Dolceacqua, luglio 2010

Tra mare e montagna nell'estremo ponente ligure
Scritto da: catcarlo
dolceacqua, luglio 2010
Partenza il: 03/07/2010
Ritorno il: 10/07/2010
Viaggiatori: 4
Spesa: 500 €
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Intro

In un primo momento, fa impressione andare al mare lasciandosi alle spalle il mare. Quando, dopo un tranquillo viaggio di tre ore, rallentato solo per un paio di chilometri dalle parti di Savona, abbandoniamo l’Aurelia appena raggiunta e iniziamo a risalire la Val Nervia, è inevitabile sentirsi strani. Anche perché il territorio non è particolarmente affascinante, con i capannoni di una propaggine industrial-artigianale di Ventimiglia – anche se siamo già in territorio di Camporosso – e gli altissimi piloni del viadotto autostradale. Superati questi ultimi e un’ennesima rotonda che conduce a un agglomerato di centri commerciali verso Vallecrosia, il panorama inizia a migliorare. Camporosso capoluogo non è uno splendore, ma alla sua altezza la valle è già più stretta e senza pugni nell’occhio. Attraversatolo prudentemente, tra semafori, curve e la parete di una chiesa che arriva quasi in mezzo alla carreggiata, iniziamo a salire lentamente verso Dolceacqua. Le semicurve si sprecano e il fondo stradale è un po’ dissestato, ma i si fanno più vicini i pendii verdi delle colline: in alto domina il bosco mentre a quote inferiori la vite e l’ulivo sono i protagonisti, alternati alle macchie più chiare delle fattorie.

Traffic Jam

Giunti a destinazione, costeggiamo il Nervia sulla sponda destra fino al ponte che conduce alla parte più vecchia del paese e ci troviamo per la prima volta davanti al grande problema della nostra settimana. Sul lato sinistro del fiume, l’unico piazzale di una certa dimensione è a pagamento durante il giorno, e così bisogna arrangiarsi infilando l’auto tra le piante o in uno stretto spiazzo appena rialzato lungo la sponda del torrente, da cui a volte bisogna fare i salti mortali per uscire. Tutte le sere, al ritorno, ci chiederemo se ci sarà rimasto un buco libero anche per noi: un po’ per fortuna, un po’ perché la stagione è ancora lontana dal culmine, ci andrà sempre bene – in un modo o nell’altro, con una manovra in più o in meno. La difficoltà di piazzare l’automobile è un problema comune a quasi tutti i borghi che abbiamo visitato, e, probabilmente, alla Liguria intera. Se si escludono Bordighera Alta, affiancata da un ampio piazzale su cui si svolge il mercato, e Seborga, che non ha grandi spazi ma anche pochi visitatori, il resto dei paesi regalano soluzioni tra lo scomodo e l’improvvisato. A Pigna i posti sono in buon numero, ma per accedervi è necessario percorrere una rampa molto ripida, con conseguente stop in salita quando si esce; a Triora si parcheggia lungo la strada e per fortuna che, risalendo verso il paese, troviamo uno spazio millimetrico all’ombra mentre molti altri hanno lasciato l’auto molto più in basso; pure Apricale costringe a sistemarsi sulla strada e possibilmente ben vicino al muro – ma stando attenti agli usci delle case – perché la carreggiata è stretta tanto che due veicoli non riescono a passare; a Perinaldo troviamo un posto miracolosamente libero in un parcheggino da sei auto praticamente mettendo il paraurti anteriore a pochi centimetri da una panchina – però, almeno, la posizione è altamente panoramica; a Mortola Inferiore ancora la strada, neppure l’ombra di uno spazio organizzato per i pur frequentatissimi, specie dagli stranieri, Giardini Hanbury. Se questi sono i problemi della montagna, la costa non è da meno. L’eccezione è ancora Bordighera, il cui lungomare, stretto come gli altri tra la ferrovia e la spiaggia, regala un’inattesa facoltà di parcheggio: l’unico brivido è lo stretto sottopasso che, già a senso unico alternato di suo, è ulteriormente complicato da dei lavori che riducono al minimo lo spazio per passare, costringendo a chiudere gli specchietti. Il bagno a Camporosso ce lo dimentichiamo: sarà che l’unico tentativo lo facciamo di sabato, sarà che la spiaggia è piccola e il parcheggio ridotto, ma il budello in cui ci infiliamo è stracolmo e così è pure l’area appena più all’interno. Nella stessa giornata, Vallecrosia pare essere parimenti impraticabile e invece troviamo un posto quasi alla fine del tratto in cui è consentito il passaggio delle automobili, seppure a pagamento (a dir la verità, un tizio che se ne sta andando ci dice che, vista l’ora tarda, si potrebbe farne a meno offrendoci il suo biglietto scaduto, chè i vigili si accontentano di un pagamento senza stare a fare le pulci sull’orario). Arma di Taggia la domenica è stracolma: ci infiliamo nell’ultimo posto disponibile di un parcheggino appartato e dall’accesso stretto che avevo conosciuto durante uno dei miei viaggi a Monaco. Per entrarvi è però necessario spostare alcuni bidoni della spazzatura sulla destra, perché un simpatico milanese ha parcheggiato troppo vicino alla stradina che fa da entrata e uscita. Infine, Latte incastonata nella sua piccola baia oltre Ventimiglia: ignorato un parcheggio coperto ma lontano dalla spiaggia, ci inoltriamo verso il mare lungo un’angusta via che, quando sfocia nel tracciato dell’antica strada romana, ha dimensioni tali che gli specchietti sfiorano gli alti muri che la costeggiano. Lasciamo l’auto infrattata vicino al corso paludoso (e il termine non rende l’idea della densa melma verdastra che ci troviamo davanti) del Latte – a dir la verità, poco oltre ci accorgiamo di un’area verso la spiaggia e pure alberata, ma oramai chi ha più voglia di nuove contorsioni al volante sotto al sole che picchia?

EVERYWHERE I LAY MY HAT

Giunti a Dolceacqua, ci basta aprire la portiera per scoprire di non essere riusciti a seminare l’afa padana. Certo, nulla di paragonabile, ma l’umidità ci accompagna lungo tutto la settimana: siamo costretti ad ascoltare qualche lamentela degli abitanti – che evidentemente non sanno quale sia la cosa vera – e, soprattutto, a rinunciare quasi sempre ai colori netti, niente verde che si staglia contri il cielo azzurro o il mare cristallino… L’appartamento all’interno della parte più antica di Dolceacqua ci consente però di vivere un clima confortevole a dispetto delle temperature esterne. Incastrata fra viuzze in cui il sole fa capolino a fatica e costruita con muri spessi anche cinquanta centimetri, la casa ci accoglie con ventiquattro gradi inaspettati e nei giorni successivi farà del suo meglio nel tenere lontana l’umidità, tanto che di notte – specie sul far del mattino – sentiremo spesso l’esigenza di coprirci o chiudere almeno parzialmente la finestra. Siccome questi paesi non amano il piano, anche l’alloggio è fatto in salita. Dallo stretto caruggio, tocca prima percorrere una decina di gradini fra due strette pareti intonacate di bianco e con una temperatura da cantina per la stagionatura. Terminati quelli, un nuovo gradino, questa volta in discesa, conduce a trabocchetto al lillipuziano pianerottolo su cui si apre la porta d’entrata vera e propria. Apertala, una scala in notevole pendenza conduce ansimanti all’ampio soggiorno-cucina, in un angolo del quale c’è il divano-letto su cui dormiranno Giulia e Chiara. Sullo stesso piano, ci sono anche il bagno e la stanza da letto, collegate da due porte basse e dotate di gradini. Prima si scende, poi si risale e appena entrato so che è solo questione di tempo prima di andarci a sbattere: la testata arriva puntuale il mercoledì al primo momento di distrazione mentre sto scherzando con le bambine. Non una dimenticanza, ma un errore di mira che costa al mio povero cuoio (poco) capelluto – già scottato di suo come da costume – passate di disinfettante, medicazioni con mercurocromo e una crosta che ci mette dieci giorni ad andarsene. A parte questa esigenza di un supplemento di attenzione, l’appartamento è veramente gradevole. Rimesso a posto di recente, mette in mostra colori caldi nella zona giorno – l’ocra delle pareti, il legno della cucina, del tavolo e delle sedie – e tinte più rilassanti nella camera da letto, decorata di azzurro intenso. Le finestre danno sul caruggio e lasciano scorgere solo uno spicchio di cielo, mentre la riservatezza è quella che è, con i vicini di casa a poco più di un metro: il vero polmone è dato dall’ampio terrazzo che si raggiunge salendo gli ennesimi ripidi scalini e consente di spaziare con la vista sulla parte nuova (meno vecchia) del paese mentre alle spalle – ma assai poco visibile – torreggia il castello. Coperto da un tetto digradante, con annesso rischio di testate anche qui, si dimostra il posto ideale per cenare godendo della brezza che sempre si alza verso sera. All’interno della parte più antica di Dolceacqua, dicevamo. Il che ha i suoi bei pregi – il fascino, il fresco e tutto quanto scritto sopra – ma anche dei difetti mica male. Difetti che poi si riassumono in uno solo: arrivarci. La prima volta, seguendo la padrona di casa, è da capogiro: a destra nel caruggio principale, poi a sinistra sotto una volta – usando un cartellino pubblicitario per orientarci finchè non impariamo la strada – poi ancora a destra prima in una viuzza chiusa e poi, sotto l’arco che regge il nostro appartamento, la Via Rocca che è la nostra ripida destinazione. In tutto questo girovagare, solo un breve tratto a metà percorso consente un po’ di rifiatare e il trasporto delle valige si rivela massacrante, anche perché sono necessari tre viaggi e le rotelle dei bagagli sono d’aiuto, ma non decisive: le strette vie hanno una zona più liscia che spicca fra le pietre del selciato, ma i frequenti scalini costringono a strappi continui e, comunque, i gradini per salire al soggiorno danno il colpo di grazia. Il potersi abbandonare sul divano, sudati, dopo l’ultimo viaggio è un piacere immenso, solo lontanamente rabbuiato dal pensiero di quando ci sarà da fare il percorso inverso.

(DON’T STAND) SO CLOSE TO ME

Il fianco di una collina. Nel punto più alto il castello, o la chiesa con relativa piazza, o entrambi. Sotto, e fino alla strada o al fiume che delimita il rilievo, case addossate l’una all’altra, alti muri massicci in pietra grigia su cui si aprono finestre non grandi. Tra di esse, ma anche sotto di esse – non mancano archi, sottopassi, a volte più leggere logge sospese – si snodano le strade lastricate con le stesse pietre, disposte in cerchi concentrici collegati da rampe a volte semplicemente faticose, altre quasi impervie. Se il cielo è terso, i contrasti di luce e ombra sono violenti, mentre dagli usci spesso aperti escono odori di cucina e di bucato: negli angoli più tranquilli regnano i gatti, cucciolate a volte scheletriche impegnate a finire gli avanzi del giorno prima e a tentare approcci amorosi. Sono molti i paesi del ponente ligure a essere fatti così e nessuno ha nome più adatto di Pigna. Lo si raggiunge risalendo la Val Nervia, una decina di chilometri dopo Dolceacqua: a un’altezza di quasi 300 metri sul livello del mare, si aggrappa sul lato sinistro della valle. Ci arriviamo verso mezzogiorno e tra il sole che picchia sul lato esterno e il fresco delle prime viuzze la differenza di clima è notevole. E’ forse il paese con più sottopassi e passaggi bui, anche se spuntano un paio di piazze lungo il lato esterno: da una di queste, dotata di una fontana, riescono a passare le automobili che, piuttosto inopinatamente, possono raggiungere la loggia dalle quattro larghe arcate che era il centro commerciale del paese. L’accenno alla fontana non è peregrino: la difficoltà maggiore di questi piccoli centri è sempre stata l’approvvigionamento d’acqua e l’installazione delle fontane ha rappresentato ogni volta un’occasione da ricordare, l’alternativa essendo portarsi gli otri a spalla da qualche fonte o corso d’acqua a valle. Oltrepassata la loggia, si giunge sulla piazza principale, che offre una splendida vista sui boschi che coprono fitti le colline di fronte e fra i quali spicca Castelvittorio, duecento metri più in alto. Su un lato dello spiazzo inondato di sole si erge l’abside della chiesa di San Michele Arcangelo, il cui ingresso dà invece su un caruggio, senza sagrato. Gli altri lati sono costituiti da edifici civili e, appena sopraelevata in un angolo, la facciata barocca dell’oratorio di sant’Antonio Abate. Costeggiando quest’ultimo, si può continuare a salire mentre le case si fanno sempre più rade e il caruggio si trasforma quasi in una mulattiera per diventare un sentiero ai margini del bosco: voltandosi indietro, si possono ammirare i tetti del borgo sovrastati dall’imponente sagoma del campanile romanico. Malgrado i, o forse grazie ai, suoi soli 51 metri di altezza sul mare, la parte antica di Dolceacqua è quella più filologicamente corretta, inibita com’è a qualsiasi mezzo di trasporto a due o a quattro ruote. I suoi abitanti hanno avuto a disposizione la sponda destra del Nervia per espandersi e non sono così stati costretti a snaturare la struttura orginaria del grappolo di case stretto al Castello dei Doria, la cui imponente mole si scorge già da lontano risalendo da Ventimiglia. A base rettangolare e caratterizzato dalle due alte torri che si elevano sui lati del corpo principale, il maniero è stato via via torre di guardia, posizione difensiva, residenza signorile riccamente decorata e infine rovina a causa di bombarde settecentesche e terremoti del secolo successivo. Ora è in corso un restauro che si annuncia lungo e laborioso: sono stati però già recuperati alcuni spazi in cui tenere mostre e altre manifestazioni, oltre alla visita guidata in alcuni giorni della settimana. Sotto le sue mura partono le strade che scendono verso il basso, alcune più dirette, altre con improvvise svolte a gomito e gradini più o meno alti da superare. La struttura spiraliforme è meno regolare che in altri borghi, ma proprio la presenza di tratti rettilinei crea scorci suggestivi, come il bellissimo caruggio che si incontra entrando in paese da destra, dopo l’ex mulino, con la sua fuga di leggere arcatelle sospese fra case molto alte. Passeggiando fra i caruggi, specie nella parte più bassa, si viene spesso avvolti dal profumo di vino che invecchia nelle botti: il Rossese di Dolceacqua è un rosso corposo a gradazione abbastanza alta e alcune cantine si trovano a proprio agio fra le vecchie e fresche mura del centro storico. Accanto a dove queste cantine sono più numerose, un caruggio completamente coperto conduce dalla piazza della chiesa al ponte che scavalca il Nervia, unica arcata a schiena d’asino che risale al quindicesimo secolo e mette in mostra una leggerezza di forme che ha saputo affascinare anche Monet. Per secoli, questo è stato il solo collegamento tra le due parti del paese, ora unito anche dal ponte carrozzabile citato più sopra parlando dei parcheggi. Sotto di essi, il fiume fa due anse, lasciando scoperta una buona parte di greto sul quale sorgono una coppia di sculture moderne che fanno compagnia ai molti animali che vi vivono: calato il sole, il gracidio delle rane è assordante. Oltrepassato il fiume, la parte nuova di Dolceacqua dimostra che poi tanto nuova non è. Sulla piazza che, accanto al lungofiume, ospita alcuni bar e ristoranti, sboccano un paio di strade che ben presto si stringono trasformandosi in caruggi, benché le case siano meno addossate e l’insieme non abbia molto fascino. Apricale è certo più simile a Pigna, e non solo perché l’altezza è pressappoco la stessa: la struttura del centro è analoga, solo che i caruggi concentrici sono forse un po’ più larghi e il sole può crearvi giochi di luce più netti. In compenso molti di quelli trasversali sono stretti e ripidi, tanto che alcuni di essi sono sbarrati. Oltre alle vie del borgo decorate durante i decenni dai più svariati artisti – le opere più vecchie hanno ormai perso la pienezza dei colori mentre le più recenti ravvivano molti scorci – ciò che più rimane impresso è la piazza che improvvisa si apre quasi alla sommità del paese. Vi si giunge attraverso alcuni passaggi abbastanza oscuri e la luce del sole – da cui Apricale prende il nome – investe improvvisa. Mentre sullo sfondo restano le verdi colline su cui spicca Perinaldo, sopra di essa da una parte è rialzato l’oratorio di San Bartolomeo e dall’altra, ben più interessanti, svettano la chiesa parrocchiale e il castello. La salita al sagrato fa intuire come questa, nei tempi antichi, fosse l’ultima ridotta difensiva, pare addirittura delimitata da un fossato: forse potremmo istruirci maggiormente visitando il castello e le relative esposizioni, ma vi arriviamo attorno al mezzogiorno e l’orario di apertura è solo nel tardo pomeriggio.

AH, LA FRANCE! TOUJOURS LA FRANCE!

Dopo una settimana, eccomi di nuovo all’uscita 58 dell’Autoroute du Sud. Non per lavoro questa volta, e allora proseguiamo per la Moyenne Corniche mentre Roquebrune, Montecarlo e Monaco sfilano più in basso, alla nostra sinistra, nella luce lattiginosa del mezzogiorno. Solo il navigatore dà a un certo punto di matto e ci fa svoltare verso il centro monegasco, per poi ravvedersi immediatamente chiedendoci un’inversione a U. Proseguiamo così la nostra marcia in direzione di Nizza e, superato Cap d’Ail, raggiungiamo in breve tempo la nostra destinazione: Eze (che quando qui era regno di Sardegna si chiamava Esa) Village. Troviamo posto in un parcheggio a pagamento ordinato e poco costoso dove consumiamo il consueto pranzo a base di panini e focacce imbottite. Abbiamo fatto tardi per cercare di porre rimedio ai titolotti di Giulia, che ha raccattato qualche fastidioso insetto esotico tra le piante tropicali dei Giardini Hanbury: visita medica e sosta in farmacia hanno occupato quasi tutta la mattinata e quando cominciamo a salire a piedi verso la parte storica di Eze è l’una passata. Per raggiungere l’ingresso fra le mura, ci sono due comodi tornanti. All’altezza del primo, si aprono in cancelli dell’Albergo della Capra d’Oro, situato sul pendio digradante della collina: in mezzo al verde, offre una gran bella vista in direzione Cap d’Ail ma mette in mostra prezzi proibitivi per l’alloggio e fuori da ogni buon senso per il ristorante. Mentre curiosiamo, due camerieri stanno scaricando valigie da una Rolls-Royce – questo tanto per inquadrare la situazione. Fa però troppo caldo per star fermi e, sperando di trovare qualche riparo dall’afa fra le vecchie mura, proseguiamo la salita. Speranza vana. Il paese ha un aspetto più provenzale che ligure e fra le case meno accatastate si snodano vie che, pur non larghissime, sono inondate di luce solare. La temperatura e il percorso mai in piano fanno sudare copiosamente e certo non aiuta il dover evitare i numerosissimi turisti d’ogni dove – pochi gli italiani – che si affollano nelle stradine. Tutto questo, però, non impedisce di ammirare gli innumerevoli scorci caratterizzati dal contrasto degli intonaci chiari che riflettono i raggi solari sovente contrapposti ad angoli in ombra, un portico o magari un albero che cresce tra le case. Macchie di colore sono regalate dai fiori che spuntano rigogliosi dai balconi o si protendono nel vuoto dalle terrazze e lo sfondo sarebbe il turchese del cielo se il clima non ci spalmasse davanti una patina bianchiccia. Il mare, invece, no: bar, alberghi e ristoranti si sono accaparrati ogni vista che lo comprenda, tranne una: quella in fondo al cimitero e che spazia sopra Eze Bord de Mer fino a Cap Ferrat. In verità, ci sarebbe forse la possibilità di salire ai ruderi del castello che sovrasta la cittadina, ma la temperatura e la prospettiva di dover attraversare un altro giardino botanico ci fanno desistere dall’idea. Quando arriviamo al camposanto con vista, abbiamo già perlustrato in lungo e in largo il piccolo borgo, tanto che Chiara si rifiuta di fare i pochi gradini per salirvi. Si sistema così ai piedi della scalinata, sul lato in ombra del sagrato della chiesa: una posizione ideale per uno sguardo in direzione dell’Italia che consente di sbirciare le numerose ville con piscina distribuite tra il paese sottostante e il capo che ci fronteggia. La zona è la più tranquilla fra quelle attraversate anche perché almeno lì mancano i negozietti di vestiti e cianfrusaglie per turisti in cui ci si imbatte ad ogni passo nelle vie interne. Non possiamo evitare il dentro e fuori da numerosi di essi, con le sole consolazioni di ambienti più freschi, quando non gelidi per l’aria condizionata, e dei racconti di stagioni sempre più anomale anche in Riviera: non solo l’afa quasi padana, ma anche un’insolita nevicata e una pericolosa tromba d’aria che ha costretto all’evacuazione dalle antiche case. A metà pomeriggio, decidiamo che le fatiche ci hanno meritato una rinfrescata. Scendiamo verso Eze Bord de Mer, ma non ci arriviamo. Appena imboccata, la strada costiera fa un’ampia curva: sul lato convesso, un parcheggio con pochi posti liberi e un punto di ristoro, su quello concavo un’ampia insenatura ricoperta da un fitto bosco e un cartello che indica la spiaggia di Saint Laurent. Ci fermiamo e ci avviamo lungo il comodo sentiero che scende attraverso la vegetazione. Camminiamo per una decina di minuti nell’ombra regalata da un verde che non lascia passare la luce del sole mentre sui lati – di tanto in tanto – filo spinato e cartelli che minacciano cani feroci impediscono l’accesso a ville che si suppongono di non poco pregio. Accompagnati da un torrente, passiamo infine il sottopasso della ferrovia e giungiamo a destinazione: una piccola, tranquilla spiaggia di sassi lambita da un’acqua cristallina. La gente non è molta, perché il pomeriggio si fa inoltrato e l’ombra dei rilievi circostanti inizia ad avanzare. Ci tuffiamo subito e, galleggiando comodi nell’acqua profonda, possiamo cogliere meglio la bellezza del luogo, chiuso da due promontori di roccia che si protendono in mare. Rocce che però non impediscono il passaggio, alla nostra sinistra verso Eze e a desto verso Cap d’Ail, come ci dimostrano alcuni giovanotti che provengono dalla prima direzione e due gendarmi che scendono in ispezione (peraltro ignorando un paio di topless e un grosso cane che dai cartelli parrebbero vietati). Lo sguardo può invece spaziare solo in direzione della punta che ci separa da Monaco, mettendo in mostra le numerose case e ville che ne punteggiano le pendici fino quasi alla costa pur senza rovinare la piacevolezza dell’insieme; l’alternativa è dare un’occhiata al largo dove natanti di varie dimensioni – dalla barca allo yacht più o meno pretenzioso – incrociano o stanno all’ancora dondolando nella luce del tramonto. Uscire dall’acqua e risalire è una fatica. Ce lo imponiamo anche perché non siamo vicinissimi a Dolceacqua e in più ho l’intenzione di concedere un giro turistico alla famiglia rientrando in Italia e costeggiando il mare, attraversamento del Principato compreso: se Fontvielle, la zona del porto e il tunnel scorrono con relativa facilità, l’uscita da Montecarlo assieme ai pendolari è resa difficoltosa dai soliti, immancabili cantieri dell’infinito smonta e rimonta monegasco. Imboccare il lungomare di Mentone, malgrado sia affollato, è un sospiro di sollievo, ma il rientro ci porta via comunque quasi un’ora e mezza.

ON THE BEACH

Ogni giorno una spiaggia diversa. Detto e (quasi) fatto, anche perché la gente non è mai moltissima – con la parziale eccezione del fine settimana – e le possibilità svariate. Sopra, si è parlato della migliore, più avanti discorreremo della più deludente: via la testa, via la coda resta da parlare di Bordighera, Vallecrosia e Latte. Fra le prime due non ci sono sostanziali differenze, se si eccettua forse il fatto che, guardando la costa stando in acqua, a Bordighera la vista è complessivamente migliore. Sono entrambe spiagge in ghiaia con vasti spazi liberi: di solito si alternano uno stabilimento a un accesso senza restrizioni, quest’ultimo sempre corredato da una doccia e un paio di spogliatoi per cambiarsi. Non si sa se per colpa della stagione o della crisi, non le troviamo mai affollate, sia per i consueti bagni pomeridiani, sia per quello mattutino dell’ultimo giorno: l’impressione è ancora più accentuata osservando gli stabilimenti, che presentano numerosissimi ombrelloni chiusi. Troviamo l’acqua pulita, anche se non cristallina per forza di cose vista la lunghezza del litorale e la profondità: fatto un passo o due dopo essersi bagnati, il fondale scende subito e speditamente, così che chi non sappia nuotare potrebbe trovarsi presto in difficoltà. Discorso simile può essere fatto anche per Latte, a parte forse il fatto che i ciottoli sono più grandi. In questo caso però, la spiaggia è assai più piccola, posta com’è in un’insenatura, come già detto, prossima al confine con la Francia. Il paese è più all’interno e, per raggiungerla, tocca passare per strade strette o farsi almeno quindici o venti minuti a piedì: una volta a destinazione, si può così godere la vista delle montagne intorno e del verde che cresce rigoglioso soprattutto nei vasti parchi che circondano alcune costruzioni padronali i cui muri di cinta si spingono fino alla costa. Unica stonatura, la presenza troppo vicina alla spiaggia del cantiere di un albergo, o di una grande casa, in cui apparentemente non lavora nessuno: costruzione bloccata o soldi finiti? A dir la verità, non ci arriviamo al primo colpo. Una volta sistemata l’auto con fatica come descritto altrove, raggiungiamo il bagnasciuga stranamente deserto. E’ l’una e lì vicino sfocia il cadavere del Latte, ma la facilità di parcheggio contrasta con un numero di persone che si contano sulle dita di una mano. Piazzatici all’ombra del muro di cinta e degli alberi di una delle ville di cui sopra, ci avviamo a fare il bagno e scopriamo il perché: l’entrata in acqua è ostacolata da numerosissimi sassi appena sotto la superficie che si estendono per almeno una decina di metri rendendo difficoltoso se non impossibile un tuffo che consenta di superarli. Non ci resta che sederci a riva e lasciarci lavare dalle onde di un mare appena mosso e poi trasferirci nella spiaggia giusta per il bagno pomeridiano. Oltre alla piccola e impraticabile Camporosso, l’unico altro accesso al mare – chiamarlo spiaggia sarebbe fuorviante – su cui non ci azzardiamo è Capo Sant’Ampelio, situato ai piedi di Bordighera vecchia e di un rinfrescante e ampio giardino digradante verso il mare. Verso ovest si allungano le spiagge, a est trova posto il porto, in mezzo rocce di colore chiaro si protendono in un mare profondo che a volte si spinge a formare grandi pozze o piccole piscine fra una pietra e l’altra. Ci arriviamo scendendo da Seborga. Alle tre del pomeriggio, il sole picchia con convinzione sui sassi che non offrono il minimo riparo: considerato che per entrare in acqua sono necessarie doti di equilibrio che non ci sentiamo di sperimentare, preferiamo lasciare l’esperienza ai molti che stanno abbrustolendo al sole in apparenza senza soffrire per la temperatura e l’umidità e ci limitiamo a far visita alla piccola chiesetta costruita in posizione appena rialzata. Superiamo un piccolo sagrato di colore chiaro come i muri perimetrali ed entriamo nella riposante frescura dell’unica navata. Le pareti spoglie aumentano il fascino del luogo, veramente minuscolo e in origine ancor più piccolo: la differenza di architettura rende evidente come le dimensioni della chiesa siano state raddoppiate in un secondo tempo.

DON’T LET ME DOWN

Non deludermi: sembra facile. Nel corso di una settimana di instancabile girovagare è impossibile evitare qualche meta che si riveli al di sotto delle aspettative o magari si avvicini il buco nell’acqua. Si comincia subito alla domenica. Lasciata Pigna, imbocchiamo la strada che conduce a Triora. Prima ci arrampichiamo, tra stretti tornanti e curve cieche o quasi, attraverso il bosco e poi, quando le pendenze si fanno meno importanti, proseguiamo la salita tagliando il fianco della montagna: la carreggiata è stretta e a destra c’è lo strapiombo delimitato da pochi e casuali paracarri in pietra: per fortuna che dall’altra parte scende solo qualche rado ciclista. Il valico di Langan segna lo spartiacque con la Valle Argentina: a oltre 1.100 metri e dotato di un rifugio, offre colori alpini – sono o non sono le Alpi marittime, queste? – e l’inizio della comoda e larga discesa verso Molini di Triora. Raggiunto il piccolo centro, decidiamo di dar retta ai nostri stomaci. Fa al caso nostro una piccola area attrezzata posta lungo il corso del torrente e rinfrescata da una piacevole brezza. Ci fa un po’ di posto sui tavoloni in legno una compagnia costituita da un paio di famiglie dei dintorni – accento inconfondibile – attrezzatissime con griglia, carne, patate e quant’altro di contorno. I nostri panini non ci fanno una gran figura, ma il nostro è pur sempre un cestino da viaggio contro un picnic organizzato in grande stile. Fino a qui niente delusioni, ma pian piano ci arriviamo. Ripartiti, cominciamo a risalire la valle lungo il fiume costeggiato da numerosi mulini – la toponomastica non falla – e poi, deviando a sinistra, ci arrampichiamo velocemente agli ottocento metri di Triora, che è probabilmente il paese più conosciuto dell’entroterra imperiese. Uno dei ‘borghi più belli d’Italia’, bandiera arancione del Touring, famoso per le streghe – nonché per la loro eliminazione – e per il pane. All’entrata della zona pedonale, già si nota la sua maggiore esposizione turistica con negozietti che vendono ricordini di vario gusto – predominano, di ogni materiale e dimensioni, le streghe – e un paio di bar ristoranti con terrazza. Proseguendo si raggiunge la parte signorile, con la piazza del duomo circondata dalle alte facciate dei palazzi fatti costruire con qualche pretesa dalle famiglie più in vista del luogo. Tra archi e passaggi in ombra si sale poi verso il castello, che una volta dominava il paese ma che ora non è altro che uno spezzone di muro; per raggiungerlo, si percorrono caruggi che sono sì stretti ma non ben conservati come quelli di altri centri. L’impressione strana che lasciano trova spiegazione nelle pagine della guida, dove si racconta come, durante l’ultima guerra, Triora fosse un centro tanto importante per la Resistenza della zona da spingere i Tedeschi a cercare di risolvere la questione a cannonate. Attorno al borgo, lungo le mura in lunghi tratti conservate e verso le colline vicine, ci sono varie camminate che conducono a luoghi di culto più o meno in buono stato. L’aria si è però fatta opprimente, con una leggera afa che, malgrado l’altitudine, spegne il verde delle montagne circostanti intristendo il bel panorama. In aggiunta, un temporale insiste nel brontolare oltre le cime più alte mentre la stanchezza si fa sentire: decidiamo così di scendere verso un meritato bagno e, dimenticato anche il pane, percorriamo i trenta, infiniti chilometri che, scendendo lungo la Valle Argentina, ci conducono ad Arma di Taggia. L’idea non si rivela azzeccata. Arma ha un lungomare discreto e non sfiancato dal traffico, ma è domenica pomeriggio e la spiaggia libera – dove comunque il comune affitta ombrelloni e sdraio – è stipata all’inverosimile. Il paio di metri quadri dove ci sistemiamo sono a un soffio dal bagnasciuga, in quell’incastro di salviette, ombrelloni, sandali e corpi variamente disposti che pare la rappresentazione classica della spiaggia festiva in Italia. Anche rinfrescarsi non è semplice, uno sbarramento di sassi fa sì che si possa camminare per un centinaio di metri senza bagnarsi il costume: solo l’osservazione del prossimo ci indica che qualche tratto più profondo per immergersi c’è, sempre con il problema di evitare le pallonate, i tuffi e anche una moto d’acqua che va e viene un paio di volte dalla riva. Se aggiungiamo che siamo completamente disabituati alla sabbia che si appiccica ovunque, è comprensibile quale sollievo sia tornare sui nostri passi. Dopo tre giornate di grazia, la delusione successiva si chiama Seborga. Percorriamo la bella e tortuosa strada che sale al sedicente principato – che dovrebbe trarre origine da una ‘dimenticanza’ del Congresso di Vienna – in una mattinata grigia d’afa. Nel verde sopra Bordighera possiamo ammirare le belle ville che – in vari stili ma con predominio liberty – si affacciano su un panorama che, in altre condizioni climatiche, comprende un amplissimo tratto di costa. Passata l’uscita dell’autostrada, ci inoltriamo fra le colline e la temperatura inizia a rinfrescare: Seborga, oltre che con una guardia di confine all’inizio del territorio comunale, ci accoglie con un vento fresco che è forse l’aspetto migliore della visita. Il paese gode di una buona posizione che gli consente di dominare la vallata sottostante, ma il piccolo centro è carino seppur non dissimile da migliaia di altri che si possono trovare in Italia. La visita non richiede neppure un’ora, tra stradine lastricate, un paio di antiche porte ben conservate e qualche concessione alla modernità di troppo. L’angolo migliore è la piccola piazza della chiesa, sul cui spiazzo circolare si affacciano la facciata in pietra del palazzo della Zecca, sovrastante un profondo portico, e la barocca facciata del tempio vivacizzata da squillanti rossi e arancioni. Ovunque dominano il bianco e l’azzurro della bandiera locale e le foto del principe, in un incrocio tra la Montecarlo dei poveri e lo staterello da operetta. Probabile qualche ritorno turistico, ma il tutto risulta un po’ assurdo nel 2010… Ignoriamo quindi la questione, usciamo dalle mura e ci piazziamo in un ombreggiato angolo per il picnic a mangiare i nostri panini: il vento continua la sua opera rinfrescante e si sta talmente bene che neppure un rumoroso grest in gita riesce a rovinare il pranzo. Nel pomeriggio scendiamo a morir di caldo a Bordighera alla ricerca di un medicamento per la mia testa grattugiata e la conferma che siamo nella fase discendente della vacanza l’abbiamo il giorno dopo. Prima visitiamo Bordighera Alta, dalla quale non ci aspettiamo molto – la cittadina è rinata nel sedicesimo secolo dopo un lungo abbandono – e molto non ci ricaviamo: la zona vecchia, chiusa fra le mura, è caratterizzata da lunghe e strette vie ombreggiate, spezzate qua e là da piazze inondate dal sole. Alto è il numero di ristoranti e bar, all’ombra di un portico o fra le strette mura di una vecchia casa, ma la visita mattutina consente di camminare senza dover fendere la calca. Il giro turistico è di conseguenza abbastanza breve, così ci avviamo verso la Francia e, quasi al confine,ci arrampichiamo fino a Mortola Superiore lungo una strada ripida e abbastanza stretta che attraversa rocce sporgenti e ulivi contorti. Il paesino – una chiesa, quattro case e un albergo-ristorante – è abbarbicato al pendio là dove la strada finisce. Grandi macchie di fiori sui terrazzi, panorama alpino verso la montagna ma, malgrado la posizione, vista piuttosto ridotta sul mare sottostante. Il punto più panoramico è dalla veranda della trattoria – si possono ammirare Mentone e la costa fino a Cap St. Martin – ma, dopo aver bevuto qualcosa, resistiamo alle tentazioni e ci trasferiamo sul sagrato della chiesa per divorare le provviste portate da casa. Poi, nel sole e nel caldo del primo pomeriggio scendiamo delusi, rinunciando anche a Grimaldi Superiore, al suo panorama ma anche alle sue difficoltà di circolazione.

THE GARDEN

Mortola Inferiore: una strada tra due file di case e qualche albergo, quasi a mezz’altezza tra il livello del mare e la sua gemella superiore. Salendo, tra una curva destra e una a sinistra, scorgiamo l’ingresso dei Giardini Botanici Hanbury e nessun parcheggio dedicato: troviamo un miracoloso posto appena passata la seconda svolta, tra un furgoncino e un passo carrabile, ringraziando per il fatto di essere ancora in bassa stagione. La visita ai Giardini parte dall’alto e – guidata da un libretto discretamente informativo curato dall’Università di Genova che ora gestisce l’ampio parco – scende lungo sentieri e stradine in ampie svolte fino alla costa, per poi risalire seguendo un diverso percorso. Le piante sono sistemate per genere – ecco lì tutti i catus e le agavi – o per luogo di provenienza – qua il Giappone, là l’Australia – secondo una disposizione frutto di continui rifacimenti e correzioni: per decenni, a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, Thomas Hanbury, la sua famiglia e i suoi discendenti hanno trasformato una vecchia casa padronale e il terreno ad essa circostante in una villa con tocchi liberty immersa nel verde di piante provenienti da ogni parte del mondo. La luce smorzata dalla foschia non riesce a esaltare i colori della vegetazione in contrasto con il cielo e il mare che occhieggia sullo sfondo. Unica pecca insieme alla fioritura ormai terminata di moltissime specie: su molti rami si possono notare frutti di varia foggia e dimensione. Anche senza fermarsi a leggere ogni cartellino, il giro completo risulta abbastanza impegnativo e richiede circa tre ore in cui si continua a camminare quasi senza soste: le uniche fermate sono per immortalare le fontane che riproducono i più o meno muscosi ambienti acquatici, per ammirare il panorama dalla balconata della villa o per accostarci al tempietto che onora la tomba del fondatore dei Giardini. L’arrivo al bar, separato dal mare solo da un muro in cui (non) si aprono solo due o tre cancelli, è accolto con sollievo: i prezzi non sono certo economici, ma quelli dei gelati confezionati sono fissi e le calorie e gli zuccheri ci sono indispensabili prima di iniziare la risalita. Ci attardiamo ancora un attimo a osservare la piccola insenatura su cui i Giardini si affacciano: appoggiati alle sbarre dei cancelli sopra accennati, scorgiamo grandi massi che fanno da collana a un’acqua subito profonda e sui quali solo un singolo coraggioso prende il poco sole a disposizione dopo essere giunto da chissà dove. A parte l’effetto magnetico della risacca, ciò che rende difficile staccarsi è la corrente d’aria che soffia piacevole verso terra apportando un piacevole sollievo alla pelle resa appicicaticcia dall’umidità africana che ci sovrasta. Inutile dire che la passeggiata verso l’ingresso è resa pesante dal clima e dall’orario, visto che il tempo del pranzo è arrivato e sta pure passando: però, e non è così scontato poichè pur sempre di piante si tratta, il percorso resta sempre interessante e perciò il cammino risulta meno faticoso di quanto ci possiamo aspettare. Raggiungere di nuovo l’ingresso è comunque motivo di grande soddisfazione, anche perché ci infiliamo nelle toilette per sostituire i vestiti sudati con i costumi da bagno prima di trasferirci nella spiaggia di Latte che possiamo ammirare lungo la discesa verso la costa.

TOP OF THE POPS

Per avere il meglio bisogna sottoporsi a qualche sacrificio. Va bene, lo dicevano anche i latini – ‘per aspera ad astra’, si perdoni la banalità – ma la strada che conduce da Apricale a Perinaldo è un’esperienza da brividi che fa assomigliare la salita al Valico di Langan a una tranquilla domenica mattina sulla Piacenza-Brescia. Già l’uscita da Apricale è complessa. La strada stretta e le macchine parcheggiate ovunque consentono il passaggio di un veicolo per volta e, quando ci mettiamo in movimento, pare che chiunque abbia deciso di imboccare la direzione opposta. Incrociamo di tutto, compresi un’auto medica e i Carabinieri, in una continua ricerca di varchi a cui accostare e retromarce millimetriche. La nostra meta ci sovrasta in cima a una collina alla nostra destra e non solo non pare, ma anche non è lontana. I primi due o tre chilometri, in leggera salita, non sono il massimo della comodità, ma nulla di paragonabile a quello che ci troviamo sotto le ruote quando imbocchiamo la deviazione sulla destra segnalata da un cartello che indica una distanza breve, poche migliaia di metri, ma nasconde le insidie. La Touran non è un Humvee, ma occupa tutta la carreggiata: fino a quando la strada resta quasi in piano qualche via di fuga c’è, una volta che la salita è iniziata gli spazi che consentano l’incrocio diminuiscono fino a sparire. Il percorso attraversa il bosco sfiorando gli alberi mentre alla nostra destra occhieggia qua e là lo strapiombo. L’unica possibilità è sperare intensamente che nessuno arrivi dall’altra parte e, per nostra fortuna, così accade: solo sull’ultima curva, incrociamo una macchina con targa svizzera che però trova all’interno quel tanto di banchina da consentire il passaggio di entrambi mentre gli specchietti restano separati da un niente. Potremmo festeggiare lo scampato pericolo stappando champagne, ma non avendo a disposizione l’occorrente, ci immettiamo sulla strada principale che conduce all’inizio del paese. Troviamo posto in un piccolo giardinetto e, sistematici sulle panchine per il pranzo, scopriamo che a Perinaldo – a quasi seicento metri di altezza – soffia una piacevolissima brezza e, soprattutto, si gode un panorama fantastico, solo in parte smorzato dall’ennesima giornata poco limpida. Il paese si trova in una posizione che sovrasta le colline circostanti. Queste si affacciano sulla Valle Crosia che discende lentamente fino al mare: se non fosse per il viadotto dell’autostrada che, là in fondo appena prima della costa, rovina un po’ l’insieme, si potrebbe stare per ore a osservare i boschi, la chiesa di Sant’Antonio che si vuole orientata sul meridiano Cassini, le case di campagna immerse fra gli ulivi e il mare sullo sfondo. Cassini dicevamo. Giovanni Domenico, astronomo secentesco nativo di qui: la visita al paese è per un lungo tratto in suo nome, a partire dal brutto monumento nel giardinetto in cui ci siamo accampati e proseguendo con l’agile struttura che segnala il vero passaggio del meridiano e le posizioni di sole e astri nei vari periodi dell’anno. Accanto a questa, sale una ripida rampa che conduce in centro e al caruggio principale. Qui, per un lungo tratto, è ricordato l’illustre concittadino: quadri che ne rappresentano episodi salienti della vita e ritratti di famiglia alle pareti, una rappresentazione in scala del sistema solare sul pavimento con la spiegazione delle scoperte fatte dallo scienziato sui singoli pianeti. Del resto, il rapporto tra Perinaldo e l’astronomia è rimasto costante, grazie a una posizione che consente osservazioni senza ostacoli di una grande fetta di cielo e il gran numero di giorni in un anno nei quali l’aria è perfettamente tersa: inevitabile la presenza di un Osservatorio. Proseguiamo quindi in direzione della piazza principale. Il paese, disteso com’è lungo tutto il crinale, non è costruito a pigna – o a carciofo – come quelli circonvicini ma gode di un’architettura più aperta che però ha dovuto pagare pegno a qualche ammodernamento di troppo. L’ampio slargo su cui, innalzata da una scalinata, incombe la chiesa ricorda più un paese del Sud Italia, con i muri bianchissimi che riflettono la luce del sole – sarà per questo che il tempio è dedicato a San Nicola… Saliti i gradini, ci infiliamo in quella che sembra la parte più antica del paese. Quel che resta del castello Grimaldi è ora adibito ad abitazioni private che si affacciano su una piccola piazzetta e sulle strette vie con muri che spesso mettono in bella mostra i mattoni con cui sono costruiti. All’improvviso, arriviamo a godere della vista che si stende dalla parte opposta rispetto a quella prima ammirata: ecco là sotto Apricale e poi colline su colline che si intersecano fino a perdersi nella foschia, e chissà fin dove si può arrivare con lo sguardo quando la giornata è bella. Unica controindicazione, l’assoluta mancanza di una qualsiasi areazione – evidentemente il vento rinfresca solo il lato che guarda il mare – così ritorniamo sui nostri passi, imboccando la strada che taglia longitudinalmente il paese in direzione dell’altro castello, quello intestato ai Maraldi. Non ci arriviamo: a circa metà strada, nei pressi di una grande fontana posta sotto una arcata che si apre all’improvviso fra le case, incrociamo una via che scende verso l’interno e, visto che l’ora del bagno si sta avvicinando, ci incamminiamo verso la macchina. Non prima che Diva, dopo aver casualmente attaccato bottone con una signora che sta spazzando davanti all’uscio, non ne venga invitata a vistarne la casa. La visita non è di breve durata e, grazie ad essa, veniamo a sapere che in paese ci sono vari appartamenti in affitto a prezzi veramente contenuti – ma il mare è pur sempre a oltre dieci chilometri – e che tutt’attorno gli stranieri, specie provenienti dal Nord Europa, stanno comprando e riadattando i casali abbandonati dalle famiglie che non vogliono più essere contadine. Diamo l’ultima occhiata al panorama della Valle Crosia dalla terrazza di un bar, con annessa trattoria che sembra fermo a trent’anni fa – contribuisce all’impressione anche un calcio-balilla risparmioso, tante palline per soli cinquanta centesimi – e poi, seppure a malincuore, scendiamo verso la spiaggia di Bordighera.



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