In India col fratellone

Quando meno mi aspettavo di ripartire, mio fratello mi ha fatto un'offerta "che non ho potuto rifiutare"
Scritto da: steweboy
in india col fratellone
Partenza il: 25/10/2000
Ritorno il: 15/11/2000
Viaggiatori: 2
Spesa: 1000 €
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Novembre 2000 – India del Nord Chi l’avrebbe detto che dopo la parentesi malese il 2000 mi avrebbe regalato un altro, inaspettato viaggio verso Est? Mio fratello Angelo (più giovane di me di sette anni ma più “vecchio dentro” per quanto riguarda i viaggi), stanco della moglie che lo costringeva a vacanze “a quattro stelle” e a piacevoli siparietti boriosi (tipo fargli inoltrare reclamo alla reception il giorno che la cameriera ha dimenticato una scopa dietro la porta del loro bagno), una sera mi chiede “Qual è il posto più “duro” da girare dove sei stato?”. Quando gli rispondo che per svariati motivi è stata probabilmente l’India, lui rincara la dose e dice “E in India, qual è il posto peggiore che ci sia?”; gli rispondo che non ho potuto toccare con mano direttamente, ma che l’immaginario collettivo indica Calcutta come “il peggio”. E a questo punto, ecco l’Offerta Che Non Posso Rifiutare: angelo si offre di pagare tutto lui, dal viaggio al soggiorno al vitto ai souvenir, purché io gli faccia da guida per tutto il tempo. Neanche a dirlo, il mattino dopo sono in agenzia viaggi e nel primo pomeriggio chiamo mio fratello e gli comunico gli orari di partenza del volo Alitalia Milano Malpensa-Bombay, la notte in aeroporto a Bombay e il volo Air India dell’alba verso Calcutta. Scopriamo un’ora dopo il decollo che il volo Milano-Bombay in ambito Alitalia è considerato “punitivo”, della serie se fai la hostess o lo steward e ti hanno scoperto a drogarti nei cessi, picchiare i passeggeri, rubare nelle valige o sputare nei bicchieri, invece di licenziarti ti assegnano un paio di mesi a questo simpatico itinerario… Meno male che mio fratello è di aspetto decisamente piacevole, e sfruttando il suo ascendente sul sesso femminile riesce a farci ottenere un trattamento “top-class” ancorché si viaggi in bieca classe turistica. Atterrati a Bombay, scopriamo con un certo sdegno che il nostro volo verso Calcutta partirà sì l’indomani, ma dall’aeroporto nazionale della città, posto a qualche chilometro di distanza da quello in cui siamo atterrati. E’ disponibile una navetta gratuita, della quale approfittiamo subito; i banchi del check-in sono già aperti, e verso le due di notte abbiamo consegnato gli zaini al vorace nastro trasportatore, stringiamo in mano le carte d’imbarco… e non sappiamo che cazzo fare fino alle sette di domattina. Decidiamo di comune (mio) accordo di andare a fare un giro nei dintorni dell’aeroporto, alla ricerca di qualche venditore di strada per assaggiare le delizie locali. Usciamo e scopriamo subito di trovarci nel bel mezzo del buco del culo dell’ombelico dell’India. Nessun negozio, nessun venditore…solo miriadi di “threewheelers” (le nostre Api Piaggio, solo molto più malridotte, più inquinanti e guidate molto peggio) e capannelli di indiani intorno chi a un mazzo di carte, chi a un fuoco (ci saranno 40°!!), chi a un piatto di cibo semplice. Proprio a quest’ultimo capannello ci avviciniamo curiosi; subito veniamo accolti con sorrisi e (probabilmente) battutine stupide e maliziose. Dopo l’immancabile “Where you from, mister?”, la cui risposta non viene quasi per nulla considerata, ma che serve (a loro, perlomeno) per stabilire una sorta di contatto umano su basi più confidenziali, dopo esserci accomodati – invitati – intorno al tavolo, rimaniamo a guardare i nostri compagni che mangiano a quattro palmenti una sorta di brodaglia rossastra. “Possiamo assaggiarla anche noi?”, chiedo nell’inglese più semplice che riesco a formulare, e tutti quanti iniziano a ridere a crepapelle. “This is food for Indians…Indian food!” mi dice il più estroverso, prima di unirsi alla risata collettiva. “Ma a noi piace il cibo indiano per indiani!” risponde in inglese mio fratello, esaurendo così la sua scorta di parole straniere per tutto il viaggio. Cercando di dissimulare la loro ilarità, i nostri amici ci porgono due piatti di plasticaccia, pieni della brodaglia di cui sopra, due cucchiaioni di alluminio e due chapati. E ci guardano in un silenzio quasi assordante. Porto alla bocca un cucchiaio colmo di cibo, che appena entra a contatto con le mie mucose le anestetizza completamente: è minestra di riso, cotto probabilmente in una salsa di peperoncino rosso senza diluizioni di sorta. Sorrido e faccio segno di “sì” con la testa, come a dire “Cazzo, è talmente buono da togliermi le parole”; mio fratello – affamatissimo – mangia a capo chino aiutandosi col chapati, ma le lacrime che gli sgorgano dagli occhi e il naso che cola come un rubinetto rotto tradiscono una sua sofferenza interiore non indifferente. Cercando di non pensare a cosa succederà quando questa prelibatezza indiana, completato il percorso digestivo, verrà a bussare a un’altra porta per uscire, salutiamo l’allegra brigata e ci dirigiamo, lingua in spalla, verso l’aeroporto. Dopo neanche tre ore di sofferenza, il nostro volo viene chiamato all’imbarco. Si decolla con puntualità teutonica e, dopo il volo “punitivo” Alitalia, questo jet nuovissimo dell’Air India ci sembra un viaggio premio in prima classe. Atterriamo a Calcutta in perfetto orario, e usciamo dall’aeroporto Dum-Dum alla ricerca di un bus che ci porti in centro. Dopo aver evitato quaranta tassisti abusivi, sogghignato ascoltando da parte loro il racconto di sommosse e disordini in città, scioperi selvaggi, orde di autisti del bus che torturano i turisti, inondazioni, invasioni di cavallette assassine (tutto per accaparrarsi il viaggio verso il centro – vedi capitolo precedente sull’India), declinato un risciò a pedali per non vedere il “conducente” stramazzare a terra dopo pochi metri (io sono 1.91 cm per 90 chili, e mio fratello 1.96 per 110…)…ci avviciniamo a un vecchietto che pare in simbiosi con il suo vecchissimo taxi sderenato, e gli chiediamo quanto vuole per portarci fino a Sudder Street, la via degli alberghetti per viaggiatori “squattrinati”. Ci chiede una cifra che non rappresenta neppure un decimo del prezzo migliore finora propostoci. Saltiamo in macchina e gli ingiungiamo di partire, pronti a soffrire il caldo infernale e la guida impossibile del nostro autista per il 15 chilometri circa che ci separano dalla destinazione. Arriviamo dopo circa un’ora, e dopo aver respirato più monossido di carbonio di quello che avremmo assunto in otto anni in Italia passeggiando per il centro a bocca aperta. Ci infiliamo, Lonely Planet alla mano, nel primo alberghetto consigliato sotto la lista “Sistemazioni economiche”; arrivati alla reception, l’addetto sorridente mi risponde “Sori, fuli buked”, che liberamente tradotto dall’inglese del Bengala vorrebbe significare la non disponibilità di camere libere a causa di un’inattesa quantità di prenotazioni. Torniamo in strada, mi volto verso mio fratello e leggo nei suoi occhi lo stesso terrore che potrebbe avere un animale abbandonato in autostrada che vede sopraggiungere un TIR impazzito guidato da un camionista ubriaco. “E adesso, cosa facciamo?” mi chiede con gli occhi fuori dalle orbite. Con un ampio gesto da seminatore, gli indico tutta Sudder Street e gli dico “In questa strada ci sono almeno ottanta alberghi del cazzo…troveremo una stanza, no? E se non ne trovassimo, nella strada parallela ce ne sono altri 80. E se fossero pieni anche quelli, ci sono gli alberghi ‘medio budget’, che costano comunque come un aperitivo a Genova…stai tranquillo che stasera dormiamo in albergo!”. Detto, fatto: il secondo “hotel” (le virgolette sono necessarie, credetemi!) a cui chiediamo una stanza ci palesa la disponibilità di una splendida matrimoniale con bagno privato e TV, per il controvalore di circa 4€ a notte. Il televisore in effetti è un Sony 42” che non si riesce a spegnere e trasmette solo film indiani di Bollywood. Il bagno è grande e, per gli standard di un Dalit (vedi) con incarichi di sturafogne, molto pulito. Il letto è poco più di un pagliericcio, ma le lenzuola sono bianche. I muri, ahimé, no…e durante il nostro soggiorno mio fratello cercherà di migliorarli sputandoci sopra più volte al giorno, un po’ per disprezzo, un po’ per lavarli, un po’ per togliersi il catarro catramoso causato dall’esposizione all’inquinamento stradale. Calcutta è tutt’altro che “invivibile” rispetto ai tanti racconti sentiti. D’accordo, ci sono 14 milioni di abitanti di cui oltre 4 vivono per la strada; ci sono moltissimi slum, anche in pieno centro (uno piuttosto piccolo sorge esattamente di fronte alla stazione ferroviaria di Howrah); sotto il ponte di Howrah abbiamo visto persone che si lavavano, altre che a pochi metri lavavano i panni, altre ancora che poco distante lavavano le stoviglie di un ristorante, e tra le une e le altre corvi neri e pantegane che si litigavano i frammenti edibili che galleggiavano sul fiume; alcuni mercatini stradali sono contornati da un complesso reticolo di canali fognari a cielo aperto… ma parlare di invivibilità mi è parso davvero fuori luogo. Questa è l’India: da un lato slum fatiscenti, dall’altro il coloratissimo mercato dei fiori; da un lato lo storpio che mendica, dall’altro il barbiere di strada; da un lato il risciò-wallah, dall’altro il guidatore di limousine che, smessa la divisa, va a dormire nello slum fatiscente; una ruota di colori, professioni, odori, sensazioni che non ha mai fine, e rinasce ogni mattino col primo raggio di sole sul ponte di Howrah. I palazzi inglesi fanno da cornice a romantici laghetti silenziosi, oasi di pace nel caos senza fine delle strade bengalesi. Ogni tanto qualche pedone, stanco, si ferma a dormire sul marciapiede, e gli altri lo scansano senza degnarlo di un’occhiata. Calcutta è l’India, e l’India è Calcutta: terra di mance e corruzione a ogni livello, le poche rupie elargite all’autista del camion della spazzatura per farglielo scaricare in un posto “conveniente” ma anche i dollari americani (5) che io stesso ho sganciato all’impiegato delle Ferrovie indiane che continuava a dire che i biglietti dell’Espresso Calcutta-Varanasi erano easuriti. Allo sguardo disperato di mio fratello ha fatto seguito il mio “Dammi cinque dollari”; una volta che la ridicola somma è passata di mano, un rapido tocco della tastiera, un sorriso, un “Ochei mister” e come per magia dalla stampante sono usciti i nostri due biglietti, posto finestrino. Prima di partire visitiamo il tempio di Kalì, evitiamo il solito bramino in pensione che ci chiede di donare 1.000 dollari per “i poveri” (vedi capitolo precedente sull’India), andiamo a rendere omaggio alla tomba di Madre Teresa, gironzoliamo per i quartieri tipici di questa stranissima metropoli, ci improvvisiamo risciò-wallah e portiamo in giro per qualche minuto il suo minuscolo guidatore che – ignaro del nostro peso immane – si era offerto di trasportarci. Alla sera ci presentiamo alla stazione ferroviaria di Howrah, che è una delle più riuscite imitazioni dell’Inferno dantesco che io abbia mai visto: migliaia di persone che urlano, mangiano, defecano, si muovono; altrettante migliaia di topi enormi che si aggirano per le rotaie; cumuli giganteschi di bagagli – apparentemente abbandonati – che intasano corridoi e vie di accesso ai binari; odore di cibo, di fritto, di sporcizia, di sudore, di escrementi, di ferro arrugginito, di stanchezza. Angelo rimane un po’ basito di fronte a questo spettacolo impressionante, ma poi vede una bancarella di samosa più in là e – spinto dalla fame atavica che lo accompagna dalla nascita – dimentica tutto quello che lo circonda. Il treno, come al solito, arriva più o meno in orario e riparte dopo essersi stipato all’inverosimile; dopo un paio d’ore di viaggio ci fermiamo alla prima stazione, dove convinco mio fratello a comprare una porzione di puri (vedi capitolo precedente sull’India) e sgodazzo nel vederlo sbrodolarsi lo sbrodolabile. Allestiamo la carrozza per la notte, e veniamo come al solito assaliti dalla solita folla di debosciati che viaggiano senza posto prenotato e che sciamano sul pavimento come scarafaggi cocainomani. Esattamente sotto Angelo si sdraia un indianino molto minuto, tutto vestito di bianco, che prima stende un sottilissimo panno – bianco anch’esso – e poi vi si accomoda augurandoci la buonanotte in un inglese quasi decente. Si volta di fianco, rivolgendo la schiena a mio fratello, e lascia andare una terribile flatulenza, resa ancor più incredibile dal fatto che un simile rumore non si pensava potesse uscire da un corpicino così piccolo. Angelo lo guarda con gli occhi sgranati, poi si volta verso di me e mi sussurra: “Ma l’ha fatta per davvero?”, al che io parto con lo spiegargli che in India certi rumori fisiologici non vengono quasi mai trattenuti come succede in Italia, ma lui mi fa segno di tacere con un cenno della mano, e ribadisce sottovoce: “Volevo solo sapere se si può fare! Bene!”. E dal quel momento fino al nostro sbarco a Milano Malpensa mio fratello si integrerà perfettamente con questo spirito, diciamo di “scarsa vergogna fisiologica”, distribuendo rumorosamente per tutta l’India del Nord i suoi effluvi digestivi e intestinali. Dopo un viaggio che definire “lungo e tedioso” sarebbe eufemistico, il Poorva Express (Howrah-Nuova Dehli via Varanasi) ci deposita nella città santa un tempo conosciuta come Benares. Un simpatico “threewheelers” ci porta fino al Dasaswamedh Ghat, uno dei principali ghat che costeggiano il Gange. A colpo sicuro e per non perder tempo, trascino mio fratello verso la Sita Guest House, costringo l’impiegato a controllare il registro di due anni prima, gli mostro il mio nome e chiedo uno sconto “fedeltà”…che mi viene concesso senza neanche contrattare un po’. Le cose che abbiamo visto a Varanasi sono ovviamente quelle che ho già descritto nel precedente capitolo dedicato all’India, ma – come non mi stancherò mai di ripetere – ogni viaggio presenta episodi originali e degni di essere ricordati, e che da soli valgono a volte la pena di ritornare in posti già visti e rivisti. Quella mattina, gironzolando per i ghat, incontriamo un venditore di collanine, che trasporta tutta la sua mercanzia infilata nel braccio sinistro; ci ferma e ci offre due collanine (che si infila nel braccio destro per distinguerle dal “magazzino”) per dieci rupie. Decliniamo l’offerta e ci allontaniamo. Questo ci segue indomabile e raddoppia l’offerta: quattro collanine vanno sul braccio destro. Diciamo “No” con un pochino di veemenza in più, e gli facciamo segno di andarsene pure; lui ci segue e infila altre quattro collanine nel braccio “di vendita”, urlando “Ten rupì mister!”. Mio fratello si gira (ricordo che è alto 1 metro e 96), lo affronta e gli dice in perfetto italiano con inflessione genovese: “Le tue collanine FANNO SCHIFO! Non le vogliamo. Non ho mai visto in vita mia delle collanine così brutte! Vattene!”. Questo sorride, gli dice “Yes mister onli ten rupì… piptìn necleis”, e si infila altre collane nel braccio destro. Percorriamo circa tre chilometri sui ghat, sempre seguiti da questo individuo che ormai ha perso ogni dignità e ogni contatto con la realtà…e che probabilmente si sta divertendo come un matto. Poco prima di raggiungere il Manikarnika Ghat ci voltiamo per controllare il nostro persecutore, e questo ci corre incontro, tutte le collane infilate ormai nel braccio destro, urlando “Ten rupiiiiiiiiiiiiiiiiii!”. Angelo mi guarda, occhi da pazzo, e mi dice: “Senti, ora gliele compro tutte e poi le butto nel Gange, e se dice qualcosa ci butto anche lui!”. Convinto il fratellone a desistere dai propositi vandalico-omicidi, lo porto a osservare le cremazioni, e il viaggio continua. Dopo Varanasi andiamo in treno verso Agra, dove osserverò per la prima volta Angelo commuoversi fino alle lacrime per la vista del Taj Mahal, proseguiamo verso Fatehpur Sikri e quindi – decidendo autonomamente di non ripercorrere esattamente il viaggio di due anni fa, saltando pertanto Barathpur e la sua oasi faunistica – direttamente verso Jaipur. Da lì ci dirigiamo verso Jodhpur, la Città Blu, così chiamata per il colore dei muri di molte delle sue case, che viste dall’alto la trasformano davvero in una chiazza celeste molto suggestiva. Il forte di Jodhpur vale il viaggio, nonostante l’arrampicata lungo la stradina contorta e polverosa che, complice anche un caldo quantificabile negli “oltre 40°”, ci costringe a ripetute soste e ad altrettanti assalti da parte di venditori che sono probabilmente lontani parenti del “collanaro” di Varanasi. Come direi accade sempre, in India ma non solo, quello che ci attende alla fine della “sfaticata” ci ripaga abbondantemente di tutto il sudore versato. Alla sera sperimentiamo un ottimo ristorante segnalato dalla guida, mangiamo come cinghiali bulimici e spendiamo (sontuosa mancia compresa) poco più del controvalore di una colazione normale in un qualsiasi bar di Genova. Dal ristorante passiamo in albergo, prendiamo gli zaini e ci rechiamo direttamente verso la stazione degli autobus, dalla quale partiamo a notte inoltrata verso Jaisalmer, una città ai confini del deserto, distante poco più di 100 chilometri dal Pakistan. Dopo quattordici ore di sobbalzi e soste forzate in ristorantini prescindibili, arriviamo in questo posto davvero incantato, che da lontano sembra galleggiare sulle sabbie roventi del deserto. In pratica, Jaisalmer è formata da un unico forte dalle altissime mura, circondato da qualche casupola sparsa. L’interno del forte è rimasto fermo nel tempo a qualche secolo fa: venditori di tappeti, uomini a bordo di asini dai coloratissimi paramenti, donne con gioielli elaborati e stranissimi…l’India continua a stupire a ogni passo, e sono sempre splendide sorprese! Concordiamo con un’agenzia del luogo il noleggio di una jeep con autista per visitare il deserto e organizzare un pernottamento sotto le stelle; la loro richiesta iniziale è molto esosa, ma dopo lunghe negoziazioni raggiungiamo un accordo che giudichiamo soddisfacente per entrambi…ma che come al solito si rivelerà – confrontandoci alla sera con altri viaggiatori – estremamente redditizio per l’agenzia! La serata trascorre magicamente tra un falò e uno splendido tramonto, alle ultime luci rossastre del quale raggiungiamo la “nostra” duna, ci imbacucchiamo nel lercissimo sacco a pelo fornitoci, scacciamo dai paraggi alcuni curiosi scarafaggioni nerastri, e ci apprestiamo a trascorrere una notte sotto le stelle. Notte che ci fa battere i denti dal freddo, ci obbliga ad abbandonare il tepore del sacco a pelo per fare quello che il freddo normalmente stimola a fare, ma che al termine ci regala un’alba rosata, profumata di una promessa di sabbie calde, che porto ancora da qualche parte dietro gli occhi e che ogni tanto mi viene a trovare. Dopo una frugale colazione, saltiamo in groppa ai “nostri” cammelli e passiamo il giorno nel deserto, insieme alla nostra guida/cuoco/cammelliere/facto-tum/interprete/facchino/cameriere/autista; a un certo punto fa talmente caldo che, sentendo il povero animale ansimare sotto il nostro peso, io e mio fratello decidiamo di comune accordo di scendere dalla sella e camminare al fianco dei nostri cammelli, sfiancati anzichenò. Di ritorno a Jaisalmer, passiamo l’ultima notte in un alberghetto situato poco fuori dalle mura del forte (F.B.V.!) e di buon mattino saltiamo su di un bus di linea (un po’ contorta, in verità) diretto a Pushkar. Come già narrato nel capitolo precedente sull’India, questa piccola città santa del Rajastan possiede, oltre al principale tempio dedicato alla venerazione di Brahma presente nel Paese (e ve ne sono pochissimi altri, in tutta l’India), la strana prerogativa di “stregare” i viaggiatori che vi sostano, facendo loro trascorrere come in un sogno ore, giorni, settimane dedicate alla semplice contemplazione del tempo che scorre, del laghetto, della vita di tutti i giorni. Per quanto solitamente tetragono a qualsiasi forma di suggestione, anche questa volta Angelo (dopo l’esperienza del Taj Mahal – vedi) mi stupisce rimanendo rapito e ipnotizzato dall’atmosfera veramente unica di Pushkar, dove restiamo due interi giorni, non perdendocene neppure gli angoli più remoti, incluse scarpinate infami e dolce-far-niente in riva al lago. Un bus decisamente scalercio, condotto da un autista psicopatico a dir poco che guida tutta la notte contromano con il dito perennemente attaccato al clacson, ci deposita incredibilmente sani e salvi alle prime luci dell’alba nel quartiere “degli alberghetti” di Nuova Delhi, dove troviamo quasi subito una sistemazione “decente” (per gli standard della F.B.V., of course!), e senza por tempo in mezzo ci gettiamo a visitare questa splendida città che – a mio personalissimo parere – risulta molto più “indigeribile” di quanto non sia stata Calcutta. L’inquinamento è davvero insostenibile: nel 2000 le statistiche dicevano che trascorrere un giorno camminando per le vie di Nuova Delhi corrispondeva – in termini di danni polmonari – a fumare 20 sigarette senza filtro. Anche se non con la stessa esattezza statistica, abbiamo potuto avere una conferma empirica di questo fatto semplicemente soffiandoci il naso nel pomeriggio, e osservando i residui nero-catrame depositati nel fazzoletto. Di tempo a nostra disposizione non ne è rimasto moltissimo, ma riusciamo comunque a visitare il Forte, il monumento dedicato a Gandhi, la Grande Moschea e altre attrazioni più o meno note…inclusa una serata dentro un cinema di Connaught Circus che aveva in cartellone un “Pizza-Bollywood” intitolato “Kurukshetra”, in pratica una nostra sceneggiata napoletana dove al posto del compianto Mario Merola & Company si esibiscono indiani dal piglio più o meno cattivo. L’ultima cena indiana ci vede seduti al lussuosissimo ristorante Gaylord di Connaught Circus dove mangiamo veramente l’immangiabile, strafogandoci con tante di quelle portate, ottime oltre ogni dire, da far rimanere esterrefatti anche gli elegantissimi camerieri. Angelo è stato di parola: ha sempre pagato tutto lui, dal viaggio agli spostamenti interni al vitto, dagli alberghi agli ingressi nei monumenti, dalle mance ed elemosine all’acquisto di souvenir…ma stasera pago io! Al conto (decisamente salato per gli standard indiani finora incontrati) aggiungo una mancia tra il principesco e l’oltraggioso…cavandomela alla fine con il controvalore di 35 dollari americani, e venendo salutato con inchini e sfilata d’onore da tutto lo staff del ristorante. Un triste bus di linea urbana ci deposita davanti all’aeroporto di Nuova Delhi, e il rumore del carrello dell’aereo che rientra nella fusoliera ci conferma che il nostro viaggio è proprio finito. Atterriamo all’alba a Milano Malpensa e, dopo diciotto giorni trascorsi (ricordate l’episodio del treno Calcutta-Varanasi) a dar libero e disinibito sfogo alle sue atmosfere fisiologiche interne senza curarsi dell’ambiente circostante, mio fratello fatica ancora un po’ ad adeguarsi alla vecchia educazione europea; entra pertanto nel bar del nostro Terminal e, prima ancora di ordinare un cappuccino, stupisce gli astanti con un rutto da competizione, che interrompe imbarazzato quando ormai è troppo tardi. Ci stanno guardando tutti: due debosciati grandi e grossi, vestiti da perfetti indiani da “Hollywood Party”, che si presentano alle sei del mattino in un bar decisamente lussuoso ruttando come ippopotami con l’ulcera. Angelo mi guarda, sorride e mi dice: “Quando torniamo in India? Mi manca già un po’!”


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