Terre del Sud

Patagonia, un sogno ad occhi aperti
Scritto da: albachiara79
terre del sud
Partenza il: 29/12/2009
Ritorno il: 14/01/2010
Viaggiatori: 2
Spesa: 3000 €
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Sarebbe troppo semplice parlare del viaggio in Patagonia come il viaggio della vita, ma la realtà dei fatti è proprio questa. Partire per un luogo così lontano permette di ritagliarti una vita parallela a migliaia di chilometri di distanza, in cui tutto quello che lasci a casa è contenuto in un telefonino che ti impedisce di rimanere in contatto con l’Italia. Prima sorpresa del viaggio è stata proprio quella di appurare che il mio cellulare, decisamente non di ultima generazione, fosse completamente inutile in terra argentina. Nulla d’irrimediabile, la fortuna è sempre dietro l’angolo così come il nuovo fiammante cellulare regalo natalizio per il mio fidanzato. Paolo ed io siamo due perfetti compagni di viaggio, riusciamo a completarci facilmente. Già nella fase di organizzazione ci siamo divisi i compiti diligentemente, io gli hotel e le escursioni da fare, Paolo prenotando le auto e ottimizzando i giorni per gli spostamenti.

È il 29 dicembre 2009. Il giorno della partenza è arrivato. Io e il mio socio viviamo e lavoriamo in due continenti diversi. Siamo abituati alla valigia, agli aerei, agli spostamenti. Ma questa volta tutto ha un sapore decisamente più dolce, finalmente partiamo insieme verso la stessa meta, l’Argentina. Ci siamo affidati ad una carissima amica per prenotare i voli (intercontinentali con Air Europe, continentali Aerolinas Argentinas). Provvisti della solita curiosità e della voglia di avventura, inizia il nostro viaggio alla scoperta delle Terre del Sur. L’arrivo a Buenos Aires è perfetto. Le braccia di Morfeo ci hanno reso la lunga traversata aerea il meno traumatico possibile. E poi il calore, il sole e i profumi di Buenos Aires ti mettono subito nella condizione di camminare, di ascoltare, di soffermarti tra i “porteños”. È un riversarsi di gente tra le vie del business e dello shopping. Anche la scelta dell’hotel è stata veramente azzeccata (Tryp Hotel Buenos Aires, San Martin 474) centrale, pulito, stile impeccabile e moderno. Siamo solo di passaggio, giusto per fare acquisti per il nostro trekking in Patagonia e già ci innamoriamo di questa fantastica città, in cui ogni tassista ha una storia che lo lega all’Italia. Ogni argentino ha un pezzettino di Italia dentro di se, e questo li rende orgogliosi, e questo ci rende orgogliosi. Giusto il tempo di assaporare la capitale, che il nostro primo volo Aerolinas Argentinas ci porta verso la Peninsula di Valdes, situata lungo la costa atlantica nella Provincia di Chubut. Trelew è la sua capitale, nonché approdo aereo del nostro velivolo. Nel nostro diario di viaggio abbiamo definito quest’aeroporto come “il nulla in mezzo al niente”. Un edificio in divenire in cui il desk dell’Avis, naturalmente sprovvisto di PC e di qualsiasi tipo di strumentazione elettronica, è presidiato in modo eccellente da una simpatica signora che ci aspetta con le chiavi della nostra auto. Rossa, una luccicante Chevrolet rossa a chilometraggio limitato (da sconsigliare poiché per chi volesse esplorare la Peninsula di Valdes nella sua totalità, un auto a chilometraggio illimitato sarebbe l’ideale). Alloggiamo a Puerto Madryn all’Hotel Piren (Julio A. Roca 439), accogliente, un po’ datato ma dotato di tutte le comodità. La vista dalla stanza è impagabile, l’alta e la bassa marea dell’oceano scandiscono le giornate dei bagnanti. C’è un grande affollamento sulle lunghe spiagge, è periodo di vacanze estive in Argentina e tutti si riversano verso le città marittime. Ma non siamo qui per l’abbronzatura, la fauna del posto ci offrirà dei fantastici incontri. La nostra prima tappa è la vicina Punta Lomo in cui facciamo la coscienza dei leoni marini e dei cormorani. Che simpatico il loro particolare vociare, mentre le onde gelide s’infrangono su quello stretto lembo di spiaggia, troppo piccolo per ospitare questi enormi mammiferi. I cormorani si appostano lungo la scogliera, osservatori di uno spettacolo surreale. All’orizzonte la tempesta è in arrivo e noi, giusto in tempo, riusciamo a infilarci in auto e ripartire verso l’hotel. Lo spettacolo è mozzafiato, Paolo s’improvvisa cacciatore di fulmini, ma arriva sempre quel poco in ritardo da perdersi lo scatto perfetto; nel bel mezzo di una grandinata ci fermiamo in un piazzale e aspettiamo che passi tutto. Poi, l’arcobaleno, anzi gli arcobaleni. Un’aria frizzante e noi che ci perdiamo tra le strade deserte con la Reflex in mano a congelare questo fantastico paesaggio. È solo l’inizio. Con la nostra fedele utilitaria rossa ci dirigiamo verso la Peninsula di Valdes, tra strade sterrate e polverose dove l’orizzonte non ti offre nulla di diverso se no un paesaggio arido e vegetazione desertica. Maciniamo chilometri, anche la radio è silenziosa. I nostri pensieri si confondono con il rumore della brecciolino che s’infrange sulla carrozzeria. Azzurro, finalmente arriviamo sull’oceano, scendiamo dall’auto e rimango incuriosita dalla statua di un pinguino vicino al piazzale. Mi avvicino e, con grande stupore e ilarità, appuro che ero di fronte al mio primo pinguino magellano. Piccolo, immobile che con aria smarrita, fissa un punto nello spazio incurante della (poca) gente che lo circonda. Paolo ed io ci sporgiamo verso la spiaggia che si apre ai nostri piedi, e scopriamo la nostra prima colonia di pinguini. Rimaniamo incantati dai piccoli accucciati nei loro nidi, coperti da quella peluria grigiastra che li rende assai simili a dei peluches. L’assenza di rumori la fa da padrone, in ogni riserva ci sono cartelli che invitano al silenzio, a volte noi umani rischiamo di essere degli ospiti rumorosi e fastidiosi. Risaliamo in auto con una bella scorpacciata di foto (Paolo ha scoperto la sua vera indole, altro che l’ingegneria) e ci rituffiamo nelle strade polverose. Ci entusiasma questo essere “on the road”, farci stupire, perderci nelle nostre riflessioni. Ci siamo impegnati a raccogliere quotidianamente i nostri pensieri su un taccuino. La paura di lasciare indietro anche un piccolo dettaglio, un sapore o un incontro ci ha reso degli ottimi cronisti di viaggio. Proviamo a fare il famoso “whale watching”, ma siamo in ritardo, le balene australi sono ormai lontane. Una breve sosta a Puerto Pyramides, giusto il tempo per osservare le sue spiagge caratterizzate dalle ampie e dolci discese protette da scogliere che assomigliano a piramidi, che stanchi e sazi del vagabondare, torniamo alla volta di Puerto Madryn. È il 31 di Dicembre, bisogna festeggiare. Io e il mio socio optiamo per un capodanno alternativo, una fresca Quilmes in un anonimo pub-ristorante nel centro della cittadina, improbabili fuochi d’artificio e una sana voglia di cominciare l’anno nuovo con lo stesso spirito di avventura. Punta Tombo è l’ultima tappa in questo paradiso faunistico. La più grande riserva di pinguini magellano della Patagonia. Un vero e proprio spettacolo. Pinguini ovunque, sentieri delimitati da rocce che si snodano tra la moltitudine di nidi. Questi eleganti uccelli dal piumaggio nero sul dorso e bianco sul ventre non possono volare, ma sono ottimi nuotatori e tuffatori. Il loro curioso avanzare verso l’oceano li fa muovere come dei piccoli soldatini, a volte un po’ impacciati, il che li rende uno spettacolo surreale e pieno di una dolcezza indescrivibile. Ci rendiamo conto di quanto sia semplice e naturale stare in religioso silenzio di fronte a queste meraviglie. Il nostro itinerario ci condurrà verso luoghi in cui le parole non saranno in grado di descrivere anche solo una piccola parte delle nostre emozioni. Salutiamo la provincia del Chubut che, oltre a farci scoprire degli ecosistemi ricchissimi, ci ha permesso di conoscere le influenze culturali di questa regione; alcuni dei suoi villaggi, come ad esempio Gaiman, conservano ancora oggi gli aspetti più tradizionali della cultura gallese. La celebrazione della cerimonia del tè, assieme all’elaborazione delle torte tradizionali sono alcuni esempi che permettono di esperimentare un approccio gastronomico di grande interesse. Ci spingiamo verso sud. Il nostro volo ci porta diretti a “El Calafate”, punto di partenza per la visita di diversi punti d’interesse del Parco Nazionale Los Glaciares, fra i quali il ghiacciaio Perito Moreno ed il villaggio di El Chaltén. Un viaggio, sebbene ben programmato, non è privo d’imprevisti. Arrivati in aeroporto, l’amara sorpresa di non trovare l’auto prenotata alla partenza. L’assenza del corner della Budget, fin da subito ci mette in allerta. Paolo, con una calma mai vista prima, s’improvvisa detective alla ricerca d’informazioni con un fantastico accento “spanglish”. Appurato che almeno per oggi non saremo auto muniti, ci infiliamo in un taxi e ci dirigiamo verso il nostro alloggio in città. Il tassista, com’è ormai consuetudine, ci fa da cicerone e saputo del nostro contrattempo, si propone come nostro personale tour operator per i giorni a seguire. Ringraziamo, rifiutiamo l’offerta e arriviamo al Myazato Inn (Egidio Feruglio 150/ Zona de Chacras). Ospitalità giapponese nel bel mezzo dell’America meridionale. I proprietari, Jorge ed Elizabeth, fin da subito si rendono disponibile ad ogni nostra esigenza. Poche telefonate, e nel giro di un paio d’ore possediamo un auto. La locanda dista una decina di minuti a piedi dal centro della cittadina. Il nome El Calafate deriva da un piccolo arbusto dai fiori gialli molto comune in Patagonia, con bacche di colore blu scuro. La sua marmellata è deliziosa e narra la tradizione che chi assaggia il calafate tornerà di nuovo in questi magici luoghi. Paolo ed io non perdiamo tempo, recuperiamo il maggior numero d’informazioni e partiamo alla volta del Parco Nazionale Los Glaciares, patrimonio dell’umanità dell’UNESCO. Meraviglia tra le meraviglie, spettacolo mozzafiato. Dalla Cordigliera delle Ande si originano particolari ghiacciai che, erodendo le montagne che li contengono, scorrono verso l’Oceano Atlantico. La strada che ci porta verso “sua maestà” il Perito Moreno è lunga e tortuosa nel suo ultimo tratto all’interno del parco. Appena si scollina, s’inizia ad intravedere questa enorme lingua ghiacciata che si distende verso di noi. È troppo la voglia di arrivare, e man mano che ci avviciniamo, lo stupore è sempre maggiore e indescrivibile. Nel parco c’è una passerella di legno con una serie di terrazzini in cui si può sostare e osservare silenziosamente i movimenti di quel gigante. È vivo. Strizzato tra i rilievi, sembra volersi liberare e ad ogni distacco di ghiaccio un impeto ci desta da questo viaggio onirico. Paolo è incantato da tutto questo spettacolo, la sua Reflex registra con dovizia di particolari ogni sfaccettature e colore di questo colosso. Lo spettacolo della luce che s’infrange sulle sue pareti, lo rende ad ogni ora diverso. L’azzurro, il violetto, il grigio. Non so quanto tempo sia trascorso, né la pioggia né il freddo ci hanno impedito di rimanere lì quasi frastornati da così tanta bellezza. Al ritorno in città ci siamo rifugiati in un ristorantino delizioso (El Chucaron) dove, davanti ad un’ottima bottiglia di Malbec, abbiamo condiviso le nostre impressioni è i nostri pensieri. Casa era lontana, ma con la persona giusta accanto ti sentiresti a casa ovunque. Come un repentino susseguirsi di eventi, zaino in spalla ci avventuriamo verso la parte più affascinante e recondita di questo viaggio, El Chalten. Si presenta come un villaggio di frontiera ai confini con il Cile, con case in lamiera colorata, un solo bancomat (recentissimo) ed esercizi commerciali in cui è quasi impossibile pagare con carta di credito, il che lo rende una realtà lontana dai normali flussi d’informazioni e comunicazione. È ubicato sulla sponda del fiume Río de las Vueltas alla base del Cerro Torre e del Fitz Roy, luogo di delizia per alpinisti e scalatori. Decidiamo di arrivare a El Chalten in bus, croce e delizia nella nostra tappa di trekking. Alloggiamo all’Hosteria Senderos (Perito Moreno, El Chalten), confortevole, accogliente e pulita. Io e il mio socio, a discapito delle nostre origini “pianeggianti”, siamo amanti della montagna, delle escursioni e il contesto non fa che esaltare la nostra voglia di incamminarci verso quelle fantastiche vette. Decidiamo che Laguna Torre sarà la nostra prima tappa. Sfortunatamente oggi in cielo le nuvole la fanno da padrone, e possiamo solo immaginare le due cime. I numerosi racconti di viaggio letti alla vigilia della partenza, ci avevano messo in guardia riguardo a quest’aspetto. Possono trascorrere anche settimane intere senza vedere il massiccio. Da qui l’etimologia della parola Chaltén che significa “montagna fumante”, in quanto le tribù antiche credevano fosse un vulcano a causa della sua cima coperta per la maggior parte del tempo da nuvole. Il paesaggio è verdeggiante, grazie soprattutto ai corsi d’acqua sorgiva che provengono dai ghiacciai. L’acqua è cristallina e deliziosa. Sarà la nostra riserva idrica per le nostre bellissime escursioni. È il secondo giorno, la sveglia come sempre suona prestissimo. È troppa la voglia di dirigersi verso il Fitz Roy, soprattutto adesso che il vento del giorno precedente ha spazzato via tutte le nubi dalla cima della montagna. Il sole la fa da capolino. Ci incamminiamo e un entusiasmo infantile ci rende impazienti di avvicinarsi a cotanta magnificenza. Laguna Capri, Campo Piocenot, Campo Rio Bianco. Non starò a soffermarmi nel descrivere questi luoghi, né tenterò di descrivere quello che abbiamo provato nell’avvicinare quel gigante. Le fotografie sembrano irreali, i colori del bianco sullo sfondo del cielo, sembrano il sapiente e minuzioso dipingere di un artista che non appartiene al mondo terreno. Dobbiamo affrettarci, l’autobus che ci riporterà a El Calafate è in partenza. Il viaggio di ritorno ci riserverà ancora un imprevisto. Come un vecchio sfinito da una vita di fatiche, il nostro comodo mezzo di trasporto si arrenderà tra le lande desolate della Routa 40. Ma come può un avvenimento fortuito permettere di ampliare il nostro bagaglio di conoscenza e di aneddoti da raccontare minuziosamente nelle nostre cronache di viaggio? Magari la conoscenza con un’audace coppia di fidanzati milanesi alle prese con un viaggio lungo un anno. Partire, senza troppe domande, prefissarsi solo le mete più importanti nei diversi continenti, fermarsi dove l’aria è gradevole e la gente è sorridente. Parlare con il tuo vicino di autobus nella recondita estancia “La Leona” sulle sponde del Lago Viedma e scoprire ogni giorno una storia nuova. Con il senno di poi avremmo dedicato volentieri un altro giorno alla tappa forse più intrigante del nostro peregrinare. Ma questo susseguirsi di eventi, ci riporta di nuovo al Parco Nazionale Los Glaciares, direttamente sul Lago Argentino dove ammiriamo i ghiacciai che si fendono e gli iceberg che si staccano. Siamo di nuovo faccia a faccia con il Perito Moreno. Il battello rallenta e si spinge di fronte alla sua parete di 60 metri. È incantevole, il silenzio delle decine di persone che si affollano sulla prua è scalfito solo dai boati del ghiaccio che si stacca dal suo fronte. Ma il Lago Argentino è anche il Ghiacciaio Upsala, il più grande con i suoi 10 kilometri di larghezza e 50 di lunghezza e lo Spegazzini, suggestivo ghiacciaio intitolato a Carlo Luigi Spegazzini botanico e micologo italiano successivamente naturalizzato argentino. L’imbarcazione rientra lentamente in porto navigando in mezzo agli iceberg o come li chiamano qui i “Tempanos”. Saziati da questo spettacolo, siamo già proiettati verso la tappa più misteriosa e suggestiva, la Tierra del Fuego. La fine del mondo.

Ushuaia. 54°48′00″S 68°18′00″W. Siamo arrivati alla “Fine del Mundo”. La città più australe del mondo, un paesaggio circondato dalle montagne che si affaccia sul Canale di Beagle. Atterriamo e la sensazione fin da subito non è quella del calore della Penisola di Valdes, nè della magia della regione di Santa Cruz con i suoi splendidi paesaggi naturalistici. La città respira ancora della sua storica origine di luogo isolato dal mondo in cui venivano imprigionati i criminali più pericolosi dell’Argentina. Un punto di non ritorno, da cui le uniche navi che salpano dal porto si spingono verso l’estremo punto meridionale dell’asse terrestre, il Polo Sud. Effettivamente, la frase stampata sulle t-shirt acquistate da me e Paolo, risuona come un legittimo dilemma: “Ushuaia, fin del mundo principio de todo”. Questa tappa del nostro viaggio ha un sapore più malinconico, colpa forse delle lunghe giornate di luce, del clima uggioso, oppure dell’avvicinarsi alla fine del nostro itinerare. Siamo ormai proiettati verso la capitale, il nostro punto di partenza e di arrivo. Ma ancora una volta l’inaspettato ci mette a dura prova. Una lunga e noiosissima attesa di parecchie ore al gate dell’aeroporto di Ushuaia, si trasformerà in uno di quei momenti che ricorderò per il resto della mia vita. Un solo libro e Paolo ed io che lo leggiamo vicendevolmente capitolo dopo capitolo. Non importa quanto tempo sia passato in quel luogo sicuramente poco accogliente, la nostra forza è stata quella di trovare il famoso “piano B” ad una situazione spiacevole e indesiderata. Arriviamo a Buenos Aires all’alba, giusto il tempo per una veloce dormita e poi subito a tuffarci nel calore e nei colori della città. Non starò ad elencare luoghi, monumenti, musei o piazze, mi piacerebbe trasmettere il senso di energia variegata, di persone che ancora oggi faticano per una situazione economica e sociale precaria, della loro musica, dei passi dei danzatori di tango lungo le vie principali, delle madri dei “desaparecidos” e del ricordo di tutti coloro che si sono battuti per un sogno di libertà. L’intensità di questo viaggio è paragonabile all’impeto di un temporale estivo. Non puoi pensare di coprirti la testa con un giornale o scappare verso una piccola tettoia per ripararti, devi farti attraversare completamente, annusare gli odori che salgono dalla terra e respirare l’aria che si rinfresca. Prendere per mano la persona che hai accanto e godere di questo spettacolo senza proferire verbo. Non ha importanza quanto potrà durare la pioggia, quel che è certo è che la sensazione di benessere e di gioia che sarà ricordata è quella legata a quel raggio di sole che ci ha inebriato e riscaldato il cuore.

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