Big Apple, tante mete in una…
NEW YORK, COME ESSERE NATI LA SECONDA VOLTA. Il ritornello mi martellava in testa prima di partire, i giorni della vigilia spesa a lavorare e pensare a come affrontare il viaggio. Già organizzato, immaginato, smontato e rimontato decine di volte. Perché ci sono città che valgono un Paese intero. “La cosa migliore che puoi fare è innamorarti”. Dove? Ma a New York City! La bellissima canzone, “Arthur’s Theme (The best you can do)”, è di Christopher Cross e in mezzo al milione di brani ispirati alla Grande Mela è stata la mia guida spirituale nelle peregrinazioni attraverso la città che non dorme mai. Marco, moroso e compagno di viaggio, non aveva bisogno di nessun brano. Lui a New York c’era già stato nel 2002, a febbraio, a pochi mesi dall’11 Settembre. Si ricordava tutto alla perfezione, eccetto quelle migliaia di cambiamenti in tema di intrattenimento, mode, quartieri e nightlife che intervengono negli anni a mutare l’aspetto di New York. La cartina geografica dei posti cambia ma l’anima della Big City rimane la stessa, anche attraverso milioni di metamorfosi che ne stravolgono la superficie: travolgente, seduttiva, iper-cinetica, intellettuale, estroversa, magnetica. Qui vi potete perdere e ritrovare i punti di riferimento in un lampo. Una volta imparata la lezione di come girano le Avenue intersecando le Street è molto semplice girare la Mela. Noi due partiamo il 25 marzo da Bologna aeroporto Marconi con un volo Lufthansa che fa scalo a Francoforte. Il tempo dello scalo è minimo ma ce la facciamo a imbarcarci. Destinazione sarà Newark Airport, New Jersey. Arriviamo di sera e raggiungiamo downtown Manhattan in un taxi bianco di una compagnia convenzionata. L’auto è guidata da un ragazzo nero molto affabile e gesticolante. Sembra un cantante hip-hop. Tanti fanno questo effetto da queste parti. Il prezzo (50 dollars) pare un po’ altino, ma il tassista ci rimbrotta “Come on, you are in New Jersey, not at JFK”. Ci convince e saliamo. L’aeroporto dista 16 miglia da midtown e si trova a sud ovest di New York, sull’altra sponda dell’Hudson River. Lungo il tragitto mi guardo intorno, “Siamo nei miei cari Stati Uniti”-penso, visitati tante volte anche se non ero mai stata a New York. Il localizzatore trova la Highway e il tunnel sui quali viaggiamo. Dall’altra parte si staglia lo skyline e nulla sarà più come prima. E’ come essere nati una seconda volta. Stanca e pimpante, smanio dalla voglia di postare su Facebook e Twitter un semplice “Siamo arrivati” ma Marco mi riporta con i piedi a New York. “Dico, lo vedi dove siamo??”. Sì, lo vedo. Ho un sussulto e il taxi-driver si mette a ridere. I profili dei grattacieli illuminati si riflettono sull’Hudson e mi invitano a entrare. Non si dimentica più. Quella cartolina si sovrappone a strati e strati di immagini televisive, cinematografiche e musicali sedimentate negli anni nel mio e nell’altrui cervello. Eccoci New York!
Prima sera-primo giorno Vedo un edificio nero alla mia destra mentre entriamo in città: è quello del New Yorker, storica rivista della élite culturale e politica locale. Subito osservo che non si trova nell’affollata area metropolitana. Non è il New York Times, che dev’essere posto al centro della vita pulsante cittadina, per registrarne la cronaca ogni giorno. A proposito, quanto è bello il grattacielo trasparente del NYT sull’Ottava Avenue: è disegnato da Renzo Piano. Il New Yorker per me rappresenta un mito, come può essere il Blue Note per gli appassionati di Jazz o lo Yankee Stadium nel Bronx per i patiti di baseball. Varcare la soglia del palazzo è un privilegio concesso a pochi, penso, e nel mentre varchiamo un’altra soglia, molto affascinante, quella di midtown, diretti al nostro hotel. Tatticissimo, l’albergo si trova a Broadway, in pieno distretto teatrale. Siamo nel bel mezzo di una istituzione mondiale, il tempio dei Musical. In quel periodo a New York si rappresentavano “Mamma mia”, in cartellone da qualche anno ormai, “Priscilla, la regina del deserto”, “Chicago”, splendido, con Ute Lemper, la grande soubrette tedesca del Vaudeville che qui ha trovato casa, “Wicked”, “Billy Elliot” e il nuovissimo “Spider-man. Turn Off the Dark”, al Foxwoods Theater, lo spettacolo del momento. Proprio l’Uomo Ragno diventa terreno di scelta per me e Marco, che vorrebbe andarlo a vedere, mentre io lo tengo in ballottaggio fino all’ultimo. Il problema, croce e delizia qui a N. Y., è che ad ogni isolato c’è qualcosa meritevole di attenzione, perciò anche senza farlo apposta vi potete trovare a litigare dal nulla su come passare la serata o il pomeriggio. La strada che porta al Foxwoods è una delle più trafficate del quartiere, una insegna luminosa dopo l’altra, persone che come potenziali spettatori vagano indecise: un esercito di soldatini, pronti a divertirsi costi quel che costi. Alla destra del Foxwoods, se lo guardate di fronte, sulla 42 Strada che simboleggia Broadway, vi si spalancherà l’oceano di suoni e colori di Times Square. Per noi “la piazza” è stato il primo impatto serale e io ho imparato molto presto che non è solo un quadrato di insegne pubblicitarie, grattacieli e gente ad ogni ora del giorno e della notte, no. Times Square da sola vale un quartiere. Ma questo io credo lo si possa capire soltanto andando a New York. Il Capodanno per antonomasia si festeggia qui, è la prima piazza da cui si collegano i tg di tutto il mondo quando trasmettono i festeggiamenti per l’inizio del nuovo anno. Queste immagini ho capito che hanno avuto su di me un effetto fuorviante. Che il caos non parte da lì, ma che quella piazza è il baricentro di un’area molto più vasta, dalla quale si sprigiona una vitalità capillare e adrenalinica, che si estende fino ad Harlem.
TRIBECA. Mentre scrivo è in corso il Tribeca Film Festival, come da cartellone elettronico sospeso sulla Greenwich Street. La “creatura” di Robert De Niro, futuro Presidente di giuria a Cannes, dà il benvenuto all’edizione 2011, che promette di essere la più up-to-date nella scoperta dei nuovi talenti indipendenti. Questa ex zona di immigrazione, al centro di un importante intervento di riqualificazione urbana, è diventata una delle più eleganti della città insieme a Soho e Nolita, che dal Lower East Side ci portano verso il West Side senza accorgercene, tanto la camminata è bella e interessante. Io e Marco ci perdiamo tra Church Street e la Broadway, cercando di imboccare il giusto senso di marcia sulla Chambers, per raggiungere il ponte di Brooklyn. Il freddo è tagliente, ci sferza il viso, e il vento tira forte in direzione opposta! Mentre io perdo i guanti e li ritrovo, Marc è già proiettato verso la parte sud, ansioso di arrivare a meta. Ecco che accade uno dei piccoli miracoli verdi, come li chiamo io, tipici di questa città. Un’area verde, il City Hall Park, di fianco al Municipio. Da quando l’ho letto, non posso non pensare al sindaco Michael Bloomberg che raggiunge la City Hall in metro tutte le mattine ma soprattutto al campetto da golf che si è fatto installare proprio sopra il tetto del palazzo. Anche stavolta, dal vivo, me lo immagino là che sfida i soci in affari. L’aria di New York di primo mattino mi penetra nelle ossa. E’ affar serio, il piumino e la gonna lunga non mi proteggono adeguatamente. Dove andreste voi, avvolti da una cortina di freddo spessa così? Sul ponte naturalmente. Il ponte per eccellenza. Bando alle ultime premure, Io inizio il tragitto e Marc sta duecento metri indietro, a fotografare ogni angolo per catturare l’essenza di una città in continua evoluzione. Mica semplice. Il sole diventa passo dopo passo più abbagliante e io non riesco a togliere gli occhi di dosso alle campate. Poi penso di colpo alle due sponde su cui si affaccia l’isola: quella sull’East River e quella sull’Hudson. Avvio il localizzatore Geotag ed ecco che mi sento importante. Quasi una “local”, e rido di me. Marc mi raggiunge per fare dei ritratti: io con tiranti e auto alle spalle, lui appoggiato a un pilone, io in primo piano con un raggio di sole che mi taglia il viso a metà. Sembro la copertina di un album di Warren G. Procediamo alla volta di DUMBO, acronimo di Down Under the Manhattan Bridge Overpass, splendido nome, e scopro che si tratta di un’area che ne comprende due, una all’intersezione tra il ponte di Brooklyn e il Manhattan Bridge, e l’altra che si estende a est da quest’ultimo ponte fino a Vinegar Hill. Io pensavo solo all’elefantino, ovvio. Ci inoltriamo da Brooklyn Hights all’interno del quartiere e scopriamo alcuni tratti caratteristici, come le tipiche casette a schiera di mattone rosso e la palestra dove si è allenata Hilary Swank per fare la pugile in “Million Dollar Baby”, oltre ad alcuni nomi di strade originali, come la Farragut, Canarsie Road e Granville Payne, dedicate ad ammiragli che si sono distinti nella Guerra Civile e alla nascita della breve, ma densa storia americana. Brooklyn è anche la città di John Gotti, del compianto Heath Ledger e di Myke Tyson. Saranno ambientati qui i suoi racconti di quando, da piccolo, faceva volare i piccioni dal tetto di casa sua. Scopro che l’usanza di far volare i piccioni è piuttosto “comune” per i ragazzini di Queens e Brooklyn, anche se ora ci sono Playstation e pc a sostituirla. La visita a Brooklyn per noi termina con il Museo omonimo, che in questo periodo ospita la mostra “Norman Rockwell: Behind the camera”, dedicata a un’icona americana, l’illustratore e poi pittore che ha ritratto la vita quotidiana degli Stati Uniti nel secolo scorso. Anche da questi dipinti secondo me si evince il carattere di una nazione. Prima di lasciare Brooklyn voglio guardarla da una particolare prospettiva, e coinvolgo Marco in questo. Ci mettiamo sotto il Manhattan Bridge, nella via che si apre dalla riva orientale: quanto è New York ciò che vediamo, nella sua vera anima. Sul Manhattan Bridge, in senso contrario, sperimentiamo la gentilezza dei locali. Mentre siamo intenti a stabilire il prossimo itinerario e aggiorniamo lo “stato” e la posizione su Foursquare, una signora stoppa l’andatura del suo jogging per chiederci se abbiamo bisogno di aiuto. Sembra ansiosa di aiutarci. Penso in quell’istante che per i newyorchesi andare incontro al turista sia diventato uno status symbol, ma in tempi grami di educazione e civiltà come i nostri vi dirò che ci sta benissimo. Già dal ponte capiamo di essere arrivati a Chinatown, così vivace e cangiante di umori e atmosfera, anche se di fianco alla centralissima Worth Street ci sono i campi da baseball scolastici. Di colpo i tetti delle case si abbassano della metà rispetto alla media e le strade sono popolate di cinesi autoctoni con giubbotto di pelle nera, scarpe nere e una fretta indiavolata, sia che siano a piedi sia che percorrano i lunghi viali a bordo di un motorino. Parola d’ordine sfrecciare in qualsiasi luogo e parlare in continuazione.
Ma Chinatown è anche Frutti del drago, rosso fucsia in superficie, con piccole foglie acuminate che li fanno assomigliare a fichi d’India, e l’interno… bianco candido cosparso di puntini neri. La mia gioia di averli trovati era talmente grande che si deve a questo la risata fragorosa a cui mi sono abbandonata quella mattina nel mezzo del mercato della frutta, immortalata da Marco in una foto dell’album. Nelle cassette di legno lungo la via spuntavano fichi enormi e manghi, oltre ad altra frutta da passeggio come fragole e ciliegie. Una tentazione a cui cedere, prima di inoltrarsi nelle mille strade di New York. Sorpassiamo Chatham Square, incrociamo Bowery Street e la percorriamo fino a metà, dove c’è la nostra tappa per il pranzo: un bistrot in perfetto stile newyorchese. Tavoli disposti su un lato, arredamento bianco, essenziale, pareti mattone a vista, la cucina in fondo anch’essa a vista, gestita da un gruppetto di ragazzi dal modo di fare molto “take it easy”, tra cui una ragazza alla cassa. Fanno soprattutto sfilatini e insalatone. C’è pure un avventore con laptop nero, che dà un tono al locale. Indossa guanti neri di pelle, questo per darvi l’idea della temperatura all’interno. E’ un posto talmente minimale da rendersi attraente per giovani creativi. Il locale è freddissimo, tengono l’aria condizionata a palla, sebbene fuori ci siano zero gradi. Non so il perché. Usciamo sollazzati e infreddoliti ma abbiamo tanti chilometri da percorrere, per fortuna. Ci avviciniamo ad Alphabet City, alla quale Prince ha dedicato una canzone, e per farlo prendiamo la East Houston Street, che a me ricorda Martin Scorsese e i suoi primi film. In tempi più recenti vengo a sapere che, all’incrocio con la Norfolk, nella Angel Orensanz Foundation, si è celebrato il matrimonio tra Sarah Jessica Parker e Matthew Broderick. Una notizia che farà inserire nell’itinerario questo luogo a tutte le “Sex and The City” addicted italiane, e sono migliaia, anche perché esso sorge molto vicino alla boutique imprescindibile per le fanatiche del telefilm: il Manolo Blahnik flag store è sulla 54esima strada. Da Midtown, dove ci troviamo, compiamo una rotazione di 50 gradi a sinistra e andiamo verso Ground Zero. Certo la mia prima impressione è molto diversa rispetto a quella avuta da Marco nel febbraio 2002, a pochi mesi dalla tragedia dell’11 Settembre. A differenza sua, ho trovato un’area in piena riqualificazione industriale e commerciale, sulla linea della filosofia americana del “lavoro lavoro lavoro”: sulla destra del luogo più massicciamente colpito, dove sorgeva la torre sud, adesso c’è il nuovo Museo dell’11 Settembre, quello che ospita i pannelli e le mappe del nuovo progetto architettonico, che prenderà il posto del World Trade Center. In parallelo con la costruzione, dall’altra parte della strada, ecco invece il museo delle Torri Gemelle, quello delle vittime, dentro al quale si trovano metri di muro dove i newyorchesi all’indomani della tragedia andavano a piangere i loro cari e lasciavano fiori e bigliettini. L’ingresso costa 10 dollari. Ci rimango male, io l’avrei lasciato gratuito, soprattutto per il valore simbolico che ricopre quell’avvenimento storico per l’intera popolazione mondiale. I neighborhoods di Chinatown, Little Italy, Nolita e Tribeca sono alle nostre spalle, meriterebbe una visitina il sito divenuto pietra miliare de “Il Boss delle Torte”, a Hoboken. Per andarci dovete prendere il traghetto o la metro, perché si trova dall’altra parte dell’Hudson, nello stato del New Jersey, ma vi sembrerà di essere a New York per l’atmosfera e i grattacieli che potete vedere dall’altra sponda, riflessi nel fiume. Eh no, non si sfugge alla magia di questa città.
Hoboken per me significa “Fronte del porto” con Marlon Brando, invece ora è il tempio di Bartolo Buddy Valastro, pasticciere di origine siciliana che ha fondato la Carlo’s City Hall Bake Shop, che con termini altisonanti può essere tradotto il Municipio delle torte, dove Buddy è il sindaco. Il posto è così mitico che ha ispirato un reality show e io, dalla mia piccolissima Reggio Emilia, sono volata a New York sapendo che Buddy non solo è siciliano ma vanta anche una cugina reggiana. Che botta di orgoglio! Le torte sono semplicemente fenomenali, altissime, a doppio, triplo, quadruplo strato, e tematiche. Ce ne sono a forma di rana, di giardino fiorito, di castello. Qui si servono clienti speciali: Al Pacino e Britney Spears hanno ordinato ai Valastro la loro torta di compleanno. Diciamo che dovete entrare affamati, in compenso esistono dolci per ogni tipo di budget. Sulla strada del ritorno, dovreste trovarvi in linea d’aria all’altezza di Soho, dove tra i mille posti trendy c’è il Performing Garage, teatro off-Broadway dove risiede una compagnia sperimentale, mentre se salite verso Midtown vi imbattete nel vitale e variopinto Greenwich Village, o come lo chiamano loro il “Village”, dal quale deriva la distinzione tra East e West Village. Questa è un’altra New York, famosa quanto quella dell’Empire State Building, ma fatta di un’altra pasta. Qui hanno deciso di trasferirsi piccoli imprenditori, artisti e galleristi affermati, perché la qualità della vita è migliore. Io e Marco al Village ci siamo attorcigliati su noi stessi e ci siamo persi. Venivamo da nord, dal Meatpacking District, zona molto trendy adesso, insieme a Gramercy, dove hanno preso casa personaggi fashion come Chloë Sevigny, e Chelsea, che ha un po’ sostituito Soho nell’immaginario collettivo per la quantità di gallerie d’arte che stanno sorgendo, chiudendo e rinascendo negli ultimi mesi. Trovo che Meatpacking Dist. sia una zona incantevole. Riqualificata da quando era il vecchio macello delle carni della città, ora ospita l’altro Apple Store di Manhattan, dalla linea anche più attraente del primo, un sacco di atelier di moda aperti da stilisti emergenti, e personalmente posso dire che alcuni tagli così futuristici e stravaganti li ho adocchiati solo in queste vetrine, oltre a bistrot davvero bohemién. Non dimentichiamo che qui siamo a due passi dal Village. Da cui l’errore mio e di Marco. Convinti di essere già al Village, stavolta abbiamo saggiato sul serio la cortesia dei locali. Dirigendoci verso il giusto senso, ecco che attraversiamo una piazzetta davvero deliziosa. I tetti recuperano la forma a spiovente, e anche i colori delle case si raddolciscono. Un angolo a misura d’uomo nella rutilante megalopoli. Che gioia. Da Hudson Street, a Gansevoort, già set degli episodi di “Gossip Girl”, ci spostiamo su Bleecker Street, e la sensazione è un po’ quella di essere in Europa. E’ su questa via che ho trovato la boutique di uno dei miei stilisti preferiti: Marc Jacobs. Un loft stupendo, che copre due enormi locali, uno con le celebri borse e accessori, l’altro con il nome del designer creato da grandi lettere al neon. Un’opera d’arte contemporanea: «Qui siamo oltre lo shopping» – ho pensato. Per la sera, abbiamo sorpassato un “party store” che copriva due isolati per dirigerci verso il cuore del quartiere, a Washington Square. Marco era commosso nel vedere così tante maschere, gadgets e travestimenti da comprare per organizzare una festa. University Place, lì a due passi, ci avrebbe condotti al ristorantino per la cena. Luci basse, candele, musica lounge, arredamenti bronzo e arancione, il posto è ottimo anche per le colazioni o i famigerati “Lunch business”. Noi abbiamo ordinato pesce, tra cui la zuppa della casa, molto buona, e cozze. Il tutto innaffiato da un profumato Chardonnay prodotto in America. Una cosa mi sento di dire sul vino. Gli americani sono diventati molto bravi negli anni a produrre le loro etichette, vedi la Napa Valley in California. Tuttavia, scordatevi l’aroma e la consistenza dei vini italiani e toscani in particolare.. Usciti dal bistrot, risaliamo University Place per ascendere al Flatiron District, chiamato così a causa del Flatiron “Ferro da stiro” Building. Quest’edificio mi ha sempre affascinato, sin da bambina, quando leggevo i libri sulla storia della città e imparavo che risaliva ai primi del Novecento. Sembra un cuneo che taglia perfettamente l’aria in due direzioni e resiste impavido alle correnti, fortissime, che attentano alla sua struttura. Un ottimo inizio, penso, per proseguire all’insegna di un giro artistico della metropoli.
CENTRAL PARK, ARRIVANDO DA OVEST, E L’ARTE DELL’UPPER EAST SIDE Io, Marco e il vento, nostro compagno di viaggio, siamo nell’Upper West Side, fermata Lincoln Square della metro. Una signora di quelle parti che porta a spasso il cagnolino ci soccorre, informandoci che il Central Park si trova alle nostre spalle. Dobbiamo solo attraversare tre Avenue, tra cui Amsterdam e Columbus, e siamo arrivati. In effetti, è meraviglia pura quella che intravedo sbucando fuori da Columbus. Il polmone verde, uno specchio d’acqua immenso e la sagoma del Guggenheim Museum sullo sfondo. Dopo averlo tanto sognato, eccolo finalmente il Central Park. Primo impatto all’insegna del fitness. Davanti alla ringhiera nera che delimita il percorso, una donna con l’iPod è intenta al jogging quotidiano. Lo scatto di Marco è da cartolina. Avvicinandoci, il Museo dall’altra parte sembra una tazza a spirali bianche, di quelle in plastica, appoggiata su un vassoio, in mezzo allo skyline. Sto guardando la sigla di tanti telefilm americani, sto guardando “Friends”, Law & order”, “Gossip Girl”. Inoltre, sto per profanare un luogo sacro e inarrivabile della mia memoria di lettrice, spettatrice televisiva, teatrale, di viaggiatrice cosmopolita, curiosa di tutto, fanatica di cinema e di cronache del jet – set internazionale. Fra un istante toccherò l’Upper East Side. Sì, quello così amorevolmente descritto da Jay McInerney, Bret Easton Ellis e David Leavitt, quella metafora di lusso, buone letture e scuole alte espressi in una sola frase dalla residente Gwyneth Paltrow: «Puoi togliere la ragazza dall’Upper East Side, ma non puoi togliere l’Upper East Side dalla ragazza». Quanta boria in queste parole, vero? Ma come appaiono très chic alla donna comune quale io sono. Ci incamminiamo lungo il sentiero che costeggia il lago, dove sorge la piccola riserva dedicata a Jacqueline Kennedy Onassis, siamo quasi alla meta. Attraversiamo la parte meno caotica di 5Th Avenue ed eccolo davanti al nostro naso, il Guggenheim. Soltanto attraversare l’ingresso dà emozione. Ci ritroviamo a fissare il soffitto, un lucernario dal profilo Liberty che trasfigura il museo in una signorina Belle Epoque, danzante. “Che magia, questo posto”, pensiamo entrambi. La salita può incominciare. Il Guggenheim è bello perché procede per “Rotunde” fino all’Annex Level 7, l’ultimo piano, dal quale poi si torna indietro. A differenza di altre sedi museali, tanto enormi quanto caotiche e dove la guida è più che altrove necessaria, il Guggenheim è semplice, perché si può solo procedere verso l’alto e ogni pezzo è un capolavoro. Sì, ci sono fermate intermedie, come le mostre temporanee “Kandinsky at the Bauhaus, 1922-1933”, imperdibile, e la “Thannhauser Collection”, nel periodo della nostra visita, ma la maggiorparte delle opere si trova lungo la via, ed è un piacere per gli occhi e per lo spirito. La parte più incredibile della raccolta è “The Great Upheaval”, ovvero dipinti di arte moderna della collezione Guggenheim dal 1910 al 1918. Mentre eravamo là abbiamo avuto la fortuna di vedere “Le serie della Deutsche Bank”, che nella denominazione dei curatori sono diventate “Found in Translation”. Non vi ricorda il film “Lost in Translation”? La summa dei tesori conservati al Guggenheim è “A chronology”, la collezione dal 1909 al 1979, che racchiude il meglio del meglio dell’arte contemporanea. Noi nella nostra esperienza di attraversamento di questa stiva di preziosi, venuti in mano al grande mecenate collezionista, ricordiamo con amore i Picasso, i due Braque, la modella nuda nello studio di Fernand Léger, i quadri dalle architetture ossessive di Robert Delaunay, il pionierismo dei futuristi Umberto Boccioni, con la scultura della velocità a prendere un intero angolo, e Giacomo Balla, ma anche Marc Chagall e Marcel Duchamp, e gli Impressionisti, Gauguin e la Notte Stellata di Van Gogh (Pensavo di svenire… trovarmela lì davanti, così all’improvviso), il giardino di Seraut e i lunghi “colli” di Modigliani. Fino a contemplare, all’ultima rampa, le sculture stravaganti e bellissime del rumeno Constantino Brancusi. Usciamo stravolti e felici, dopo aver gustato – io – un dolcetto alla carota con la glassa. Per chi necessita invece di un pasto ristoratore, c’è il “Wright”, naturalmente. Dal nome dell’architetto a cui si deve tanta meraviglia. Ma le sorprese non sono finite. Sulla Quinta assistiamo a una scena che si sarebbe stampata nei nostri cuori e nelle nostri menti a vita. Due file di transenne e piccoli gruppi rumoreggianti. Che succede? Marco si informa presso un poliziotto: “Mr. President” – gli sibila questo. Ma veramente?!? Sì. Di lì a un quarto d’ora i gruppi diventano folla e all’altezza degli “Strawberry fields” (esatto, quelli della canzone), i gridolini sovrastano tutto. Anche lo shopping più sfrenato. Passa Lui. Con Michelle. Prima una serie di auto nere blindate e poi, eccola, la macchina di Barack Obama che sfreccia sulla Avenue dopo l’appuntamento diplomatico del giorno. Ma quel giorno c’è anche il nostro Giorgio Napolitano a New York, penso io. Che si siano incontrati mezzora prima? Una giornata intensa anche per Napolitano, dato che dallo Zoo del Bronx è sparito un grosso pitone che scorrazza amabilmente per Harlem e che quindi ha provocato una doppia dose di allerta nella sicurezza dei due Capi di Stato. Il pitone sarebbe stato ritrovato dopo due giorni, anche grazie all’aiuto di Twitter. Quante cose tutte insieme… Ah! siamo a New York.
Come un diamante incastonato in una collana, proseguendo sulla Quinta in direzione Empire State Building, troverete alla vostra sinistra la Frick Collection, dove ho lasciato il cuore. Appartenuta a Henry Clay Frick, la “piccola” ma spettacolare raccolta di dipinti inglesi, fiamminghi e italiani del 600 – 700 si trova nella sua ex residenza – museo, all’incrocio con la East 70th Street. La casa stessa è un’opera d’arte, ma prendetevi un’ora e mezza per visitare tutti gli ambienti, dove sono sparpagliati tesori inestimabili, fra cui Rembrandt, oggetto di una temporanea in quel periodo,Tiziano, Albrecht Dürer, Raffaello, Van Dyck, Giulio Romano e Bellini, con il “San Francesco nel deserto”.
A proposito di Harlem, è la nostra prossima tappa. Ci arriviamo di domenica mattina, in tempo per assistere alla Messa delle dieci. Ci mettiamo in fila per la funzione della Abyssinian Baptist Church, la più famosa e segnalata dalle guide, ma il gelo è siberiano e dopo un’ora e mezzo io, Marc e una cinquantina di persone non avvertiamo più la sensibilità ai polpastrelli. Con la differenza che qualche decina resiste, mentre noi, sebbene alcuni sacerdoti ci sfilino davanti snocciolando ammonimenti e discorsi motivazionali, decidiamo di andarcene. Siamo fortunati, però. Perché qualche Street più in là ci imbattiamo nella Mother African Methodist Episcopal Zion Church, dove la Messa sta per cominciare. Entriamo in un’altra dimensione: i bianchi sono naturalmente in minoranza, turisti, e perciò vengono scortati a sedersi nelle file centrali, dove troveranno il libro dei canti e delle scritture. Legno ebano, altare e balcone dorati e un organo dal suono splendido ci colpiscono, ma ancora di più lo spaccato sociale che si apre al nostro sguardo. Ci troviamo in uno dei grandi luoghi storici di Harlem e nella prima chiesa nera fondata a New York. La funzione è lunghissima, intervallata da bellissimi e intensi cori Gospel – il sito è rinomato anche per questo. Capiamo in un istante che la religione per i fedeli alla “Freedom Church” è soprattutto gioia, unita alla devozione, e siamo grati per l’esperienza che ci viene offerta. C’è anche un momento dedicato ai bambini, idea stupenda, così come è stupendo il fatto che un bimbo europeo venga scortato dal papà accanto a uno appartenente alla comunità di Zion. Altra cosa rimarchevole, ne discuteremo poi al Dunkin’ donuts qualche isolato più avanti, è l’abbigliamento a festa delle signore. Ne vedremo una entrare con un grande cappello bianco. E’ davvero un “lovely day”, come mormora un abitante: sole, cielo azzurro e sì, diciamolo, l’emozione di trovarsi al centro del mondo. Perché Harlem è a nord di Manhattan, la quale è affari, vita sociale, locali, shopping e vita notturna, e vi convive felicemente o problematicamente accanto, a quattro fermate di metro dal nostro hotel di Broadway. Un salto all’Apollo Theater è doveroso: qui si sono esibiti Patty LaBelle, Ella Fitzgerald, Quincy Jones e Michael Jackson, e molti dei grandi hanno iniziato seguendo la classica filosofia dell’american way of life: le sessioni pomeridiane riservate agli esordienti, che si svolgono dagli anni Sessanta nello stesso identico modo. Una forma di talent – scouting fenomenale, anche oggi. E Marco si commuove, pensando a se stesso, musicista in una band, pianista, e alla possibilità di cimentarsi davanti a una audience esperta come quella dell’Apollo. Lo fotografo sotto l’insegna delle Jam sessions. La canzone “YMCA” dei Village People, ve la ricordate? Parla dell’ostello cattolico della gioventù, che si trova da queste parti, con un campetto di baseball a fianco. Camminiamo e io mi rendo conto, mentre i polpacci gridano pietà per tutte quelle miglia fatte lungo i quattro punti cardinali e le vesciche che si moltiplicano, che New York non è solo ciò che vedi, ma ti influenza a livello di bioritmo. Come suggeriva un nostro amico, è una città che “detta il passo”, il quale non può che essere ipercinetico. Quindi, le nostre discussioni ne hanno risentito in positivo e negativo. Parlare delle incombenze e dei problemi che ci avrebbero atteso al ritorno acquistava un ritmo newyorchese, improntato all’attacco, alla non passività. E un’altra cosa, solo mia. Marco era già stato nella Big Apple e in più di un’occasione mi metteva fretta e sembrava non meravigliarsi quanto me. In realtà mi ingannavo. Era meravigliato eccome dalle infinite possibilità di vita che la città sembra suggerire al viaggiatore.
Io vado in America un anno sì e l’altro no dal 1996 (ho quasi sempre osservato la regola), ho lasciato il mio cuore a Chicago, che per me è davvero “My kind of city”, come dicono loro, e di New York conservo il primo impatto, di ebbrezza pura come il primo sorso di Martini, appena ho visto lo skyline di sera, venendo da Newark, New Jersey. Qualcosa di travolgente. NEL TEMPIO DELLA MUSICA “Carnegie Hall vs Spider – Man il Musical”, sulle note di Bono e The Edge. Sembra un match, diventerà un baratto per il nostro dopocena. Chi la spunterà? Dopo consultazione sul prezzo del biglietto del Musical, quello famigerato che è costato tanti incidenti di percorso durante la lavorazione, decidiamo per la Carnegie. Il prezzo dell’Uomo Ragno ci pare alto. Ma forse 85 dollari non è eccessivo.. Marco ci rimane male e anche io, però penso che così facendo potrò entrare nel tempio della musica che tanto ho sognato da piccola. In vista dell’occasione, andiamo sulla Quinta alla ricerca di un paio di scarpe per me e per lui. Io trovo delle decolléte semplicissime, le “Botticelli”, Marco adocchia scarpe da artista, coi lacci, nocciola e verde pistacchio, ma non c’è la taglia! Ach, che peccato. Quest’anno la sala da concerto, che è entrata nel video di “The English man in New York” di Sting, dedica le sue attività al Giappone. Una scelta già fatta, prima di terremoto, tsunami e catastrofe nucleare che hanno colpito il Paese, ma è ovvio che d’ora innanzi quella dedica sia divenuta un omaggio commosso. Così fotografo la porta, su cui è dipinto il ciliegio in fiore, simbolo nipponico. Il sogno della “Carnegie” diventa realtà… ormai ci siamo.Prima di entrare noto i cartelloni. Maurizio Pollini, che qui è un idolo assoluto, sold out da settimane. I primi di aprile sarebbe arrivato James Taylor a festeggiare il compleanno e tra gli amici invitati figura proprio Sting. Ma non si tratta di una sera soltanto. Il bello è che Taylor è protagonista di pomeriggi in compagnia dei giovani, per sostenerli nel loro avvicinamento alla musica. Anche queste iniziative confermano l’autorevolezza del posto. Noi assistiamo al concerto dell’American Symphony Orchestra diretta dal M° Leon Botstein sulle musiche di Walter Piston. La verità è che non è un gran concerto, dobbiamo ammettere l’uno con l’altra, guardandoci negli occhi. Piston è un compositore americano del Novecento e sinceramente si è sentito di meglio. La sala, il favoloso Isaac Stern Auditorium, vale da solo l’ingresso.Quelle lunghe e ondulate file di palchi, così diversi rispetto ai teatri italiani, rimarranno un ricordo indelebile per me. Se poi vi inoltrate nei corridoi, scoprite tutta una galleria di ritratti da perdere la testa: Leonard Bernstein, ma anche Igor Stravinsky vi guardano con fierezza. All’uscita della Carnegie, mentre si formano capannelli di gente che discute della performance appena vista – molti spettatori erano studenti della scuola di musica, tra cui una ragazza accanto a Marco tutta intenta a scambiar pareri con gli amici servendosi del suo iPad – noi due dopo una pausa ristoratrice ma “salata” presso un ristorante thai lì di fronte, andiamo a ritroso verso Times Square. Prima notiamo uno “sliver”, un grattacielo a forma di lama di coltello, bellissimo e luminosissimo, che si staglia nel cielo stellato e ci preannuncia lo scintillante mondo di Condé Nast. Che vuole dire? Che siamo in presenza del grattacielo dove ha sede Vogue America, e questo ci porta a due parole: Anna Wintour. Ebbene sì. Sarà che una delle ultime cose viste in tv, prima di partire, era un documentario sulla vita di questo direttore megagalattico del quale tutti hanno imparato a conoscere caschetto biondo e gonnellina roteante, ma Anna per me è una figura più affascinante della Carrie Bradshaw di Sex & the City. Senza mitizzarla. Si dice infatti che sia una tiranna, anche se il filmato la mostra al lavoro, da Vogue appunto, un lavoro sodo in uno studio minimale, bianchissimo, in contrasto con la mole di fotografie che la signora deve selezionare per trovare quella che farà tendenza. Giunti a Times Square, supplico Marc di fotografarrmi l’M’N’MS che scala la Statua della Libertà. No, non sto sognando, è che un tabellone elettronico proietta le immagini delle simpaticissime caramelline di cioccolata intente in varie imprese. A due passi sorge lo store dei noti dolciumi, dove dentro hanno montato giostre da Luna Park. Sono dei bambinoni questi americani.
I FORZATI DEL FITNESS I forzati del Fitness, come li chiamo io, li abbiamo visti al Village, vicino al quartiere di Gansevoort – Meatpacking District. Una palestra che copre l’angolo dell’edificio, a tutta altezza, trasparente su tre piani, aperta 24 ore su 24. Dentro pazzi scatenati sul tapis – roulant, sulle pedane tecnogym e, di là, quelli dello spinning, un’altra tribù. Coda di cavallo dondolante, pantacollant e la verve dell’avvocato che non deve chiedere mai, nemmeno in pausa palestra, così mi sono immaginata la patita della corsetta sul posto, che riuscivo a intravedere dall’altro lato della strada. Una newyorchese alla “Sex & The City”, ma quale delle quattro? Non Charlotte, che vedo più attovagliata a un tè delle cinque, col vestito crema, a raccontare di cose romanticissime. Non Carry, più devota allo shopping, non Samantha, che preferisce un altro tipo di sport. Rimane Miranda, che tra l’altro è un avvocato grintosissimo. Ma sì, lei potrebbe essere una cliente della palestra 24h/24.
Per una patita di cinema come me, New York è una manna. Come lo è San Francisco in un modo diverso. Se la seconda è seduttiva, tutta immersa in un’atmosfera di sognante estasi che ti fa percepire i luoghi culto senza affanno mentre cammini, la prima non ti dà tregua: perché ogni pezzo di muro è stato oggetto di ripresa cinematografica o televisiva. O di letteratura.
L’Upper West Side, per esempio, ci racconta i romanzi e la vita di Bret Easton Ellis e Jay McInerney. Del primo si dice abbia abitato per anni in un monolocale anonimo, dormendo su un materasso e nient’altro.
New York è anche una città disegnata dal sogno. Ma metafisico. Lo scopriamo a Coney Island, a sud di Brooklyn. La località balneare dei newyorchesi è un luogo – non luogo incredibile, che sarebbe piaciuto a De Chirico. Noi ci andiamo all’inizio della primavera, ma immaginiamo che vuole dire farsi un tragitto di un’ora in metro, con infradito, telo mare e costume, per entrare a poco a poco in un’altra New York, che subentra al ricordo sempre più evanescente della prima, sostituita da casette basse, con le pareti scrostate e condomini marroni e di stampo nord europeo. Stiamo infatti entrando a Brighton Beach, il quartiere russo, volti e ambiente cambiano in modo drastico. Anche da lì si può avere accesso a Coney Island. Lungomare bianco, puntellato di gabbiani e cabine grosse come villini creano un aspetto così spettrale, insieme alle giostre dismesse. Sembra di vedere la storia di “IT”, di Stephen King, palesarsi sotto i nostri occhi. Tra i souvenir, l’immagine icona da portarsi via è una maschera da joker, ma non temete. Un manifesto annuncia l’imminente apertura di un nuovo e terrificante parco giochi, accanto alle vecchie montagne russe. “Stay tuned!”, allora.
RICORDI SPARSI A Park Avenue ci abitano i ricchi e famosi, ma soprattutto le celebrities del cinema: Annette Bening e Warren Beatty hanno un attico da queste parti, Nicole Kidman quando stava con Lenny Kravitz ha vissuto nell’Upper East Side e anche ora, col nuovo marito Keith Urban, vi ha preso dimora. All’opposto nella scala di bellezza, Ugly Betty va a lavorare ogni giorno nei quartieri alti, nella redazione di Mode. New York è anche “Forget about it”, detto da Al Pacino a Donnie Brasko-Johnny Depp nell’omonimo film. Penso a tutto questo mentre sorpasso una vetrina di souvenir sulla 34a. Vedo che hanno dei pupazzi fantastici, tra cui i miei adorati Mon cchhi chi, gli scimmiottini anni Ottanta. Per giunta in versione newyorchese. Ne prendo due: un taxi-cab e la statua della Libertà. Deliziosi.
HOLLY GOLIGHTLY Mentre mi avvicino alla vetrina di Tiffany sulla Fifth Avenue penso di essere lei. Mi immedesimo, tento di accendermi di quella “allure” irraggiungibile che possedeva il personaggio di Truman Capote in uno dei suoi romanzi più riusciti, portato sullo schermo da Audrey Hepburn. Il tutto, la mia deambulazione sicura e frettolosa, la curiosità e gli occhi luccicanti come le pietre preziose sotto lo sguardo divertito di Marco. Al quale non sembra vero… Quel giorno di fine marzo intorno alla finestra piccola ed elegante che racchiude una parure di diamanti c’è una parete azzurra come il cielo, il cielo di Magritte (le cui opere avevamo visitato a gennaio, a Bruxelles). Il mio piumino è azzurro cielo, della stessa tonalità. Ho capito le intenzioni del mio fotografo: incastonarmi nella parete, al posto della finestra. Una Magritte’s creation original, nel cuore dello shopping district. Wow! Il resto della visita, sulla mitica “Quinta”, procede con in mente Holly. Questa giacchetta la comprerebbe? Che direbbe di questi occhiali da diva? Sono abbastanza da diva? E via fantasticando. Entro ed esco da Banana Republic, la torre di Saks, Bergdorf Goodman e la mia preferita, Juicy Couture, che secondo me è il vero emblema della ragazza americana modaiola: tutto è rosa confetto, ovattato, ma allo stesso tempo urban style. Perfetto, mi sento una diciottenne di Manhattan. Possiamo procedere. A seconda delle tasche, la Quinta è più o meno accessibile. Dall’inarrivabile Louis Vuitton, che sfoggia il flag store più bello a mio avviso, con degli struzzi formato gigante e minacciosissimi che arrivano fin sull’asfalto, a Victoria’s Secret, potete scegliere il negozio che più si adatta alle vostre esigenze. Finito lo shopping, anche se a New York City non lo si finisce mai, concedetevi una pausa al “TGI Friday”, a metà della strada. Lo riconoscete dai colori rosso e bianco a bandierina. L’atmosfera è un po’ rockabilly anni Cinquanta, alla Happy Days, ma qui ci entrano anche le signore più sofisticate di Upper East Side e ordinano un “Pink Cosmo”, come ho fatto io.
MA LA BIG APPLE è ANCHE Umberto Boccioni al Guggenheim o i bambini di una scolaresca multietnica che si fermano a guardare e accarezzare il cavallo montato da un poliziotto, o la fila per acquistare l’iPad 2 nell’Apple store sulla Fifth Avenue, iniziata alle cinque e mezza del mattino e governata da una vigilessa salita in cima a uno scaletto per vedere tutta la serpentina, o la scritta “Party Rental Ltd.” che ha per logo un enorme ippopotamo rosa, versione cartoon, stampato su un camion che incroceremo più volte nel corso dei nostri andirivieni a Brooklyn. O il profilo della Rotunda del Guggenheim Museum all’alba, una enorme tazza da caffelatte. E la sindrome di Stendhal che si prova di fronte alle opere del museo. Ma Big Apple è anche quell’indovinello del momento sull’attore Charlie Sheen, di nuovo nei guai con la giustizia, raccontata da un povero di Harlem al turista di turno nel tentativo di strappargli qualche dollaro.
Aneddoti giornalistici Mentre siamo qui va in onda la prima, attesissima puntata del serial tv “Mildred Pierce” sulla HBO, con Kate Winslet ed Evan Rachel Wood. Essendo l’episodio pilota, c’è l’ebbrezza di raccontare la nascita di un programma molto seguito negli Usa, agli amici a casa. Vediamo inoltre che perfino una centralissima Avenue come l’Ottava può essere un luogo di prostituzione, quando dall’altra parte della strada, alle dieci di sera e di fronte a un hotel, proprio mentre noi mangiamo un’insalata greca, un trans attira l’attenzione e si fa caricare da una Limo bianca, in mezzo al traffico.
BORN IN THE USA Fuori da Macy’s, in quei giorni un tripudio di fiori e terrazze per il Festival della Primavera, vediamo un homeless con cartello, che recita così: “Sono un reduce del Vietnam, vorrei dire al Governo Obama che esistiamo anche noi, che abbiamo lottato per difendere il nostro Paese e meriteremmo gratitudine e un altro trattamento per questo. God Bless America”. Rimango attonita e sbalordita. La prima parte del cartello, peraltro inattaccabile, è in aperta antitesi con la conclusione. Tu che sei stato messo da parte come uno straccio vecchio dal Paese che hai difeso lo benedici… Ma il patriottismo è altra cosa e non risponde alla logica della testa, semmai al comando del cuore.
E’ passata una settimana e ho raccolto aneddoti per una vita. Nel sacco delle foto metto anche gli stemmi dei quattro fiori all’occhiello della difesa Made in Usa, la Us Armed Forces Recruiting Station: Army, Navy, Air Force e Marines.
Danielle De Palma, mia amica New Yorker allora studentessa in Legge con abitazione a Soho, diceva che le piaceva vivere nella Mela perché “Ti senti al centro del mondo e non hai bisogno di altro”. Come non crederle… E non fatevi incantare da chi pretende di insegnarvi che cos’è questa città. Tutti i racconti del mondo per quanto dettagliati ed esaurienti possano essere non faranno la “vostra” New York.