Emozioni di pancia: in Tanzania con avventure
TANZANIA, 13-28 AGOSTO 2011
Quest’anno si va in Africa … scelta obbligata, scelta di cuore … veniamo a conoscere la tua terra, per imparare ad amarne i colori e gli odori, la sua gente fiera e dignitosa, gente di pancia, che sa passare in pochi secondi dal nero cupo degli occhi intensi al bianco candido (o arancio!) di sorrisi aperti … Veniamo a cercare di capirne i tempi, quest’african time con cui cozziamo fin dal primo giorno del safari, ma che presto impariamo a rispettare, a farci affidamento con un sorrisetto (se Jeff fa un’ora di ritardo, saprà lui come recuperare, è fuori luogo il vincenziano “do you know vaffanculo, Jeff?”) … Ci faccio talmente il callo che, ad una settimana dal rientro, non riesco a scrollarmi questa pacifica lentezza di dosso, a riprendermi i miei ritmi abituali e frenetici … forse va bene così.
Veniamo per cercare, se non di capire, almeno di rispettare quel che ci ostacola da te: burocrazia, illogica risoluzione dei problemi, african time.
Veniamo perché prepararci ad accogliere te significa conoscere le tue radici, l’odore della polvere rossa che si infila ovunque, le buche per le strade dove l’imprevisto è sempre in agguato, la poesia dei tramonti, la Via Lattea che illumina le notti buie dei campeggi, questa gente fiera che si prende il diritto di arrabbiarsi anche se non ne ha il potere…
Scendiamo eccitati dall’aereo dove Sandro, col suo ottimo inglese, non ha capito che il pacco rosa che occupava tutto il suo box era un wedding dress e ha ben pensato di accartocciarlo, scatenando le ire della futura sposa!
Partiamo per il safari dopo un’ottima cena ad Arusha, in un’officina meccanica che di sera si reinventa osteria, dopo un viaggio esilarante in taxi in 7 più l’autista sfuggito al linciaggio da tamponamento. Il safari, sogno di ogni bambino, il mio sogno di ora… carichiamo Jeff e la sua esperienza ventennale a cui pian piano ci affidiamo fiduciosi, Remy like polvere, i suoi “maddeooo” e un costante quesito “ci è o ci fa?”, Samuel con il suo sacro fornello, due pentole nella valigia, la camicia rossa consunta, l’ascella pesante e lo sguardo fiero quando lo offendono e lui si trattiene per non rispondere e tenersi il suo lavoretto precario di cuoco. Carichiamo viveri per 9 gg comprati nel colorato mercato con Samy, noi sfiniti e lui che ancora contrattava, viveri che si manterranno misteriosamente intatti fuori dal frigo per tutto il tempo senza avvelenarci, bagagli tende e sacchi a pelo, compagni di viaggio simpatici e accomodanti. Qualcosa preferiremmo non caricarlo – paure, ansie, aspettative, tensioni e malumori – ma ci tocca lo stesso … nessun bagaglio può essere così leggero.
Visitiamo i parchi più belli, conosciamo tribù, incontriamo sguardi e persone, è un viaggio ricco e completo. Partiamo dal Tarangire, i suoi maestosi baobab, gli elefanti che si abbeverano al fiume secco, una leonessa concitata che smangiucchia la sua preda e controlla a distanza che gli avvoltoi non ne facciano razzia.
Il Lake Manyara con la vegetazione rigogliosa, gli ippo lontani e ciccioni come la turista inglese, l’eleganza seducente delle giraffe che Simone non vuol riconoscere, lui e i suoi simpatici facoceri. Sandro si cosparge di Autan, teme la malaria anche se si è affidato a me e non ha fatto la profilassi; io al solito tiro a campare, son convinta che questa terra non mi farà strani scherzi e così sarà. Con l’età son diventata più fatalista!
Passeggiamo per Mto Wa Mbu con una guida, lasciamo scorrere gli occhi sulle loro capanne, sulle donne che spazzano pavimenti di terra, su uomini che intagliano ebano e ci chiedono prezzi assurdi per le loro ciotole (ma com’è che ci provano comunque a fregarci?è una costante!), su bimbi smocciolosi belli e caldi come il sole, fiduciosi e sorridenti, che mi toccano i lunghi capelli lisci incuriositi. Sandro fa due tiri a pallone con loro. Ci fermiamo a sorseggiare birra di banana, è disgustosa, ma non oso rifiutare, neanche quando Simone ci fa notare che il cestino con cui ce la porgono è quello con cui scarichiamo l’acqua in bagno! Anti-tifica assistici!
Passiamo all’orfanotrofio, Jeff fa qualche giochetto per non portarci, chissà perché, ma noi abbiamo penne, quaderni e coccole da offrire, ci impuntiamo. Vado tranquilla, non so neanch’io come posso immaginare di reggere l’esperienza, mi illudo di razionalizzare, sorrido delle battute sarcastiche di Matteo che sdrammatizza … ma non la reggo … non riesco ad entrare, tutti quei bambini seduti ai tavoli che ci salutano contenti appena entriamo, potresti essere tu uno di loro … noi benefattori dal cuore tenero che lasciamo una penna e ce ne andiamo, lasciatemi qui, voglio restare, non dare due coccole e fuggire. Potrei essere la loro mamma, non penso di poter rientrare. Poi rientro, non guardo nessuno, non dico una parola, mi chino a scrivere i loro nomi sui quaderni, un bimbo mi si appoggia addosso con tutto il suo peso, poi un’altra bimba dal sedere bagnato … all’inizio noto solo quelli che mi si gettano in braccio, mi sento stordita, poi quelli più timidi, Sandro allunga una penna ad un bimbetto rimasto senza, mi sorride protettivo, mi dice con gli occhi che tu non sei qui, che ce la posso fare. In una camera c’è un bimbo che dorme su un materasso consunto, non ha preso nulla, non ci ha sentiti. Forse ci sarà qualche turista intenerito che starà facendo lo stesso con te, che ti starà scattando foto da mostrare, l’idea mi infastidisce … e io non sono lì. Ce ne andiamo, sento il cuore che pesa, le lacrime risalgono, l’animo pesante … non ho voglia di parlare, brucerei i venditori attorno. Voglio star sola.
Facciamo un paio d’ore di strada terribile ma panoramica nell’africa vera di campagne e villaggi, di polvere rossa e povertà, di case di fango e bimbi che corrono dietro alla jeep per salutarci con gli occhi stupiti e sgranati. Arriviamo al Lake Eyasi, o “il lago che non c’è”, il posto è sperduto e il campeggio very wild, ma ci piace di più. Il lago è una distesa ventosa e umida di sale, nulla a perdita d’occhio. Torniamo da Samuel, ha poco carbone, nessuna luce, cucinerà in ritardo, ma un pasto davvero buono.
Ci svegliamo per cacciare con gli Hadzabe, 3 ore di marcia sostenuta dietro a gente che ha scelto di non convertirsi alla civiltà, che vive di niente, che dorme sotto le stelle senza neanche la capanna. Prendono solo due passerotti, del resto col rumore che facciamo è pure troppo! Siamo stanchi, loro corrono e fumano, noi siamo senz’acqua, solo Sandro regge il passo, vorrà farsi prendere dalla squadra, ritrova persino le frecce come un bravo cane da riporto!
Ripartiamo per fermarci, prima a regalare magliette a bimbi che si ritraggono impauriti quando vedono questi brutti musi bianchi scendere dalla jeep, poi Jeff a sgridare due bimbe che gli hanno lanciato un sasso, poi due camion in panne ci bloccano la strada … capisco la filosofia dell’african time, è impossibile prevedere l’imprevisto, perché accanirsi contro la sorte? Hakuna matata, lascia fare, tutto va dove deve andare, hakuna matata, sorridi anche se capisci che ti sto fregando, hakuna matata, “vaf******* non va bene”, hakuna matata, “se sorridi safari bello, se arrabbiato safari brutto”, hakuna matata… Non si può venire in africa e pensare di esportare i nostri modi di fare, bisogna capire i loro e adeguarsi.
Domani si va allo Ngorongoro, evviva!!Prima però solita sosta a discrezione di Jeff, per comprare un kg di riso, un summit di mezzora a cui partecipano passanti, commessi, Samu incastrato e offeso al fondo della jeep, è lui il cuoco, bisogna lasciarlo fare! Arriviamo, nebbia infinita, scoraggiamento … ma Jeff ci assicura che dentro il cratere la nebbia non c’è mai. E’ così, scendiamo in un paradiso abbondante come un supermarket, tutti gli animali assiepati qui, tranne le mie ammirate giraffe: facoceri simpatici, branchi di gnu, zebre col sederone, leoni spaparanzati al sole, infine anche il rino incazzuto che carica una jeep. Lucky Safari! E’ l’africa dei documentari, l’africa selvaggia che ho nel cuore fin da bambina.
Torniamo al campeggio, siamo gli unici sfigati senza tavolo e sedie, ma ci va bene così; ci appartiamo fuori con i cani e la vodka, dopocena si accende il falò, ma resistiamo poco, è troppo freddo. Come faranno Giulia&Fede con quella tenda del cavolo? Nanna con ruggiti di leone e lamenti di iene, ma io non li so riconoscere e dormo come un sasso.
Si riparte al buio per il Serengeti, fra villaggi masai e giraffe ai lati della strada, montiamo la tenda in un campeggio schifoso in mezzo a fango e zanzare, la notte sarà allietata dalla pioggia. Mi vergogno di lamentarmi quando capisco che a Samu andrà sicuramente peggio, senza tenda steso a terra. Mi fa una pena infinita, lui lo legge nei miei occhi, posso solo regalargli la lampada da fronte, almeno non sarà al buio. Il game drive ripaga subito: leonesse in branco che spupazzano i cuccioli, un leopardo che si porta l’impala sull’albero, la caccia dei ghepardi velocissimi, il re della savana che avanza lento e maestoso, il piccolo giraffino, persino la iena che col suo cucciolo appare più simpatica … la maternità dona a tutte, quasi.
A pranzo, Samu riesce a preparare delle torte salate croccanti col suo fornellino, zuppa, riso, verdure e carne, è un mistero … peccato che l’ananas gli venga sempre al retrogusto di cipolla! Gli chiedo come è andata la notte, a me dice sempre tutto ok, solo a Simone rivela che ha avuto freddo. Ripartiamo, Jeff non muove un dito, Remy e Samu caricano aiutati dai nostri validi uomini, si avvia la jeep, Samu non c’è, è in bagno, Jeff lo vuol lasciare a piedi perché ci ha messo troppo, gli diciamo di caricarlo, faccio uno sproloquio con Sandro sulla prepotenza che mi irrita, sull’arroganza dei forti che detesto, Jeff capisce che ce l’ho con lui e mi lancia un’occhiata severa nello specchietto, chiedendomi ironicamente se è tutto ok… riacquista un po’ di punti, in fondo la sua intelligenza mi piace. Sono contenta che mi abbia sentito. Ogni viaggio mi aiuta a riscoprirmi, e il gruppo è un ottimo specchio che rimanda un lato di noi, quello che in quel momento esprimiamo: in India la fiducia e le speranza, in Turchia la mia pazienza, la gentilezza, in Africa la forza che tengo spesso nel cassetto, la lingua tagliente ma onesta, l’assertività senza sconti nel confrontarmi. Mi spiace se qualcuno se l’è presa, ma forse è lo strumento di cui ho bisogno ora.
Ci dirigiamo al Lobo, temiamo un altro camping schifoso, invece arriviamo in una ridente vallata collinare, ovunque frotte di erbivori, la piazzola erbosa(perché il campeggio a questo si riduce) sotto la rupe abitata dai babbuini è meravigliosa, di fronte brucano le zebre, ci sono due capanne con le inferriate che lasciano ben immaginare (ci tranquillizzano che in questo periodo non ci serviranno perché c’è abbondanza di zebre, ma la notte per andare a lavare le stoviglie ci muoviamo tutti assiepati e impauriti, e capiamo che leccare le posate è una valida alternativa all’acqua!). Cena nella capanna fra la polvere, chiacchiere intorno al fuoco, Sandro è pensieroso, pensa a Samu che è trattato male, è povero, dorme per terra al freddo. E pensa a te, nero, se gli piacerai, se ce la faremo. Mi commuovo a guardare le stelle, mi chiedo se sei già nato, se sei già in pancia ad una mamma che ti abbandonerà.
Ci svegliamo con le giraffe che si muovono a due passi da noi, emozioni pure, foto, smontiamo tutto per il lungo trasferimento al Natron. Vediamo i leoni mentre ce ne andiamo… allora erano davvero vicini! Il trasferimento è molto lungo, sembra di nuovo di essere sulle montagne russe, respiriamo polvere, deserto arido. Ogni tanto spuntano bimbi masai fra i cactus … come possono vivere tutta la vita così? Come possiamo noi? Mi fermo a immaginare i loro pensieri, che sogni faranno questi bambini? Sosta a Wasso, ci facciamo fregare e al posto della birra ci rifilano un drink imbevibile; ci sediamo a guardare i bimbi assiepati per ricevere penne, gente coi carretti, uomini che ci osservano, donne eleganti con tacchi che sfidano la polvere, questa vita infinita che scorre lenta. Il campeggio masai sotto al vulcano è l’unica piazzola erbosa nella zona, il vento sferza le tende, quella di Vincenzo è deformata, Simone sclera per rimetterla su. Questo luogo è magico: il vulcano fumante, il villaggio masai fuori dal finto recinto del campeggio, capanne e terra, terra e capanne. Partiamo per la passeggiata alle cascate, il vento scopre il gonnino dell’accompagnatore, unica spettatrice le mie compagne mi invidiano! Che divertente, facciamo il bagno sotto l’acqua gelata, Federico ha aggrappata una spagnola 150kg che lo usa come roccia da appiglio. Ridiamo! Torniamo indietro, attraversando il villaggio un bimbo masai mi dà la mano senza paura.
Scendiamo al lago al tramonto, sembra di essere sulla luna, puntini rosa in volo, tanti fenicotteri. Sandro corre sempre più lontano, scattiamo foto stupende. Al solito, siamo l’ultimo gruppo a ripartire, si sta bene qui, ma ci attende il capretto masai. Samu per non smentirsi ha scelto il tavolo più sfigato, ma ripariamo. Arriva il capretto tagliato boccone boccone dalle mani puzzolenti del masai, fa una certa impressione, ma dopo la birra alla banana lo stomaco è pronto a tutto: gruppo tosto! Dopocena, chiacchiere e coffee sul prato sotto le stelle, stoviglie a giro, Simone lecca il mio cucchiaio prima di riporlo … siamo davvero al top!
Sveglia alle 4 per il lungo trasferimento a Zanzibar, Jeff non si vede, spunta fuori in costume e bicchierozzo in mano con 15 minuti di ritardo non appena anche l’ultimo bagaglio è stato caricato … sempre più simpatico! Per la strada ci capita di tutto. Prima soccorriamo il furgoncino dei medicinali impantanato nella sabbia. Dopo 30 minuti arriviamo in una scena apocalittica: un bus cappottato, 30 persone che urlano e piangono, feriti stesi a terra, ceste e banane dappertutto. Ci fermiamo, vogliono aiuto, Jeff sembra in difficoltà, pare non voglia caricarli, forse è preoccupato per noi. La gente si agita, iniziano ad accerchiare la jeep, Samu chiude il finestrino, urlano, le donne spandono tutte le ceste in mezzo alla strada, non possiamo passare. La situazione si fa pesante, ho un po’paura, non possiamo mica lasciarli qui, l’aereo aspetterà. Diciamo a Jeff di prenderli, li portiamo all’ospedale, la strada si riapre, carichiamo 3 feriti e due accompagnatori. Il tragitto è condito dai loro lamenti e dal nostro magone, la vita è davvero dura, se non fossimo passati noi cosa avrebbero fatto? Sospiri, lamenti, polvere, gente disperata che aspetta un’occasione per sopravvivere, gente costretta ad aiutarsi per affrontare una natura difficile. Del resto, quando arriviamo all’ospedale, capiamo che forse non avrebbe fatto molta differenza non portarli, la vita fa davvero da sé … li lasciamo in mani lente e goffe, speriamo bene. I nostri sedili sono lerci di polvere e macchiati di sangue. Samu ci tiene a fermarsi per fare colazione con le cose che ha preparato, noi non abbiamo molto appetito, ma come negargli la soddisfazione, come rinunciare all’ultimo ananas alla cipolla? Mi fa tenerezza, gli regaliamo di tutto, quando ci lascia ci chiede scusa di errori e contrattempi .. scusa di che?
Lasciamo jeep, Samu Jeff e Remy, polvere e villaggi, animali in libertà, tenda e pasti a terra, foto di commiato, si vola a Zanzibar, un’altra vacanza. Mare turchese, spiaggia bianca, vele rattoppate, spezie e gongo con Babà, cena zanziberina, bagni e chiacchiere, camere sfigate e gruppo in rivolta, “rilassatevibellisiamoinafrica”, turisti a frotte e masai finti, luce e acqua dappertutto tranne nelle nostre camere, shopping da “bancarotta fraudolenta&maremmalamaiala”, pesci e stelle marine, mercato del pesce, massaggio a 10 dollari, Stefania che contratta impazzita … il mare è un’altra cosa, emozioni diverse, nulla di paragonabile ai 10 giorni vissuti fin qui gomito a gomito.
Goodbye Africa, torneremo presto. Speriamo il nuovo anno ci porti di nuovo in questa calda terra, stavolta senza un gruppo così simpatico, senza Avventure … stavolta verremo da soli, verremo a prendere Te.