Cameroun: Baka e Koma
Avevo visto su internet, per caso, la possibilità di visitare le popolazioni Baka, i famosi Pigmei della foresta equatoriale. Altra ricerca internet e trovo che si trovano fra Camerun e Congo. Già mi incuriosiva da un po’ il Camerun, da quando Milla segnò il famoso gol ad Higuita, paese misconosciuto dal quale non provengono molte notizie e tanto meno se ne hanno da visitatori. Si prova ad andare. Non facile, le comunicazioni con le agenzie locali sono complicate e sopratutto mi sparano cifre senza senso, il nolo 4wd in loco è una chimera, il tempo scarso, ero quasi propenso ad abbandonare la meta che trovo un agenzia italiana che propone la destinazione, li contatto ed in breve mi formulano una proposta che mi ispira, una volta tanto faccio il “pacco” e si parte. A differenza degli altri miei report, essendo questo un viaggio nato all’ultimo e, organizzato da professionisti (per una volta), non sarò prodigo di dettagli utili ma tenterò una sorta di diario resoconto.
Volo Air Maroc via Casablanca a Yaoundè con arrivo appena prima dell’alba, tempo una colazione e siamo già in viaggio con autista e guida verso la foresta. Prima per una buona strada asfaltata e poi per una pista accidentata ma non particolarmente brutta per gli standard africani, raggiungiamo in quasi una giornata di viaggio la località di Somalomo, attraversando i centri più grandi di Ayos e Messamena. La strada è praticamente aperta nella giungla, ai lati l’unico paesaggio sono piante e arbusti colorati di rosso a causa della polvere che sia alza dalla strada, ci imbattiamo in grandi camion che portano enormi tronchi di mogano, prova che anche qui il disboscamento è una pessima realtà. Lungo la pista si incontrano i primi insediamenti di Pigmei “sedentarizzati” ed altre etnie con le caratteristiche capanne a graticcio.
SOMALOMO: Piccolo sonnacchioso agglomerato di case senza corrente elettrica in mezzo alla foresta e porta d’ingresso alla riserva du Dja, zona protetta. Non c’è nulla a parte lo spartano ma confortevole ostello di Mama Rose, bella sciura che se la tira un po’ e che ci cucina il primo ottimo pollo da corsa, qui pernottiamo. Fa caldo e l’umidità si aggira sul 95%, stima misurata dal livello di sudore.Per entrare nella riserva bisogna registrarsi ad un fatiscente visitor center, pagare un tassa d’ingresso ed una per la macchina fotografica o la telecamera. Trovare i Pigmei senza una guida è praticamente impossibile.
RESERVE DU DJA: Ci avviamo a piedi di buon ora con la guida Baka, la nostra guida portatori e masserizie, e la Peppa ma chi siamo? e dopo aver litigato con il ranger riguardo la tassa sulla fotocamera in breve siamo al fiume omonimo che attraversiamo in piroga. Camminiamo ancora un po’ lungo una pista carrabile (forse anni prima) fino a prendere un sentiero nella macchia. Qui si chiude un mondo e se ne apre un altro, sparisce la luce del sole, spariscono i punti noti e ci si trova chiusi sotto una cappa di arbusti, piante dal ciclopico all’infimo, foglie, felci, parassiti dei parassiti dei parassiti dell’albero originario che chissà cos’era. Ne ho viste di foreste ma una cosa del genere mai, un mondo verde/azzurrognolo e umido che letteralmente ti ingloba.
In teoria nella riserva ci sono elefanti, scimmie, leopardi ecc. Ma a parte qualche primate che si intravede volteggiare nell’alto dei fusti è praticamente impossibile vedere alcunché a meno di non sbatterci contro, elefanti compresi.
Il trek è in realtà una passeggiata anche se l’umidità è decisamente pesante ed in un’oretta e mezza scarsa sbuchiamo in una specie di radura e, come di incanto, fatto dello stesso materiale di cui è fatta la foresta, dello stesso colore, troviamo il villaggio Baka ed il popolo omonimo, anch’esso indistinguibile dall’ambiente circostante.
I BAKA: Il villaggio è formato da una decina di capanne fatte di rami e foglie, qualche grosso ramo che funge da sgabello, resti di fuochi, qualche pentola. Premetto che il gruppo a cui facciamo visita è già, uso un termine che detesto ma non ne trovo uno migliore, “contaminato”. Sono già abituati a scambiare con altri, vivono vicino alla, si fa per dire “civiltà” e probabilmente hanno già “subito” dei turisti visitatori, infatti per il campo ci sono resti di scatolette di latta e qualche bidone di plastica. Ulteriormente all’interno della foresta, che si estende fino al Congo vivono gruppi di Pigmei che evitano ancora qualsiasi contatto esterno cercando di resistere alla deforestazione e sopratutto ai missionari. Piantiamo la tenda in un anfratto e ci guardiamo attorno. C’è poca gente al momento, qualche anziano, una signora, dei bambini, due o tre uomini. Sfatiamo subito la credenza che i Pigmei siano dei nani, sono morfologicamente più piccoli rispetto ai negroidi, con il naso schiacciato, ma non così piccoli, però molto robusti e tonici. Non conoscono allevamento o agricoltura, sono cacciatori/raccoglitori, non scherzavo quando dicevo di aver fatto un salto nella preistoria, ed assolutamente simbiotici con la foresta. Abituati ad avere un tetto odiano il sole e lo evitano il più possibile. Passiamo la giornata con loro. Non accade nulla, parte della tribù, le donne naturalmente, sono in cerca di cibo nel folto, il resto del gruppo svolge l’attività che pare sia la principale, riposare. Qualcuno si sdraia nelle capanne e qualcuno è seduto. La foresta dà tutto, cibo, acqua, vestiti, tetto, protezione e, vedremo poi, medicine e cure, ovvio quindi che la vita corra lenta e rilassata e non ci sia nessuno stimolo per una qualsiasi ricerca. Qui il tempo non ha significato, il concetto stesso non esiste, quasi non esiste nemmeno la notte, infatti essi si muovono al buio, senza nessuna luce, come se fosse giorno, non si pongono il problema, e non solo quello, non se pongono proprio a prescindere. Per prima cosa ci presentano il capo tribù, un signore magro sorridente, a cui diamo i doni precedentemente comprati, dei machete, sale, sapone, che apprezza molto e ci ringrazia. Passiamo un po’ di tempo nell’osservazione delle non attività della tribù e poi partiamo con due giovani per un giro nella foresta. Ci mostrano la loro conoscenza totale della foresta, l’uso che fanno di ogni pianta per curarsi, malaria compresa, vestirsi, nutrirsi, in un attimo costruiscono corde, ceste, ingegnose trappole per piccoli mammiferi. Non vivono nella foresta, sono foresta. In breve perdiamo l’orientamento, è un vero e proprio labirinto che non dà nessun riferimento, gentilmente ci riportano indietro. La cosa che colpisce e resta di loro è la sensazione di tranquilla serenità che li pervade, che emanano, non hanno nulla e non gli serve nulla, penso alla quantità di mai più senza che ho a casa, allo stress, all’A4 ora di punta. Passiamo quindi una giornata a stretto contatto, giocando con i piccoli, sorridendoci vicendevolmente, per loro è come se fossimo nati li, due piante pure noi, nessun disturbo e pochissimo interesse, Anna si adatta perfettamente alla situazione e passa mezzo pomeriggio a dormire. Il pomeriggio è spezzato però da un fatto eclatante, due vecchietti vanno a tagliare un albero a machetate per fare legna. Non raccolgono rametti ma tagliano un paio d’alberi di buona dimensione che si caricano tranquillamente in spalla, robusti i nonnetti! La giornata dell’omino con le foglie sul capo. Da annotare. Arriviamo alla mattina che è seduto su di un tronco fuori dalla capanna. Se ne sta seduto li un po’ conversando con chi gli capita a tiro ed un po’ coccolando i bambini, rigorosamente senza spostarsi. A pranzo una signora, credo non fosse la moglie, gli prepara il pranzo che consuma senza alzarsi dal tronco. Dopo pranzo, , urka, si alza per andare nella capanna a fare, giustamente, un riposino. A metà pomeriggio rispunta per, indovinate un po’, risedersi sul tronco dove soggiornerà fino a sera quando gli arriva una più sostanziosa cena preparata da un manipolo di sciure che degusterà naturalmente senza muoversi. Passerà il dopocena aderente al tronco ed assisterà divertito alla festa sempre dalla stessa postazione fino ad una cert’ora quando, presumo spossato da cotanta attività si ritirerà nei propri appartamenti per un meritato riposo. Naturalmente non lo abbiamo salutato perchè alla partenza alla mattina non si era ancora alzato. E’ verso sera che si anima il villaggio, con il ritorno di tutti quelli in giro a “far spese”, scopriamo che il gruppo conta circa una ventina di individui. Frutta, igname, foglie e piante vengono scaricati davanti alle capanne, taglia, trita e sminuzza, si cucina direttamente a terra sulla legna, evvai un po’ di movimento! Ci facciamo anche noi un bel spezzatino di pollo gentilmente preparato dal cuoco che ci ha inviato Mama Rose, che ringrazio calorosamente, il pollo è stato meno contento, confesso. Dopo cena, in nostro onore o, mi pare più come scusa per fare baldoria, improvvisano una festa con due tamburi, canti e danze. Anche qui è significativa la semplicità del ballo, niente coreografie complicate. Si dispongono su due file, una di fronte all’altra ed uno alla volta attraversano lo spazio chiamando qualcuno nell’altra fila che attraversa a sua volta chiamando un altro e così via. Semplicità è la parola d’ordine. Naturalmente partecipiamo suscitando grande ilarità. Ad una cert’ora non ce la facciamo più ed andiamo a letto portandoci via i frontalini, uniche luci e questi continuano nel buio più completo come nulla fosse, tanto per dire. La mattina dopo ritorniamo a Somalomo, nel presente con la sensazione di aver vissuto un esperienza onirica. E’ due giorni che siamo in giro e puzziamo già mica male, la maglietta ha già un colore indefinibile ed i tafani hanno banchettato allegramente con il nostro sangue lasciandoci pruriginosi ricordi.
Nota fotografica.
Mi aveva avvertito il scior Vittorio dell’agenzia che non era facile fotografare i Pigmei. Aveva ragione. Se qualcuno va, spero che questo possa servire a fare foto migliori delle mie. Primo, non c’è luce, solo nel tardo pomeriggio con i raggi radenti filtra del sole fra i rami illuminando un po’ di più ma creando grandi contrasti. Indispensabile un piccolo flash, con tutti i problemi annessi, io detesto anche la luce artificiale figuriamoci il flash che non so usare. Ci si può portare un cavalletto, trasportarlo non è un problema usarlo nemmeno. Però…..i Baka sono pacifici e decisamente gentili, se ne stanno li a farsi fotografare senza mostrare il minimo disturbo e spesso sono pure immobili, non mi ci vedo però a montargli un cavalletto in faccia. Non potendo usare il tele, personalmente ho avuto difficoltà a riprenderli da vicino, nel senso che alla terza fleshata negli occhi mi sono un po’ vergognato. Sono pochi, sempre quelli, stargli addosso è un accanimento, primo il rispetto. Rubare foto è difficile, sia per la luce sia perché non fanno molte attività, anzi fan proprio niente a meno che non li si fotografi nella capanna durante il riposino pomeridiano. Il riflesso verde/azzurrognolo è decisamente marcato, appena arrivato ho pensato: questo è un posto da bianco e nero. Se qualcuno si porta una analogica caricata a Tmax può fare grandi foto. Altro consiglio, grande scorta batterie, mezzo Cameroun è senza corrente elettrica, e qui in particolare non caricate da nessuna parte. Dulcis in fundo l’umidità che appanna mirino e ottiche. Assolutamente fotografare in Raw, permette di salvare molte foto e, senno di poi, usare tempi più veloci per schiarire dopo.
Dopo i saluti di rito da Mama Rose si riprende la strada per tornare a YAOUNDE’. Abbiamo tempo anche per il tour della città che, se possibile, è meglio evitare, non è che offra grandi highlights, anzi diciamolo pure è proprio bruttina e caotica, anche il mercato è piuttosto anonimo, però è una città dignitosa, senza slums o scorci particolarmente degradati come si trovano in altre parti d’Africa. Mi segnalano decisamente interessante il Musée d’Art Cameroonais del Monastero Benedettino, non lo visitiamo ma riportio il sentito dire. Ci facciamo però una mangiata di pesce d’acqua dolce che ha il suo perchè!!! E via al treno. Prima cosa che balza all’occhio è la stazione blindata , il treno qui è una cosa seria. Quasi come andare in aereoporto. Avevamo lasciato i passaporti all’andata per la prenotazione, li ridiamo ora per il biglietto, pare una cosa parecchio complicata, non avendoli presi personalmente non posso definire bene, ma anche la nostra guida ha avuto difficoltà con la burocrazia e ci è parso decisamente sollevato quando li ha avuti in mano. Finalmente siamo in stazione ed il treno tanto agognato è, pensate un po’, un treno. All’interno fa un caldo allucinante, il ventilatore non funziona, il climatizzatore tanto meno, dopo un litigio durato a lungo riesco per lo meno ad aprire il finestrino, anche l’afa esterna sembra entrare come brezza mattutina. Anna decede direttamente sul lettino optando per l’animazione sospesa, la rivedrò (funzionante) solo il mattino dopo. Partenza puntuale, siamo in Camerun mica fra i pendolari delle FFSS. Diciamo che dormo poco, il treno ha degli scossoni inverosimili, parte e si ferma decine di volte ed ogni volta sembra che gli diano uno strappo netto e che qualche pezzo si sia staccato rotolando via. Salta pure e mi chiedo come possa saltare un treno. A volte mi affaccio al finestrino durante le soste e siamo nel buio totale. Comunque in sole 15 ore siamo a Ngaunderé, più o meno nel centro del paese. Qui facciamo conoscenza con Chipa, nostra guida per il giro fra i Koma, all’inizio personaggio di poche parole e piuttosto spiccio. Infatti saliamo sul pick up e partiamo al volo per il nord, sono circa le 11 di mattina. Ci fermiamo per un veloce pranzo ed abbandonata la strada principale percorriamo uno sterrato. Passiamo qualche villaggio fra cui il principale della zona: Poli, dove teoricamente dovremmo fermarci a pernottare in guest house. Invece lo vedo passare dai finestrini mentre sbavo alla scritta coca cola ice. Arriviamo col buio tritati come prezzemolo nel mitico villaggio chiamato Wangay che, vi assicuro, è molto, ma molto sperduto.
WANGAY è un polveroso villaggio di casupole dove l’energia elettrica è un miraggio, l’acqua corrente un sogno, la gente cordiale e non c’è assolutamente nulla. A dire il vero qualcosa c’è: un generatore di corrente, cavoli! Io li vendo! Me l’aveva assicurato Chipa che c’era, voglio caricare le batterie il più possibile. Me ne vado al buio fra una serie di cortili e ti trovo un generatore cinese d’età media 22 anni ed una televisione. Cacchio! Il cinema! Infatti mezzo villaggio si riunisce ad applaudire le gesta in dvd di Eto’o fino a che non finisce la benzina poi tutti a letto. Noi più morti che vivi, ma con una batteria carica, ci ritiriamo nella tenda montata nel cortile di una specie di caravanserraglio,acqua per lavarsi una chimera, il bagno è un buco per terra, una sgnappa non siamo riusciti a comprarla ma fa un po’ meno caldo, la cena ottima, insomma , a parte la sgnappa, va tutto bene.
Alla mattina presto si parte per il trek.
Una folla di giovani si accalca nel cortile, si offrono per fare i portatori, una sorta di caporalato. L’elegante capo villaggio ne sceglie 4, con che criterio lo ignoriamo. Il più fortunato è quello che si becca lo zaino comune mio e di Anna, sarà si e no 4/5 kg in tutto. Del resto, qui non serve nulla, una maglietta per la notte, sacco a pelo e poco altro. Il mio di zaino invece pesa una sassata, acqua, ottiche, macchina fotografica, batterie a ufo, quasi quasi faccio cambio. Tutti pronti e carichi e ci si avvia. Sono un po’ perplesso, formiamo una colonna insensata per due persone, va bene la tenda, il cibo, ma il tappeto per me si poteva lasciare, ok capisco per loro è tutto lavoro e ne sono molto felici ma: la nostra guida cuoco Chipa, la guida Koma e quattro ragazzi fanno sei persone per due turisti, mi sento a disagio. Da quel momento iniziamo a chiamarci fra noi Lady Marian e Sir Edward, Dukes di Ostrich, fortunatamente non siamo di quelli che vanno in Afrika con la tenutina sahariana color kaki najoleari altrimenti andrei a nascondermi.
I KOMA si dividono fra 4 gruppi principali a cavallo fra Camerun e Nigeria. Ritiratisi sui monti Alantica per sfuggire alle invasioni islamiche hanno vissuto isolati per secoli, trent’anni fa ancora era difficile avere contatti con loro. Io li divido in due gruppi per semplificare “chì de sùra e chì de sòta”. Quelli che abitano nelle erbose pianure ai piedi dei monti, i quali hanno assorbito maggiormente la cultura islamica e che trafficano con altre etnie e quelli di montagna più tradizionali, isolati ed animisti. Il primo giorno di trek è quasi tutto in piano, ci fermiamo di villaggio in villaggio, a volte di una o due capanne ed assistiamo ai lavori base della loro economia di sussistenza, pestaggio del miglio, essiccazione del caffè, tutte le fasi della lavorazione della birra di miglio, costruzione muri di fango, intreccio foglie, ecc. Il paesaggio è una piana polverosa circondata da erbe secche alte ed alberi. Il cielo è grigio d’umidità ma la temperatura accettabile. La preparazione della birra occupa gran parte delle attività, si preparano giorni di festa e tutti fanno scorta. Bollitura, filtraggio, fermentazione, chi più avanti, chi più indietro ma ovunque si incontrano otri o filtri. Non so come sia la preparazione della birra normale ma questo liquido denso di colore indefinito, con tutto il rispetto, non appare molto appetibile, infatti all’assaggio è piuttosto acida, meglio la Tennents! Darei un braccio per una Moretti fresca! Lasciati i villaggi in piano e tutte le loro comari ed attività il sentiero sale dolcemente, sempre fra erbe alte e raggiungiamo la prima comunità a mezza costa dove passeremo la notte. E’ un bel villaggio di capanne di fango e tetti di paglia fra alberi di papaya ed molti altri sconosciuti. Qui le sciure anziane vestono ancora il tradizionale gonnellino di foglie e stringono fra i denti una pipa di legno fumando a ciclo continuo. Piantiamo la tenda in mezzo al villaggio e procediamo nell’attività principale di questo viaggio, giocare con i bambini, i più piccoli spesso scappano spaventati, sopratutto dagli occhiali e dal mio berretto tattico, parlare e molto osservare. Anche qui, come dai Pigmei e nei villaggi da basso lasciamo dei “regalini” precedentemente acquistati, fiammiferi, sapone, sale, zucchero e lasciamo qualche soldo al capo villaggio per l’ospitalità. Moneta nigeriana. Qui, quasi al confine, commerciano più con la Nigeria che con il Camerun, gli chiedo se questa divisione fra due stati gli crea problemi. Che problemi? Mi rispondono, siamo Koma di quà e di là, quale confine? Poi mi fa un discorso sul fatto che non pagano le tasse a nessuno, che da italiano stento a capire. Il nostro Chipa ci prepara una cena con i fiocchi, è veramente bravo. A pranzo verdure ed insalate, rinfrescanti che non appesantiscono e, ce lo mostrò con fare molto serio in modo che non ci preoccupassimo, lavate con acqua di pozzo e disinfettante. A cena pasta perfettamente cotta, pollo, pesce di fiume. Due parole su questo sanguigno atipico camerunense del nord dai modi bruschi e schietti. All’inizio mi lasciò un po’ perplesso proprio per il suo fare piuttosto “rude”, uso questo aggettivo da non leggersi nell’accezione di scortese o comunque negativo. Diverso da quel tipo di guida che recita una parte, giustamente anche per rendere il viaggio più interessante al turista, atteggiandosi magari anche un po’. Chipa nulla, 4 parole in croce, sempre disponibile se chiedevamo qualcosa, dall’acqua alle spiegazioni, ma sempre defilato, eppure sempre presente. Mai nulla fuori posto, sempre un attenzione, sempre diligente e scrupoloso. Un giorno fa un cazziatone che bastava la metà alla guida Koma, perchè, avendo dovuto allontanarsi dal campo, la guida si era allontanata a sua volta lasciandoci soli. “I turisti non bisogna mai lasciarli soli” e giù porconi!! Io mi sarei nascosto sotto la sabbia, pensando ad uno che mi deve “curare”, ma vabbè, qui si usa così. Scopriamo qualche giorno avanti, dopo un nutrito numero di birre, che lavora e risparmia per aprire un Al villaggio becchiamo due svizzeri, gli stessi che avevamo intravisto la mattina Wangay, praticamente la metà dei turisti che vedremo in Cameroun prima d’arrivare al mare, seduti sulla loro stuoia. Orpo due turisti!!! Provo a scambiare due parole ma a malapena mi rispondono, sono giovani ed hanno una faccia che dice “Ma dove (censura) siamo finiti?” Non li rivedremo mai più, o se li sono mangiati i Koma o l’Afrika fa effetti diversi alle persone. Noi invece stiamo da papi. Il pitale d’acqua che ci fornisce il nostro Chipa alla sera basta ed avanza per le abluzioni minime, la cena ottima ed abbondante, la colazione pure, nessuno che rompe le scatole, il telefono non prende, le conversazioni interessanti, quasi un paradiso, manca solo una bottiglia di Lugana fresco.
Alla mattina si riparte altri villaggi, altra gente. Ci fermiamo nel bel villaggio dei tre baobab, dove dei locali con strumenti musicali vari ci improvvisano musiche e canti. Ci fermiamo un po’, c’è anche una capanna chiesa dove degli straordinari ragazzini a loro volta ci improvvisano uno spettacolo al quale partecipiamo volentieri. Il pomeriggio dopo una siesta notevole, passato il momento maggiormente caldo prendiamo il sentiero più ripido per raggiungere i villaggi alti. Il sentiero non è molto agevole, si snoda fra erbe alte che nascondono sassi e radici rendendo il cammino non facilissimo. Non è lunghissimo, ci metteremo si e no un’ora e mezza ma devo confessare una cosa. Quando dissi ad Anna dell’idea dei Koma e lei lesse il programma, il quale specificava trek per gente allenata ed in buone condizioni, alle sue perplessità risposi, mentendo o meglio tirando a caso, che esagerano per fare una preselezione, perchè hanno a che fare con turisti mica alpinisti, che è meglio avere una idea di difficoltà che pensare che sia troppo facile e pentirsi, insomma cose così. “Ti ricordi ad Arches le 4 ore di cammino ridotte a meno della metà?” Convinta. In effetti la rampa, per una che passa dalla scrivania ad un trek in Africa era obiettivamente piuttosto faticosa. Inoltre è abbastanza caldo e l’umidità in salita si fa sentire, infatti sudiamo come degli opossum in una sauna. Tralascio quindi i 90 minuti di irripetibili improperi, insulti, ingiurie, accidenti, imprecazioni, invettive, esecrazioni, rimproveri ecc. Ecc. Che ebbero l’apogeo quando avvicinandomi rasoterra le chiesi con l’aria più serafica che potessi mai avere: “cara…vuoi che ti porti lo zainetto?” Alla fine, come si dice, a badili e porconi arriviamo alla
Ancora venti minuti ma in piano ed arriviamo in un altro villaggio dove ci accoglie il capo villaggio stinco come un paletto, peggio di me l’altra sera che ho lasciato un paraurti sulla porta del garage, ad introdurci al clima di festa di quel luogo. Indovinate chi arriverà un po’ più tardi? Si, proprio lui, il nonnetto centenario che con le sue ginocchia a melone si è fatto quei pochi km di sentiero che lo separavano dalla birra e dai quei curiosi buffi visitatori.
I Koma, già pressati dall’islamizzazione proveniente da nord in tempi passati, nonostante siano stati raggiunti solo in tempi relativamente recenti dalla “civiltà” hanno comunque perso parte della loro identità culturale. Anche, non solo, a causa dell’evangelizzazione da parte dei missionari che identificano, fra i molti problemi che possono avere popolazioni africane la cui struttura economica è quasi pura sussistenza, il principale nella nudità. Oggigiorno “vagamente” si vestono e non portano più l’astuccio penico, almeno fino a queste quote, anche se non è difficile vedere nei villaggi ragazze e sopratutto anziane vestite con solo il tradizionale gonnellino di foglie, ma ci sono tradizioni che vengono ancora perpetuate e di difficile comprensione per noi occidentali. La più singolare e impossibile da non notare è l’asportazione degli incisivi delle fanciulle. Infatti tutte le ragazze e le donne, escluse le bambine, se a dodici anni ci si può considerare già donna non hanno gli incisivi. Vengono levati alla promessa di matrimonio o qualche tempo prima dello stesso. E qui, come in altre parti del mondo e dell’Afrika ci si sposa presto, anche a dodici anni. Mi dicono però che recentemente il governo ha vietato i matrimoni sotto i sedici anni. I maschietti invece all’età di dodici, tredici anni vengono portati fuori dal villaggio e sottoposti dopo un rituale alla circoncisione. Insomma, ce n’è per tutti!
C’è aria di festa, molta gente del villaggio è riunita in una specie di piazza a bere birra, molta birra. Qualcuno è piuttosto alticcio, vedi capo villaggio, ma non ci sono problemi a parte che mi tocca bere una zucca, eufemismo di bicchiere, di birra calda. Do una lezione di calcio agli africani, ragazzi di Eto’o ce n’è uno, per il resto…. Qui a lezione dagli italici pedatori! Anna invece passa la serata ad intrecciare foglie secche con grande soddisfazione delle sciure che, con pazienza e dedizione, si impegnano ad insegnare a questi imbranati bianchi attività così ovvie. Nel villaggio esiste anche una chiesa che svolge pure la funzione di scuola. Degli straordinari ragazzini improvvisano un concerto, tra di loro, un pistolino di 6 o 7 anni che concentratissimo e serissimo suona perfettamente una specie di trombone (per il fiato e suono prodotto) di zucca a stantuffo di cui non conosco il nome e nemmeno sono riuscito a reperire informazioni, ci divertiamo molto.
La temperatura è un po’ più fresca e decisamente gradevole fa piuttosto strano vedere i nostri portatori aggirarsi con la giacca imbottita, noi finalmente respiriamo e questi tutti intabarrati si lamentano del freddo. “Pensa a te che a casa mia c’è la neve!” “La neve? Cos’è? Ah si, ne ho sentito parlare…..pare che sul monte Camerun il mio bisnonno l’abbia vista…..”.
Attorno a noi il paesaggio è più aperto, si vedono persino delle rocce e le montagne fanno da sfondo, siamo a due passi dalla Nigeria e mi passa per la testa l’idea di mettere almeno un piede oltreconfine ma la nostra guida di camminare ancora non mi pare ne abbia molta voglia. Infatti partiremo anche piuttosto tardi per scendere e rientrare a Wangay dopo l’ultima sosta in un villaggio, il tutto compiendo alla fine un giro circolare. Mi da l’idea che non si senta molto bene quindi non gli forzo la mano per partire oltretutto mi piace lasciare che la vita del villaggio mi scorra attorno senza avere l’obbligo di fare, visitare o altri turistici dinamismi. Semplicemente mi integro nell’ambiente circostante svolgendo l’attività tipica degli africani: lo “stare”. Quindi molto africanamente me ne sto!
La notizia è che all’arrivo c’è un laghetto e pure la cascata! Si può nuotare! Alleluja, ci si lava. La discesa è decisamente poco agevole ancora in mezzo ad erbe alte, in certi punti piuttosto ripida e su terreno molto sconnesso. Ogni tanto incrociamo qualche giovane armato d’arco e frecce.
Anna si prende una storta, in un attimo le si gonfia la caviglia. Fortunatamente con un po’ di compressione, riposo e sbollito l’incazzamento piano piano riesce a camminare. Tanto di cappello, a volte si lamenta, ma non molla mai. Arriviamo tardi all’ultima sosta quando il sole è ormai dietro le colline e voliamo a quello che immaginiamo un pastorale specchio d’acqua. Bucolico è bucolico, cascata, rocce, laghetto, solo che l’acqua è fredda gelida tanto che mi chiedo come sia possibile. Un toccasana per la caviglia di Anna. Ne approfittiamo comunque per una minima abluzione in compagnia di una lavandaia, nuotare manco se mi pagano. Vedo Anna che cammina a piedi nudi sulla sabbia, le dico, ( ma statte zitto), testuali parole: “Non camminare a piedi nudi sulla sabbia….”, non faccio in in tempo a finire la frase che lei inizia a saltare come un grillo urlando. Si è beccata una bella beccata, scusate il gioco di parole, fra mignolo e pondolo, giuro si chiama così. In breve si gonfia notevolmente pure il piede. Il foro del pungiglione è ragguardevole, quindi via con l’acqua fredda e le cure del caso. Fortunatamente non ci saranno conseguenze che possano pregiudicare il viaggio ma il piedino si sgonfierà del tutto solo dopo parecchi giorni. Il villaggio è piccolo ma in bella posizione, meno chiusa dalla quinta delle montagne tanto che riusciamo a vedere un tramonto. Qui assistiamo alla preparazione tradizionale dell’huile de Karité, un olio cosmetico, curativo prodotto con i semi della vitellaria paradoxa. Pare sia effettivamente un ottimo antirughe, nutriente ed emolliente molto apprezzato anche dai naturalisti nostrani. La nostra guida ci spiega qualche curiosità sul culto dei defunti dei Koma, ad esempio come recuperino il cranio del padre tempo dopo la dipartita, lo nascondano in luoghi sacri e lo recuperino quando hanno dei problemi per farci quattro chiacchere e chiedere consiglio. Declino l’invito di visitarne uno, giocare ad Amleto con il babbo di qualcuno mi attira poco.
La mattina seguente si parte per la lunga camminata che ci riporterà a Wangay chiudendo il cerchio del trek. Man mano che ci allontaniamo dalle cime ci rendiamo conto della differenza di temperatura ed afa. Anna zoppicante ma indomita deambula spedita nonostante la calura, la promessa di Chipa, oggi una birra e la doccia, è più efficace di un ortopedico. Una volta a Wangay breve sosta per foto di rito e saluti ai simpatici portatori ai quali regaliamo tutto il, già poco, vestiario che avevamo, tenendoci solo il minimo per restare vestiti e siamo già in viaggio.
Il programma prevedrebbe visite ai pastori Furlan, i mitici Bororo, popolo dalla bellezza straordinaria. Purtroppo o che non è periodo, sono nomadi, o che a Chipa non gli gira, riusciamo a fermarci in un solo villaggio praticamente deserto, quasi piango.
Ad un certo punto lungo la strada ci fermiamo sotto dei bei ombrosi alberi davanti a delle costruzioni abbandonate ormai inglobate dalla vegetazione: Pranzo e douche!!!! Prendete il necessario che si fa la doccia! Alleluja! Prendiamo la mia Kefia tanzaniana multiuso, fa da pulisciparabrezza, telo bagno, vestito, benda, cappello, fazzoletto ecc., il sapone e via seguiamo il nostro mandingo il quale, invece di dirigersi verso una qualsiasi costruzione prende un sentierino in mezzo ai rovi e ci porta davanti ad un fiume di buona dimensione. “La douche”! Caro Chipa, va bene lo stesso ma abbiamo un idea diversa della doccia io e te. Però l’acqua è piacevole, la corrente ti porta via, ma fra un paio di lavandaie e qualcuno che pesca ci lasciamo andare allo sguazzo incuranti del disastro ecologico che provochiamo a valle.
La giornata ci regalerà poi un gruppo di antilopi, unico avvistamento del viaggio e una sosta a POLI dove ci ficchiamo in una sorta di barettino e ci ammazziamo di birre fresche. Qui si unisce a noi un gruppetto di avventori con i quali intavoliamo una simpatica conversazione. Fra essi uno vestito di una bella tunica azzurra e la keffyia in testa che tracanna birra a manetta. Non resisto. Premetto che questa è la zona islamica del Cameroun. Gli chiedo nel mio francese stentato perché beve birra se è mussulmano. Questo mi risponde che va bene credere in Allah ma: “Il faux comprendre la vie”, se la grafia è giusta significa che: bisogna comprendere la vita. Insomma spiega che non è una birra che condanna un uomo probo, i peccati sono ben altri. Mi alzo e con reverenza gli stringo la mano. Non visiteremo nulla di Poli.
A sera ci fermiamo in una cittadina dove, previa richiesta di permesso al capo villaggio, piantiamo le tende direttamente in piazza. Il suddetto capo si fermerà anche a cena con noi, signore molto distinto e dai modi garbati che con somma educazione assaggerà gli italianissimi e perfettamente cucinati spaghetti di Chipa con enormi difficoltà arrendendosi solo alla fine per manifesta inferiorità verso la pasta. Gentilissimo. Nel centro nord, prevalentemente islamico, il Camerun si presenta in modo diverso. In questo paese vivono circa 200 etnie diverse e qui questa miscellanea è chiara e ben visibile. La cosa straordinaria è che dalla creazione di questo stato che non ci sono guerre e la convivenza sia religiosa che etnica è pacifica e tranquilla, speriamo che duri. Ci troviamo quindi in mezzo a sinuose fanciulle fasciate da tele colorate, uomini in tunica e una miriade di ragazzini in divisa che all’alba vanno a scuola o a prendere l’acqua alla fontana scrivendo sms con il cellulare.
Riprendiamo verso sud. Ci fermiamo in un paio di mercati, uno piuttosto grosso ed animato, dove giustamente mi compro una maglia dei Leoni. Inutile descrivere, colori, odori, attività, fervore, vita! Si passa dal barbiere stradale, alla medicina tradizionale, ai macellai, agli artigiani. Dopodiché mi narcotizzano e mi trascinano via altrimenti sarei ancora li.
Così fra un mercato e l’altro arriviamo a NGAUNDERE’ dove dovremmo visitare il palazzo del Lamido, il quale è una specie di Emiro, altissima autorità locale, più influente, dicono qui, del presidente stesso. Il farabutto però ci frega, sta facendo il riposino, palazzo chiuso….evvabé me ne starò un po’ al mercato. La cittadina è piuttosto grossa ed il mercato decisamente interessante, animato, pieno di fanciulle dalla tuniche multicolori, spartani motocarretti da trasporto e fantastici cartelloni pubblicitari.
Chipa è nervoso, ad un certo punto non vuol sentire più ragioni e si va in stazione, curioso questo rapporto conflittuale dei camerunesi con il treno, sbrighiamo le formalità e ci sediamo a darci di birre. Ha una paura folle che lo perdiamo e si rilasserà completamente solo quando saliremo sulla carrozza.
Anna, con il cuore gonfio d’affetto e letizia gli regala, a nostro imperituro ricordo, il frontalino, naturalmente il mio, seguono baci ed abbracci. Se qualcuno, ripetesse il nostro viaggio sappia che la carrozza ristorante del trenino rosso non solo è ottima come qualità, ma costa pure poco, chiaro che se si soffre il mal di movimento, o gli scossoni è meglio non mangiare.
Il trenino rosso del Camerun è un ottimo esempio per sfatare la diceria di un Afrika sempre fatiscente ed inefficiente. Non sarà un ultimo modello ad alta velocità, ti frulla come un albume montato a neve, ma funziona che è un bijoux, si può avere pure la colazione a letto ed ha un fascino un po’ retrò che il Lecco- Centrale non avrà mai senza offesa per la freccia della Brianza.
Veloce spostamento a DOUALA, tanto per passare dalla capitale che, sarà anche un fervore d’attività commerciali, ma è veramente orrenda, per poi arrivare a KRIBI, sul mare. Qui la prima cosa che balza all’occhio è che suda pure la retina. Una cappa di umidità pervade praticamente tutto in un monocromatismo grigino e leggermente sfocato. Piantiamo giù baracca e burattini nel fighissimo hotel a noi riservato che, come tutti gli hotel prenotati dalle agenzie è si bello, ma distante da tutto. Ci tuffiamo nel grigino mare che, pensa un po’, è caldo come una ribollita. Peccato, perchè l’acqua con altra luce ha aria di essere verde ed è decisamente cristallino. La spiaggia, seppur piccola è decisamente carina, con le palme a fare ombra e le mangrovie. Praticamente deserta, solo qualche turista locale, ci sono, è incredibile: a volte incontro qualcuno che pensa che gli afrikani non possano fare i turisti, i vacanzieri o i bagnanti. E io che credevo che i tedeschi mangiassero solo patate! Dopo la giungla, la strada e gli Alantika rilassarsi su questa bella spiaggia, passeggiare ed osservare i pescatori, è la morte sua, devo dire che non si sta male proprio per niente.
Fortunatamente un paio di barettini appena fuori dall’hotel ci sono così dopo bagni e relax ci ammazziamo di birre in compagnia di qualche simpatico avventore.
Il giorno seguente andiamo a LOBE’, sito delle omonime cascate dove troviamo un po’ più di gente, anche turisti! Il posto è bello, il fiume, quasi direttamente dalla foresta, fra qualche salto di roccia si getta in una insenatura formando un quadro piuttosto pittoresco che, però, si vede bene solo dall’acqua. Naturalmente ci sono piroghe adibite a quello, naturalmente ci litigo quando chiedo il prezzo, cioè l’equivalente di un anno e mezzo di stipendio medio di un impiegato. Pure Victor, il nostro simpatico autista, li manda a stendere. Ce lo andiamo a vedere a nuoto, scelta consigliata, niente foto, ma pluffarsi sotto le cascatelle è uno sballo ed il miglior trattamento massaggio che si possa fare… La giornata balneare finisce con un copioso piatto di gamberi decisamente ottimi, e ci potete credere, se i gamberi si estinguono, un po’ è sicuramente colpa mia e di Anna.
Si torna a Douala e la strada ci offre un fuori programma, un bus in fiamme sbarra la strada, in breve si forma una folla che osserva l’incendio, fuggendo ogniqualvolta c’è uno scoppio. Arrivano i pompieri camerunesi con una bellissima autopompa e, tirandosela mica da ridere, danno prova di efficienza e preparazione incoraggiati da un tifo da stadio, urla ed applausi, a parte uno che, poer bàla, giovane ed un po’ mingherlino, decolla letteralmente con il getto d’acqua della lancia provocando l’ilarità generale. Segue la televisione, una serie di autorità non meglio specificate, polizia, esercito, la swat…no la swat non c’era. Dopo parecchio riusciamo a passare.
Abbiamo il volo alla mattina presto presto, l’agenzia ci offre una mezza notte in hotel in più free of charge. Son quasi tutti pieni, ma ne troviamo uno, lungo la trafficatissima arteria principale di Douala, più che decente.
Il Cameroun dopo averci praticamente estraniato dalla civiltà ci saluta con una romantica cena tipica, ottima cucina casalinga, sulla terrazza di un hotel vista tangenziale con sottofondo di cacofonia di clacson e motori che videro l’ultima marmitta lustri or sono, urla, schiamazzi, fumi di gas di scarico e fritture miste.Avevamo anche una bottiglia di Beaujoleais peraltro ottimo nonostante la temperatura. Quindi, tutto perfetto!
CONSIGLI PRATICI:
ORGANIZZAZIONE: Premetto che di viaggi così non siamo molto esperti andando di solito autonomamente quindi non ho un grosso bagaglio di esperienze a fare metro di paragone. Ci siamo appoggiati ad una agenzia italiana per la logistica la quale, a sua volta si appoggia all’agenzia principale del paese che ha sede nel nord. I costi sono alti ma assolutamente in linea con quello che richiedono rivolgendosi direttamente ad agenzie in loco. Con il vantaggio di avere un referente più facilmente contattabile e vicino, viste anche le difficoltà di comunicazione internet con il Cameroun. Dopo aver parlato mi hanno mandato due proposte d’itinerario ed abbiamo scelto quella che più ci piaceva. Lo staff era assolutamente all’altezza così come i mezzi, la cucina e quant’altro. Come agenzia hanno dato un ottima dimostrazione di serietà nel momento in cui erano spariti i biglietti aerei nel marasma dei giorni prima di Natale e della nevicata, contattandomi ripetutamente e attivandosi nelle ricerche presso il corriere. Unico neo, classico delle agenzie, è la farcitura presente nei programmi che, sopratutto in viaggi come questo, spesso e volentieri promettono cose impossibili, tipo la visita ai pastori Furlan e la possibilità d’assistere al rito dei tatuaggi e cose del genere. Io mi illudo e ci resto male anche se perfettamente cosciente della difficoltà.
FAI DA TE: Poche info chi volesse affrontare il viaggio senza appoggi, mi spiace deludere chi me l’ ha chiesto.
Per andare e tornare non ci sono problemi, l’Air Maroc offre voli via Parigi piuttosto cari per il tipo di tratta ma non c’è una gran scelta.
Yaoundè e Douala hanno parecchie possibilità di pernottamento di buon livello prenotabili anche via internet.
Trasporti: Ho provato molto a noleggiare un auto 4WD autonomamente ma è stato impossibile, non ce l’ho fatta. Ho visto che ci sono autonoleggi a Douala e Yaoundè ma penso che siano limitati alla città e alle strade principali asfaltate. Diversi siti offrono nolo con autista spesso all’interno di un pacchetto tutto compreso, allora vale il discorso di cui sopra. Naturalmente esiste una capillare rete di bus e furgoncini classici africani che porta ovunque, anche a Wangay, a prezzi suppongo economici, e in tempi….ma da quando il tempo in Afrika ha un valore? Oltre che naturalmente il mitico treno.
Pigmei: Raggiunto Somalomo c’è un solo modo per rendere visita ai Pigmei, rivolgersi a Mama Rose. Altrimenti avete voglia di cercarli…..
Koma: Per raggiungere Wangay ci sono un paio di posti di polizia, sinceramente non so quanto siano abituati a vedere degli stranieri che viaggiano soli, non metterei la mano sul fuoco che vi facciano passare. A Wangay non c’è nulla per pernottare oltre quella specie di caravanserraglio dove mettono i turisti peraltro in tenda. Per l’esperienza che ho io d’Africa, chiedendo il permesso al capo villaggio e pagando il dovuto obolo vi lasciano piantare la tenda. Probabilmente nello stesso modo ci si può procurare guida e portatori contrattando sul posto. Nota bene, qui al massimo comprate qualche bibita (calda) dubito assai che si possano fare provviste per più giorni. Cioè, un pollo vivo lo si trova, ma non ho visto una bottiglia d’acqua. Noi le abbiamo comprate a Ngaunderè in quantità per tutto il viaggio. Presso i Koma è d’uso la moneta nigeriana. Per quanto siano una popolazione mite, gentile ed ospitale non è detto che accolgano sempre bene turisti che si muovono soli, ci sono regole di cortesie da seguire e non si fa visita ad uno zoo, magari qualcuno si può indisporre. Nessuno parla francese.
POLI: A poli c’è elettricità e la possibilità d’acquistare qualcosa, è il centro principale della zona. C’è anche la possibilità di pernottare credo in una struttura buona, ma non posso dare indicazioni.
NGAUNDERE’: E’ un centro importante, arrivo della ferrovia e crocevia di traffici. Possibilità di pernottamento in hotel.
KRIBI ED IL MARE: Non so se è la stagione nebbioso umidiccia che ci ha un po’ tolto la bellezza del Golfo di Guinea ma siamo distanti dai Caraibi per fare un paragone. Di pro c’è l’assoluta mancanza di grosse strutture turistiche, poca gente, belle spiagge anche se non grandi, palme, possibilità di passeggiate, di osservare i pescatori, di relax in solitaria. Di contro c’è l’umidità che toglie i colori ad un mare altrimenti verde, niente snorkel ed immersioni per chi è appassionato.
Ci sono parecchie possibilità di pernottamento lungo il tratto di costa.
Raggiungere Kribi da Douala è facile, sono circa 2 ore per buona strada asfaltata.
LOBE’: La spiaggia di Lobe’ offre persino dei turisti e delle strutture. E’ decisamente molto bella con le cascate, la foresta le pozze d’acqua, le due lingue di sabbia.
Ci sono delle possibilità di pernottamento a distanza di una camminata, non le ho viste ma lo so per certo da un gruppo d’italiani che si sono trovati bene in una guest house. Venendo qui autonomamente consiglio il pernotto sicuramente a Lobé piuttosto che a Kribi, fanno i gamberi sulla spiaggia, si può passeggiare sulla sabbia o nella foresta, organizzano giri in piroga sia sul fiume che a vedere le cascate. Secondo me c’è di più ed è più divertente e bello.
Nota sui Pigmei della zona. Offrono tour presso tribù di Pigmei nella foresta nei dintorni. Da voci raccolte anche da gente del luogo pare sia una sola, cioè vanno a fare i Pigmei quando arrivano i turisti e per il resto del tempo stanno in casa a guardare la Tv con la parabola.
MALARIA E FEBBRE GIALLA: Zanzare ne abbiamo viste poche, anche nella giungla. Più fastidiosi i microscopici tafani. Ma la zona è tutta assolutamente endemica e la malaria è una piaga da queste parti. Quindi profilassi assolutamente consigliata. Noi usato il malarone nonostante i costi. Per altro solita farmacia da fuori dal mondo. Obbligatoria la tesserina gialla vaccinazione febbre gialla e la controllano a tutti all’arrivo.
VESTIARIO: Portarsi poco, al massimo una felpa o una camicia per la sera in tessuto naturale. Scarpe da trek o pedule, il terreno è piuttosto accidentato ed infradito o sandali, sacco estivo o sacco letto, berretto e occhiali da sole. Al massimo un kway se dovesse piovere. Evitate l’abbigliamento tecnico o firmato, fra l’altro assolutamente inutile, ma portatevi magliette e capi che potete regalare alla fine del trek senza piangere. Sono molto apprezzati, sopratutto i giubbetti, i kway, le felpe, i berretti colorati. I capi che, sembra un controsenso, un po’ più caldi sono, oltre che costosi, di difficile reperibilità in queste zone e se ne lasciate qualcuno non morite mica, fate felici dei ragazzi e fate bella figura con poco, ma proprio poco. Io lo dico anche a costo di sembrare pedante. Evitate le tutine kaki da piccolo esploratore che sono ridicole e fanno fare la figura dei fessi.
PISTOLOTTO FINALE: Bisogna amare molto l’Afrika per questo viaggio. Come detto all’inizio non offre grandi spettacoli o visioni mozzafiato è inoltre piuttosto faticoso e con spostamenti e tempi morti, ma permette, ed era un po’ che personalmente lo cercavo, un contatto non solo molto ravvicinato ed intenso, ma sopratutto lento ed approfondito con la cultura e la gente del luogo. Il fermarsi parecchio nei villaggi può apparire noioso a chi cerca la visione di un luogo, non solo in Afrika ma qui è sicuramente più marcato, come una sequenza di spettacoli, inteso come “cose” da vedere o da “visitare”, “da fare”, ma invece offre la possibilità di un rapporto più intimo, non si può dire partecipe perchè siamo e restiamo comunque estranei, più riflessivo e con il tempo vi assicuro che resta molto, come sensazione, impressione, come esperienza. Ripaga moltissimo dal lato umano, non leggasi come folkloristico o etnico.
Personalmente ho sofferto un po’, ma è carattere e problema mio, la “cura” della guida, l’avere un autista, nel senso di avere sempre qualcuno che cercava di badare a me e si preoccupava, giustamente dal suo punto di vista, al turista beota, il non potere prendere la macchina, girare libero e da solo, ma avere una guida devo dire che è stato positivo, sia per facilitare i rapporti con la gente, sia per le informazioni ricevute, che, con molto tempo a disposizione sono state molte ed interessanti. Anche questo non si legga come una critica, tutto lo staff è stato straordinario, hanno tutti il nostro pieno ringraziamento e raccomando il buon Chipa, Victor e tutti gli altri a chiunque vada laggiù e di portar loro i miei e di Anna più affettuosi saluti. Sono io che mi faccio dei riguardi e detesto essere accompagnato.
E’ un giro aperto a tutti quelli che sanno adattarsi almeno un po’, niente di estremo o problematico, ma distante dagli standard dei tour, (per fortuna), Tanzaniani o del Botswana, quindi poche doccie, niente lodge o campi tendati, niente presa per il phon, Deus gratias prende poco anche il cellulare, ma permette di stare a stretto contatto con uno stile di vita assolutamente diverso dal nostro, quindi assolutamente consigliato.
Ciao a tutti
Se qualcuno volesse maggiori info mi contatti pure alla mail: pipot-pipot@virgilio.it
Fotografie: http://www.pipot.altervista.org/esempio/
Uno struzzo è per sempre