della Namibia ed è per quello che si era trovato a passare da lì con gli altri ragazzi il giorno prima. E per fortuna! Ci facciamo consigliare la strada migliore da percorrere elui ci indica su una mappa i fiumi verso ovest da evitare perché potrebbero essere troppo pieni da attraversare in caso di pioggia; ci dirigeremo verso sud e decidiamo di rinunciare completamente ad esplorare le zone occidentali, dove avremmo potuto avvistare i famosi, rari e strani elefanti adattati al deserto. La storia di forare i pneumatici pare molto comune sulle infinite strade sterrate namibiane e il nostro amico ci dice che lui a volte viaggia addirittura con 3 o 4 ruote di scorta. Ringraziamo e salutiamo. Prima di andare via il tipo ci indica un villaggio a qualche centinaia di chilometri da qui dove sua moglie ha un panificio: “se passate portatele i miei saluti e ditele che torno a casa venerdì”. Interessante il modo in cui vivono da queste parti; ma i telefonini no?

Dunque Opuwo non sembra niente di interessante, una piccola cittadina che immagino sia il centro servizi di un’area vastissima, con alcuni edifici e qualche supermercato; come già visto finora in tutti i luoghi d’Africa visitati, l’età media della popolazione è veramente bassa, vecchi se ne vedono pochi. Prendiamo una strada scorrevole in direzione sud, ma evidentemente neanche oggi sarà una giornata positiva: poco prima di mezzogiorno foriamo il pneumatico posteriore appena riparato e questa volta le mie bestemmie le sentiranno anche quella specie di meccanici che hanno realizzato il lavoro qualche ora fa; mi riarmo di santa pazienza e cambio la ruota sotto il sole cuocente.

Si prosegue durante le ore più calde della giornata, le distanze sono enormi, siamo sempre in macchina, ma almeno autonomi e ci fermiamo quando ci pare; intorno il deserto più completo, saltuariamente qualche capanna, i paesaggi sono fantastici e sembradi guidare in un videogiocodi macchine degli anni ’90. Quando meno te lo aspetti spuntano come oasi dei segnali che indicano le officine che riparano i pneumatici, evidentemente una pratica molto diffusa che noi cercheremo di scongiurare il più possibile. Passiamo anche un “Disease Control Point”, una specie di barriera interna che taglia il paese, dove ti controllano se trasporti carni, animali etc; un po’ come i Veterinary Fence attraversati in Botswana.

Arriviamo in un camp nei pressi di Twyfelfontein poco prima del tramonto, ci sono dei bagni, un ristorante e diverse zone dove aprire la propria tenda, intorno il nulla più completo; ma questo nulla ci piace tanto e si respira un’aria di pace incredibile. Siamo nei pressi della foresta pietrificata, un’area con numerosi tronchi d’albero vecchi 260 milioni di anni ed appunto pietrificati, ma che noi non andremo a vedere. Invece faremo un giro veloce alla Burnt Mountain, una collina nera che sembra come se fosse stata incendiata, e gli Organ Pipes, una stradina di un centinaio di metri circondata da strane colonne di basalto. Cena deliziosa preparata dalla cuoca Alba e dormita che più silenziosa non si può. Questo è il camp in Namibia che ci è piaciuto di più finora.

Al mattino seguente mi accorgo che anche l’altra ruota posteriore è un po’ a terra e già mi sale la febbre. Provo a darle un po’ d’aria, ma si sgonfia di nuovo, quindi dobbiamo iniziare anche questa giornata da un meccanico; ed ecco ritornare alla mente gli incubi del viaggio in moto in Centro America effettuato un anno fa, dove facevo un pit stop ogni 2 giorni. Ci consigliano un’officina a pochi chilometri da qui, nei pressi di un lussuoso resort: stavolta i ragazzi sembrano più organizzati e disponibili e riparano con cura le nostre 2 ruote bucate; speriamo bene, 4 riparazioni di pneumatici in 24 ore non è un primato felicissimo!

Ci fermiamo al vicinosito di Twyfelfontein, un luogo dichiarato patrimonio dell’umanità dall’Unesco, dove ci sono le rocce incise da antichi cacciatori San, alcune delle quali risalgono all’età della pietra: io effettuo una visita guidata più o meno interessante e poi ripartiamo ancora per un altro lungo viaggio verso sud. Stavolta la paura di forare è aumentata maggiormente rispetto ai giorni passati, tanto che al minimo dubbio spesso mi fermo per controllare che i pneumatici siano a posto; per fortuna si è trattato solo di falsi allarmi. Le strade in Namibia sono, come al solito, in sterrato, ma larghissime, tanto che si può viaggiare abbastanza tranquilli anche a 100 km orari. Passeremo vicino al Brandberg, la montagna più alta del paese, e ci fermeremo per qualche foto al più famoso Spitzkoppe, un picco granitico completamente spoglio di vegetazione, chiamato anche il Cervino della Namibia; fino ad imboccare la strada circondata solo da deserto sabbioso che ci porterà sulla costa atlantica e la parte meridionale dell’immensa Skeleton Coast, famosa per essere inospitale e difficile da attraversare: è chiamata così per i numerosi relitti che vi si sono spiaggiati (pare siano oltre un migliaio).

Finalmente siamo di nuovo sull’asfalto, a sinistra l’oceano, a destra il deserto: andiamo in direzione nord, verso Cape Cross, dove c’è una grande colonia di leoni marini. E’ tardo pomeriggio e già da un po’ hanno chiuso l’entrata della riserva; ci vorrà tanta pazienza e buone maniere per convincere la guardia di turno a farci entrare comunque, maquando arriviamo sulla passerella ci attende uno spettacolo della natura incredibile: forse sono100000, tutti in spiaggia, quasi ammassati uno sull’altro, bruttissimi, fanno chiasso, molti sono piccolini (siamo capitati proprio nel periodo delle nascite) e tanti altri sono morti; si sente una gran puzza di cadavere, molti leoni marini vengono uccisi dagli sciacalli e le iene, ma quello che ammiriamo è veramente uno Spettacolo! Restiamo sul posto per un’ora, completamente da soli, si sente il vento freddo della corrente del Benguela e andiamo via solo quando vengono a riprenderci, pienamente soddisfatti e pronti a proseguire verso Swakopmund.

Parte 21, I deserti namibiani e viaggio verso Città del Capo

Ripercorriamo la strada costiera, stavolta verso sud, la Skeleton Coast è piatta e sabbiosa, foto veloce vicino al mare ad Henties Bay ed in serata giungiamo finalmente a Swakopmund, dove stavolta abbiamo intenzione di fermarci 2 notti e riposare un po’. Ennesima giornata trascorsa per intero sulle strade della Namibia, siamo stanchi morti, ma ripagati in pieno dalle bellezze che abbiamo ammirato. Purtroppo il posto dove alloggiamo è abbastanza squallido, tanto che la mattina seguente ci spostiamo in una casa tipo bed & breakfast, che ci offre una stanza privata pulita e confortevole, oltre al servizio lavanderia molto utile ai miei capi sporchissimi.

Spesso descritta come più tedesca della Germania stessa, Swakopmund è una destinazione turistica popolarissima, piena di agenzie che organizzano escursioni per tutti i gusti, dallo snowboard sulle altissime dune di sabbia alle gite in fuoristrada nel deserto, alla pesca, fino al paracadutismo: Swakopmund è la capitale degli sport estremi della Namibia e una piacevole cittadina per trascorrerci qualche giorno; intorno solo deserto che si espande per centinaia di chilometri. Fa abbastanza freddo anche di giorno e noi ce la prendiamo comoda: andiamo a passeggio tra gli edifici più o meno storici, camminata in spiaggia, spesa al supermercato e mangiata al ristorante (ma mai presentarsi all’ora di chiusura, qui con gli orari sono fiscalissimi e si rischia di rimanere a digiuno). Nel nostro alloggio conosciamo dei pazzi viaggiatori su 2 ruote: un belga partito dall’Europa e diretto in Sud Africa, che ha attraversato tutto il continente; e una strana coppia di sudafricani da poco partiti dal loro paese e diretti fino in Germania a bordo di 2 motociclette. Con quest’ultimi riprenderò gli ormai celebri discorsi sul razzismo in Sud Africa, che avevo tralasciato nelle ultime settimane, e i loro consigli sul paese che andremo presto a conoscere saranno tali e quali a quelli ascoltati finora: stare alla larga dalle township povere e dalla maggior parte della gente di colore; “ma che ci vuoi andare a fare in quei quartieri?”, mi diranno. Inoltremi farò dare qualche dritta utile sui posti interessanti e poco famosi da visitare in Sud Africa. E’ sempre piacevole incontrare altri viaggiatori, ci si scambiaesperienze, consigli ed info utili; e comunque tanto di cappello a chi affronta viaggi così lunghi… specie in moto.

Siamo di nuovo in macchina, stavolta diretti verso l’attrazione più famosa del paese: il rosso deserto Namib. Trascorriamo un paio d’ore a zonzo nella vicina Walvis Bay, dove oltre alle grandi saline ammiriamo una laguna piena zeppa di fenicotteri ed uccelli vari; l’acqua si incrocia con il bianco del sale e a tratti diventa rossiccia… Di strada breve pausa a Duna 7, famosa tra i giovani del posto che vengono qui a sciare e snowboardare sulla sabbia oppure a sfrecciare con i quad;ma anche le famiglie usano le vicine palme come aree per semplici pic nic. Ormai siamo di nuovo su percorsi sterrati ed i paesaggi sono sempre mozzafiato: pranziamo su una collina completamente soli e con vista panoramica eccellente, orizzonti lontanissimi, distanze enormi, ci fermiamo nei pressi di un canyon, attraversiamo i passi e raramente incrociamo altre auto; i pochi turisti incontrati si muovono quasi tutti con macchine simili alla nostra: è assai comunein Namibia viaggiare con un fuoristrada completamente autonomo, con fornellino, frigo e tenda apribile sul tettuccio dell’auto stessa.

Intorno alle 5 del pomeriggio passiamo la linea del Tropico del Capricorno, ci fermiamo per la foto di rito e poco prima del tramonto eccoci giungere giusto in tempo ai cancelli di Sossusvlei, che chiuderanno qualche minuto dopo. La reception dell’unico campsite all’interno del parco è già chiusa, ma occupiamo comunque una piazzola con la promessa di pagare il giorno successivo; anche in questo caso ci avevano fortemente consigliato di prenotare con largo anticipo, ma in Africa a quanto paretutto è flessibile e fattibile. La giornata è andata a gonfie vele enon abbiamo forato nessun pneumatico.

Sossusvlei è una zona di dune rosse, alcune raggiungono anche i 300 metri d’altezza, uno spettacolo della natura, ma come tutte le cose belle bisogna sudarsele per goderle fino in fondo e allora ci attende l’ennesima alzataccia impossibile: partiamo presto dal camp che è ancora buio e raggiungiamo la Duna 45 (chiamata così perché sta a 45 chilometri dall’entrata del parco) giusto in tempo per ammirare l’alba, la scaliamo fino in cima e lentamente il deserto rosso si illumina sotto i nostri occhi. Ci sono tanti altri turisti, d’altronde questa è l’attrazione numero 1 del paese, ma riusciamo comunque a goderci lo spettacolo, davvero imponente. Ritorniamo in macchina e proseguiamo verso l’ultimo parcheggio nei pressi del più famoso pan Sossusvlei, 20 km più in là: stavolta la duna è più alta e impieghiamo più tempo a scalarla, ma veniamo nuovamente ripagati da un contesto meraviglioso. Ci sediamo sulla sabbia e stiamo lì ad osservare, le foto si sprecano, intorno a noi le dune e i tipici alberi secchi di questa zona, che sono i miei preferiti da fotografare. Spettacolo! Sulla strada del ritorno io mi concederò una breve passeggiata nel canyon Sesriem e poco dopo mezzogiorno saremo di nuovo fuori dal parco.

Attraversiamo l’ultimo passo del nostro viaggio in Namibia, ancora una volta stupendo, dal nome impronunciabile Spreetshoogte; di strada verso Windhoek perderò un paio di volte il controllo della macchina (in un caso c’era anche un bel vuoto sulla mia destra), queste strade africane giocano brutti scherzi. Si ritorna sull’asfalto, controllo veloce di polizia ad un posto di blocco e dopo 11 giorni e 3700 chilometri percorsi, facciamo ritorno nella capitale. L’ostello usato in precedenza è tutto pieno, quindi siamo costretti a rimediare con un altro posto più spartano dove dormiremo ancorauna volta nella nostra amata tenda.

A Windhoek facciamo un salto da Joe’s, leggendario ristorante/birreria dove si possono assaggiare le più svariate carni: zebra, coccodrillo, kudu, struzzo eccetera: a quanto pare provengono dagli allevamenti, quindi è un’attività sostenibile, ma i nostri tempi sono ristretti, perciò niente cena da Joe. Un bel lavaggio alla nostra Toyota ed il giorno seguente, prima di riconsegnare l’auto, andiamo alla ricerca dei sostegni in ferro per la tenda, che io avevo dimenticato in un alloggio nei primi giorni; non sarà difficile trovarli, basterà diventare amico di uno dei tanti operai che lavorano per le numerose agenzie di autonoleggio della città.

Riconsegniamo il fuoristrada, con qualche piccola ammaccatura, ma il nostro caro “Hitler” ci accoglie in modo gentile stavolta e non farà nessuna storia. A casa ci sono anche i parenti venuti dal Sudafrica. Ne nasce una bella chiacchierata, ci danno qualche consiglio utile e per l’ennesima volta si ricomincia con le discussioni sul razzismo, parliamo veramente tanto, ma anche la posizione di questi sudafricani bianchi non cambia: non si va nelle township per nessun motivo, bianchi e neri sempre separati, addirittura mi dicono che l’apartheid per un certo verso era giusta. “C’è stata una rivalsa dei neri quando Mandela è salito al potere una ventina di anni fa e molti di loro si sono ritrovati a ricoprire ruoli istituzionali importanti senza avere idea e capacità di come gestirli. Da quando è finita l’apartheid il Sudafrica è un paese molto meno sicuro, c’è troppa libertà e accadono ben 50 omicidi al giorno. Bianchi e neri lavorano fianco a fianco, ma conducono comunque vite separate. Voi in Europa non potete capire!”. In effetti oggi il Sudafrica pare sia molto pericoloso ed iomi sono rassegnato all’idea che la maggioranza dei bianchi non sopportano i neri. Anche questa è Africa!

La Namibia si è rivelata una piacevole sorpresa all’interno del nostro viaggio, essere autonomi ci ha permesso di ottimizzare i tempi e raggiungere dei posti altrimenti impossibili. Come il Botswana, è una nazione abbastanza sicura, organizzata e scarsamente abitata; i paesaggi sono incredibili. Ma ora siamo già alla ricerca di un’altra auto a noleggio, di quelle economiche stavolta, per poter raggiungere Città del Capo che dista 1500 chilometri. Giriamo alcune agenzie, facciamo ricerche on line, ma non riusciremo a trovare nessuna opzioneconveniente che venga incontro alle nostre esigenze ed in serata stessa siamo a bordo di un comodo autobus gran turismo che impiegherà quasi 20 ore per portarci a destinazione. Peccato però che utilizzando il trasporto pubblico, non avremo la possibilità di fermarci a metà strada per visitare il famoso Fish River Canyon, che a detta di tutti è un posto fantastico.

Passiamo la frontiera con il Sudafrica in piena notte, ma accade un fatto abbastanza strano e per noi problematico: a settembre, quando siamo atterrati a Johannesburg, avevamo realizzato che ripartire oltre i 90 giorni consentiti dal visto turistico avrebbe potuto crearci qualche problema. Non gli abbiamo dato molta importanza però, in quanto avremmo viaggiato per oltre 2 mesi fuori dai confini sudafricani. E bene si, nel momento in cui ci timbrano i passaporti, prolungano il mio visto di altri 90 giorni, ma non lo rinnovano ad Alba. Io chiedo spiegazioni al funzionario di turno, visto che tutti e due abbiamo fatto esattamente lo stesso viaggio, ma la sua collega mi aveva riconosciuto un visto differente; purtroppo l’ufficialenon ne ha voluto sapere un bel niente ed in modo molto rude ci ha detto: “questo non è un problema mio, lei ha già un visto sudafricano ancora valido sul passaporto ed io non ne posso emettere un altro”. Entriamo in Sudafrica con un gran bel grattacapo da risolvere, teoricamente Alba dovrebbe lasciare il paese una settimana prima del previsto volo di ritorno.

Parte 22, Sudafrica, il Capo Occidentale

Arriviamo nella mitica Città del Capo e facciamo una ricerca accurata per trovare l’alloggio che più si addice a noi, vogliamo fermarci diversi giorni e stavolta rilassarci sul serio: dopo oltre 2 mesi siamo ritornati in Sudafrica e adesso dovremmo davvero aver finito con le avventure estreme,niente più sveglie quando è ancora buio. Alla fine resteremo per 6 giorni, divisi tra 2 alloggi tranquilli (il primo era disponibile solo per 3 notti), con discrete areecomuni per la cucina e situati nella centralissima e movimentata Long Street.

Cape Town si presenta immediatamente come la città più bella vista in questo viaggio… d’altronde non ha avuto molte concorrenti valide in materia di agglomerato urbano! Mi ricorda vagamente Rio de Janeiro: è costruita tra le montagne e l’oceano. Ci dedichiamo al cazzeggio più totale: le passeggiate nei quartieri, la zona turistica del Waterfront con le varie attrazioni ed i centri commerciali, lo stadio nuovissimo utilizzato per i mondiali di calcio appena terminati, le coloratissime facciate delle case di Bo-Kaap, il centro, i parchi e le visite ai musei (finalmente interessanti). Ci concediamo qualche mangiata nei ristoranti internazionali ed anche un po’ di vita notturna in stile occidentale, che non facevamo da mesi ormai (ma non troppo, visto che le nostre palpebre restano abituate a chiudersi abbastanza presto). Finalmente ci sentiamo in vacanza!

Tra le cose più interessanti una mattinaho affittato una bicicletta e percorso in solitaria diversi chilometri lungo le spiagge atlantiche, i quartieri più in e le alture vicine, fino a tardo pomeriggio. Un altro giorno siamo saliti con la funivia in cima alla famosa Table Mountain (che è anche parco nazionale), da dove si vede un panorama sulla città a dir poco fenomenale; la discesa l’abbiamo effettuata a piedi attraverso un sentiero. Ma l’escursione più bella probabilmente è statala visita di Robben Island, il carcere dove Nelson Mandela ha trascorso 18 dei suoi 27 anni di prigionia: il tour è stato un po’ troppo organizzato e affollato per i miei gusti, ma la famosa isola è un posto che dovevo vedere a tutti i costi, l’autobiografia di Mandela è stata il primo libro che io abbia mai letto (…non ne ho letti molti). Gli ex prigionieri ci hanno fatto da guida e raccontato storie interessanti di ciò che accadeva quando Robben Island era ancora una prigione; e naturalmente abbiamo visto la minuscola cella di Nelson e il cortile comune dove trascorreva le poche ore libere insieme agli altri compagni..

Città del Capo è stata dunque una bella parentesi, abbiamo trovato una città occidentale con la mentalità molto aperta, addirittura ho avuto modo di chiacchierare con il primo sudafricano bianco non razzista (anche se era di Johannesburg), un giovane che dormiva nella camera affianco alla nostra e che ha ammesso che la forte fobia dei sudafricani bianchi nei confronti dei neri è solo paranoia; e alla mia domanda se sia fattibile che noi andassimo a visitare una township da soli una volta giunti a Johannesburg, lui mi ha risposto di si. Ed ora abbiamo un motivo in più per maturare anche questa folle idea.

Durante la permanenza a Cape Town, andremo a far visita al ministero che si occupa dei passaporti per cercare di risolvere il problema del visto di Alba; ma ci hanno chiesto soldi extra per rinnovare il timbro e allora abbiamo deciso che questo problema diventerà un’ottima scusa per visitare anche il vicino Lesotho oppure lo Swaziland. In verità ne avevamo già una mezza intenzione:l’importante sarà di uscire dai confini sudafricani prima che il visto scada e rientrare a visto scaduto, così da non rischiare di incappare di nuovo nel funzionario stronzo di turno.

Il penultimo giorno prendiamo in affitto un’auto economica fino alla fine del viaggio, per soli 20 €uro al giorno, ma si sa che all’inizio dei nostri noleggi non siamo mai fortunati e, dopo un giretto panoramico su una vicina collina, ecco arrivare l’incidente ad un incrocio. Per fortuna l’altra macchina ha subìto un danno lieve, tanto che il proprietario dice di non preoccuparci; ci scambiamo comunque i contatti eall’indomani denunciamo alla polizia la rottura del muso della nostra Chevrolet che cambiamo in aeroporto con una Fiat Punto nuova. Trascorriamo quindi la giornata guidando tutt’intorno la penisola del Capo: attraversiamo le varie spiagge, tra le quali Boulders Beach, dove c’è una grande colonia di pinguini, e raggiungiamo il famosissimo Capo di Buona Speranza a Cape Point, dove non rinunciamo alla classica foto; in serata percorriamo una bella strada panoramica e concludiamo con una cena di pesce in uno storico ristorante di Hout Bay.

Lasciamo Città del Capo diretti verso est, abbiamo appuntamento con un ragazzo conosciuto alle Cascate Vittoria, il quale c’incontra davanti ad un fast food per darci una copia del dvd del rafting fatto al fiume Zambezi. Proseguiamo quindi verso Stellenbosch, piccola città universitaria molto signorile e pulita, dove ci fermiamo per un pranzo take away al supermercato; ce ne stiamo in giro a passeggio, incrociamo un paio di italiani che studiano da queste parti e dopo un po’ d’indecisione decidiamo di non fermarci qui per la notte, nonostante qualche ora prima avevamo ispezionato un bel bed & breakfast. Perciò ritorniamo in strada, siamo nella regione dei vini,dappertutto ci sono vigne e distillerie: allora visitiamo uno stabilimento dove Alba acquisterà qualche bottiglia da portare a casa. Proseguiamo quindi lungo la bella costa fino a raggiungere la città di Hermanus, considerata il migliore posto al mondo per osservare le balene da terra; solo in alcuni periodi dell’anno però, infatti noi non ne avvisteremo. In compenso ci godiamo un paio di passeggiate sul lungomare ben attrezzato di questa piacevole cittadina.

La mattina seguente siamo di nuovo in macchina, pausa a Gansbaai, resa famosa dai numerosi operatori che da qui organizzano le immersioni all’interno di gabbie per vedere gli squali, e si prosegue verso Capo Agulhas, meglio conosciuto come il punto più meridionale del continente africano: infatti, benché il Capo di Buona Speranza sia più famoso, Agulhas è il punto più a sud, dove gli oceani Indiano e Pacifico s’incrociano; c’è un vecchio faro, un pezzo di nave spiaggiata chissà quanto tempo fa e una targa che ricorda il punto geografico in cui ci troviamo. Fa anche freddino direi e presto ci rimettiamo in cammino verso Swellendam, dove pernottiamo in una stanzetta tutta in legno e circondata da un bel giardino. Capitiamo nel periodo della raccolta dei frutti di bosco: sono venduti dappertutto e andiamo a visitare una delle tante campagnedove i turisti possono raccoglierli pagando una piccola quota.

In Sudafrica si viaggia in completa scioltezza, ci sono città e servizi dappertutto ed i paesaggi mi ricordano vagamente l’Australia; l’offerta di alloggi è vasta, è pieno di bed & breakfast spesso molto puliti e carini. Ormai c’è poco da raccontare, le avventure estreme vissute recentemente in giro per l’Africa sembrano terminate ed i pericoli spesso citati dai sudafricani bianchi per ora non li abbiamo incontrati; la maggior parte delle città sono circondate da enormi periferie di baracche e quartieri poveri chiamate township, ma finora oltre ai parcheggiatori abusivi onnipresenti, non abbiamo avuto nessun problema degno di nota. Intanto il tizio con cui abbiamo avuto l’incidente qualche giorno fa mi sta tartassando di messaggi: dà proprio l’impressione di essersi svegliato in ritardo accorgendosi che il danno alla sua auto non è più cosa da niente, ma è diventato grave. Non sarà mica che amici e parenti gli abbiano consigliato di approfittare del turista bianco di turno per guadagnare qualche rand facile? Io prendo atto della cosa e lo metto in attesa perenne.

Attraversiamo in due giorni la famosa Garden Route: iniziamo da Mossel Bay, che in un passato molto lontano ha conosciuto turisti del calibro di Bartolomeo Dias e Vasco de Gama, ma non ci entusiasma molto. Piccolo detour a Wilderness, completamente immersa nella foresta, e notte in un bed & breakfast carino a conduzione familiare di Knysna, ma solo dopo aver fatto un giretto nella tranquilla Buffalo Bay, con le sue spiagge isolate ed enormi. Il tempo non è dalla nostra parte, fa freddo, piove il primo giorno e piove forte il secondo, tanto che non riesco neanche ad ammirare il panorama sulla laguna di Knysna da un’areain cima alla collina (Alba neanche scenderà dall’auto). Siamo nella zona delle ostriche e la maggior parte dei ristoranti e non le vendono condite in tutte le maniere.

L’ultima tappa la facciamo a Plattenberg Bay, dove dormiamo in un ostello, un’intera camerata tutta a nostra disposizione e letti pulitissimi:il cattivo tempo non molla e passiamo la serata chiusi nel bar della struttura stessa, dove ho modo di chiacchierare con una famiglia di sudafricani, bianchi naturalmente; l’argomento di cui si parla e voglio conoscere le loro opinioni in merito è sempre lo stesso: razzismo, apartheid, devo o non devo andare a visitare una township? Allora un signore di una certa età mi spiega che è proprio un fatto culturale: “i neri ed i bianchi di questo paese sono sempre cresciuti separati, quindi hanno interessi diversi e la pensano in modo diverso; ora che l’apartheid non c’è più, quando si entra in un locale dove gruppi di bianchi e neri provano a mescolarsi, ad un certo punto in automatico si dividono, non è razzismo, ma una vera differenza culturale. E’ un processo attraverso il quale dobbiamo andare, probabilmente dopo alcune generazioni si assisterà ad un’uguaglianza delle razze reale e non solo ufficiale”. Devo dire che quanto meno il tipo mi è sembrato un po’ più saggio degli altri conosciuti finora ed ammette che l’apartheid era una cosa assolutamente sbagliata e orribile.

Parte 23, Sulle tracce di Nelson Mandela

Lasciamo la Garden Route, non ci ha entusiasmato troppo, sembra più una grande macchina del turismo che una destinazione interessante, ma probabilmente la pioggia ha anche fatto la sua parte. Tra le attrazioni popolari non troppo distanti c’era anche Oudtshoorn, capitale mondiale dello struzzo, dove organizzano spettacoli e si possono addirittura cavalcare questi grandi animali; ma non ci siamo andati, abbiamo avuto l’impressione che si tratti dell’ennesima trappola per turisti. Siamo in strada, sempre direzione est, ci fermiamo nei pressi del ponte Bloukrans, da dove si pratica il più alto bungy jump al mondo: ce ne stiamo lì a guardare gli altri che saltano nel vuoto, da oltre 200 metri d’altezza e tra la nebbia; è molto impressionante, ma io questa volta non mi sentirò troppo inspirato a provare. Nel pomeriggio sosta a Jeffreys Bay, una bella spiaggia; ogni volta siamo indecisi se fermarci a dormire in un posto oppure proseguire, i chilometri da percorrere fino a Johannesburg sono ancora tantissimi. Qui ci sono solo bianchi in giro e dagli altoparlanti dei bar viene fuori un’orrenda musica afrikaans; e allora lasciamo questo posto da surfisti e di nuovo in macchina fino a Port Elizabeth. L’indecisione sul fermarsi oppure no regna, non siamo molto interessati alle grandi città, ma le prove su un palco per lo spettacolo di apertura della stagione estiva che si svolgerà tra qualche ora ci convincono a passare la notte qui. La stanza che troviamo non sarà ricordata per la sua bellezza, ma in compenso trascorriamo una serata piacevolissima e inaspettata tra concerto, lungomare, casinò, cena a base di schifezze nei vari chioschetti e fuochi d’artificio; a Port Elizabeth finalmente si vedono bianchi e neri insieme, un po’ come a Città del Capo.

Non visiteremo il vicino parco nazionale Addo Elephant, abbiamo ancora la pancia piena dei numerosi safari fatti il mese scorso; ci aspetta invece un viaggio molto lungo, destinazione la Wild Coast. La via per uscire dalla città passa nei pressi di un altro stadio utilizzato per i recenti mondiali di calcio e seguendo la solita strada N2 entriamo in quelle che una volta erano le terre del Ciskei. Ora si vedono solo persone di colore in giro e durante una fermata in una cittadina per cercare qualcosa da mangiare notiamo un interessante segnale stradale che vieta l’uso delle pistole. Anche questa è Africa! Proseguiamo verso il Transkei, siamo nella terra degli Xhosa, si dice siano la gente più amichevole del Sudafrica, da queste parti è nato il grande Nelson Mandela. Ci sono tante persone lungo la strada che fanno l’autostop e noi diamo il passaggio ad una signora: lavora in un negozio, proprio vicino al villaggio dov’è cresciuto Mandela, ed ogni giorno fa la strada avanti e dietro in bus oppure come capita. Quando passiamo davanti alla mega casa dove Mandela vive oggi, lei ce la indica ed io memorizzo il tutto con l’intenzione seria di ritornarci per portare i miei saluti. La signora in questione è anche lei una xhosa e quando parla emette uno strano click con la lingua sotto il palato: è un tipico suono emesso dalle lingue Bantu e Khoisan nel pronunciare alcune lettere. Anche in certe zone del Botswana e della Namibia avevamo sentito diverse persone parlare così ed io, a furia di praticare, ho quasi iniziato a pronunciare le parole in modo corretto; fa troppo ridere, mentre parla fa schioccare continuamente la lingua. Lasciamo dunque la signora in questione a Mthatha e lei ci offre i soldi per il passaggio, in Africa si fa così; noi naturalmente non accettiamo, ma apprezziamo enormemente il gesto, finalmente qualcuno non ha dato per scontato che dal bianco al nero tutto sia dovuto.

E’ ormai buio quando arriviamo al mare di Port St. Johns, abbiamo percorso centinaia e centinaia di chilometri in una sola giornata ed incontriamo non poche difficoltà per trovare un posto dove dormire. Ci toccherà accettare una sistemazione molto spartana, una stanza che più semplice non si può, in un appartamento gestito da un tizio con il cervello a dir poco scoppiato… In casa con noi una coppia in vacanza con i figli piccoli, lui sudafricano, lei norvegese, anch’essi sempre a rullare: ci sconsigliano categoricamente di andare alla festa che vediamo nella spiaggia di fronte, in quanto sono tutti neri e da ubriachi diventerebbero pericolosi. Io la tentazione ce l’avrei pure, ma la zona è così buia e selvaggia… e poi detto da un sudafricanomeglio accettarlo il consiglio. Chiedo ai due un parere sul visto di Alba che scade tra qualche giorno e loro mi dicono di non preoccuparci: c’è un sacco di gente che esce dal paese oltre i 90 giorni concessi, al massimo metteranno un timbro sul passaporto che le vieterà di ritornare in Sudafrica in futuro (con quello stesso passaporto naturalmente, faccio fatica a pensare che da queste parti i computer del governo funzionino in rete come dovrebbero). Le loro idee sonocomunque molto discordanti e poco affidabili;addirittura un loro amico, anch’egli totalmente di sotto, sostiene che non rinnoveranno il visto neanche passando la frontiera con il Lesotho. Vedremo.

Port St. Johns è un posto molto particolare, completamente immerso dalla giungla, sembra di stare in Giamaica, finalmente qualcosa di più interessante rispetto alla Garden Route: in spiaggia ci sono addirittura le mucche che se ne stanno tranquille tra i bagnanti ed è pieno di sentieri che attraverso la foresta collegano i vicini villaggi; pare che la località sia stata spesso scelta da troupe cinematografiche per girare i film. Ci rilassiamo, facciamo il bagno a turno, ma senza allontanarci troppo:questa è zona di squali ed ogni anno qualche surfista ci lascia la pelle. Facciamo un giro per gli altri ostelli della zona e per la notte cambiamo posto e dormiamo in una graziosa capanna in legno.

E’ arrivato il momento di andare a scoprire i luoghi di Nelson Mandela: ripercorriamo la strada a ritroso tra le tipiche casette coloratedella terra dei Pondo in cui ci troviamo e giunti a Mthatha visitiamo il museo a lui dedicato che ripercorre con video, foto e documenti tutta la sua vita; l’esposizione però è la stessa che abbiamo visto già a Città del Capo. Andiamo quindi a Qunu, il villaggio dove Madiba (questo è il nome da clan di Mandela) ha trascorso l’infanzia: anche qui un altro museo a lui dedicato, grande la struttura, però non molto interessante il contenuto; mi piacerebbe incontrare qualcuno che lo abbia conosciuto di persona, ma giustamente mi spiegano che Nelson è vissuto qui da bambino ed ora è talmente anziano che tutta la gente che lo ha circondato è morta ormai. E allora con la faccia di bronzo ci presentiamo direttamente a casa sua, qualche chilometro più avanti: suono tranquillamente al citofono (così come avevo fatto a Los Angeles a casa di Michael Jackson qualche anno fa), le sue guardie restano un attimo rigide, ma ad un certo punto aprono il cancello della villa e mi fanno entrare nella loro postazione; ci sono agenti e schermi che monitorano l’intera zona ed io mi illudo che forse ce la farò. A quanto dicono, Nelson Mandela è pure in casa, io chiedo di lasciarmi entrare e loro si mettono a ridere; intanto una ragazzina sfreccia con un quad (è una delle sue tante nipoti, mi dicono), io insisto con le mie richieste e chiedo di fargli sapere almeno che c’è qualcuno venuto fin dall’Italia per stringergli la mano. Non ci sono speranze, quest’incontro nun s’a da fa; mi sa che ho aspirato troppo in alto questa volta.

Le stesse guardie mi danno le indicazioni stradali per raggiungere il villaggio thembu di Mqekezweni, un po’ fuori mano, ma essendo il luogo dove Madiba si è trasferito da ragazzino, forse lì qualcuno che ci ha giocato insieme magari lo troviamo? Ci toccherà ricominciare con le avventure, alla ricerca di un villaggio sperduto in quest’angolo d’Africa, ma sostenuti dal fatto che al museo di Qunu mi avevano assicurato che lì vive ancora la vedova di Justice, il famoso cugino di Nelson (che per i gradi di parentela africani è un fratello) morto già da qualche anno. E allora ecco rimetterci di nuovo sulle strade sterrate, questa volta con una utilitaria però. Alba non ha molta pazienza di esplorare, ma io mi sento più testardo che mai e dopo qualche errore ed informazioni poco precise che ci sono state date, eccoci giungere nel luogo esatto descritto dall’autobiografia di Nelson Mandela. I due alberi della gomma sono ancora là, un giovane vestito piuttosto bene ci accoglie e ci fa entrare in una casa: all’interno del salone sono sedute diverse persone piuttosto avanti con l’età e ci sono tante foto appese al muro. Il ragazzo mi chiede di provare a riconoscere questa o quella foto e ci presenta una signora anziana del gruppo che è proprio la vedova di Justice. Sono piacevolmente sorpreso, ne è valsa proprio la pena di venire fin qui, restiamo ancora un po’, chiacchieriamo, ringraziamo e continuiamo la passeggiata nel cortile e alla capanna occupata da Nelson per diversi anni: è ancora lì, piccolissima, ma intatta (pare per volontà sua), all’interno completamente vuota. Ci viene detto che la bella casa appena visitata è stata donata da Mandela non appena divenne presidente del Sudafrica. Il ragazzo che ci fa da guida dice di essere nipote di Justice e quindi anche di Nelson; mi lascia anche il suo biglietto da visita, fa il direttore artistico di un teatro nella capitale Pretoria. Ci lasciamo con la promessa di avvisarlo in anticipo la prossima volta che torniamo in Sudafrica, così lui avrà tutto il tempo di organizzare un incontro con Nelson Mandela in persona. Non ci crediamo tantissimo, ma oggi è stato un giorno decisamente positivo, finalmente una bella spinta alla parte finale del nostro viaggio che stava diventando un po’ noioso.

Parte 24, Un viaggio avventuroso verso il Lesotho

E la giornata non è finita qui: oggi mi sento talmente inspirato che nel pomeriggio decido di seguire una via panoramica poco segnalata, e non asfaltata, per raggiungere Rhodes e il giorno seguente entrare in Lesotho. Come punto di riferimento abbiamo la vecchia cara direzione del sole, ma non sarà sufficiente e ci perdiamo comunque tra le montagne. Le condizioni della strada diventano sempre peggio e sono quasi necessarie le 4 ruote motrici (che stavolta non abbiamo). Diventa buio, la benzina inizia a scarseggiare e non si può più tornare indietro: siamo quasi sicuri di esserci persi, ma allo stesso tempo ho buone speranze che la strada che stiamo percorrendo esca in un’altra città segnata sulla mappa. Non s’incontra anima viva, ci sono zone difficilissime da oltrepassare con una macchina normale e Alba ormai se la prende solo con me. Inizia pure a piovigginare, ogni tanto incrociamoalcuni animali d’allevamento, c’è qualche costruzione che pare abbandonata, ma niente persone e niente luci; sembra di essere in un film horror e iniziamo a cagarci addosso, quando finalmente avvistiamo una vecchia costruzione dalla quale finestra s’intravede una luce emessa da una candela. Ci fermiamo per chiedere aiuto oppure no? Avremmo bisogno almeno di capire dove ci troviamo, ma il posto non sembra dei più affidabili, è notte e siamo soli nel bel mezzo delle montagne sudafricane, quindi proseguiamo dritti. Dopo qualche minuto ecco spuntare una luce da un’altra casa (allora la speranza di essere non troppo lontani da un centro abitato si fa forte). Al nostro passaggio davanti all’abitazione si accende una luce ancora più forte, il che significa che ci hanno visto. Proviamo a scrutare e vediamo un po’ di gente, incluso dei ragazzini: allora ci facciamo coraggio, pensiamo che una famiglia non può essere pericolosa, quindi entro con l’auto attraverso il cancello fino a raggiungere il gruppo di persone che sostano davanti casa: ci guardano tutti in modo strano e diffidente, come dire “ma che ci fanno sti due nel bel mezzo del niente di notte?” Io apro lo sportello della macchina e le prime parole da me pronunciate sono: “buona sera, credo che ci siamo persi”. E loro scoppiano in una gran risata. Ci spiegano dove ci troviamo, siamo a pochi chilometri dalla strada asfaltata ed in direzione di Barkly East, proprio la cittadina dove pensavamo di essere diretti;un bel sospiro di sollievo. Ci rassicurano che una volta arrivati lì troveremo facilmente un posto per dormire, ma insistono per entrare in casa ed offrirci qualcosa da bere. Ci prendono a simpatia e alla fine ci offrono la stanza degli ospiti per rimanere la notte: pagando naturalmente, saranno pure una famiglia bianca, ma qui non si fa niente per niente, neppure da bianco a bianco. L’atmosfera familiare m’inspira non poco, ad Alba un po’ meno, ma è veramente tardi e dopo qualche tentennamento decidiamo che è meglio rimanere. Ci aspetta una nottataalternativa, a casa di una famiglia afrikaans incontrata per caso tra gli altipiani sperduti del Capo Orientale. Spettacolo!

E’ pronta la cena e noi ospiti siamo stati invitati a mangiare una bella lasagna pesante. Al tavolo siamo tante persone, ben 3 famiglie più noi, e la loro curiosità li spinge a chiederci di tutto di più: restano abbastanza sbalorditi dai racconti del nostro viaggio, sicuramente in Sudafrica abbiamo visto più luoghinoi rispetto a loro che ci vivono; per non parlare del resto del continente. Ci conosciamo per bene e passiamo veramente una bella serata. A quanto pare nella casa illuminata dalla candela, che avevamo incrociato a qualche minuto da qui, non abita nessun killer pericoloso, ma solo una pittrice che ha deciso di vivere in mezzo alla natura; la strada che abbiamo percorso è molto pericolosa e bastava un poco di pioggia in più per rimanere bloccati o perdere il controllo del veicolo. Tra i familiari c’è un’infermiera che svolge servizio a domicilio: ci racconta dei numerosi malati di Aids che cura quotidianamente e di come tanti ancora muoiono per il solo fatto di non essere costanti e precisi con le cure, che sono gratuite e oggi finalmente garantirebbero una vita stabile. Lei dice che la diffusione dell’Aids in Sudafrica è esagerata, la gente di colore fa sesso facile: c’è il partner, l’amante, l’amica, la persona che s’incontra durante una trasferta di lavoro eccetera. Naturalmente ci vengono date le solite indicazioni sulle zone abitate dai neri da evitare assolutamente e i nostri amici restano scioccati dalla mia intenzione di andare a dormire in una township una volta giunti a Johannesburg. E allora io gli chiedo: “ma qualcuno di voi ha mai avuto esperienze negative con gente di colore, tipo scippi, rapine, furti etc.”? Tutti mi rispondono di no, ma che sui giornali si leggono tante notizie preoccupanti a riguardo. Mi convinco ancora di più che in tutto questo ci sia una forte dose di paranoia.

La mattina seguente la signora di casa ci offre la colazione, intorno all’abitazione ci sono animali e coltivazioni di tutti i tipi, è una famiglia quasi completamente autosufficiente. Prima di andare via faccio una foto alla mega collezione di cappelli da baseball del marito, saluti e baci, paghiamo e ci scortano per qualche chilometro sulla via sempre più fangosa che raggiunge finalmente la strada asfaltata. E’ stata un’esperienza da ricordare. Questa è Africa!

Attraversiamo Barkly East, facciamo benzina che il serbatoio è quasi vuoto e in tarda mattinata giungiamo alla frontiera con il Lesotho (una piccola ed insignificante postazione), esattamente un giorno prima della scadenza del visto di Alba. Entriamo nel piccolo stato situato tra le montagne e completamente circondato dai confini sudafricani; il Lesotho ha lo strano record di essere lanazionecon il più alto punto più basso al mondo: un gioco di parole abbastanza contorto, ma insomma è l’unico paese interamente situato sopra i 1000 metri di altitudine, addirittura non scende mai sotto i 1400. La gente basotho si dice sia amichevole e gentile, in quanto non ha mai vissuto l’apartheid del vicino Sud Africa; sono un popolo tra i più poveri al mondo, ma molto orgoglioso e lo si capisce dall’incredibile storia che hanno. In Lesotho piove spesso e naturalmente piove anche quando lo visitiamo noi: sono presentigrandi dighe, opere d’ingegneria di un certo livello che forniscono acqua al vicino Sud Africa per milioni di metri cubi all’anno; ma ironicamente molte persone che vivono nei bassipiani non ne hanno accesso facilmente.

Ci fermiamo per pranzo a Quthing, siamo alla ricercadella zona dove sono state ritrovate alcune impronte di dinosauro vecchie 180 milioni di anni, però nessuno sembra sapere dove siano. Al capolinea dei minibus troviamo finalmente qualcuno che conosce il responsabile dell’area archeologica, lo chiama ed ecco una giovane guida entrare nella nostra macchina per portarci allo pseudo sito archeologico che aprirà appositamente per noi: non vediamo niente di eccezionale e non so neanche se credere che quelle davanti a noi siano davvero le impronte del grande dinosauro. La parte più divertente però è proprio la guida, un simpaticone che ogni tanto ride a squarciagola e senza motivo, ma non sa spiegarci praticamente niente di ciò che stiamo vedendo. Una visita veloce che non sa di niente insomma, ma proprio per questo ci sentiamo di nuovo in Africa! Facciamo una breve sosta in un’intrigante casa museo costruita dentro una roccia da un reverendo europeonel 1800 e attraverso le sceniche stradine e i passi montani giungiamo in serata a Malealea, dove dormiremo nell’omonimo alloggio.

Malealea è un villaggio del Lesotho dove sembra di essere tornati indietro nel tempo… ma di molto! I proprietari dell’unico e ben tenuto lodge hanno avuto la geniale idea di organizzarsi con la comunità locale basotho, così ogni giorno i turisti possono godersi la vicina cascata, camminare per gli altipiani, visitare le vecchie grotte dipinte dai San, ma soprattutto effettuare le tipiche escursioni in pony. Noi per poco non riusciamo ad organizzarci direttamente con i proprietari dei piccoli cavalli (attraverso il lodge proprio non ci vogliamo andare), ma in compenso esploriamo la zona prima in macchina e poi a piedi, tra le montagne e attraversando il fiume. Conosciamo delle ragazzine locali che ci danno indicazioni sul percorso da seguire e ci invitano alle prove pomeridiane di uno spettacolo, alle quali proprio non vogliamo rinunciare: che dire, il minimo indispensabile, tutto si svolge in strada; alcuni giovani eseguono dei semplici passimolto svogliatamente, un ragazzo tiene il tempo suonando la batteria su un bidone rovesciato ed un signore accompagna il tutto con una vecchia fisarmonica. Assolutamente povero, minimalista e creato dal niente più assoluto, la situazione è talmente malinconica che sembra quasi un triste saluto che l’Africa ci sta rivolgendo per la vicina fine del nostro viaggio. Decidiamo allora che i destinatari dei nostri indumentiquest’anno saranno loro e per noi terremo giusto qualcosa da indossare per gli ultimi giorni della nostra avventura.

Salutiamo i nostri amici e ci dirigiamo verso Maseru, la capitale del paese, doveappena arrivati ci ripariamo in un centro commerciale a causa di un forte temporale. Solo in tarda serata, e con non poca fatica, troviamo un posto per dormire e cucinare, accolti da una strana guardia coperta con una specie di mantello. La mattina seguente continuiamo verso il confine nord del paese ed, esattamente un giorno dopo la scadenza del visto sudafricano sul passaporto di Alba, eccoci entrare di nuovo nel paese arcobaleno con un bel timbro nuovo (nonostante il funzionario in frontiera abbia fatto qualche domanda di troppo, concedendo soltanto una decina di giorni, in concomitanza con il nostro volo di rientro).

Parte 25, KwaZulu-Natal e Swaziland

La gente basotho ci è piaciuta, sembrano persone buone, genuine e semplici: a Maseru ero quasi riuscito a convincere la guardia di un residencea darci le chiavi di una stanza pagando direttamente lui (la reception per fare il check-in era già chiusa) ementreci organizzavamo su come entrare senza dare troppo all’occhio, lui mi ha detto a bassa voce e in modo molto sempliciotto, ingenuo e convinto: “ssshhh, non gridare, questo è un segreto! Tornate più tardi e vi faccio entrare”.Troppo forte; per nostra fortuna (ma anche sua che non ha rischiato il posto di lavoro) successivamente abbiamo trovatoun bed & breakfast da un’altra parte. E alla frontiera in uscita dal paese invece, il funzionario giovane di turno, non sapendo cosa scrivere sul libro delle uscite, mi ha chiesto, tenendo il passaporto in mano: “qual è la nazione, Unione Europea o Repubblica Italiana?” In Lesothosembra che vivono fuori dal mondo.

La prossima destinazione si chiama KwaZulu-Natal, sarà un altro lungo tragitto: pausa pranzo a Clarens, una piacevole cittadinadel Free State, situata tra le montagne, con i suoi localini e le gallerie d’arte; e dritti verso la costa, viaggiando attraverso un parco nazionale e vicinola catena montuosa del Drakensberg. Durban è la terza città del Sudafrica ed ha una forte influenza indiana (anche Gandhi stesso ha vissuto qui), quindi non ci faremo mancare la cena in un ristorante tipico del sub-continente. Il centro città è molto affollato da mercati e venditori, ma Durban è anche piuttosto prospettata nel futuro, con costruzioni nuove, un parco acquatico, il casinò, un bel lungomare e soprattutto il solito stadio di calcio, che con i mondiali è diventato un’istituzione in tutto il Sudafrica. Questa volta decido di visitarlo all’interno con un’escursione guidata: è molto bello devo dire, viene usato per diversi sport ed ha una struttura alta costruita sul tetto alla quale si accede con un ascensore e da dove si può ammirare la vista panoramica sulla città; ma la cosa che lo rende unico è lo swing all’interno dello stadio stesso, un’attrazione che permette di lanciarsi appesi ad una corda e dondolare da un estremo all’altro del campo, tipo bungy jump.

Mai come a Durban siamo stati tanto indecisi se restare a dormire una notte in più oppure no, la camerata d’ostello tutta per noi della prima sera non ci è piaciuta tanto, è la vigilia di Natale e ce ne stiamo tutta la giornata in giro a zonzo senza prendere alcuna decisione: ogni tanto visitiamo un bed & breakfast, poi un albergo, un giro in macchina e sosta al mega centro commerciale (super affollato per gli ultimi acquisti natalizi), all’interno del quale si possono praticare varie attività e sport, tra le quali il surf sulle Wave Pools, le piscine che creano onde artificiali; quando verrà a me la voglia di provare a prendere una tavola sarà troppo tardi e saremo vicini all’orario di chiusura.

In serata decidiamo finalmente di ripartire e facciamo la pazzia di viaggiare di notte, incontriamo pioggia a tratti, ma quanto meno su una comoda superstrada per buona parte del tragitto che ci porta a St Lucia. Arrivati a destinazione stavolta è proprio tardi e ci tocca bussare alle case per cercare di capire se esiste ancora un alloggio disponibile per noi; ancora una volta ci dovremo accontentare di una stanza molto spartana.

Per il giorno di Natale siamo quindi in un posto nuovo, deciso all’ultimo secondo, ma che si rivelerà molto bello: da un lato la spiaggia con l’oceano Indiano, dall’altra il lago ed un estuario popolato da ippopotami e coccodrilli; forse mai li avevamo visti così vicini in tutto il viaggio, è bastato fare una passeggiata su una passerella e fermarsi ad osservare. Ci concediamo un veloce pranzo natalizio al ristorante e nel pomeriggio ci ritroviamo a fareun bel safari in autonomia nel vicino parco Simangaliso Wetland, che è un sito patrimonio dell’umanità Unesco: non avrà le dimensioni dei grandi parchi africani visitati un mese fa, ma gironzolando senza troppe pretese, ci godiamo un bel panorama sul lago circondato dal verde, ma soprattutto, tra gli altri animali, avvistiamo il caro e rarissimo rinoceronte. Davvero una bella sorpresa questo St Lucia,dove il giorno seguente ci regaliamo anche l’ultimo bagno in oceano del nostro viaggio, prima di ripartire verso lo Swaziland.

Torniamo sulla strada N2 che praticamente abbiamo percorso quasi per intero da Città del Capo fino qui, costeggiando l’oceano. Entriamo nel regno di Swaziland a pomeriggio inoltrato e tentiamo una visita improvvisata alla riserva privata Mkhaya: parcheggiamo la macchina, io attraverso un fiume a piedi seguendo le indicazioni di alcuni bambini che giocano nelle vicinanze, ma il cancello d’entrata è chiuso e per la prima volta ci ritroviamo davanti un parco dove realmente è indispensabile prenotare in anticipo. Le strade in Swaziland sono piuttosto buone (a differenza del Lesotho), proseguiamo per Manzini, la città più grande del paese, e tanto per cambiare,sarà già buio quando giungiamo alla riserva Mlilwane, nella valle Ezulwini: per fortuna il guardiano all’entrata telefonerà alla reception e gli diranno che c’è postoper dormire, quindi apre la sbarra e ci ritroviamo senza volerlo a fare un safari notturno nel piccolo parco, da soli, per raggiungere l’ostello che si trova all’interno.

Dormiamo la prima notte in un bel bungalow immerso nella natura e la seconda in una stanza privata, sempre appartenentialla stessa struttura; la location è eccellente, davanti a noi un panorama stupendo sulle verdi valli intorno. Alba intanto è già da un po’ di giorni che sta dando i numeri e non vede l’ora di tornare a casa. Facciamo un piccolo giro mattutino all’ufficio informazioni di Lobamba e nel pomeriggio ancora una volta safari, ma completamente diverso: infatti all’interno del Mlilwane Wildlife Sanctuary si può camminare liberamente a piedi e senza l’ausilio di una guida, in quanto non ci sono predatori (a parte i coccodrilli che in teoria dovrebbero restarecircoscritti al lago). E’ molto divertente, si passeggia e ci si ritrova accanto qualche zebra, si sta nei pressi del lago ed ecco l’ippopotamo, si continua a camminare e s’incrociano gli altri antilopi; il tutto in completa sicurezza. In serata assistiamo ad uno spettacolo di ballerini locali nel camp vicino e la mattina seguente un altro breve safari prima di lasciare il parco… ma in macchina stavolta.

Lo Swaziland è una delle 3 monarchie rimaste in Africa (le altre 2 sono Marocco e Lesotho), l’unica assoluta; il re Mswati III è molto popolare, ma allo stesso tempo tanto criticato per il suo dispendioso stile di vita, nonostante l’estrema povertà del suo paese. Egli perpetua tradizioni e vecchie usanze, inclusa quella della poligamia. E forse proprio grazie a quest’ultima riesce a mantenere solido il suo potere: il sovrano ha più di 200 fratelli e 13 mogli ed è facile immaginare che ci sono suoi parenti sparsi in tutto il paese e che quindi aiutano a mantenere una certa stabilità. Qualcuno in passato mi aveva detto che ci sonotalmente tanti principi che è facile incontrarli al supermercato; noi non avremo questa fortuna!

In Swaziland vengono celebrate 2 grandi cerimonie durante l’anno, la più sacra si svolge proprio in questo periodo e si chiama Incwala, durante la quale il re concede il permesso ai suoi sudditi di mangiare i primi raccolti. Purtroppo la festa principale aperta al pubblico ce la siamo persa per qualche giorno, ma i vari riti e danze continuano per diverse settimane; e allora ci presentiamo all’entrata del kraal reale, dove con la mia solita faccia tosta chiedo alla guardia di poter entrare. Naturalmente mi risponde di no, ma insisto molto gentilmente, in Africa tutto funziona un po’ a caso e quindi sempre meglio tentare anche le cose che sembrano impossibili. E infatti, nella sorpresa più assoluta e con molta facilità, la guardia si addolcisce e ci lascia passare, mami avverte che comunque ci avrebbero fermato altri suoi colleghi più avanti. Questo per fortuna non accadrà e per strada all’interno del kraal chiacchiero con un uomoincontrato per caso che ci faaccomodare in una stanza tentando di organizzarci una visita guidata; purtroppo però, quando mi fanno parlare al telefono con la persona che si occupa dell’accoglienza, mi viene detto che non è possibile e che dobbiamo uscire dal palazzo: “la cerimonia si è già svolta e non ci sarà più nessuna danza; ma chi vi ha fatto entrare, non potreste stare qui dentro”, mi dice.

Siamo comunque soddisfatti di essere riusciti a vedere l’interno del kraalreale e ce ne andiamo verso l’uscita, quando di fronte a noi vediamo sfilare tanti uomini a petto nudo e vestiti con un pezzo di pelliccia, armati di scudo e bastone, chestanno entrando all’interno di un grande recinto. E allora riprovo con le mie richieste impossibili chiedendo ad un ufficiale di farmi assistere alla danza, che a quanto pare si farà. Rifiuto totale, mi dice che non può, in quanto avrebbe bisogno dell’autorizzazione del supervisore. “E allora fatemi parlare col supervisore!” Per farla breve, dopo un lungo tira e molla, mi viene concesso di seguire uno dei partecipanti, ma solo dopo essermi tolto le scarpe e lasciato la macchina fotografica in auto (che intanto mi hanno fatto parcheggiare al contrario perché era l’unica con il muso non rivolto verso il recinto… ah, questo misterioso Swaziland!). Ed ecco ritrovarmi in un angolo, unico bianco all’interno del recinto pieno di uomini vestiti in modo tradizionale che eseguono, disposti in semicerchio, una strana danza rituale, sbattendo di tanto in tanto gli scudi per terra;al centro un’unica telecamera autorizzata della televisione che filma il tutto. Durerà quasi una mezz’oretta, non mi sembra vero, pare di essere in un documentario. spettacolo!

Parte 26, Johannesburg, avventura in una township

Vedere gli uomini danzare nel kraal reale è stata l’ennesima gran bella esperienza africana, assolutamente non prevista, proprio quando ormai non mi aspettavo più niente da questo viaggio; peccato per Alba che non ha voluto seguirmi e mi ha atteso in macchina. Mentre osservavo la cerimonia alcuni dei partecipanti mi guardavano in modo strano ed avevano delle espressioni nei miei confronti che sembravano dispregiative, ma mi ha davvero divertito ed emozionato, ho assistito a qualcosa che uno si aspetta di vedere solo in televisione. Proprio strano questo Swaziland, mi sarebbe piaciuto partecipare alla festa principale qualche giorno fa oppure all’altro grande festival annuale chiamato Umhlanga, dove viene offerta al re la possibilità di conoscere alcune potenziali mogli, spesso molto giovani.

Attraversiamo la capitale Mbabane, piccola sosta al supermercato alla ricerca di cibo e, per l’ultima volta, rientriamo in Sudafrica, direzione la grande e frenetica Johannesburg. La strada principale è spesso interrotta per lavori in corso e quindi siamo costretti a continue deviazioni. Ad un certo punto vediamo macchine ferme e tanta gente in strada, sembra un incidente. Mi accosto, sulla destra c’è un’autocapovolta: alcune persone vanno verso il guidatore, che intanto era uscito dal veicolo sano e salvo, e lo cominciano a schiaffeggiare! Sembra una scena da film! Poi alcuni testimoni mi raccontano che questo tizio stava guidando ubriaco e nel tentativo di un sorpasso impossibile si è strusciato con il veicolo, con neonato a bordo, che procedeva nel senso di marcia opposto, proprio 3 o 4 macchine davanti alla nostra. Per fortuna nessuno si è fatto troppo male e il pazzo in questione provvede bene a nascondere la bottiglia d’alcol che aveva in macchina prima che arrivi la polizia, giunta sul posto qualche minuto più tardi.

Non posso lasciare il Sudafrica senza essere entrato in uno delle numerose township, sarebbe come andare a Rio e non vedere una favela oppure essere a New York senzavisitare il Bronx; ma qui la criminalità è tutta un’altra storia e ancora oggi è molto radicata e pericolosa. Mi è sembrata un po’ riduttiva l’ideadi acquistare uno di quei tour organizzati che ti portano in giro nel quartiere e poi fanno la sosta in una tipica shebeen (i bar clandestini usati dai neri all’epoca dell’apartheid), quindi con forza e coraggio decidiamo di fare tutto in autonomia e non limitarci ad un semplice giretto:abbiamo deciso che per l’ultimo giorno in Africa faremo la più stupida delle cazzate,trascorrere la notte a Soweto, la più grande e famosa township al mondo, dove 2 premi nobel per la pace una volta abitavano sulla stessa strada.

Entriamo nell’immenso agglomerato urbano di Johannesburg, è davvero un bel casino, anche con la cartina che ci è stata data alla Hertz ci perdiamo facilmente. Dopo tutte le brutte storie ascoltate su questa città abbiamo un po’ di paranoia, perciò giù le sicure e cammino lentamente quando vedo un semaforo rosso a distanza (così da non rimanere troppo fermi sullo stesso punto). Arriviamo a Soweto (ufficialmente abitata da 2 milioni e mezzo di abitanti, anche se si stima che siano 5 milioni): è affollata e ci sono vecchie costruzioniintorno, ma noi cerchiamo di rimanere il più possibile sulla strada principale e seguire dettagliatamente le indicazioni che avevo trovato su internet per raggiungere l’unico ostello del quartiere (che poco intelligentemente non avevo prenotato).Purtroppo i punti di riferimento sono talmente pochi che dopo un paio di tentativi non riusciamo a raggiungere la nostra destinazione, quindi ci fermiamo ai vari distributori di benzina illuminati per chiedere informazioni.

A Soweto molte persone sembrano non conoscere l’alloggio al quale siamo diretti esono sorprese nel vedere 2 bianchi che se ne vanno in giro di notte da soli; fino a quando troviamo un ragazzo che ci suggerisce di seguirlo, con la promessa di portarci nel posto giusto. Non sembra così male e non ci resta altro che fidarci: attraversiamo strade buie, siamo circondati da baracche, si vedono persone in giro a piedi e si ha spesso l’impressione di essere nel posto sbagliato. Il tizio ad un certo punto si accosta, ci dice che l’ostello deve essere in zona, ma non sa di preciso dove; e allora chiede ad un passante che pare ne sappia qualcosa in più e chesi offre di entrare in auto con noi per portarci a destinazione. Oh mio Dio! Neanche il tempo di pensarci ed eccoci, di notte, in giro per Soweto con uno sconosciuto in macchina: facciamo un giro, ma questo posto proprio non lo troviamo. Il tipo deve andare via e ci lascia, allora raggiungiamo l’unica strada della township dove ci sono 2 o 3 locali tra bar e ristoranti: è la strada dove abitava Mandela e l’hanno resa un po’ più pulita per accogliere i turisti. Vediamo un paio di cartelli con la scritta B&B, a quanto pare non c’è solo un alloggio a Soweto, ma purtroppo sono tutti pieni, quindi chiediamo informazioni ad un parcheggiatore abusivo, poi ad un cameriere, poi ad un altro che ci dà delle indicazioni:“l’ostello da noi cercato è in zona”, ma non sa dove sia di preciso. E allora ci avventuriamo ancora egiungiamo ad un edificio che sembra essere un museo: ci sono le guardie fuori, chiediamo aiuto, ora abbiamo sul serio paura di non sapere dove dormire stanotte; ma loro ci danno una mano, chiamano l’ostello in questione (per fortuna avevamo il numero sulla Lonely Planet) ed il proprietario della struttura ci viene finalmente a recuperare.

Anche l’ultimo giorno del viaggio e per l’ennesima volta abbiamo commesso la sciocchezza di arrivare al buio e se questo è già di per sé un posto poco consigliato per andarsene in giro di giorno, figuriamoci di notte. Il problema è che da un po’ di tempo le mattine non riusciamo più a svegliarci presto, quindi facciamo sempre tardi, con tutti i rischi che ciò può comportare quando si viaggia in Africa; e poi oggi, tra la cerimonia improvvisata in Swaziland che non volevo assolutamente perdere e le varie deviazioni di strada per lavori in corso (incidente incluso) proprio non ce l’abbiamo fatta a fare presto.

L’ultima notte del nostro viaggio, fino alla fine alla ricerca di guai, finalmente siamo giunti a destinazione: una casa con stanze private messa davvero bene, gestita dal ragazzo di colore che ci è venuto a recuperare e la sua compagna europea. Ci siamo persi a Soweto di notte, tutti sono stati disponibili ed hanno tentato di aiutarci, uno addirittura è entrato in macchina con noi, nessuno ci ha rapinato né sparato. Allora chiedo un’opinione alla ragazza bianca che vive qui da diversi anni ed anche lei conferma ciò che ho sempre pensato: è tutta una paranoia generale, Soweto non sarà Disneyland, ma con le dovute attenzioni ci si può vivere come in ogni altro posto del mondo. Ne ero assolutamente convinto e l’abbiamo provato di persona. Siamo soli in tutta la struttura, la mattina seguente arriva un altro ragazzo europeo che ci dice la stessa cosa: “tutti si cagano addosso a venire qui, ma basta usare il buon senso, io vengo a dormire a Soweto tutte le volte che passo da Johannesburg”.

Ora non ci resta che vedere il quartiere di giorno: passeggiamo per gli isolati più famosi, dove sono avvenute le grandi ribellioni degli studenti negli anni ‘70, dove una volta abitavano Mandela e Tutu, dove ora c’è la segnaletica per i turisti che indica i punti chiave. Prima di lasciare la township facciamo un giro tra le vicine baraccopoli e regaliamo gli ultimissimi indumenti che abbiamo ad un gruppo di persone accampate alla meglio su uno spiazzo di erbacce: appena tiro fuori il mio paio di scarpe un ragazzo me lo strappa dalle mani e va via; speriamo che ne abbia veramente bisogno. Tutti ringraziano per i doni, salutiamo e lasciamo Soweto con un po’ di malincuore.

A pranzo ci fermiamo in uno dei tanti mega centri commerciali di cui gli abitanti di Johannesburg vanno fierissimi e mangiamo carne in una delle solite catene in franchising. I camerieri da queste parti sono esageratamente gentili e hanno la cultura di passare ogni 5 minuti a chiedere se va tutto bene; abbiamo avuto la stessa sensazione in tutti i ristoranti d’Africa, a differenza dell’Europa qui viene vista come una maniera di dare un ottimo servizio, per noi invece è una rottura di scatole. Ricordo che alle cascate Vittoria avevamo mangiato per 2 volte nello stesso ristorante e la seconda sera sapevamo già in che momento della nostra cena la cameriera sarebbe ripassata a chiedere se è tutto a posto; e noi a farci delle grandi risate! Sembrava un registratore automatico, con domande e tempi programmati, evidentemente per loro la cortesia si dimostra in questo modo o forse pensano così di imitare noi occidentali.

Lascio Alba al centro commerciale ed in auto mi dirigo verso l’ultima visita: non posso non spendere almeno qualche ora nel grande museo dell’Apartheid. Alla biglietteria danno un ticket dove sul retro può esserci scritto White oppure Non-White e a seconda del tagliando ricevuto si entra attraverso una delle porte, divise secondo una classificazione razziale; nella parteiniziale del percorso posso vederenel corridoio parallelo le persone che hanno il biglietto diverso dal mio, ma non ci si può mischiare. E così si ha subito un’idea di come si viveva separati all’epoca della segregazione. Il museo dell’Apartheid meriterebbe almeno un giorno intero (che io non ho a disposizione) per visitarlo tutto: è interessantissimo, ci sono documenti, film, testi, audio ed esibizioni che testimoniano in modo dettagliato nascita, attuazione e caduta dell’apartheid.

Torno a riprendere Alba, veloce fermata al distributore di benzina per fare il pieno e via, dritti verso l’aeroporto, dove lasciamo l’auto affittata e con estrema calma facciamo il chech-in per il volo di rientro.

Parte 27 (ultima), Conclusioni e Statistiche di Viaggio

Questi i numeri sul contachilometri della macchina usata in Sudafrica per gli ultimi 18 giorni: 4805 km percorsi, 51 km all’ora la velocità media, 93,6 le ore di guida, 13,1 km per litro il consumo medio di benzina. Rappresentano solo l’ultima e più facile parte del nostro viaggio in Africa, un’esperienza intensamente vissuta fino alla fine; anche l’ultima sera della nostra vacanza in una township è stata estremamente avventurosa e movimentata. Con il ritorno a Johannesburg abbiamo chiuso il cerchio di un percorso incredibile, è stato il top dei viaggi, che non significa per forza il più bello, ma sicuramente il più estremo, il più difficile, il più vissuto, quello dove ho scattato più foto, quello con più paranoie e fobie inutili, quello dove ci sono statipiù momenti e situazioni che non t’aspetti.

100 Giorni d’Africa, 100 giorni di barba mai tagliata, 100 giorni di esperienze con poca vita notturna, ma con troppe alzatacce all’alba. Una zona del mondo piena di problemi, dove l’Aids si contagia come l’influenza da noi, dove in alcune zone nei bagni pubblici si trovano preservativi gratis a volontà, ma manca la carta igienica, dove in altre aree i bagni pubblici non esistono ed i minibus fanno la sosta in strada nel bel mezzo del niente (le donne fanno pipì dietro l’albero di destra e gli uomini a sinistra), dove alcuni africani contraggono l’Hiv semplicemente perché il condom non gli piace usarlo, dove molte persone muoiono perché non hanno accesso alle cure o semplicemente perché si dimenticano o non hanno voglia di prenderle. Un’Africa dove i bambini sono quasi sempre sorridenti e si divertono con niente, un’Africa ancora troppo schiava dell’uomo bianco, a volte psicologicamente, altre in pratica, un’Africa con paesaggi mozzafiato e con la spazzatura che in alcune zone brucia all’orizzonte (… ma questo accade anche a Napoli); un’Africa dove c’è fame, ma ad ogni angolo sbucano i grandi ripetitori delle compagnie telefoniche, un’Africa piena di deserti e zone inospitali, ma che in Lesotho offre addirittura un impianto da sci, un’Africa dove per fortuna esiste il Lesotho, così abbiamo avuto un’ottima scusa per rinnovare un passaporto. L’Africa è piena di contraddizioni.

Noi abbiamo fatto il nostro viaggio, tutto qua, non abbiamo salvato il mondo e neanche ci abbiamo provato, ma ci siamo resi un po’ conto della situazione reale del sud di questo continente. Per quanto riguarda la nostra avventura ci siamo arrangiati un po’ come potevamo, inventati come raggiungere le diverse mete e organizzati come tirare avanti. Anche nei camp stessi a volte mancavano le cose basilari, ma eravamo già preparati a questo: appena incontravamo un supermercato (o qualcosa di simile) facevamole scorte, se un bagno era provvisto di carta igienica ne prendevamo un po’ di più da usare nel prossimo dove non c’era; e invece gli ultimi giorni li abbiamo trascorsi in scioltezza, senza troppe pretese e spesso ci siamo ritrovati nei negozi sudafricani ad acquistare indumenti per riempire i nostri zaini rimasti vuoti. Ma noi siamo nati fortunati: avevamo le carte prepagate e sono bastate poche ore di volo con uno scalo al Cairo per fare ritorno nel bel Paese, giusto in tempo per Capodanno. Ci avevano detto di fare attenzione, che l’Africa è un posto pericoloso per viaggiare da soli: probabilmente lo è, più che pericoloso, l’Africa è un posto pieno di sorprese, nel bene e nel male, perciò bisogna usare tanto buon senso. Noi le situazioni poco sicure abbiamo cercato di evitarle, ma non troppo direi, eppure siamo ritornati a casa con due braccia e due gambe.

E ora? Ed ora non so se questo racconto sia stato più noioso per me che l’ho scritto o per quei pochi che sono riusciti a leggerlo tutto fin qui. Ora penso di aver scritto il diario più lungo e pesante della mia vita. Ora penso che dai prossimi viaggi scriverò solo mini diari molto sintetici perché non ho più voglia. Ora penso che avrò bisogno di un bel po’ di riposo (eh già, perché io in vacanza non ci riesco proprio a rilassarmi). Ora penso che devo andare dal barbiere a tagliare questa barbaccia. Ora penso al mio prossimo viaggio, sempre estremo si, ma un po’ meno degli altri. Ora penso di avere un’idea che macina nel mio cervello da più di un anno, quando attraversai tutto il Centro America con una vecchia motocicletta tutta scassata degli anni ’80. Ora penso che se ce l’ho fatta con quel catorcio, allora non dovrei avere problemi a raggiungere Capo Nord con il mio scooter? Appuntamento alla prossima estate.

SPETTACOLO!!!

STATISTICHE

Giorni di viaggio: 100

Paesi visitati: Sud Africa, Mozambico, Malawi, Zambia, Zimbabwe, Botswana, Namibia, Lesotho, Swaziland

Paese piu’ caro: Botswana, Sud Africa, Namibia

Paese piu’ economico: Mozambico e Malawi

Paese più facile per viaggiare: Sud Africa

Paese più difficile per viaggiare: Mozambico

Totale spese incluso voli: 5750 Euro (con vaccinazioni)

Itinerario di viaggio:

Sud Africa

23/9 – Johannesburg

– Nelspruit

24/9 – Kruger Park

26/9 – Nelspruit

Mozambico

27/9 – Maputo

30/9 – Tofo

2/10 – Inhambane

– Tofo

3/10 – Vilankulo

5/10 – Magaruque (arcipelago Bazaruto)

– Benguera (arcipelago Bazaruto)

– Vilankulo

6/10 – Beira

– Quelimane

8/10 – Nampula

9/10 -Isola di Mozambico

10/10 – Chocas

– Isola di Mozambico

12/10 – Pemba

14/10 -Ibo (arcipelago Quirimbas)

15/10 – Matemo (arcipelago Quirimbas)

Ibo (arcipelago Quirimbas)

17/10 – Pemba

18/10 – Nampula

19/10 – Mandimba

Malawi

20/10-Cape Maclear

22/10 – Lago Malawi (navigazione)

24/10 – NkhataBay

25/10 – Lilongwe

Zambia

26/10 – Chipata

27/10 – South Luangwa Park

30/10 – Chipata

31/10 – Lusaka

1/11 – Fiume Zambezi

Zimbabwe

3/11 – Harare

6/11 – Bulawayo

7/11 – Matobo Park

– Bulawayo

8/11 – Victoria Falls

Botswana

12/11 – Kasane

13/11 – Chobe Park

– Kasane

14/11 – Chobe Park

15/11 – Moremi Game Reserve

– Maun

17/11 – MakgadikgadiPans Game Reserve

– Maun

18/11 – Delta dell’Okavango

– Maun

19/11 – Nxai Pan Park

– Maun

21/11 – Central Kalahari Game Reserve

22/11 – Kang

Namibia

23/11 – Windhoek

25/11 – Mondjila Safari Camp

26/11 – Etosha National Park

27/11 – Okashana

28/11 – Ruacana Falls

29/11-Epupa Falls

30/11 – Etanga (Otjihaa Pass quasi raggiunto)

– Opuwo

1/12 – Twyfelfontein

2/12 – Spitzkoppe

– Cape Cross

– Swakopmund

4/12 – Walvis Bay

– Sossusvlei

5/12 – Windhoek

Sud Africa

7/12 – Città del Capo

8/12 – Robben Island

– Città del Capo

12/12 – Penisola del Capo

– Città del Capo

13/12 – Stellenbosch

– Hermanus

14/12 – Gansbaai

– Cape Agulhas

– Swellendam

15/12 – Mossel Bay

– Wilderness

– Buffalo Bay

– Knysna

16/12 – Plattengerg Bay

17/12 – Bloukrans Bridge

– Jeffreys Bay

– Port Elizabeth

18/12 – Port St. Johns

20/12-Mthatha

– Qunu

– Mqekezweni

– Barkly East

Lesotho

21/12 – Quthing

– Malealea

22/12– Maseru

Sud Africa

23/12 – Clarence

– Durban

24/12 – St. Lucia

25/12 – iSimangaliso Wetland Park

– St. Lucia

Swaziland

26/12 – Mlilwane Wildlife Sanctuary

– Lobamba

-Mlilwane Wildlife Sanctuary

28/12 – Lobamba

Sud Africa

– Johannesburg



    Commenti

    Lascia un commento

    Leggi anche