Sudafrica on the road in gennaio

Lungo la costa da Città del Capo a Johannesburg
Scritto da: fatomousso
sudafrica on the road in gennaio
Partenza il: 31/12/2009
Ritorno il: 17/01/2010
Viaggiatori: 2
Spesa: 2000 €
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Leggere sulle guide che il Sudafrica è la regione a più alto tasso di biodiversità del pianeta può dare solo l’idea di quella che può essere l’emozione nell’attraversare questo paese. La natura è potente, irresistibile il fascino di vedere animali selvatici nel loro habitat naturale.

Tuttavia, dal punto di vista sociale, la nazione arcobaleno sembra avere ancora molta strada da fare. Certamente Nelson Mandela attraverso la sua politica del perdono ha dato un segnale forte alla nazione ed al mondo intero, avviando un processo di cambiamento fondato anche sulla valorizzazione dell’esperienza della vecchia classe dirigente di etnia bianca responsabile dell’apartheid. Ciò nondimeno, emerge ancora oggi con chiarezza anche agli occhi di un turista quanto distante sia l’obiettivo di raggiungimento della parità tra neri e bianchi: non tanto dal punto di vista razziale, quanto da quello economico. Le iniziative private sono in larga parte in mano ai bianchi, laddove i neri generalmente si occupano dei mestieri più umili, quasi sempre alle dipendenze dei primi. Probabilmente per via delle quote stabilite dalle leggi contro la discriminazione nei luoghi di lavoro, i neri hanno ottenuto ruoli di responsabilità solo nelle pubbliche amministrazioni o affini o nelle banche. La stragrande maggioranza della popolazione nera vive ancora confinata nelle cosiddette township, che talvolta hanno l’aspetto di vere e proprie bidonville di lamiera. Ci si chiede, quante generazioni dovranno ancora venire perché si possa giungere davvero a una svolta?

Viaggiamo insieme per la prima volta, io e Paolo. Lui sicuramente più metodico nella scelta del programma di viaggio, io più orientata all’improvvisazione. Le guide però fanno letteralmente terrorismo psicologico nei confronti dei viaggiatori che intendono recarsi in Sudafrica a cavallo tra dicembre e gennaio, per via dell’affollamento di turisti che si concentra nel periodo di vacanze estive dei sudafricani. Per questo prenotiamo in anticipo quasi tutti gli alloggi per l’intero viaggio, la qual cosa rappresenta uno sforzo organizzativo non da poco. Scopriremo poi che in realtà il problema si sarebbe posto per i soli primi giorni di gennaio, mentre già dopo la prima settimana dell’anno in giro rimangono pochi turisti stranieri ed i sudafricani sono quasi tutti rientrati dalle vacanze.

Per il volo scegliamo Emirates, spendendo 640 euro, con scalo a Dubai, arrivo a Cape Town e partenza da Johannesburg. Ottima scelta, con un unico appunto: la compagnia prima ci permette di scegliere i nostri posti su ogni singola tratta durante la procedura di acquisto del biglietto on line. Poi, in ben due voli su quattro, modifica l’assegnazione del numero di poltrona al momento del check-in, collocandoci in posti separati e lasciando a noi un’eventuale negoziazione a bordo con gli altri passeggeri per uno scambio di posti. Sul sito si possono scegliere anche i pasti per ogni volo: in mancanza di particolari necessità però lo standard è consigliabile. La qualità del cibo è davvero buona.

Il nostro è un viaggio molto “on the road”: in due settimane maciniamo 3.000 km spendendo le certo non astronomiche cifre di 170 euro per la benzina e 315 euro per il noleggio di una Toyota Yaris per 16 giorni. Stancante, ma alla fine ne vale la pena: nessuno dei luoghi visitati ci delude.

Piccola nota “stradale” prima di iniziare il nostro racconto: per quel che abbiamo potuto vedere le strade in Sudafrica sono ottime (tranne nella regione della Wild Coast). I sudafricani sanno guidare e sono davvero gentili. La prassi è che ci si sposta a sinistra sulla corsia di emergenza per lasciare sorpassare chi sta dietro (talvolta con una freccia a destra, che non indica l’intenzione di svoltare a destra, bensì la possibilità per chi sta dietro di sorpassare!). Chi supera, per ringraziare della cortesia, mette le doppie frecce e chi sta dietro ringrazia con un colpo di abbaglianti (questo fatto ci ha divertito non poco). Nelle città, ma anche nei piccoli centri, si trovano dei parcheggiatori che si aspettano una mancia per aver custodito l’auto.

Primo giorno: Arriviamo a Cape Town il 1° gennaio, quello che è un po’ il loro Ferragosto. Ma Cape Town in questi giorni riserva ai visitatori una gradevole nota folkloristica: il carnevale. Accolti all’aeroporto da una luce accecante e da un forte vento caldo, procediamo con le pratiche per il noleggio dell’auto e decidiamo di acquistare una sim card al costo di 100 rand (comprendente 29 rand di traffico). Questa cifra, più i 29 rand di ricarica che faremo in seguito, ci basteranno per le telefonate e gli sms di servizio (alloggi, ecc.), per avere una connessione internet all’emergenza, e per ricevere telefonate dall’Italia senza pagare.

Raggiungiamo senza problemi il nostro appartamentino in Kloof Rd dotato di garage (2000 rand per 4 notti, ma si può spendere qualcosa in meno prenotando con maggiore anticipo), ci sistemiamo e usciamo a cena. Abbiamo individuato una zona di ristoranti sulla Lonely Planet dall’altra parte del centro e decidiamo di approfittarne per fare una passeggiata. Pessima scelta: giriamo un po’ a vuoto prima di trovare Dixon Street, che si trova nel Waterkant, dall’altra parte rispetto a Long Street, e quando finalmente arriviamo, non solo il locale che avevamo scelto sulla guida non esiste, ma tutti gli altri, molto commerciali, sono stra-affollati di turisti e in ogni caso le cucine alle 10 di sera sono ormai chiuse. Torniamo verso Long Street, dove si stanno allestendo le transenne per la parata dell’indomani, tentiamo in altri locali lungo l’animata via principale ma le cucine sono ormai tutte chiuse e così, colti dalla stanchezza e disorientati dalla nuova ambientazione ci pieghiamo alla legge del fast food. Dopo un panino anonimo da Nando’s e la scoperta di una bevanda che diventerà uno degli sponsor del nostro viaggio, il grapetiser, frastornati dalla stanchezza e da un vento incessante, torniamo verso casa.

Secondo giorno: Partiamo a piedi di buona lena verso Table Mountain, con l’idea di salire in funivia e scendere poi a piedi dopo la tradizionale passeggiata sulla vetta della montagna. Presto ci accorgiamo che la temperatura e la salita rendono la nostra piccola impresa un po’ impegnativa e accettiamo ben volentieri il passaggio di uno dei tanti taxi collettivi (caotici furgoncini per lo più abusivi, molto folkloristici) che al costo di 30 rand in due ci porta fino alla base della funivia. È solo una volta arrivati qui che ci accorgiamo della portata della presenza di turisti in questi giorni: la coda è interminabile e decidiamo all’istante di rinunciare. Pare che il biglietto per la funivia si possa prenotare in anticipo anche on-line (come anche quello per Robben Island, che va prenotato con largo anticipo). D’altronde la temperatura in questi giorni non permette una salita a piedi. Camminiamo verso il centro ma ci è subito chiaro che Cape Town non è una città a misura di pedone. Passiamo così da casa a prendere l’auto che ci servirà nel pomeriggio per andare a verificare i negozi di noleggio di surf che si trovano per lo più fuori città, verso Table View. La prima tappa è il tourist office: molto utile soprattutto per una mappa della regione del Capo più dettagliata di quelle delle guide e della nostra mappa stradale del Sudafrica. La città è in attesa dell’inizio della parata del Carnevale. Con sedie, tende, tappeti, i cittadini di Cape Town aspettano da ore a ridosso delle transenne che delineano il percorso della parata. Ci fermiamo a pranzo al The Famous Butchers House (200 rand per due portate e il vino), che ci fa attendere almeno un’ora, per cui viene da noi prontamente ribattezzato The Infamous… Attraversiamo il Bo-Kaap, il famoso quartiere malese con le case colorate, dove i residenti sono tutti in costume, pronti per partecipare alla sfilata. Si respira un’atmosfera decisamente festosa e qui possiamo fare alcune belle foto. Ritorniamo in direzione del centro e adesso l’assembramento intorno al serpentone di gente che percorre il centro cittadino è davvero tumultuoso. Gli spettatori che non sono riusciti ad ottenere un buon posto si accalcano come possono sui davanzali delle finestre, sulle cabine telefoniche, sugli alberi, i bambini sulle spalle dei genitori. Il Carnevale inizia: arriva la prima banda/squadra e poi un’altra e poi un’altra ancora… Ogni banda ha lo stesso costume, cambiano solo i colori, sempre particolarmente sgargianti: giacca e pantaloni, cappello, ombrello parasole (che vedremo ovunque, soprattutto tra la popolazione nera). Trucco fantasioso. Ogni squadra sfila suonando e ballando. Non sempre sono vere e proprie coreografie: quello che conta di più sembra essere la quantità di persone che vi prende parte – vecchi, bambini, persino persone sulla sedia a rotelle – e l’energia che in vari modi riesce a trasmettere. È stupefacente la quantità di ragazzi che suonano i vari strumenti a fiato: in Italia bisognerebbe fare un bando pubblico nazionale per poter forse raccoglierne un numero pari a quanti qui suonano in una sola squadra… Riusciamo a trovare il punto in cui la polizia, dopo il passaggio di ogni banda, apre le transenne per far passare i pedoni da una parte all’altra della strada. Chiedo di poter restare al centro della strada per scattare alcune fotografie e la mia richiesta viene accolta: davanti alla macchina fotografica i partecipanti alla sfilata danno il meglio di sé e le foto rendono l’atmosfera vibrante al passaggio di ogni banda. A malincuore ce ne torniamo verso la macchina attraversando i bellissimi Gardens per raggiungere il negozio che affitta l’attrezzatura da windsurf prima che chiuda. Raggiungiamo Tableview, dall’altra parte della baia, da cui si gode di una bellissima vista sulla Table Mountain che da qui, neanche a dirlo, ha la forma di una tavola perfetta, trapezoidale. Davanti a noi Robben Island. È un panorama incredibile. Il negozio è nel nuovo centro commerciale nel cuore della popolare baia di Big Bay, dove molti hanno passato la domenica sui prati ed in spiaggia. Alla fine però la scelta ricade su Bay Sports, storico negozio situato più all’interno, al 123 Blaauwberg Rd di Table View. Per la cena decidiamo di andare al Waterfront, il vecchio porto ora convertito in grande centro commerciale. Qui si concentra gran parte della vita notturna di Cape Town, grazie alla vasta scelta di ristoranti ed ogni altra tipologia di locale. Quello suggerito dalla guida Clup, Emily’s, è pieno. Optiamo allora per la seconda scelta, Karibu, e ci va piuttosto bene: ottimo il servizio, eccellente il vino e squisite le preparazioni, tra cui una zuppa malese da leccarsi i baffi e un dolce il cui nome è una promessa: Death of Chocolate. Il tutto per 660 rand.

Terzo giorno: Iniziamo con la Holistic Fair, una fiera alternativa di cui Paolo ha letto su Internet prima di partire e che si svolge una volta l’anno nel quartiere di Observatory. Nonostante la rarità dell’evento, non c’è grande affluenza e il tono all’inizio è un po’ dimesso, probabilmente anche a causa della pioggia. Ci divertiamo ciò nonostante, forse orgogliosi di essere sfuggiti davvero al circuito turistico: facciamo un giro tra le bancarelle di cibo biologico, libri, pietre, ecc. Io mi sottopongo ad un traditional reading eseguito da una donna africana che mi predice, tra le altre cose, che quest’anno mi sposerò, farò tre figli ed aprirò una mia attività imprenditoriale (quando, attenzione attenzione, ho appena aperto una Srl!) ed inoltre mi regalo un fantastico tatuaggio all’henné sul braccio che richiamerà l’attenzione di molte donne africane in tutto il resto del viaggio. Paolo intanto si concede un rilassante massaggio africano/indiano alla testa e alle spalle. Dopo un pranzo a base di cereali e verdura e birra allo zenzero (altra bibita che ci accompagnerà) torniamo verso il centro per iniziare il nostro giro sul Capo partendo da Sea Point. Ci fermiamo alle pendici dei Dodici Apostoli per dare un’occhiata alle spiagge di Clifton: molto belle e di sabbia bianca, con alcuni massi rotondi in mezzo all’acqua, ma rimaniamo un po’ interdetti dall’edilizia selvaggia che ha mangiato la costa. Verso Sud percorriamo il Chapman’s Peak Drive (28 rand), davvero spettacolare, superiamo la meravigliosa spiaggia di Withsand Bay e le onde di Crayfish Factory, Misty Cliffs e Scarborough, dove facciamo una sosta in spiaggia. Risaliamo costeggiando la False Bay, ci fermiamo sulla spiaggia di Muizenberg, sorpresi dalla presenza di centinaia di surfisti in acqua, di tutte le età ed incuranti di trovarsi in un tratto di costa infestato dagli squali bianchi, quindi torniamo verso Cape Town passando per la zona dei vigneti di Costantia. La strada è bella, immersa nel verde, e ci fermiamo all’orto botanico di Kirstenbosch: sono quasi le 19, orario di chiusura estiva, ma decidiamo di sfruttare comunque l’ultima mezz’ora. Appena entrati ci rendiamo conto della ricchezza di questo giardino che meriterebbe senz’altro una visita più approfondita. Come ogni domenica all’interno del giardino si tiene un concerto: abbiamo così modo di vedere un aspetto tipico della vita cittadina di Cape Town, i cui giovani, per lo più afrikaner, si riversano qui la domenica a fare un picnic all’aperto ascoltando musica live in quello che è a tutti gli effetti uno spettacolare anfiteatro naturale sullo sfondo della Table Mountain. Il concerto finisce proprio in concomitanza con l’inizio della pioggia: facciamo appena in tempo a raggiungere la macchina prima che venga giù un acquazzone. Dopo il tentativo andato a vuoto di prenotare per cena in un’azienda vinicola molto promettente, La Colombe, ci lasciamo guidare dalla Clup e scegliamo il Savoy Cabbage, al 101 di Hout St, una traversa di Long St (ha un suo parcheggio). Il ristorante, un po’ radical chic e molto frequentato da coppie gay, che notoriamente hanno buon gusto, si rivela ben al di sopra di ogni aspettativa: sono da non perdere la tartarre di manzo e – non è banale come sembra – il tris di sorbetti alla frutta, mentre tutti i piatti di selvaggina sono eccezionali, le presentazioni originali, il servizio eccellente. Ottima la carta dei vini, e quello che beviamo, uno Shiraz delle cantine Kleine Zalze di Stellenbosch (non ce lo dimentichiamo). Qui abbiamo speso, molto volentieri, un po’ più del solito (830 rand).

Quarto giorno: Oggi è previsto vento e Paolo può finalmente realizzare il sogno di fare windsurf a Città del Capo. Alle 9 siamo alla porta di Bay Sports per noleggiare l’attrezzatura. Come da programma, partiamo alla volta del Capo di Buona Speranza prendendo questa volta la strada più veloce, per quanto sia disseminata di semafori, la M4. Entriamo al Parco del Capo di Buona Speranza tra i primi della giornata (costo 75 rand pp). Siamo un po’ ai confini del mondo qui e la sensazione è rafforzata dal paesaggio brullo, caratterizzata per lo più da arbusti bassi. Arriviamo al “most South-Western point of the African continent” (il punto più a Sud è Cape Agulhas) dove siamo accolti, anziché dai tanto malfamati babbuini della zona, da un paio di tranquillissimi struzzi che devono essere sfuggiti alla vicina ostrich farm. Gettiamo uno sguardo alla vicina spiaggia posizionata sottovento al Capo, uno dei più leggendari surfing break del mondo, ma c’è l’alta marea e in ogni caso non si può uscire quì se non si è insieme ad altri surfisti. Torniamo alla vicina Scarborough dove Paolo prova a uscire ma la corrente è molto forte e troppo elevato il rischio di finire sulle rocce schiacciati da onde verticali alte anche 4 mt. Sulla via di ritorno a Cape Town facciamo una piccola deviazione per Boulders, dove dagli anni ’80 vive una colonia di pinguini africani. Fa un po’ impressione vedere i pinguini sotto il sole cocente invece che in mezzo ai ghiacci. Abituati alla presenza umana, si tuffano e giocano nell’acqua in mezzo ai bagnanti. La spiaggia (ingresso 35 rand pp) è molto bella – con questi sassoni che sono per l’appunto i boulders – fuori stagione sicuramente un piccolo paradiso per i più piccoli. Una passerella conduce a una spiaggia chiusa all’homo sapiens, dove i pinguini prendono il sole, dormono, amoreggiano, covano, ecc. Alcuni sono un po’ spelacchiati perché ancora nel periodo di muta: teneri! Ci rimettiamo in marcia con una sosta a Kalk Bay, dove facciamo incetta di quiche e deliziosi dolcetti alla Olimpia’s Bakery (dietro all’Olimpia Cafè). Ripartiamo alla volta di Sunset Beach, a nord di Cape Town, vera e propria mecca dei windsurfer di tutto il mondo. Questa è la volta buona: in acqua davanti a noi ci saranno un centinaio di windsurf, presto raggiunti dal nostro che stavolta non rimarrà deluso. Stasera ceniamo al Mama Africa, locale storico dove c’è sempre musica dal vivo. Lo troviamo un po’ commerciale, i piatti non sono il massimo – ma ottimo l’antipasto di spiedini di coccodrillo – e la band suona cover in versione africana. 540 rand.

Quinto giorno: Lasciamo Cape Town (con gran dispiacere soprattutto di Paolo, anche se non è previsto vento per un paio di giorni…) e decidiamo di passare da Stellenbosch per visitare almeno una cantina. Forse un po’ indispettiti dalla parcheggiatrice – questo è l’unico posto dove abbiamo trovato parcheggiatori ufficiali! – facciamo un breve giretto nel centro del paese ma non ci sentiamo ispirati e ripartiamo sulla R44 verso Vergelen, la cantina che abbiamo scelto sulla Lonely Planet, nella zona di Helderberg, sulla Lourensford Road. Un po’ difficile da trovare, ma la meta vale la fatica necessaria per raggiungerla (d’altronde il nome stesso significa “situato lontano”). Si tratta di una delle cantine più antiche e più belle delle winelands, con i primi vigneti piantati intorno al 1700. Facciamo subito la degustazione (30 rand pp) per poi poter smaltire un po’ l’alcol con una passeggiata nel parco: per due persone sul nostro tavolo dodici bicchieri di vino, ma la quantità è morigerata… Ottimo lo Shiraz. Facciamo quindi il giro del parco, visitiamo il giardino ottagonale, l’albero secolare, l’antica residenza della famiglia Van der Stel, e passiamo vicino ai tavoli sotto la frescura dove i gestori della tenuta organizzano picnic tradizionali (da prenotare con anticipo: per noi non c’era posto). Partiamo alla volta di Knysna, dove dormiamo in un lodge che si chiama Peace of Eden: bello, nel verde fuori città, ed economico (350 rand per una cabin con 4 posti letto). Noi abbiamo dormito nel Swallows Nest, ma quella di fianco, la Drongo, ha dentro un pianoforte e si affaccia sul recinto dei cavalli. La proprietaria, Jenni, è prodiga di consigli su cose da fare qui e altrove. La sera andiamo in centro per cena, evitiamo il Waterfront e ci dirigiamo dritti alla Thesen’s Island, dove sappiamo che un paio di ristoranti hanno le ostriche a buon mercato. Stiamo al Sirocco, moderno bistrot con le terrazze direttamente sull’acqua ma soprattutto l’ con la cucina aperta alle dieci di sera, e spendiamo 460 rand.

Sesto giorno: Siamo già ben posizionati dato che il Peace of Eden è sulla Reenhendale’s Road, la strada che porta alla zona delle vecchie miniere, dove si può fare una passeggiata con “atmosfere da Signore degli Anelli”, Jenni dixit. Sulla strada ci fermiamo ad ammirare uno Yellow Wood Tree che ha 880 anni. Proseguiamo verso il torrente da cui parte l’Arboretum Trail, attraversando la Diepwalle forest in cui si dice sopravviva un’ultima decina di esemplari di elefanti liberi (fuori dalle riserve) dell’emisfero boreale. Il percorso è incantevole: il sentiero si snoda lungo il torrente per arrivare a una pozza naturale in cui si può fare il bagno e farsi fare un massaggio da una cascatella. I suoni di questa foresta, gli uccelli, gli alberi che scricchiolano, sono fiabeschi. Nel pomeriggio andiamo al mare: Buffalo Bay, dove Paolo noleggia una tavola da surf per 100 rand (il noleggiatore non vuole prima né i soldi né un documento) e trascorre un paio d’ore tra le onde. Io invece mi rilasso sul bagnasciuga ed alla fine mi faccio anche convincere a provare l’ebbrezza del surf, con esiti piuttosto comici. Ci spostiamo quindi sugli Heads, quella che risulta tra le imboccature portuali più pericolose al mondo, e ci fermiamo a cena sotto uno dei due promontori, su cui si può fare una camminata. Il ristorante è italiano, Cornuti, e ciò nonostante è di buona qualità (ma se ordinate la pasta, anche qui, arriverà scotta e senza sale): 510 rand.

Settimo giorno: Ripartiamo in direzione nord guidando sotto una leggera pioggia. Per fortuna, quando arriviamo allo Tsitsikamma National Park (44 rand pp) – tappa intermedia prima di arrivare all’Addo Elephant National Park – è già uscito un bel sole e possiamo fare il sentiero almeno fino al ponte sospeso (un’ora andata e ritorno). Da qui partono diversi itinerari escursionistici, tra cui l’Otter Trail, per cui però sono necessari alcuni giorni e purtroppo il tempo a nostra disposizione ci consente solo una sosta di poche ore nel parco. Il breve percorso che scegliamo è comunque sufficiente a farci capire la potenza della vegetazione in questo luogo: cerchiamo invano di imparare il nome delle varietà vegetali che incontriamo lungo il sentiero, assaporiamo gli odori del sottobosco, ci facciamo accompagnare dal cinguettio degli uccellini. Il ponte sospeso sulla Storms River Mouth è impressionante e il fatto che durante il nostro passaggio vi siano altri turisti (che lo fanno oscillare) accentua il senso di vertigine. Il sentiero prosegue ma noi dobbiamo rientrare verso l’auto, anche se ci tratteniamo a lungo attirati dalla vista degli schizzi delle onde che si infrangono sugli scogli e dal suono dei ciottoli trascinati dalla risacca sotto di noi. Ripartiamo in auto verso Est e decidiamo di fare una piccola deviazione perché Paolo è interessato a vedere come lavora il leggendario surf spot di Jeffrey’s Bay. Il posto ci sembra poco interessante, lo swell tutto sommato deludente e non abbiamo alcun rammarico a ripartire subito. Ci fermiamo solo a fare la spesa e ci viene consigliata un’ottima macelleria, dove veniamo istruiti sulle varietà di Biltong, la carne secca tipica del Sudafrica, che ci accompagnerà come snack della sopravvivenza per il resto del viaggio. Ci rimettiamo in marcia e riusciamo ad arrivare all’Addo giusto prima delle 18:30, orario di chiusura dei cancelli del Parco, dopo esserci persi in strade secondarie e non asfaltate (consigliamo per chi viene da Ovest di uscire dalla N2 dopo Pt Elisabeth). Abbiamo prenotato attraverso l’ottimo sito dell’Ente Nazionale Parchi del Sudafrica (www.sanparks.org) uno chalet dentro il Main Camp (da prenotare con largo anticipo, noi abbiamo avuto una gran fortuna!), tra le soluzioni per l’alloggio quella medio-alta (1620 rand per due notti, più 260 pp di ingresso al parco per tre giorni). In effetti il posto, che si affaccia direttamente sulla Game Reserve e da cui già appena arrivati avvistiamo dei cudu oltre il fence, è davvero molto accogliente e curato nella sua semplicità. Paolo prepara l’immancabile barbeque, stappiamo un ottimo rosso e ceniamo fuori a lume di candela, ogni tanto sorpresi dal verso delle iene e di altri animali in lontananza.

Ottavo giorno: Sveglia alle 5:15, poco prima dell’alba. Abbiamo prenotato il Sunrise Safari (200 rand pp) che inizia alle 6:00. Facciamo colazione allietati dalla colonna sonora del cinguettio degli uccelli e da questo giorno non perderemo più l’abitudine di svegliarci così presto (anche perché andiamo verso est mantenendo lo stesso fuso, e fa giorno sempre prima). I primi animali che vediamo, e li rivedremo a non finire, sono i Cudu, dei grossi animali simili ai cervi con delle striature bianche sul dorso, i cui maschi hanno lunghe corna affusolate a spirale. Poco dopo, da un punto di avvistamento rialzato, proprio sopra una pozza d’acqua, avvistiamo il leone! Un giovane leone che dorme vicino ad una carcassa, sazio dopo la caccia. L’emozione di trovarsi ad un centinaio di metri dal re della foresta, per quanto assopito, è immensa. Intorno a lui si aggirano un paio di sciacalli che, tenendosi a dovuta distanza, attendono che il leone si allontani per finire i resti della carcassa. Nel corso del safari guidato avvistiamo anche un rinoceronte bianco (ma da lontano), innumerevoli facoceri (buffissimi!), aironi neri, un’alce rossa, struzzi, bufali. Dopo il tour beviamo un caffè al ristorante del Camp per poi riprendere da soli il nostro personale safari. Alla fine della giornata ci sarà chiaro che la probabilità di avvistare animali non cambia facendo il safari da soli o con la guida, ma dipende esclusivamente dall’orario, dalle condizioni meteorologiche, e… Dalla fortuna, dato che la guida non fa significativi percorsi alternativi alle strade di normale accesso. La guida in più offre una descrizione delle abitudini degli animali che si avvistano. Per il resto, andare in giro in modo indipendente ha i suoi vantaggi in quanto si può scegliere dove e quanto fermarsi di fronte agli animali che più sono graditi. Ad esempio, noi siamo affascinati dalle grandi tartarughe di terra che sono spesso ai bordi delle strade e che dalla posizione sopraelevata della camionetta non avevamo potuto vedere. Ovviamente siamo attratti anche dal leone ed una volta soli torniamo subito da lui, che dopo tre ore buone non si è ancora mosso da lì! Finalmente viene fuori il sole: ci spingiamo verso la parte meridionale del parco ed ecco che a un certo punto avvistiamo il primo pachiderma nel bush. Ci accorgiamo presto che non è da solo: sono in molti e stanno beatamente facendo colazione, strappando interi rami dagli alberi e, come insegnano i documentari, portandoseli abilmente alla bocca con la stessa proboscide (pare che un elefante adulto mangi qualcosa come 5 tonnellate di erba al giorno). Proseguiamo oltre e arriviamo nei pressi di una grande pozza, dove alcune auto stanno in attesa. Poco distante un grosso elefante, solo su una distesa completamente brulla – una scena bellissima – viene raggiunto da un branco di elefanti che si sta rapidamente muovendo in direzione della pozza ad abbeverarsi, evidentemente accaldati dal sole ormai cocente. I facoceri che prima frequentavano indisturbati la pozza ora si dileguano in fretta e tutta la famiglia di elefanti si riversa sulla riva, grandi e piccini, maschi e femmine. I piccoli in particolare sono particolarmente vivaci: corrono qua e là con le grandi orecchie che ondeggiano su e giù alla dumbo. Una coppia si fa le coccole strusciandosi i fianchi, una mamma allatta il piccolo, alcuni fanno il bagno immergendosi completamente, montando uno sopra l’altro, altri si bagnano spruzzandosi l’acqua con la proboscide Ma ecco che arriva un’altra famiglia che supera la prima e va a posizionarsi dall’altra parte della pozza. Scene che si ripetono. E poi un’altra famiglia ancora, e questa volta assistiamo ad una contesa tra due capobranco che si oppongono con le loro minacciose zanne. Ci piace pensare che fosse un confronto per la spartizione del territorio ma forse era solo un saluto… Questo momento lo ricordiamo tra i più emozionanti dell’intero viaggio. Quasi a malincuore ci rimettiamo in moto e procediamo con gli avvistamenti di alcune dolcissime antilopi, altri bufali, cudu, tanti uccellini colorati…

Nono giorno: Partiamo molto presto alla volta della Wild Coast dove, su consiglio di Jenni, ci fermiamo a dormire una notte a Cintsa, sottraendo una delle tre notti preventivate a Port St John’s. La scelta si rivela appropriata dato che sulle strade della Wild Coast si procede molto lentamente, per la presenza al centro della carreggiata di persone, animali (i big five della Wild Coast sono mucche, pecore, capre, asini e cavalli…) e non da ultimo per le buche che ci costringono a uno slalom continuo (la strada che conduce a Port St John’s è decisamente migliore). Raggiungiamo il Buccaneers’ Backpackers verso l’ora di pranzo ed occupiamo un bungalow con due camere doppie, la cucina ed il bagno in condivisione (300 rand). I nostri coinquilini sono una simpatica coppia belga con cui scambiamo impressioni e racconti di quanto visto e fatto sinora sui reciproci tragitti. Il Buccaneers’ è un posto decisamente piacevole, le casette sono molto accoglienti e colorate, c’è una piscina, alcune tavole da surf a disposizione degli ospiti, una massaggiatrice (italiana e con tanta voglia di parlare italiano…). Dedichiamo il pomeriggio ad una rilassante passeggiata sulla vicina spiaggia che, pur essendo oggi sabato, è deserta. Paolo approfitta della disponibilità delle tavole per fare un po’ di surf. Il paesaggio marino è selvaggio, con alte dune di sabbia ed imponenti tronchi spiaggiati sulla riva. Andiamo a cena in un ristorante nel centro del Paese, Michela’s, che ci viene consigliato dalla massaggiatrice italiana: la scelta si rivela pessima, sebbene il ristorante sia posizionato su una bella terrazza sul mare.

Al ritorno dal ristorante ci fermiamo a fare due chiacchere con i Buccaneers’. Anche qui lo scambio di informazioni con gli altri viaggiatori risulta oltremodo utile alla pianificazione del nostro viaggio visto che decidiamo opportunamente di tralasciare il passaggio dal Drakensberg come ultima tappa, dove comunque non avremmo avuto il tempo di fare trekking.

Decimo giorno: Lasciamo Cintsa con l’intenzione di far tappa a Coffee Bay prima di raggiungere Port St John’s. Sulla N2 prendiamo l’uscita sbagliata: era facile intuirlo vista la strada sterrata, e probabilmente è stato un tacito accordo quello di perderci un po’ nella campagna della Wild Coast. Siamo in territorio Xhosa: questa è la regione del Sudafrica più incontaminata dalla dominazione bianca, anche perché indipendente fino a non molto tempo fa. È Africa rurale, il paesaggio è fatto di rondavel – le tipiche capanne rotonde – animali al pascolo ogni dove, e persone sulla strada che camminano, si lavano e lavano il bucato nei torrenti, siedono in compagnia. Tutti, inequivocabilmente, sono particolarmente stupiti dalla nostra intrusione. Ci fermiamo a fotografare una casa e subito una signora ci invita a entrare a bere qualcosa. Chiediamo indicazioni per Coffee Bay e quasi nessuno capisce l’inglese ma sembra che tutti abbiano bisogno di un passaggio: alla fine della giornata avremo preso su non meno di dieci persone, tutti per brevi tragitti. A un tratto vediamo un gruppo di persone in un prato, molte in piedi, alcune sedute sull’erba. Sentiamo dei canti. Ci fermiamo per scendere a guardare e alcune giovani ragazze ci invitano ad avvicinarci. Scopriamo che si tratta di un funerale: da un lato gli uomini stanno scavando una fossa per la tomba, dall’altro lato le donne più giovani cantano in piedi mentre e le più anziane osservano sedute per terra e più indietro le giovanissime – in abiti occidentali, truccatissime – non sembrano molto coinvolte. Tutti sono incuriositi dalla nostra presenza e si girano a guardare, al punto che temiamo di disturbare il funerale, ma loro sembrano contenti di averci lì. Le ragazze mi chiedono da dove provengo, ma molte di loro non conoscono l’Italia né l’Europa. Sono molto divertite quando scatto loro qualche foto. Poi arriva il predicatore che ci regala uno spettacolo in lingua xhosa, alternandosi con il coro delle donne. Alla fine del funerale, quando siamo pronti per andare via, si presenta davanti a noi una delegazione con due piatti pieni di cibo: veniamo invitati nel tendone allestito di fianco alla casa della defunta (una rondavel), la “madre della casa”: ovviamente non possiamo rifiutare. Assaggiamo così il Umngqusho, quello che scopriremo essere il piatto tipico xhosa: un mix di cereali con un pezzo di agnello e della verdura cotta. Alla fine ci spetta anche il tè ed un dolcetto. Nel tendone io e Paolo siamo l’anello di giunzione tra il mondo femminile e il mondo maschile, ancora rigorosamente divisi. Le donne anziane sedute vicino mi guardano e sorridono e si assicurano che io mangi, cercando di offrirmi anche il latte fresco che gira in una pentola e che devo però rifiutare non avendo la certezza che sia sterilizzato. Paolo intavola una discussione con i suoi vicini, i pochi che sanno parlare inglese. Prima di andar via ricambiamo con l’unica cosa donabile che abbiamo in macchina: un’ottima bottiglia di Pinotage. Ripartiamo e come di consueto carichiamo in macchina due ragazzi che devono tornare a casa, qualche chilometro più in là. Abbiamo ancora un po’ di strada prima di arrivare a Coffee Bay e si sta facendo tardi, ma ci proviamo lo stesso. In realtà le buche sulla strada non ci danno tregua e quando arriviamo a Coffee Bay è ormai troppo tardi per fare qualsiasi cosa. Notiamo solo, come avevamo intuito da quello che ci aveva raccontato una ragazza cui abbiamo dato un passaggio, che molti ragazzi si ritrovano la domenica al fiume a bere. Rinunciamo a raggiungere il Hole in The Wall perché ormai è troppo tardi e torniamo indietro: dobbiamo riprendere l’N2 e percorrere la strada per Port St John’s da Mthatha dato che non esistono strade costiere. Nei pressi di Port St John’s la vegetazione si fa più fitta, tropicale, con palme che crescono su scogliere di roccia e alberi mai visti. Arriviamo un po’ stanchi al Jungle Monkey Backpackers di Port St John’s e questa sera sperimentiamo la sistemazione di gran lunga peggiore di tutto il viaggio: avevamo prenotato la cabin ensuite (cioè con il bagno in camera), ma scopriamo che si tratta di una baracca terribile, con il tetto in lamiera ed un minuscolo bagno fatiscente, la moquette e un generale senso di insalubrità (270 rand). La sera dopo ci faremo spostare in una stanza con il bagno in condivisione (in realtà nel corridoio ci sono 4 bagni per 4 stanze…) che sarà di gran lunga migliore (250 rand). Ceniamo presso la taverna dell’ostello per non dover riprendere l’auto e nonostante una certa diffidenza le cuoche xhosa si rivelano abbastanza brave e capaci di preparare delle ottime pizze nel forno a legna.

Undicesimo giorno: Appena svegli operiamo urgentemente il cambio di stanza. Mentre prepariamo la colazione in cucina ci raggiunge la guida locale che ogni giorno porta gli ospiti del backpackers’ a fare una gita nei dintorni. C’è il gruppo ma manca un’auto e ci chiede di partecipare: accettiamo volentieri (50 rand pp). La prima tappa è in una zona termale per la gente del luogo: arriviamo nei pressi di una fessura nella terra intorno alla quale un nucleo di persone attende il suo turno per un’inalazione a base di zolfo (i locali non sanno di che si tratta ma sono convinti che faccia bene, in ogni caso la cosa ha una certa aura di mistero), poi proseguiamo a piedi e entriamo in una grotta sotto un ammasso roccioso. L’acqua che penetra dalla roccia rende il terreno fangoso e i locali vengono qui a cospargersi il corpo – soprattutto il viso – di questo fango che dovrebbe far bene alla pelle (finalmente capiamo che tutti gli xhosa che vediamo in giro con la faccia bianca di fango non sono stregoni pazzi ma più semplicemente hanno sul viso una maschera di bellezza). Chiaramente io e Paolo non vogliamo venir meno alla tradizione e ci spalmiamo un po’ di terra umida sul viso, che toglieremo solo dopo qualche ora. Nella grotta incontriamo un ragazzo che sta raccogliendo il fango con un sacchetto di plastica per portarlo a casa: si ferma con noi, ciaiuta ad applicare la maschera e ci accompagna fin quando andiamo via (gli diamo una piccola mancia). Saliamo sopra l’ammasso di rocce aggrappandoci alle radici sporgenti degli alberi e arriviamo a una pozza dove un gruppo di persone sta facendo il bagno, le donne a petto nudo. Nella pozza l’acqua è completamente torbida, ma evidentemente si tratta di acque termali e qualcuno di noi entra in acqua. La seconda tappa è l’elevato promontorio che si affaccia a strapiombo sul fiume Umzimvubu. La strada per raggiungere il belvedere non è segnalata: in nessun modo si riuscirebbe ad arrivare fin qui senza una guida, sebbene vi sia una pista d’atterraggio, che però è evidentemente in disuso. Il panorama sulla foce del fiume – marrone per le piogge dei giorni scorsi – è davvero mozzafiato e l’aria a quest’altezza è decisamente più leggera. Terza tappa: i blow holes, ovvero dei soffi, come dei geyser, creati dall’acqua del mare che si incanala in corridoi sottomarini scavati naturalmente nella roccia e fuoriesce in superficie da alcune aperture, sospinta dal moto ondoso. Anche questo percorso non è segnalato, oltre ad essere piuttosto impervio: dobbiamo scendere per una via ferrata e risalire su un’altra roccia a picco sul mare con una scaletta. La guida non ha detto a nessuno di mettersi le scarpe chiuse – sebbene gli avessi chiesto se ce n’era bisogno! – ed alcuni indossano addirittura infradito in gomma, ma lui probabilmente è in buona fede: non sembra affatto consapevole che la cosa è a rischio. Siamo tra la prima e la seconda spiaggia di Port St John’s, un panorama incredibile anche qui, ma gli schizzi promessi non li vediamo perché il mare, incredibilmente, non è agitato. Al ritorno ci fermiamo a mangiare al Wood n’ Spoon, una piacevole locanda nei pressi della Second Beach, molto simpatico e con solo un paio di tavoli all’aperto: si può mangiare il piatto tradizionale xhosa, toast, pesce. È ormai tardo pomeriggio e rimane solo il tempo per fare un giro nel centro di Port St John’s. Il mercato, nient’altro che una serie di bancarelle e negozi di fortuna in strada, non è fatto per i turisti bensì per i locali ma ci divertiamo un sacco dentro il Boxero, una catena di supermercati in cui si trovano montagne intere di uno stesso prodotto: lo zucchero, il riso, la latta di fagioli… I locali evidentemente vengono qui da lontano e fanno scorte di tutto. Li vediamo ripartire fuori con i taxi collettivi che sono ovunque sulle strade della Wild Coast.

Dodicesimo giorno: Fissiamo la sveglia all’alba e alle 7:00 siamo già in viaggio. Su indicazione della benzinaia facciamo una strada diversa per uscire da Port St John’s; quella che passa da Port Edward è ugualmente buona e più diretta. L’obiettivo è fermarsi al Greater St Lucia Wetland Park, per poi proseguire verso Hluhluwe. All’altezza di St Lucia usciamo dalla N2 e percorriamo la bellissima strada che porta verso la costa, dove gli alberi fanno da ombrello all’asfalto. Ci fermiamo poco prima del paese al tourist office (dove ci tocca svegliare l’impiegata che è addormentata sulla scrivania!) da dove prenotiamo una gita in battello sull’estuario (si può fare un giro nel parco anche in auto, ma siamo stanchi di stare seduti in macchina). Di fianco al tourist office c’è un villaggio tradizionale zulu ma non siamo attratti da queste finte ricostruzioni fatte per i turisti e scegliamo di andare a St Lucia a mangiare qualcosa. Sul battello ci sono solo 8 passeggeri e la gita è rilassante. Riusciamo ad avvistare vari branchi di ippopotami che riposano galleggiando sul pelo dell’acqua (escono solo di notte per andare a caccia), coccodrilli, aironi, aquile e altri uccelli che solo con una guida ornitologica avremmo potuto riconoscere… La guida presente sul battello è comunque molto brava a fornire spiegazioni ed indicare i vari animali che incontriamo lungo il percorso. Dopo un’incursione al craft shop del crocodile centre, di fianco al molo di attracco, ci rimettiamo in viaggio diretti a Hluhluwe, dove dormiamo in un backpackers a un chilometro dal parco. Arriviamo quando è già buio, stupiti da quante persone camminino ancora a piedi lungo la strada in totale assenza di illuminazione. Il backpackers ha solo due stanze in affitto: più che altro si tratta di un campeggio. Evidentemente non c’è niente nei dintorni quindi decidiamo di organizzare una cena con quel che abbiamo con noi. La cucina è un po’ disordinata e sporca, la doccia (una di due sole) è intasata e nella toilette non funziona la luce. Paolo stasera ha la febbre alta e il proprietario sta bevendo con degli amici da ore con la musica a tutto volume (techno, per di più). Dovrò chiedere ben tre volte di spegnerla prima che mi diano retta. Come potrete intuire sconsigliamo caldamente questo posto.

Tredicesimo giorno: Paolo ha preso una pasticca di paracetamolo e ora sta meglio. Il parco è vicinissimo ed entriamo di prima mattinata nella game reserve del Hluhluwe-Imfolozi Park (105 rand pp). Molto vicino all’ingresso ci aspetta una mamma rinoceronte col suo cucciolo. Quando fermiamo l’auto, a 100 m, la mamma si insospettisce e si alza, con il cucciolo che la segue, ma poi sembra calmarsi e si ferma di nuovo a mangiare un po’ d’erba… Rimaniamo a lungo ad ammirare lo spettacolo. Poco più avanti, da un punto di belvedere, vediamo le prime giraffe da lontano, che pascolano placidamente insieme ad un branco di zebre, abbeverandosi al vicino stagno. La scena sembra perfetta per l’attacco di un predatore della savana, ma almeno per il tempo che siamo lì alle zebre e alle giraffe non accadrà alcun male. Proseguiamo il nostro giro un po’ a caso (il parco non fornisce una mappa), incontriamo molte giraffe anche vicino alla strada – buffe nel loro brucare le foglie degli alberi dall’alto della loro statura – bufali con gli uccellini appollaiati sulla loro schiena, le eleganti zebre… Ci fermiamo vicino quando incontriamo le pozze di acqua e anche se non riusciamo ad avvistare nessun esemplare (non è facile anche perché qui la vegetazione è più fitta che all’Addo), ci godiamo i cinguettii degli uccelli e gli altri suoni della savana. Ad un tratto troviamo proprio sulla strada davanti a noi una coppia di babbuini che però corre subito a nascondersi dietro ai cespugli. Ci fermiamo e spegniamo l’auto nella speranza che tornino fuori. In effetti dopo pochi minuti tornano sulla strada per rincorrersi e giocare, ma dietro di loro seguono almeno una cinquantina di altri babbuini ed è una festa: mamme coi piccoli aggrappati alla pancia o alla schiena, coppie che copulano con la più assoluta naturalezza, cuccioli che giocano, scontrandosi, toccandosi, inseguendosi, e poi un babbuino più grande e prepotente che arriva con fare minaccioso e li scaccia tutti più avanti, lungo la nostra strada. Uno spettacolo. Li seguiamo per un po’ mentre pian piano si riversano nella foresta ai lati della strada. Appollaiate su un albero vediamo anche due simpatiche vervet monkeys. Ci fermiamo per rifocillarci all’Hilltop Camp, un bellissimo posto situato proprio in cima a una collina da cui si può fare birdwatching stando comodamente seduti ai tavolini del ristorante (c’è anche un cartello con la descrizione degli esemplari di rapaci presenti nel parco). Ottimi sia la mia insalata che il piatto di carne di Paolo (122 rand). Dedichiamo ancora un paio d’ore al parco, nella speranza vana di incontrare un leone nella zona di Imfolozi. Vediamo comunque una famiglia di rinoceronti con un cucciolo vicino a uno stagno, un branco di impala con i loro cuccioli e ancora giraffe, zebre… Ma il tempo scorre veloce e noi dobbiamo cercare di arrivare a Sodwana Bay questa volta prima di sera. Facciamo la spesa non sapendo se a destinazione avremmo trovato qualcosa per mangiare e raggiungiamo la meta in tempo utile. Ci mettiamo un po’ a identificare il nostro Sodwana Dive (il cui cartello in realtà reca la scritta Natural Moments). Come coinquilini abbiamo un paio di gechi e fuori casa (dov’è anche il bagno) ci sono fior di millepiedi e scarafaggi, ma forse anche questo contribuisce al fascino di questo posto letteralmente immerso nella giungla.

Quattordicesimo giorno: Dopo una buona colazione in questa che sembra un po’ la casa nella prateria entriamo nella Sodwana Bay Marine Reserve. Il parco è noto anche per la sua barriera corallina, un paradiso per chi fa immersioni, per la grande varietà di specie acquatiche (tra cui il gigantesco squalo balena) e per le tartarughe marine. Poi nella foresta a ridosso della costa vivono molte specie selvatiche tra cui i leopardi. Io e Paolo non siamo divers, e ci accontentiamo di fare un po’ di snorkeling vicino alla costa (io però esco quando vedo un serpente marino con chiazze gialle e nere, e Paolo mi segue nel giro di poco dopo un incontro molto ravvicinato con una razza…). La spiaggia sarebbe molto bella se non fosse che i fuoristrada vi hanno libero accesso. Molti (bianchi) fanno pesca sportiva ignorando i fischi della guardia costiera (nera) che dopo un po’ si arrende alla prepotenza dei pescatori. Ci addormentiamo sotto l’ombra di una fila di alberi ma alla fine della giornata, nonostante la protezione solare, saremo comunque ustionati. Paolo raggiunge un gruppo di surfisti professionisti che fanno photo shooting tra le onde mentre io mi rifocillo al bar della spiaggia. Per la sera decidiamo di andare a vedere le tartarughe che depositano le uova (questa è la stagione): purtroppo bisogna farsi accompagnare obbligatoriamente da guide autorizzate quindi prenotiamo al Sodwana Lodge (450 rand pp, non certo a buon prezzo). La partenza è per le 20:30 con ritorno alle 0:30. Arriviamo sulla spiaggia e adesso siamo noi tra quelli che vi accedono col fuoristrada… L’atmosfera però è incantevole: dietro di noi il faro della baia e davanti, illuminati dagli anabbaglianti della macchina, tantissimi granchi che fuggono sulla sabbia all’impazzata. Il confine con il Mozambico non è lontano. Vediamo subito la prima tartaruga, una grossa Indian Ocean Loggerhead. Prima di partire la guida ci spiega che se sta uscendo dall’acqua per andare a depositare le uova bisogna lasciarla fare: ci si può avvicinare solo quando ormai sta tornando verso l’oceano e farle foto con il flash solo con l’oceano alle spalle, dato che loro seguono la luce (normalmente quella della schiuma bianca delle onde) per ritrovare la strada dell’oceano. La nostra tartaruga però decide di tornare indietro e non depositare le uova. Riusciamo a vederla poco prima che si tuffi nell’acqua. Andiamo avanti e incontriamo dei bracconieri, o almeno così li definisce la nostra guida, che ci spiega come le uova siano molto ambite perché i locali credono che possano curare l’AIDS. Esortiamo la guida ad avvisare la guardia costiera e lui armeggia un po’ con il cellulare, ma alla fine ci rimangono seri dubbi che l’abbia veramente fatto. Incontriamo solo un’altra tartaruga, e anche questa, nonostante arrivi in fondo alla spiaggia a cercare un posto per fare il nido, si volta e torna con niente di fatto: probabilmente la sabbia è troppo battuta dopo la mareggiata di ieri e non riesce a smuovere la sabbia ad una profondità sufficiente per depositare le uova. Dopo qualche tentativo andato a vuoto la tartaruga si vedrà costretta ad abbandonare le uova in mare. Vedere le tartarughe nell’atto della riproduzione è quasi commovente, così come la spiaggia con il buio pesto, ma la situazione – gita con gruppo di turisti – fa venire meno quella dimensione di intimità con la natura di cui avremmo goduto in condizioni diverse.

Quindicesimo giorno: Partiamo presto anche oggi, diretti nello Swaziland, la prima monarchia assoluta che ci capita di visitare. La strada verso il confine Golela-Lavumisa attraversa una game riserve e anche qui avvistiamo giraffe e impala. Come tutti i confini africani anche quello con lo Swaziland è famoso per la sua burocrazia e ci prepariamo ad attraversarlo armati di pazienza. Alla fine non va poi così male. Alla dogana swazi ci colpisce un distributore di profilattici gratuiti: in Swaziland il 39% della popolazione è sieropositiva. Nella campagna ci fermiamo a una trentina di metri da una casa tradizionale per fare una foto e nel giro di pochi istanti spuntano dal nulla una decina di bambini che vengono ai nostri finestrini e ci tempestano di richieste: succo, caramelle, vestiti, soldi, etc. Rimpiangiamo di non aver portato con noi penne e quaderni da poter regalare ai bimbi in queste situazioni. La nostra meta è il Mlilwane Wildlife Sanctuary. Arriviamo nel primo pomeriggio e ci sistemiamo in una romantica rondavel del Sondzela Backpackers Lodge, il secondo miglior alloggio per noi dopo quello dell’Addo, tra l’altro ad un prezzo irrisorio (270 rand). Poi abbiamo tutto il tempo per fare una passeggiata nel parco: non essendoci animali carnivori ma solo ippopotami, impala, nyala, zebre, gnu e tanti tanti uccelli, c’è una serie di percorsi che si possono fare a piedi, magari stando attenti a non perdersi come invece è successo a noi! L’ostello offre anche cene sempre a prezzi imbattibili (45 rand), anche questa molto buona, cucinata e servita all’aperto in mezzo agli alberi. Sedicesimo giorno: Dopo aver assaggiato la colazione dell’ostello (col tipico porridge fatto con un cereale locale), lasciamo il parco non senza prima fermarci ancora un po’ a guardare zebre, gnu e nyala. Ci tratteniamo ancora un po’ in zona per fare una piccola sosta al Craft Centre, nella Ezulwini Valley. Il centro raccoglie una serie di botteghe di artigianato di alta qualità dove si possono trovare prodotti originali, diversi da quelli più “mainstream” (statuette, collane ecc.) che invece si trovano a buon prezzo al mercatino sulla via principale che conduce a Mbabane.

Partiamo alla volta di Johannesburg. La strada è dritta, maciniamo gli ultimi chilometri in silenzio.

i video: http://www.youtube.com/user/alessiafabbri

le foto: http://www.flickr.com/photos/fatomousso



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