Sulle orme del Puma
6 – 7 agosto – La partenza Il volo LAN è puntuale e con scalo a Madrid e altre 12 ore di traversata dell’Atlantico, dell’Amazzonia e delle Cordigliere, arriviamo a Lima alle 6 di mattina del 7 agosto. Una volta giunti alla capitale Peruviana ci spostiamo verso il gate da cui partirà il volo interno che ci porterà ad Arequipa. Nel tragitto tuttavia transitiamo casualmente nell’area di ritiro bagagli, e una scintilla si fa largo nelle nebbie fitte del sonno che ancora affligge il mio cervello: non sarà meglio controllare che non abbiano scaricato i nostri bagagli a Lima anziché indirizzarli ad Arequipa? Tempo di formulare il pensiero ed ecco la nostra valigia nel suo allegro colore puffo che transita sul nastro… meno male che ci siamo fermati, altrimenti che disastro! Recuperati i bagagli ci tocca fare un nuovo check in e finalmente raggiungere il gate per Arequipa. Quest’ultima ora di volo è spettacolare: l’aereo si leva dalle nebbie perenni di Lima e un nuovo mondo si schiude, con la muraglia delle Ande che si erge maestosa e assolata sul mare di nubi. Le valli che scendono verso la costa sembrano dei fiordi nei quali le nuvole si insinuano senza raggiungerne la sommità, e il sole disegna un caleidoscopio di luci e ombre sulla terra ambrata e quasi totalmente disabitata. L’arrivo ad Arequipa (circa 2000m) è quanto mai scenografico: il velivolo si ferma solitario in mezzo alla pista deserta sulla spianata di Arequipa, come uno shuttle su una base lunare, e scesi dalla scaletta veniamo accolti dalla mole imbiancata dei tre severi vulcani a guardia di questa città sul tetto del mondo, il Misti, il Chachani ed il Picchu Picchu (so che fa ridere, ma esiste davvero!). Recuperati (ancora!) i nostri bagagli, un taxi ci porta facilmente al nostro albergo, il Casa Arequipa (http://www.arequipacasa.com/). Non è in centro, sono 10 minuti a piedi dalla Plaza, ma lo raccomandiamo vivamente: è pulitissimo, il personale è gentile e disponibile, e le camere sono spaziose, arredate splendidamente con mobili coloniali di ottimo gusto. Il bagno è nuovo e il letto comodo. La colazione poi è molto sostanziosa e viene servita sulla terrazza, da cui si gode una ottima vista dei monti all’orizzonte. La prima attività da svolgere è l’assicurarsi un biglietto per il pullman che ci porterà a Puno di lì a due giorni. Cerchiamo di contattare la compagnia Cruz del Sur, ma ahimè sono al completo per quella tratta. Ci tocca allora andare di persona al terrapuerto (la stazione degli autobus) per trovare un trasporto alternativo. Il terminal terrestre come tutte le stazioni del mondo è uno zoo che pullula di immagini, rumori e odori locali, ed è zeppa di uomini, donne, animali e vegetali che vengono e partono per tutto il comprensorio. Un po’ disorientati dalla moltitudine di banchetti che vendono biglietti delle varie compagnie, alla fine coraggiosamente ne scegliamo una, la Sur-Oriente, che espone un poster con un lussuoso autobus turistico a due piani, al prezzo di soli 17soles a biglietto. Terminato l’acquisto ripartiamo per la città, fermandoci in Plaza de Armas. La Plaza è la classica matrice coloniale spagnola, con edifici realizzati nella locale pietra calcarea bianca (il sillar) e porticati su tre lati, mentre il quarto lato è occupato interamente dalla cattedrale. Un parco con fontana occupa lo spazio centrale, ed un perenne ingorgo di piccolissimi taxi fa da cornice. Il tempo è splendido e per prima cosa ci concediamo uno spuntino sulla terrazza di un bistrò sito un una delle viuzze sul retro della cattedrale. Dopo qualche momento a goderci il ristoro, ci dirigiamo al museo Sanctuary, dove “riposa” Juanita, una bimba sacrificata 500 anni fa sulla cima del Nevado Ampato, che la montagna ha restituito in stato di perfetta ibernazione. Al di là della crudeltà dell’evento, più che il vedere il corpicino congelato, mi ha colpito il vedere gli oggetti che aveva con sé: i sandaletti, il mantello cucito dalla madre, il fagottino con il primo taglio di capelli ed il cordone ombelicale… Dopo la visita al museo facciamo un giro per le vie del centro, costeggiate da begli edifici coloniali tutti di pietra sillar, con complicati disegni sui portali scolpiti. Entriamo nella cattedrale, che viene rinnovata ad ogni terremoto che colpisce la regione, e che quindi sembra nuova di zecca. Ci concediamo poi qualche acquisto in maglioni di alpaca, dato che sembra che qui siano più a buon mercato che nel resto del paese. Fattasi sera cerchiamo un ristorante, e ci infiliamo ne “La Vigna” consigliato dalla Lonely Planet (non da noi!). Dopo cena (durante la cena a dire il vero!) il jet lag si fa sentire pesantemente e ci si chiudono gli occhi, pertanto ci facciamo portare in albergo per un sonno ristoratore di 12 ore.
8 agosto – Arequipa Sveglia alle 6:30 con il sole già alto. Facciamo una colazione galattica sulla terrazza dell’hotel e con tutta calma alle 8 ci dirigiamo a piedi verso il centro per visitare il “Monasterio de Santa Catalina”. Questa immensa cittadella nella città sembra un parco di divertimento per fotografi: luci e ombre nei chiostri e nei vicoli imbiancati nei toni dell’azzurro e del cotto, in contrasto con il verde del fogliame e il bianco del sillar che corona le architetture. Una piacevole colonna sonora di musica classica riecheggia per tutti i chiostri, e gli scorci che si godono voltato ogni angolo sono impagabili. Credo che sia una delle cose più belle che ho avuto modo di vedere in Perù, e vi abbiamo trascorso quasi 4 ore girovagando con estremo relax in questa oasi di pace. All’uscita del monastero altra tappa di shopping in maglioni di alpaca, poi pranziamo nuovamente in un localino con terrazza sul retro della cattedrale. Dopo pranzo ci dirigiamo fuori città con un taxi, facendoci portare nei sobborghi di Paucarpata. Lì c’è un bel panorama sulla città e sulle montagne circostanti. Facciamo un giro nella campagna lì attorno, poi riprendiamo il taxi per farci portare al mulino di Sabandìa, un posto estremamente bucolico con un maneggio e delle simpatiche alpaca al pascolo, sullo sfondo delle belle montagne. Ritornati in centro facciamo un giro nella zona San Francisco, quindi ci dirigiamo a piedi verso il quartiere di Yamahuara, una specie di poggio affacciato sul centro della città. Qui nella piazza principale assistiamo ad una sequenza di matrimoni (celebrati in serie nella stessa chiesa!), e ad un panorama da favola dal belvedere che corona la piazza. Appena prima del tramonto torniamo in centro a piedi, facciamo un’ennesima fermata a compare maglioni di alpaca (ebbene sì, abbiamo fatto mambassa!), quindi ci tuffiamo in un ottimo caffè affollatissimo di peruviani in Calle Mercedes, dove consumiamo delle caraffone enormi di caffè elaborati con creme ed aromi vari. La giornata si conclude con una piacevole cena nel ristorante Nina Yaku in Calle S. Francisco, dove servono piatti di cucina fusion: Ornella si gusta una ciotolona di zuppa di gamberi, mentre a me spetta un carpaccio misto con carni di alpaca, struzzo e manzo.
9 agosto – da Arequipa a Puno Un viaggio nel viaggio. Alle 8:30 ci facciamo trovare al piazzale del terrapuerto per salire sul nostro Sur Oriente delle 9:00, destinazione Puno. Per prima cosa individuiamo il nostro mezzo tra la miriade che affolla il piazzale, ed affidiamo i nostri bagagli alle cure di uno scugnizzo locale che, infilato come un topo nella stiva del torpedone li caccia in un angolo del bagagliaio e ci stacca due ricevutine per il ritiro, facendoci segno di ok con il pollice…. Tempo 5 minuti ed i nostri trolley nuovi fiammanti vengono sommersi da un carico composto principalmente da enormi luridi sacchi di cipolle e da gabbie di pulcini vivi… Saliti sull’autobus, facciamo diverse scoperte: anzitutto il veicolo che ci porterà fino a Puno è piuttosto mal ridotto e lo sgargiante poster che ci aveva attratto appeso al banchetto della biglietteria evidentemente lo ritraeva in età molto più giovane. Il posto che ci è stato assegnato però è il posto di onore! Secondo piano, prima fila davanti al vetro (incrinato) panoramico! Presto scopriamo i pro ed i contro della nostra sistemazione: i pro sono un innegabile vantaggio visivo per lo splendido panorama che si dispiega durante il tragitto; i contro sono un sole a picco per tutte le 6 ore di viaggio, che entra dalla vetrata senza tende parasole; inoltre scopriamo presto la vicinanza dell’assordante impianto hi-fi la cui unica cassa pompata a mille era posta proprio sopra le nostre cucuzze; infine incontriamo i nostri vicini di posto, una numerosa famiglia locale, con madre, zia e un indefinito numero di pargoli in gradazione di età che si assiepano tutti sui 2 posti accanto ai nostri, intasando il corridoio di transito con voluminosi fagotti che fungono da sedili supplementari. Guardandoci intorno ci rendiamo conto di essere gli unici non peruviani a fruire del servizio del Sur Oriente… Ormai quindi impossibilitati a muoverci e prigionieri del nostro sedile attendiamo la partenza del mezzo e l’accensione del condizionatore: caricati gli ultimi polli il pullman tarderà la partenza di soli 20 minuti, il condizionatore invece non partirà mai. I finestrini non si possono aprire ed in breve un ineguagliabile profumo di uomo e di animale pervade tutto l’angusto spazio della corriera. Lasciata Arequipa il paesaggio si apre in uno scenario lunare, brullo con ghiaioni e rocce che cambiano colore in continuazione, dal grigio al rosa, dal marron all’ocra al bianco al verde muschiato. La mole di El Misti ci accompagna sulla destra per buona parte del viaggio. A bordo dell’autobus intanto imperversa il folklore locale: un imbonitore munito di microfono passa la prima mezz’ora a decantare le proprietà taumaturgiche del ginseng, e riesce abilmente a vendere una buona scorta di fialette ai passeggeri. Dopo circa un’ora entriamo nella riserva naturale di Salinas, dove tocchiamo il punto più alto del nostro viaggio, 4800m slm. In questa riserva riusciamo a vedere diversi gruppi di alpaca e di timide vigogne che pascolano l’erba rada. Sembra che questi animali siano muniti della lana più morbida e fine del mondo, tanto che vi si vestiva ai tempi solo il Sapa Inca, le cui vesti venivano bruciate dopo il primo utilizzo! La strada che porta a Puno è per lo più asfaltata, anche se certi tratti sono in perenne manutenzione e l’autobus deve fare delle scomode deviazioni passando su piste sterrate ai lati della carreggiata. Tuttavia la carretera non è molto ampia ed essendo per lo più in forte salita la nostra marcia viene spesso ostacolata dai numerosi camion che arrancano lungo i pendii. Gli autisti di autobus peruviani però sono individui poco pazienti, e pur di non stare in coda con altri mezzi si lanciano in spericolati sorpassi in curva: più volte lungo il percorso abbiamo visto il bianco degli occhi dell’autista dei camion che ci venivano addosso in senso contrario, mentre il nostro pullman rientrava sbandando all’ultimo secondo da un pericoloso sorpasso. In questa occasione ho anche formulato il mio primo teorema sul viaggio in perù: “superato un camion, se ne incontra subito dopo uno uguale o più lento”. La strada prosegue con paesaggi sempre più spettacolari: passiamo accanto a delle lagunillas estremamente bucoliche, con tanto di stormo di fenicotteri rosa a bagnarsi nella gelida acqua a 4000m. Verso l’una il nostro conducente decide per un pit stop all’”autogrill”: una baracca per strada che serve chicarrones, una sorta di spezzatino di carne fritta servita con verdure in un comodo, lurido sacchetto di plastica. Tutti ne mangiano a volontà ed i risultati non tardano ad arrivare: infatti una delle bimbe che mi siedono accanto sui fagotti non fa tempo a tornare al suo posto che restituisce il chicharron appena ingurgitato ad un millimetro dalla mia spalla e dal mio zaino con l’attrezzatura fotografica. E qui il viaggio inizia a farsi pesante: il caldo, la puzza, la strada, la musica folkloristica sparata a tutto volume sulle nostre teste e un’ora di ritardo sulla tabella di marcia danno il colpo di grazia ad Ornella, che viene colpita da un attacco di mal di testa furibondo. Alle tre del pomeriggio finalmente arriviamo a Puno al terminal terrestre, e così termina la nostra esperienza popolare sul Gallina Express. Qui acquistiamo subito i biglietti per l’Inka Express che ci porterà di lì a due giorni a Cuzco. Un taxi ci porta in albergo al Casa Andina Puno Tikarani (www.casa-andina.com/), un hotel di una catena peruviana, forse la più rinomata. Il posto è piacevole, con camere abbastanza pulite, riscaldamento e cassaforte; nella hall scoppietta un caminetto ed è sempre disponibile un samovar di mate de coca caldo. La colazione è piuttosto abbondante e buona. Qui abbiamo dormito 2 notti non consecutive, e la camera che ci è stata assegnata la seconda notte era decisamente meglio di quella della prima: meglio quindi chiedere alla reception se sono disponibili camere ai piani superiori. Ormai si sono fatte le 4 del pomeriggio, e data l’ora e la condizione di Ornella decidiamo di saltare la visita al sito archeologico di Sillustatni che era in programma. Intanto che Ornella riposa mi faccio un giretto per Puno: la città è molto più grande di quanto immaginassi, ma il centro è piacevole, con pregevoli edifici coloniali con balaustre in legno, e le strade sono animate di vita turistica e di vita autentica. Salendo sul mirador, dove si erge la statua del primo inca Manco Capac (subito ribattezzato Manco Pa’Capa), ho potuto ammirare per la prima volta quella meraviglia del mondo che è il lago Titicaca. Tornato in albergo recupero Ornella, che nel frattempo si è quasi ripresa dal viaggio, e usciamo nuovamente a caccia di maglioni di alpaca. La cena la facciamo al ristorante “La Casona”, atmosfera da taverna d’altri tempi, pieno zeppo, con menù tipico peruviano. Prendo il Cheviche di trota (buono) e come pietanza decido per il Cuy. La povera bestia mi viene servita con gli occhietti spalancati che mi guardano pietosi ancora pieni di vita. Dopo un imbarazzo iniziale decido di ignorare altri sentimenti che non siano la fame, e quindi procedo. 10 agosto – Lago Titicaca Dopo una notte di ristoro siamo tornati in piena forma per l’avventura che ci aspetta oggi: la traversata del lago Titicaca. Lasciamo il grosso dei bagagli in albergo, e portiamo lo stretto indispensabile per una notte nel nostro zaino da montagna, in modo da viaggiare più leggeri. Alle 7:30 puntuale viene a prenderci in albergo il minivan della comunità dell’Isla Amantanì che ci porta all’imbarcadero di Puno, dove prendiamo posto su “El Misti”, un capriccioso natante assemblato con pezzi di recupero di vari mezzi: i sedili semi-sfondati della coperta sono quelli di un autobus turistico, il timone è un volante di automobile, la strumentazione di bordo è il cruscotto di un maggiolone volks wagen, e la manetta del gas è il cambio automatico di qualche altra vettura. A coronare il tutto una serie di vecchi copertoni funge da parabordo. Il vecchio diesel stenta a partire, ma dopo qualche tentativo siamo in marcia (lenta) diretti alla prima tappa: le isole Uros. Queste isole, note anche come islas flotantes, sono di fatto un arcipelago di zatteroni di una ventina di metri di diametro, costruiti a pochi chilometri da Puno con strati e strati di canne lacustri (la totòra), su cui sono poi state realizzate delle casupole nel medesimo materiale, e che si raggiungono navigando su tipiche imbarcazioni, sempre fatte di totora. La totora viene anche usata per fare corde, per riti propiziatori, per nutrimento di uomini e animali… oggi giorno questa gente vive quasi esclusivamente di un turismo molto ben organizzato, piuttosto che di pesca e stenti come un tempo. Il turista deve essere conscio di questo quando vi giunge: ogni imbarcazione viene dirottata su un isolotto che al momento sia “libero” da altri gruppi; si viene poi accolti dagli isolani agghindati nei loro abiti più tradizionali, con bluse dai colori sgargianti, gonne a balze, cappellini a bombetta… la guida illustra i metodi di vita del luogo per una mezz’ora, poi ogni turista viene “assegnato” ad una famiglia che fa vedere l’interno della povera casupola, si viene vestiti con abiti tradizionali per una divertente foto di rito, poi si passa agli affari: eh sì perché non si paga biglietto, ma si è moralmente obbligati ad acquistare articoli di artigianato locale, volenti o nolenti. Dopo questa festa il commiato è costituito da una canzoncina cantata in coro dalle donne del villaggio (a noi è toccato “vamos a la playa”…). Triste? No, perché questa gente dopo tutto dà il meglio di sé per dare ospitalità ad un turista (che probabilmente è ritenuto più cretino di quanto in verità sia) e per tenere vive delle tradizioni che oggi giorno non avrebbero alcun senso. Dopo tutto basta solo lasciarsi andare e coinvolgere. Lasciate le Uros, “El Misti” torna a far scoppiettare il suo vetusto motore per portarci alla nostra meta finale: Isla Amantanì, dove trascorreremo la notte. Il paesaggio del lago Titicaca man mano si svela nei suoi colori accesi di blu acciaio e azzurro cupo, riflettendo un cielo che non è mai stato così vicino alle acque, la costa assume i colori dell’ocra e del verde muschio, con colline terrazzate dall’opera incessante dei popoli Quechua, dirupi a picco o dolci spiagge sassose. Abbiamo modo di ammirare questo spettacolo con tutta calma dal tetto del Misti, in quanto il suo sonnolento motore garantisce una velocità talmente bassa che passiamo quasi tutta la traversata (5 ore) all’aperto. Ma l’avventura in Perù è sempre dietro l’angolo: sarà stata colpa del vento contrario, dell’inesperienza del giovane pilota, o dell’età avanzata della nostra bagnarola, fatto sta che a poche miglia dall’Isla Amantanì il motore del Misti collassa definitivamente, abbandonandoci in balia delle acque. E’ stato in questa circostanza che ho appreso i miei primi rudimenti di lingua Quechua, interpretando le bestemmie e le maledizioni che uscivano dalla bocca del nostro capitano, mentre infieriva sul motore con una chiave inglese nella vana speranza di farlo ripartire. Niente da fare, dopo un’ora di litigi si è visto costretto a chiedere aiuto alla “guardia costiera”: un battello in condizioni non migliori del Misti è partito dal porticciolo di Amantanì, con a bordo solo un vecchietto ed un bimbo, e con una manovra da arrembaggio degna del capitano Jack Sparrow ci ha affiancati, legati e trainati fino alla meta, rischiando per altro di affondarci definitivamente… Una volta toccata (e baciata) la terra, il nostro gruppo di naufraghi viene smistato tra le famiglie dell’Isola. Occorre precisare che su Isla Amantanì e sulla vicina Isla Taquile il turismo è gestito in maniera autoritaria dalla comunità degli isolani: i turisti vengono “distribuiti” tra le varie famiglie dell’isola, che ospitano a turno in modo che a nessuno sia negato il privilegio di ricevere un ospite. L’ospite porta con sé doni in natura o in denaro per la famiglia che lo accoglie. Quindi non si saprà mai cosa ci aspetta finchè non si varca la soglia di casa. Unica eccezione a tutto questo smistamento è il Kantuta Lodge, unico “albergo” dell’isola, che può essere prenotato anche tramite uno sgangherato sito internet (http://www.punored.com/titicaca/amantani/img/lodge.html) : almeno si sa dove si andrà a finire! Questa è stata la nostra (saggia) scelta. Il “lodge” infatti altri non è che una normalissima casa, un po’ più grande delle altre e meglio organizzata (e più costosa), ma sempre comunque molto spartana. Una volta sbarcati siamo stati affidati alle cure della padrona di casa, una vecchia matrona vestita in abiti tradizionali, che ci ha accompagnati caracollando con la sua buffa andatura dal molo, attraverso spiagge sassose su per una impervia salita fino alla sua dimora. Il lodge è veramente spartano e la pulizia e l’igiene non sono certo di casa: l’unico arredo della stanza è un letto con 4 strati di coperte di alpaca, un bagnetto minimal, acqua proveniente da una cisterna e scaldata dal pallido sole andino. I nostri vicini di camera sono un gregge di pecore che hanno l’ovile adiacente alla nostra finestra. D’altra parte realizziamo dove siamo finiti: su un’isola sperduta a 5 ore di navigazione dal più vicino centro sulla terraferma, su un lago sul tetto del mondo: che sensazione! La sistemazione in “pensione completa” ci è costata 25$ a testa, più altri 25$ a testa che abbiamo dovuto pagare per il trasporto sul lago (andata e ritorno + fermate + naufragio). Una volta sistemati ci è stato offerto un pranzo (più una merenda data l’ora) a base di zuppa di quinua e formaggio alla piastra. Dopo pranzo siamo stati portati in piazza al paese, dove già imperversavano le danze: tutto il paese infatti è in perenne festa tra l’inizio e la metà di agosto, in onore di Santo Turista. Lo spettacolo in effetti è pittoresco: dei danzatori e suonatori (anche piuttosto anziani) vorticano per la piazza, mentre ai lati sulle gradinate siedono in file separate gli uomini, tutti in abito scuro e cappello nero intenti a bere birra, e dietro di loro le donne, anch’esse in abito scuro e con velo colorato, intente a masticare foglie di coca. La scena è senz’altro impressionante, perché sembra cristallizzata in un passato intramontabile. Dopo qualche momento lasciamo la festa per recarci ad ammirare il tramonto dalla vetta dell’isola. La strada si inerpica fra misteriosi archetti di pietra, santelle, pascoli di pecore e muretti a secco. Il paesaggio si fa sempre più maestoso man mano si sale, e la luce del tramonto riflesso sul lago accentua la suggestione. Purtroppo arriviamo in cima che è già quasi buio e quindi dobbiamo affrettarci a ridiscendere. Lungo la strada del ritorno, mi capita di volgere lo sguardo al cielo: accipicchia quante stelle esistono! Mai e poi mai in vita mia ho veduto un firmamento tanto spettacolare. Sembrava di poter toccare la via lattea tanto era vicina. Con tutto il nostro inquinamento luminoso noi gente evoluta non ci rendiamo nemmeno conto di quello che abbiamo perduto. Una volta tornati in piazza, assistiamo ad uno strano spettacolo, di cui avevo letto su altri racconti di viaggio: su Amantanì si è soliti addobbare i turisti con abiti tradizionali e mandarli in piazza a ballare alla luce del falò. Guardando però le facce degli isolani che contemplavano quel gruppetto di forestieri che scimmiottavano nel mezzo della piazza, ci è sembrato di riconoscere lo stesso sguardo che abbiamo noi quando la sera non danno nulla di buono in tv e ci tocca guardare qualche noioso gioco a premi… Quando però la padrona del Lodge ci ha chiesto se volessimo vestirci anche noi e andare a ballare, è rimasta un poco delusa dal nostro gentile rifiuto: abbiamo consumato la nostra cena a base di zuppa e tortillas e siamo rimasti fuori dal lodge a goderci il firmamento nella notte di San Lorenzo.
11 agosto – Isla Amantanì e Isla Taquile La notte ad Amantanì è trascorsa tra il gelo della stanza (-5°C) e il calore opprimente delle 4 coperte di alpaca. La sveglia è come sempre all’alba, stavolta accompagnata dal belare del gregge che lascia l’ovile per recarsi al pascolo. La colazione è rustica, a base di mate de coca, empanadas e pane, margarina (!) e marmellata. In attesa della partenza del battello ci concediamo una breve passeggiata in riva al lago, dove la tersa luce del mattino sposandosi con qualche nube in cielo e con un solitario pescatore su una barchetta a remi disegna un paesaggio che neanche nelle favole… Ci dirigiamo quindi al molo, dove ritroviamo El Misti, rimesso a nuovo (si fa per dire). La traversata verso Isla Taquile dura circa un’ora e si approda su un piccolo porto secondario, da cui un piacevole sentiero costellato di fiori kantuta (la specie floreale simbolo della cultura inca) si inerpica per circa 30 minuti fino ad arrivare al Pueblo. Lungo il cammino, che vagamente ricorda i paesaggi della riviera ligure di levante, incontriamo diverse pastorelle con i loro gregge di pecore, tutte impegnate a fare il fuso con la lana mentre portano al pascolo il gregge. La piazza del Pueblo si apre attraverso un pittoresco arco in pietra, sormontato dalla caratteristica croce, ed oltre ad un numero non eccessivo di turisti, vi si incontrano diversi isolani abbigliati rigorosamente in abiti tradizionali con il caratteristico berretto floscio, tutti intenti a fare l’uncinetto e a scambiarsi foglie di coca dalla borsetta che portano sempre a tracolla. L’arte tessile di Taquile è annoverata nel patrimonio dell’Unesco, e nella piazza rustica uno sgradevolmente moderno edificio ricorda questo prestigioso traguardo, ospitando un piccolo museo e un mercato di oggetti di artigianato, nel quale non ci siamo trattenuti dal fare qualche acquisto. Il turismo su Taquile funziona esattamente come ad Amantanì, con la “spartizione “ degli ospiti nelle case, ma tale pratica è in vigore da più tempo e si nota una maggiore organizzazione turistica con diversi ristoranti e bar estremamente rustici (che erano assenti su Amantanì) ma ovviamente nessun albergo. Indugiamo qualche tempo nel villaggio, veramente carino. Dalla plaza un bel mirador permette di ammirare oltre il lago la Cordillera Real in Bolivia, totalmente ammantata. Veniamo quindi guidati al ristorante dove consumeremo il pasto, compreso nel nostro biglietto nautico. Per raggiungerlo camminiamo per altri 20 minuti sulla dorsale dell’isola, e giungiamo in una posizione splendidamente panoramica, al di sopra del porto principale dell’isola. Il pasto è frugale ma gustoso: zuppa di quinua e trota ai ferri. Dopo il pranzo scendiamo la ripida scalinata che conduce al porto ove El Misti ci attende per riportarci sulla terra ferma. Nella discesa possiamo ammirare uno spaccato della vita quotidiana degli abitanti dell’isola, che per procurarsi ogni genere di prima necessità (acqua, gas, viveri) devono caricarselo in spalla e risalire quella faticosa scalinata fino al villaggio in cima all’isola. La nostra fedele barchetta riparte e sbuffando ci riporta in sole 3 ore e mezza alla volta di Puno.. Dopo una doccia ristoratrice (si apprezzano molto di più queste piccole comodità dopo una notte spartana) decidiamo per un aperitivo alla casa del Corregidor nella Plaza di Puno (un ottimo punch al latte e cannella), e per una cena al Tulipan’s: niente di particolarmente gustoso, come al solito, ma ormai ci siamo foderati lo stomaco…
12 agosto – da Puno a Cuzco Giornata di trasferimento: oggi viaggiamo da Puno a Cuzco. Il mezzo che abbiamo scelto, e su cui fortunatamente abbiamo trovato posto, è l’Inka Express: un autobus turistico che effettua il percorso in 10 ore, con 5 tappe in località interessanti. Vi è incluso un pranzo a buffet e le bevande a bordo. La differenza rispetto al Gallina Express di qualche giorno prima si vede, e soprattutto… si sente! La partenza è alle 7:30 dal terminal terrestre di Puno, puntuale. Lasciato il lago Titicaca alle nostre spalle a 3800m dirigiamo a nord e la prima fermata è dopo circa 2 ore, a Pukara (3990m), un sonnolento villaggio dell’altopiano. Lì si visita il piccolo museo dove sono raccolti alcuni reperti della civiltà pre-inca che si sviluppò in quei luoghi. Al di là del museo c’è un sito archeologico, che non si visita, ed una bella chiesa dominata da uno sperone montuoso. Lasciata Pukara l’altopiano si dispiega in tutta la sua cruda bellezza: l’erba ingiallita dal gelo dell’altitudine, i corsi d’acqua color acciaio, le severe montagne nere incappucciate di bianco… Ci fermiamo dopo altre due ore nel punto più alto del nostro viaggio, in un passo chiamato La Raya a 4430m. Da lì si gode un panorama molto spettacolare dell’altipiano sottostante e dei nevai che circondano questo passo. Vi sono allestiti dei banchetti che vendono souvenir, dato che l’area è una sosta abituale dei viaggiatori. Da qui si inizia la discesa nella regione di Cuzco, ed il paesaggio muta sensibilmente: la tundra dell’altipiano lascia il posto a terrazzamenti più verdi e gli alberi di eucalipto (specie importata dall’Oceania) punteggiano tutto il paesaggio. Anche la presenza umana è più importante, con diverse fattorie e allevamenti. Una delle cose che balzano all’occhio è la sostituzione della lamiera ondulata con i coppi di argilla nella realizzazione dei tetti, il che rende le abitazioni molto più gradevoli, anche se il materiale d’elezione per la costruzione resta sempre l’adobe, il mattone di fango e paglia… La tappa successiva è la sosta per il pranzo in un decoroso ristorante turistico, dove viene servito un pranzo a buffet accompagnato da un allegro complesso di nativi il cui sound ricorda molto i pomeriggi di sabato nel periodo natalizio in centro alle nostre città… L’express riparte per la quarta tappa, forse la più importante, il sito archeologico di Raqchi. Qui sorgeva un importante centro cerimoniale dedicato alle divinità dell’agricoltura, con un singolare tempio a capanna di cui sopravvive un massiccio muro centrale e diversi basamenti di colonne di pietra, e una città fatta di spaziose abitazioni e misteriosi granai circolari, a centinaia. Appena fuori dal sito è allestito nella piazza della chiesa del nuovo villaggio un mercatino di souvenir popolato da donne del posto che sfoggiano i loro abiti più tipici. La visita è, come sempre quando si è in gruppo, troppo breve e dopo mezz’ora si riparte per la quinta e ultima tappa: il paese di Andahuaillas. Ci si ferma nella piazza ombreggiata da alcuni giganteschi e meravigliosi alberi fioriti di rosso, e si ammira la chiesa del paese, nota come la “cappella sistina delle Ande”. Anche se il soprannome è decisamente esagerato, tuttavia la chiesa di Andahuaillas è veramente particolare, e rappresenta quel tipico incontro di culture e religioni che caratterizza tutto il sudamerica: l’utilizzo notevole di materiale ligneo pitturato, di ori, quadri e di affreschi sacri e profani ne fa un luogo veramente interessante. La strada prosegue tranquilla sul fondo della fertile vallata di Cuzco, che raggiungiamo alle 5.10. Purtroppo al terminal non troviamo ad attenderci il trasporto promessoci dall’hotel. Un po’ indispettiti dopo una breve attesa decidiamo per un taxi e raggiungiamo il nostro alloggio, l’Hotel Mamasara ). Il posto è piacevole: si trova a 500m dalla Plaza in fondo ad una tranquilla via il cui proseguo sale fino alle rovine di Saqsayhuaman; lo consigliamo vivamente perché è molto pulito, ben arredato ed il personale è cortese. Una volta giunti a destinazione facciamo il check in presentando le nostre rimostranze alla reception per il mancato rispetto degli accordi. Interviene allora il gestore Jorge, a prodigarsi in mille scuse: è una persona veramente gentile e ci garantisce il trasporto per l’aeroporto, in cambio; in più passiamo con lui circa mezz’ora sorseggiando mate a pianificare l’itinerario per i giorni seguenti: ci propone infatti un suo amico autista che ci accompagnerà a zonzo per la valle sacra. Disfati i bagagli e fatta la doccia usciamo per la nostra prima passeggiata per le vie della antica capitale inca, ma non tedierò il lettore narrando ancora della scarsa qualità della cena.
13 agosto – da Cuzco a Machu Picchu Giornata ricca, e lunga: oggi ci aspetta il primo round di Valle Sacra. Dopo una abbondante e deliziosa colazione ci aspetta fuori dall’albergo come concordato il nostro autista Pino, e si scopre che si unirà alla comitiva anche Jorge, che ha deciso di farsi un giro per la valle sacra dato che è il suo giorno di riposo, scroccandoci il passaggio. La vettura è non troppo malconcia, e la compagnia si rivelerà decisamente piacevole per la giornata. Partiamo quindi alla volta di Chinchero, un sito archeologico posto in cima ad un grazioso villaggio a circa 30 minuti da Cuzco. All’ingresso del sito acquistiamo il “bolleto Turistico” (http://www.boletoturisticocusco.com/) valido per tutti i monumenti della valle sacra. Dato che è ancora piuttosto presto abbiamo la fortuna di goderci questo gioiello in totale tranquillità. Il sito si apre con una bella piazza dominata da una chiesa ed una serie di edifici di un bianco abbagliante, costruiti sopra i basamenti in pietra inca. Di lato alla piazza si estende l’antico complesso agricolo con delle vaste terrazze che corrono lungo tutta la vallata. C’è anche un piccolo ma interessante museo che raccoglie qualche reperto locale. Ripartiamo quindi diretti verso Moray, altri 40 minuti di strada spettacolare: è come essere in Toscana ma… circondati da innumerevoli monti Cervino. Dopo qualche chilometro di sterrato arriviamo infine all’impressionante sito di Moray: sembra di rivedere la descrizione dell’Inferno di Dante in chiave Inca, dato che una profonda voragine conica a terrazze concentriche come i gironi del Poeta si apre sotto i nostri piedi. In verità il sito consta di almeno quattro di queste strane strutture profonde diverse decine di metri, che apparentemente servivano da laboratorio agricolo per individuare le migliori condizioni di coltivazione dei prodotti della terra. Dei gruppetti di archeologi stanno ristrutturando la maggiore di queste conche, e si sta cercando di replicarvi la coltivazione di vari ortaggi. Proseguendo nel nostro giro ci fermiamo presso un accampamento di donne e bambini intenti a tingere la lana di alpaca con la cocciniglia facendone bollire delle matasse all’interno di fumanti pentoloni. La strada prosegue sterrata per la tappa successiva: le saline di Maras. Chi ha presente le saline caratteristiche del nostro Mediterraneo rimarrà esterrefatto dalla meravigliosa opera combinata della natura e dell’uomo in questo luogo al di fuori di ogni immaginabile concetto: le saline sono di fatto una serie quasi infinita di vasche a cascata appese ad una parete ripidissima in una valle laterale dell’Urubamba, alimentate da una sorgente salata che sgorga a monte di esse. Il contrasto tra il bianco abbagliante della crosta di sale e la terra rosso scuro completamente priva di vegetazione restituisce un senso di irrealtà che colpisce ogni visitatore: sembra che la montagna trasudi marmo liquido. Una volta giunti sul sentiero che attraversa superiormente le saline si è colpiti da un senso di vertigine nel volgere lo sguardo verso la serie di vasche che sprofondano nell’abisso. Poi ci si rende conto che questo è un luogo di lavoro, che sfama probabilmente interi villaggi, che uomini e donne passano la loro esistenza a farsi cuocere i piedi nel sale delle vasche sperdute centinaia di metri più in basso per pochi spiccioli al giorno. Dalle saline in un’ora la strada ci porta nel cuore della Valle Sacra, ad Ollantaytambo. Ollanta si trova all’incrocio della Valle sacra con una valle secondaria, in una posizione strategica. Non sorprende quindi che gli inca abbiano sapientemente scelto di creare un complesso insediamento in questo luogo. Una volta giunti in paese come prima cosa ci dirigiamo alla stazione ferroviaria per lasciare al deposito bagagli lo zaino con il nostro necessarie per la notte che passeremo ad Aguas Calientes. Qualora si debba aver a che fare con i funzionari della Perù Rail, è bene aver prima mandato a mente qualche mantra da recitare per calmare i nervi: per riuscire a depositare il mio bagaglio per solo due ore ho passato 35 minuti in attesa che terminasse una chilometrica coda di ben due persone, e una volta giunto il mio turno mi è toccato compilare diversi moduli che neanche all’ufficio tributario, e versare una gabella di ben 5$ (si vede che ci siamo vicini a Machu Picchu!). Le rovine di Ollanta sono ovunque intorno a noi: la fortezza con il santuario a sinistra, a destra l’enorme volto di Viracocha scolpito nella montagna ed i granai, più in alto sulla vetta, dove non giunge quasi lo sguardo, delle ulteriori postazioni di guardia, terrazzamenti alle nostre spalle e in fondo alla valle il villaggio, costituito tuttora da abitazioni inca poco o nulla cambiate nel corso di 500 anni, con un tessuto urbano interessantissimo, e piccoli canali di acqua corrente che scorrono ai lati di ogni via. L’ora cui giungiamo al sito è proprio l’ora di punta e decine di autobus turistici sbarcano le loro migliaia di conquistadores armati di cappellino e macchina fotografica, pronti a lanciarsi alla scalata dei terrazzamenti che portano al tempio-fortezza di Ollanta… e così facciamo noi! Purtroppo la visita parte col piede sbagliato: in effetti Ornella si rende conto a metà della salita che quello è l’ultimo posto sulla terra in cui una persona sofferente di vertigini vorrebbe trovarsi. Contrattiamo. Mi tocca proseguire da solo: una volta giunti in cima il sito è spettacolare ed il panorama vertiginoso (veramente!). Fa impressione vedere gli enormi massi semilavorati e rimasti abbandonati dopo che la fortezza è stata conquistata dagli Spagnoli mentre era ancora in fase di costruzione. Tornato a più miti altezze proseguiamo insieme il giro del sito nella sua parte inferiore e nel resto del villaggio. Dato che sono ormai le 4 e che non abbiamo ancora pranzato, decidiamo di fermarci per uno spuntino presso un baretto turistico nella plaza, dove una statua di Atahualpa si erge minacciosa con la sua mazza chiodata in mano. Il primo errore è stato il non accorgerci di quel cattivo presagio. Ordiniamo dell’acqua naturale: ecco il secondo errore. La bottiglia arriva apparentemente integra, anche se la plastica esteriormente lascia supporre che il contenitore abbia subito qualche peripezia, ed il cameriere ci usa la premura di stapparla. Alla prima sorsata ci rendiamo conto che ormai è troppo tardi… la bottiglia era riciclata, e l’acqua proveniva probabilmente dai fossi che corrono lungo le vie di Ollanta. Il resto è storia: la maledizione di Atahualpa ha colpito duro, ma i sintomi sarebbero arrivati solo qualche ora più tardi. Consci di quel che ci aspetta, ma speranzosi nell’efficacia nostro sistema immunitario ci dirigiamo alla stazione dove recuperiamo lo zaino, e dopo qualche tempo arriva finalmente il trenino Backpacker che ci porterà, sferragliando stracarico a passo d’uomo in fondo alla buia vallata, ad Aguas Calientes. Giunti a destinazione troviamo alla stazione il contatto del nostro hotel La Cabana(http://www.andeantravelweb.com/peru/hotels/machupicchu/la_cabana_hostal_machu_picchu_peru.html), che ci porta a destinazione. Il paese di Aguas Calientes è terribile: un conglomerato di alberghi squallidi e ristoranti scadenti adatto al turismo di massa. L’albergo è carissimo e si intona perfettamente allo stile del posto. Per fortuna ci tocca solo passarci la notte. Dopo esserci sistemati, mi dirigo all’ufficio turistico per acquistare i biglietti di ingresso al sito turistico (altro salasso). Che giornata! Per punizione, tutti a letto senza cena, e sveglia puntata alle 4 del mattino, per essere i primi l’indomani a mettere piede a Machu Picchu!
14 agosto – Machu Picchu Machu Picchu te la devi proprio guadagnare, in tutti i sensi: è un vero e proprio percorso iniziatico, in cui il portafoglio dell’adepto viene progressivamente alleggerito nell’ascesa alla città santa dell’Inca. Si inizia con il costosissimo treno sferragliante, proseguendo con la notte ad Aguas Calientes a botte di 100$ a stanza e con il biglietto di accesso al sito; indi la sveglia antelucana per acquistare i non economici biglietti della corriera che porta alla cittadella. E non scordatevi di portare appresso delle bibite, perché una volta saliti alla cittadella le pagherete care come l’oro dell’Inca! Se poi avrete intenzione di tornare verso la civiltà con un mezzo diverso dalle scarpe che calzate, dovrete rimpinguare ulteriormente le casse della Perù Rail per il biglietto di rientro. Dunque il mattino (veramente è ancora notte) ci leviamo lesti per poter prendere il primo autobus che sale a Machu Picchu. L’immagine di noi due soli tra le brumose rovine al sorgere del sole si dilegua amaramente quando, giunti alla fermata dell’autobus ci troviamo intruppati in una coda di almeno 2000 anime mattiniere come noi. In verità l’autobus che riusciamo a prendere non è il primo, bensì il ventesimo… Per fortuna il servizio è abbastanza efficiente e queste corriere vanno e partono a ritmo continuo facendo un servizio navetta. La salita dura circa 30 minuti ed è veramente mostruosa: il sole sorge lento tra le montagne dissolvendo la nebbia come un intrico di ragnatele, le forme si distinguono appena ma la percezione dell’ascesa e della ripidezza del paesaggio è pazzesca. Si prova un tale senso di insicurezza su questo trabiccolo che arranca su una strada sterrata senza parapetto appena più larga di lui, che sembra una magia il fatto che questi autobus possano incrociarsi con quelli che procedono in senso opposto. Lungo il tragitto distinguiamo anche il sentierino che porta alle rovine e che costituisce l’unica alternativa alla navetta: si tratta di una serie pressoché infinita di gradini che tagliano in verticale la strada a tornanti percorsa dalle corriere: dato che il dislivello tra Aguas Calientes e le rovine è di circa 800m, salire per quella via equivarrebbe a scalare due volte l’Empire State Building di New York per la scala antincendio. Una volta giunti in cima alla salita e penetrato il recinto delle rovine, la sensazione predominante è lo smarrimento: tutto è avvolto in una nebbia fluida, si distinguono persone che avanzano non si sa bene verso dove, e la piantina che ci è stata consegnata all’ingresso è totalmente inutile in quanto non capiamo dove siamo e cosa stiamo guardando. Alla fine decidiamo di accodarci a della gente che sembra ammassarsi in un punto in cui ci deve essere qualcosa di veramente interessante. Giunti sul posto scopriamo che si tratta delle numerose comitive che intendono fare il giro del Huaynapicchu, il monte a panettone che chiude il classico panorama di Machu Picchu. Il percorso può ospitare massimo 400 persone alla volta per questioni di sicurezza, ed abbiamo l’impressione che gli astanti staranno qui ad aspettare tutto il giorno, quindi desistiamo e cerchiamo di raccogliere le idee sgranocchiando una colazione al volo. Nel frattempo la nebbia inizia a diradarsi e la città lentamente si svela nel proprio mistero. Passiamo il resto della mattinata a gironzolare per le rovine assolate visitandole in lungo e in largo, accodandoci a vari gruppi organizzati per origliare la spiegazione dei diversi angoli di questo posto magico. La folla non è nemmeno troppo fastidiosa in quanto la dimensione del sito riesce a diluire abbastanza la quantità di persone. Alla fine della visita abbiamo un’idea abbastanza precisa del fatto che il mondo ha una comprensione molto vaga di che cosa questo posto fosse in realtà. Verso l’una prendiamo la navetta che ci riporterà a valle dove ci ristoriamo prima di prendere il treno che ci riporta a Cuzco. Saliamo quindi sul costosissimo convoglio “Vistadome”, il treno di categoria superiore che attraversa la valle sacra, con un distinto controllore che ci saluta per nome, ed una abbottonatissima hostess che ci accompagna al nostro posto riservato. Il treno è piuttosto confortevole, con ampie vetrate sul tetto del vagone che consentono di vedere l’estensione dei monti che circondano la valle. A bordo ci viene dapprima servito un aperitivo (a pagamento), quindi uno spuntino a base di empanadas e crostatine alla frutta, accompagnate dal solito immancabile mate. Dopo lo spuntino fa la sua comparsa nel vagone uno strano individuo, una maschera tradizionale, munito di un buffo cappello a tesa rettangolare con frange e uno strano passamontagna bianco ricamato che gli copre interamente il volto con dei fori praticati per occhi e bocca. Ebbene questo buffo personaggio, un lama di pezza in braccio, si mette ad improvvisare per il corridoio del treno una danza folkloristica. Una voce poi spiegherà che è l’Ukuku, un personaggio tipico del costume locale. Ma il pezzo forte dell’intrattenimento ferroviario deve ancora avere luogo: la sfilata di moda peruviana! In effetti dopo qualche momento parte una assordante musica tecno e dal fondo del vagone compare l’abbottonatissima hostess in versione femme fatale d’alpaca vestita, capello sciolto, trucco aggressivo e maglione rosso scollacciato sulla spalla ignuda… dopo aver percorso il corridoio del vagone avanti e indietro, ecco fare la sua passerella l’elegantissimo controllore, capello gellato, sorriso smagliante e cardigan a collo alto. Siamo basiti. Lo spettacolino prosegue nella compiaciuta ilarità generale per una mezzora, mentre il treno prosegue la sua corsa verso Cuzco. In realtà il treno non scende fino a Cuzco, bensì ferma a Poroy, qualche chilometro fuori città, dove ci aspetta il nostro fedele autista Pino per riportarci in albergo. Dopo la doccia decidiamo che ne abbiamo abbastanza della cucina peruviana, e ci fermiamo incuriositi di fronte ad un’insegna di ristorante che suona irrispettosamente familiare: “Cosa Nostra”. Uno sguardo al menù basta a farci capire che non servono “taliolini bolognaise” o “makaroni alfredo sauce” come nella maggior parte dei ristoranti italiani americani, ma che la cucina è italiana autentica. In effetti il gestore e chef è siciliano e ci mette anima e corpo per proporre versioni originali dei piatti più amati del ricettario nazionale. Da non perdere. W l’Italia!
15 agosto – Cuzco La mattina ci svegliamo abbastanza tardi (alle 7!) poiché Pino ci aspetta alle 8:30 per un giro alle rovine a sud est di Cuzco. Dopo 30 minuti di strada fuori Cuzco ed una decina di minuti di sterrato arriviamo alle rovine di Tipon. Prima di raggiungerle tuttavia ci fermiamo qualche minuto nella piazza del pueblo. Il paese è minuscolo e poverissimo. Veniamo accolti dal curato che ha appena finito di dire messa e alcune comari che ciondolano davanti all’uscio della chiesa ornate da un delizioso cappello bianco a tuba ci offrono un sorso di un orribile vinaccio al sapore di fragola. Nella speranza di non morire avvelenati, proseguiamo verso il sito archeologico. Le rovine di Tipon sono veramente molto belle e rilassanti, forse le più belle viste nella zona di Cuzco. Sarà stato per via del fatto che il sito si trova al di fuori dei circuiti turistici di massa e che quindi è praticamente deserto, o per via del sistema di canalizzazioni d’acqua tuttora perfettamente funzionante che sembra mantenere questo luogo ancora vivo. Risaliamo le ampie terrazze fino a trovare una sorgiva naturale che alimenta tutto il bacino idrico. Lì una gentile studentessa si offre di spiegarci gratuitamente la storia di questo posto magico. Scopriamo invece da Pino un grottesco retroscena: ci racconta infatti che molti italiani, anche persone influenti dice, vengono apposta fin qui a compiere strani riti propiziatori. W l’Italia? Da Tipon pochi chilometri ci separano da Piquillakta, la “città delle pulci”. Si tratta di un immenso sito pre-inca di cui sopravvivono muri colossali, alti e lunghissimi, e alcune abitazioni il cui interno è interamente intonacato di gesso. Qui incontriamo un pittoresco anziano signore sciancato, gli occhi stranamente azzurri in questa terra di castani, che vende souvenir all’ingresso del sito. Dato che siamo anche qui gli unici avventori si offre di farci da guida raccontandoci che lui è il figlio del vecchio custode, e ci delizia con una serie di curiosità e segreti che Piquillakta cela. Da qui ci spostiamo per meno di un chilometro per visitare la porta – acquedotto di Rumiquolca: si tratta di un imponente muraglione di pietre megalitiche con due larghi varchi che chiudeva un tempo l’accesso alla valle di Cuzco, e sulla cui sommità scorreva l’acqua convogliata da un acquedotto verso Piquillacta. Dopo questa visita verso le 14 ci facciamo riportare nuovamente in città a San Blas, il “quartiere degli artisti”. Qui gli unici artisti che incontriamo sono quelli specializzati nella vendita di souvenir. Vi si trova comunque una bella piazza con una chiesa ad ingresso a pagamento e dei bei palazzi coloniali. Scendendo verso Plaza de Armas si incontrano diversi muri inca, tra cui quello con la famosa pietra con 12 angoli, con tanto di inca in costume piazzato davanti per la foto di rito (come i centurioni al colosseo). Proseguiamo poi verso il sito noto come Quorikancha, il sancta sanctorum della civiltà inca, il tempio che ha lasciato senza parole i conquistadores che per primi lo videro, e che per il troppo stupore decisero di demolirlo per costruire al suo posto il convento di Santo Domingo. Grazie al cielo le strutture degli inca erano di fattura talmente robusta che, al sopraggiungere del terremoto negli anni ’50, il monastero per buona parte è crollato mentre gli edifici di El Dorado sono finalmente riemersi a riprendersi il posto che gli spetta nella storia.
16 agosto – La valle sacra Pino oggi ci aspetta alle 7 per portarci presto al mercato di Pisaq, il più famoso mercato domenicale della valle sacra. Sulla strada che porta al villaggio ci fermiamo ad ammirare la vallata di Cuzco ancora immersa nella quiete mattutina, e rivestita di un lieve strato di brina. Il mercato si svolge nella piazza del paese ed è fondamentalmente diviso in due zone: una metà è costituita dagli autoctoni che vendono le loro mercanzie alla gente delle valli, la seconda metà è costituita da bancarelle di hippy che vendono souvenir ai turisti. Purtroppo quest’ultima parte sembra soverchiante, ma al momento del nostro arrivo era ancora in allestimento: i turisti di solito arrivano più tardi! Secondo la nostra guida doveva esserci anche una processione in uscita dalla messa domenicale, ma la gente del posto ci conferma che la processione è il sabato, non la domenica. Bighelloniamo quindi un poco tra le file di questo trionfo di colori, suoni, profumi e puzze, osservando le trattative per ottenere un porcellino d’india al miglior prezzo, o misteriose brodaglie servite da un pentolone fumante al punto di ristoro da una matrona sovrastata da un enorme cappello bianco a tuba… Dopo la visita al mercato ci dirigiamo in auto alle rovine di Pisaq Inca, che sovrastano l’odierno abitato da un’altezza di qualche centinaio di metri. Una volta giunti all’ingresso ci affidiamo alle cure di Benigno, un’ottima guida locale, che ci illustra tutti i segreti del posto e ci conduce attraverso i ripidi camminamenti che congiungono le diverse frazioni di questa roccaforte, che di fatto si avvolge tutto intorno alla montagna. I passaggi sono mozzafiato, con muraglioni a strapiombo sulla vallata e camminamenti scavati in gallerie. La magia di questo posto sembra avere la meglio anche sulle vertigini di Ornella, che pare non avvertire il mal d’altitudine e compie il percorso per intero senza soffrire. La cittadella sacra qui si erge con una tale perfezione dalle rocce da lasciare esterrefatti; il piano urbanistico degli inca poi è particolarissimo e per nulla casuale: la pianta della città infatti rassomiglia sempre a qualche elemento naturale totemico: ora un fiore di Kantuta, ora un condor, ora un puma… La tappa successiva del nostro tour che ci riporta a Cuzco sono le rovine di Tombomachay, un sito minore caratterizzato da un piccolo ma grazioso tempio dell’acqua. A poche centinaia di metri da qui sorgono le rovine di Kenqo; questo sembra essere un santuario dedicato al culto della luna e dell’oltretomba. E’ costituito da una monumentale roccia scolpita in parte dall’uomo e in parte dagli elementi, percorsa da misteriose caverne all’interno delle quali si crede che gli inca praticassero la mummificazione rituale. Gli inca seppero poi arricchire questo sito con la loro formidabile arte che sembra plasmare il terreno e far emergere strutture in pietra che paiono prolungamenti naturali della geologia del luogo. Qui in particolare si nota un mirabile passaggio nella roccia scolpito che con un magico gioco di luci sembra la testa di un lama, perfettamente visibile ancor oggi! Il nostro tour della valle sacra si conclude con una delle opere più spettacolari degli inca: il complesso difensivo di Saqsaywaman, situato proprio su una delle alture che sovrastano Cuzco. Questa fortezza impressionante è stata teatro di eventi eroici e sanguinosi che hanno segnato il destino di molti popoli: pensarci mette i brividi… Putroppo il grosso del sito è servito da cava di pietra per la costruzione della moderna Cuzco dopo la conquista, e quindi quel che ne resta non sono che poche vestigia, le più visibili delle quali sono muraglie azig-zag che nell’antica topografia di Cuzco volevano essere i denti acuminati del puma, alla cui figura era ispirata la planimetria della capitale. Le rocce che costituiscono questi baluardi sono massi megalitici che arrivano a pesare 40 tonnellate l’uno, e che le maestranze inca hanno sapientemente lavorato e posizionato in modo che non passi un filo d’aria tra due massi adiacenti. Restiamo a gironzolare in este lugar per qualche ora fino al tramonto, godendoci lo spettacolo della moltitudine di aquiloni lanciati dai piccoli abitanti del luogo nel loro pomeriggio domenicale.
17 agosto – Cuzco – Lima Giorno di partenza: oggi lasciamo gli altipiani per recarci a Lima. Prima però passiamo la mattinata a goderci ancora il centro di Cuzco: visitiamo dapprima il museo Inca, piuttosto interessante anche se l’allestimento è decisamente casereccio con spiegazioni parziali o assenti, talvolta in inglese, talvolta in francese… Dopo il museo ci concediamo un giro per gli ultimi acquisti e ci rechiamo per il pranzo a salutare il nostro amico cuoco italiano, gustandoci degli ottimi spaghetti. Il dolce invece lo prendiamo in una pasticceria tra Plaza de Armas e Plaza Reconcijo. Torniamo quindi in albergo a salutare il sig. Jorge che ci mette a disposizione come promesso una macchina per l’aeroporto. Il volo per Lima è breve e liscio, e all’arrivo troviamo il trasporto offertoci dal nostro alloggio nella capitale, Casa Yolanda (http://www.casayolandalima.com/). L’impatto con Lima, soprattutto dopo dieci giorni passati sugli altipiani, è deprimente. Il cielo è plumbeo, l’odore greve, il traffico onnipresente in preda all’anarchia intasa anche il più minuscolo vicolo della città. Le auto e gli altri mezzi di trasporto sono decrepiti ed un continuo suonare di clacson sospinge lentamente questo serpente senza testa né coda. Il tragitto dall’aeroporto all’alloggio dura un’ora, durante la quale gli scorci di capitale che ci vengono offerti sono tutt’altro che piacevoli: si tratta di un’accozzaglia senza senso di edifici mezzi costruiti e mezzi diroccati, in cui ciascuno cerca di proteggere i propri averi ricorrendo a protezioni elettrificate o rotoli di filo spinato. Il quartiere dove veniamo ospitati è San Josè, né centrale né periferico. Le vie d’accesso sono state tutte sbarrate da barricate e cancellate varie, e per accedervi occorre passare per un posto di guardia privato, crediamo pagato dalla comunità che abita nel quartiere. Tutto questo ricorda molto le atmosfere di film come “1997 fuga da new york”. All’arrivo ci aspetta la signora Yolanda, che lavora praticamente solo con italiani: il posto infatti ci era stato raccomandato da altri viaggiatori su blog che avevamo letto. Che dire? Pulito è pulito, lo stato di manutenzione è sufficiente, il costo accessibile e hanno mantenuto tutte le promesse fatteci (ci hanno aiutato ad organizzare il tour della costa). Non siamo tuttavia sicuri di poterlo raccomandare a nostra volta, per la sensazione spigolosa e frettolosa che ci ha lasciato la signora Yolanda. Nonostante fossimo ospiti paganti non mancava mai la sensazione di essere in debito con la padrona, quasi di disturbare con la nostra presenza. La serata si conclude con una cena ad un ristorante appena fuori dalla zona cintata. Per raggiungerlo veniamo accompagnati da Guillelmo, la guardia personale di Yolanda, che ci chiede quanto tempo ci serva per mangiare così che possa venire a riprenderci; il ristoratore a questo punto sblocca il chiavistello e ci fa entrare nel locale chiudendo a chiave la porta alle nostre spalle… il Bronx. Meno male che l’indomani partiamo per il sud.
18 agosto – Paracas Alle 7 l’auto di Yolanda ci accompagna al terminal della Cruz del Sur, la compagnia di pullman turistici più famosa del Perù. Di fatto questa è gestita come un aeroporto, con tanto di check in e controllo al metal detector. Il viaggio verso Paracas dura circa 3 ore, e si svolge tutto lungo la mitica Panamericana, l’autostrada più lunga del mondo. Ora chi ha avuto la fortuna di apprezzare i film post apocalittici della serie “Mad Max” con Mel Gibson sa perfettamente capire lo scenario desolante che si dipana lungo questo serpente d’asfalto che striscia in mezzo ad un deserto caliginoso punteggiato solo di rottami arrugginiti e di ruderi. Per fortuna la situazione migliora non appena arriviamo a Paracas: come per magia lì la coltre di nubi viene spinta via da una brezza marina ed il sole fa lentamente capolino fino a giungere ad una giornata pienamente serena. Il paesaggio è piacevole: un villaggio di pescatori sorge in una baia al limitare di un affascinante deserto di pietra e sabbia. Alla fermata ci attende il gestore della nostra pensione, la Santa Maria, per portaci al nostro alloggio a bordo di una simpatica “arenera”, il dune buggy locale realizzato con pezzi di fortuna, tubolari saldati ed il motore di un vecchio maggiolone volks wagen. Dopo la sistemazione in albergo ci viene a prendere Perry, il nosto autista-guida che ci accompagna per un piacevole giro nella vicina riserva di Paracas. La prima tappa è il museo della riserva dove, in fondo ad una pista di spessa sabbia tinta di rosso e di nero, possiamo ammirare una bella colonia di fenicotteri rosa e pellicani. Dopo la visita al museo la macchina si immette su una pista di sale (davvero il fondo stradale è salgemma compatto!) per portarci fino alla “cattedrale”, un grandioso arco di roccia che si può osservare dall’alto di una scogliera. Purtroppo il terremoto di ferragosto 2007 ha distrutto metà dei pinnacoli litici del monumento, ma quel che ne rimante resta comunque spettacolare con le onde lunghe del Pacifico che si infrangono contro le rocce zeppe di nidi di uccelli marini, che di continuo si tuffano a pescare tra i frangenti. La vista compete a buon diritto con le scogliere di Etretat in Francia. Un altro mirador poco distante e non meno suggestivo dà sulla scogliera del Diavolo, così chiamata ci spiega Perry per via del tributo in anime pagato dai pescatori locali e per il fatto che la notte si dice succedano strani fenomeni… meglio allontanarsi per tempo allora, ed infatti la nostra macchina torna a sgommare sul sale per portarci su un’altra spiaggia popolata da una colonia di uccelli marini che passano la giornata a scorrazzare avanti e indietro sul bagnasciuga inseguiti dalle onde. Qui passeggiamo per una mezzora godendoci la solitudine, il bel tempo e la natura che ci circonda. L’ultima fermata del nostro giro è la meravigliosa spiaggia rossa di Lagunillas: penso che il pennello di Gaugin non avrebbe saputo rendere colori più saturi e più contrastati di quelli offerti da questo angolo di mondo. Un mare verdazzurro spinge con i suoi frangenti bianchi di spuma la sabbia rosso mattone erosa dalle rocce della baia verso una conca di arenaria giallo ocra. Il cielo blu cobalto e gli uccelli marini completano il quadro, semplicemente perfetto. Qui persino il vento sembra avere un suo colore… Al nostro ritorno in paese ci fermiamo per un pranzo tardivo al ristorante del Santa Maria. Sarà stato la stanchezza del viaggio, sarà stato il vento non proprio caldo, fatto sta che il pesce mi ha messo a Ko per il resto della giornata, impedendomi di nutrirmi in modo consono anche per i giorni seguenti.
19 agosto – islas ballestas La mattina presto ci rechiamo all’imbarcadero: qui una piccola folla aspetta per essere imbarcata sui motoscafi che portano i turisti a fare il giro delle Islas Bellestas. Il servizio è efficiente, e memori di brutte esperienze marinare vissute in altre parti del mondo in circostanze simili, tiriamo un sospiro di sollievo nel vedere che le imbarcazioni sono moderne, pulite ed efficienti, e che tutti i passeggeri sono tenuti ad indossare un giubbetto di salvataggio. Le Ballestas distano circa 30 minuti di navigazione dalla costa, e sono reclamizzate come le “Galapagos del Perù”. Non siamo mai stati alle Galapagos quelle vere, ma sono convinto che ogni luogo di questo mondo debba valere per quello che è, non in confronto a qualcosa di più grande o famoso. In effetti le attrattive qui non mancano di certo: dapprima si passa accanto al misterioso “candelabro”, un glifo inciso nella arenaria di una collina che si affaccia sulla baia, esteso per un centinaio di metri e visibile solo dal mare; ancora oggi nessuno sa chi e perché abbia tracciato questi enormi segni, né quando, né che cosa possano indicare: le ipotesi spaziano da civiltà pre-inca, a pirati del Pacifico che volevano evidenziare un tesoro, a ribelli indipendentisti dell’800. Il viaggio prosegue fino alle Bellestas su un mare calmo come una tavola: le isole sono di fatto degli scogli ricchi di archi naturali e popolati da una quantità impressionante di uccelli marini. Da sempre l’uomo le sfrutta per la raccolta del guano, il più potente fertilizzante naturale mai scoperto. Persino a Moray sull’altipiano a migliaia di chilometri gli Inca avevano realizzato i loro terrazzamenti stratificando la terra fertile col guano di questi luoghi. Il tour prevede un giro attorno alle isole di un’ora circa, durante il quale si osservano facilmente diverse specie di uccelli, i pigri leoni marini, i buffi pinguini di Humboldt e se si ha fortuna anche delfini. La situazione ha caratteristiche piuttosto turistiche, come sempre avviene in queste circostanze, e tutti armeggiano con le macchine fotografiche cercando di catturare questi vanitosi animali nelle pose più pittoresche. Al nostro ritorno a Paracas facciamo i bagagli perché ripartiamo nella tarda mattinata per Ica. Lungo la strada dopo circa un’ora di tragitto ci fermiamo presso una hacienda che produce Pisco, il liquore tipico del Perù. Scopriamo che il pisco altri non è che un vino molto giovane distillato subito dopo la fermentazione, per dare un liquore dal gusto forte, ma caratteristico e morbido. La visita è interessante e si conclude, come c’era da aspettarsi, con un giro di assaggi e qualche acquisto. Giunti a Ica visitiamo il museo della civiltà Paracas e Nazca. Al di fuori del complesso è realizzato anche un campo su cui sono state ricreate in piccolo le famose linee di Nazca, osservabili dall’alto di una piattaforma. Per il resto il museo è molto interessante, forse il meglio realizzato di quelli visti in Perù. Colpiscono in particolare i meravigliosi tessuti Paracas, realizzati più di mille anni fa ed ancora perfettamente conservati (quando non sono stati rubati! Infatti il museo conta decine di questi preziosissimi tessuti assenti per furto). Altra sezione interessante è quella delle mummie, con una serie di impressionanti mostruosità. Dal museo in pochi minuti si giunge all’oasi di Huacachina. Sembra incredibile: appena fuori dalla città di Ica la strada fa una curva e ci si ritrova nel bel mezzo del Sahara. La strada infatti termina subito in un’oasi che sembra disegnata da un bambino: c’è la pozza d’acqua in mezzo, ci sono i palmizi, e ci sono le dune di sabbia finissima tutt’intorno, alte centinaia di metri. Entriamo nel nostro alloggio all’hotel Huacachinero, struttura semplice ma piacevole disposta intorno ad una piscina sabbiosa. Il posto ispira subito un’idea di totale relax: la sensazione di fine del viaggio, di riposo del guerriero è dominante. All’oasi le attività possibili sono diverse, e tutt’altro che culturali. Si può fare il giro della pozza in pedalò, affittare una tavola da sandboard e arrampicarsi sulla prima duna per scendere a rotta di collo; oppure iscriversi ad un tour del deserto con le areneras che sfrecciano e slittano su e giù per le dune tutt’intorno; oppure si può semplicemente perdersi nel tramonto sul deserto, come abbiamo fatto noi. Novizi del deserto abbiamo scoperto quanto sia difficile salire su una duna di sabbia, ed una volta giunti in cima abbiamo realizzato subito che non è stata una buona idea perché un vento impetuoso rendeva possibile persino il respirare da tanta era la sabbia che sollevava. Dopo qualche minuto, pieni di sabbia in tutte le pieghe, abbiamo ceduto e ci siamo spostati in una posizione più riparata ma non meno spettacolare, a vedere il sole che calava tra le dune all’orizzonte.
20 agosto – Huacachina – Lima La mattina a Huacachina scorre nel dolce far niente. Si legge, si scrive, ci si rilassa e si mangiano coppe giganti di macedonia. Il pomeriggio prendiamo un minitaxi per farci portare alla stazione della Cruz del Sur di Ica. Qui riprendiamo l’autobus per Lima. Il viaggio è più lungo dell’andata, 5 ore, e anche più sofferente. Infatti il nostro autobus doveva soffrire di qualche difetto nel sistema di ventilazione, per cui l’aria prima circolava nel gabinetto e poi veniva immessa in cabina. Insomma ci siamo fatti tutto il viaggio come se fossimo chiusi in una latrina pubblica. Una volta giunti a Lima ci siamo fatti portare in taxi da Yolanda che come al solito poco calorosamente ci ha accolti. La sera decidiamo di esplorare la parte più chic della città e con un taxi ci dirigiamo a Miraflores. Senz’altro meglio del resto della città, tuttavia resta un posto meno che piacevole. Dopo aver gironzolato un poco per le vie decidiamo di fermarci in un ristorante argentino a gustare un ottimo asado.
21 agosto Lima – il Ritorno Ultimo giorno, poi anche questa avventura resterà solo un ricordo. La mattina la dedichiamo ad un giro per il centro cittadino di Lima. Può sembrare strano per una capitale di uno stato, ma persino il centro cittadino sembra in totale abbandono, se si esclude la Plaza de Armas e l’immediato circondario. La Plaza è bella anche se scopriamo presto che è tutta rifatta poiché i terremoti nei diversi secoli l’hanno distrutta più volte. Ci dirigiamo come prima cosa al convento san Francisco, un bel complesso monastico che ha mantenuto una integrità ed un sapore antico veramente notevoli. La visita è guidata, forse un po’ frettolosa, ma piacevole. Si visitano anche le catacombe in cui riposano tuttora i resti di numerosi cristiani, curiosamente suddivisi per parti anatomiche nelle diverse nicchie: tutti i teschi, tutte le tibie, tutti i femori, e così via… Usciti dal monasterio ci fermiamo a guardare il cambio della guardia presidenziale. Lo spettacolo richiama una piccola folla, ma è di una noia mortale, e per certi tratti persino grottesco, quando si colgono certi particolari: come il militare in alta uniforme che anziché stare ritto e impalato come imporrebbe il protocollo dà il becchime ai piccioni levandoselo di nascosto dalla tasca; oppure la banda che accompagna la cerimonia che si lancia a suonare grandi hit come la sigla di Star Wars o del Gladiatore, mentre le guardie marciano col passo dell’oca… Ad un certo punto decidiamo che non possiamo aspettare tutto il pomeriggio che le guardie si sistemino, e abbandoniamo la cerimonia per fare una passeggiata nelle vie pedonali. Andiamo a pranzare in un curioso ristorante gestito da delle suore francesi, l’Eau Vive, situato in un meraviglioso palazzo a poca distanza dalla plaza. Dopo pranzo ci concediamo un giro nella pedonale Jiron de la Union fino a Plaza San Martin, da cui prendiamo un taxi per riportarci a casa Yolanda. Qui recuperiamo i nostri bagagli e con l’auto sgangherata del fratello di Yolanda ci rechiamo all’aeroporto per salutare definitivamente l’impero delle Ande.
E’ stato un viaggio di quelli da vivere intensamente: il Perù è un paese ricchissimo da molti punti di vista e in queste due settimane non siamo riusciti che ad assaggiarne un pezzettino. Quello che abbiamo visto, sentito, odorato, gustato, ci ha lasciato il dolce sapore del ricordo e la consapevolezza che non finirà qui, che prima o poi torneremo, che le Ande sono diventate un poco anche casa nostra.