Da Quito a Cusco: in fuoristrada lungo il Cammino
25 luglio 2008
Il grosso aereo plana leggero dopo la lunga trasvolata atlantica. Venezuela, Colombia ed ecco Quito, capitale dell’Ecuador: inizia il mio nuovo viaggio, l’avventura che mi condurrà, lungo l’antico Cammino Reale, fino a Cusco, la città santa del Tahuantinsuyo, l’Impero Inca.
Ho programmato con entusiasmo l’itinerario,...
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25 luglio 2008 Il grosso aereo plana leggero dopo la lunga trasvolata atlantica. Venezuela, Colombia ed ecco Quito, capitale dell’Ecuador: inizia il mio nuovo viaggio, l’avventura che mi condurrà, lungo l’antico Cammino Reale, fino a Cusco, la città santa del Tahuantinsuyo, l’Impero Inca. Ho programmato con entusiasmo l’itinerario, studiando le località che andrò a visitare, ma ciò che più eccita la mia fantasia è la sensazione, quasi una certezza, che durante i prossimi trenta giorni scoprirò luoghi sconosciuti al turismo e vivrò emozioni delle quali ancora non conosco l’intensità. Il piano di viaggio è ambizioso. Percorrerò la spina dorsale dell’Ecuador seguendo la cordigliera andina fino a Cuenca, quindi mi dirigerò verso la costa del Pacifico dove entrerò in Perù, ormai la mia seconda patria. Dalla città di Tumbes, dove Francisco Pizarro sbarcò nel 1531 per invadere l’impero inca, farò rotta su Chiclayo, località di notevole interesse storico ed archeologico, quindi proseguirò alla volta dell’Alta Amazzonia e di Chachapoyas, capitale dell’antico ed omonimo regno, antagonista degli inca. Risalirò poi ancora una volta le Ande per giungere a Cajamarca dove il re inca Atahualpa fu assassinato dagli spagnoli e di nuovo sulla costa con la bella Trujillo. Poi l’alta valle del Callejón de Huaylas e la Cordigliera Blanca e giù a Caral, fino ad oggi la più antica città delle Americhe (2.500 a.C.) –ma sarà ancora tale? Vedremo.-, Lima, Ayacucho ed infine Cusco. Quando ideai questo viaggio, il problema più difficile da risolvere fu il mezzo di trasporto: troppo breve il periodo a mia disposizione per utilizzare bus di linea, troppo oneroso per le mie finanze noleggiare un’auto. Come fare? La soluzione giunse durante una cena, quando alcuni amici, che già avevano viaggiato con me al sud del Perù, si entusiasmarono all’idea, proponendosi come compagni d’avventura: viaggeremo in fuoristrada dividendo le spese. Veicoli a doppia trazione sono indispensabili per spostarsi lungo le strade impervie, spesso poco più che sentieri, che percorreremo, lontani dai luoghi turistici, nel mezzo di un mondo a noi ancora ignoto. Saranno oltre quattromila chilometri di strade troppo spesso sconnesse. Giungiamo a Quito che è ancora pomeriggio; ci attende una città ordinata, patrimonio dell’Unesco, fondata dagli spagnoli nel 1533, sulle rovine di quella che fu la seconda capitale dell’impero inca, distrutta da Rumiñawi, generale di Atahualpa, per sottrarla alla cupidigia degli invasori. Al tramonto incaico, Quito fu dimora di uno dei figli dell’ultimo grande sovrano Huayna Capac, lo stesso sfortunato Atahualpa che disputò la corona al fratellastro Huáscar, signore di Cusco. Sconfitto e giustiziato il parente, Atahualpa non ebbe il tempo di governare sull’immenso territorio, perché catturato con l’inganno e a sua volta ucciso dalle milizie di Pizarro. Delle antiche culture che vi prosperarono, quitus, caras e inca, non rimane traccia e Quito si presenta come una piacevole città coloniale, in tutto spagnola. La zona più interessante è certo la città vecchia. E’ un piacere girare senza meta apparente lungo le strette calli ricche di palazzi dai balconi in stile moresco ed immettersi nelle numerose piazze adornate di giardini e fontane. Piazza Grande o Plaza de la Independencia è allegra e colorata di fiori e persone in abiti tradizionali. Qui si erge la cattedrale ed il piccolo, eppur piacevole Palazzo di Governo. Da bravi turisti, armati di macchine fotografiche e telecamere, ci avviciniamo alle guardie presidenziali che, senza troppo badare al protocollo, si lasciano ritrarre regalandoci un sorriso. Allontanandoci dalla piazza principale, imbocchiamo stradine secondarie e quasi ci perdiamo, attratti dal suono di una salsa che pare uscire da nascosti condotti sotterranei. Seguiamo le note ed entriamo nell’atrio di un palazzo dove alcune signore chiacchierano serene bevendo aranciata. Sorridono nel vedere il nostro gruppo di intrusi stranieri e ci indicano una ripida scala che scende verso le cantine. E’ da lì che sale la musica; scendiamo con titubanza lungo lo stretto pertugio che si apre in una vasta sala, una specie di palestra, dove molti giovani ballano, bevono, ridono. Per nulla impressionati dalla nostra invadenza, i ragazzi ci invitano a danzare con loro. Trascorriamo una buona ora in compagnia, condividendo alcune bottiglie di birra ghiacciata, poi ce ne andiamo, grati ai giovanotti per averci fatti sentire davvero giunti in America Latina. Ci troviamo in una splendida valle, ad oltre 2800 metri di altitudine, circondata da picchi vulcanici. I nostri piedi cavalcano la linea dell’Equatore, il clima è mite, la gente cordiale; Quito sarebbe un buon posto per trascorrere alcuni giorni spensierati, ma la nostra avventura deve iniziare: domani ci attende l’inquietante Valle dei Vulcani. 27 luglio 2008 La sveglia che suona alle sei del mattino mi trova già in piedi. Sette ore di differenza oraria con l’Italia lasciano il segno, infatti ho trascorso la notte quasi insonne, tuttavia l’aspettativa per quanto visiteremo oggi è tale che la stanchezza è presto dimenticata. Viaggiamo allegri lungo la Panamericana. La strada è bene asfaltata solo per alcuni chilometri; abbandonata la periferia di Quito, le buche si susseguono impietose, tanto che preferiamo lasciare la via principale per imboccare una rotta alternativa. Il nuovo percorso è sterrato, ma almeno evitiamo i continui tonfi che scuotono mandibole e cervelli. Oltrepassiamo casolari, fattorie abitate da contadini, asini e cavalli, verdi distese coltivate, torrenti e pozze dove tori e vacche si abbeverano placidi e saliamo, con lentezza ma saliamo, verso il cielo che da azzurro si fa grigio, sempre più in alto, fino ai 4000 metri, alla porta d’entrata del Parco Cotopaxi. La scelta di cambiare strada si è rivelata felice, infatti lungo tutto il tragitto non incontriamo alcun turista e solo quando ci avviciniamo alle falde del vulcano incrociamo qualche gruppo di escursionisti, in prevalenza ecuatoriani. Il Cotopaxi, però, si comporta da prima donna e al momento non si degna di apparire, preferendo nascondersi fra le nuvole che si fanno sempre più fitte e avvolgono anche noi. La montagna è la seconda vetta dell’Ecuador e, con i suoi 5897 metri, è il vulcano attivo più alto della terra. I fuoristrada s’inerpicano arrancando, conquistano metri aggrappandosi alle reni del monte, sobbalzano e ansimano, ma alla fine raggiungono la meta. Quota 4500 metri: scendiamo cauti dai mezzi, timorosi d’essere colti dal soroche, il mal di montagna. Non riusciamo ancora a scorgere il cratere, ma sappiamo che è lì, poco oltre le dita delle nostre mani protese ad indicare le nuvole. Tentiamo di avviarci a piedi verso l’ultimo rifugio, situato a 4800 metri di altitudine, ma l’impresa si rivela ben presto troppo difficile per noi che arrampicatori non siamo. Pur coperti con maglioni e giacche a vento, una fitta pioggia di fine ghiaccio misto a cenere ci investe, punge le parti scoperte del corpo, fa male. Rinunciamo. Forse impietosito, all’improvviso il Cotopaxi soffia sulle nuvole e per qualche minuto si pavoneggia delizioso davanti ai nostri occhi. Percorriamo a ritroso il cammino, portandoci alla meno impegnativa quota di 3830 metri della Laguna Limpiopungo, un piacevole bacino ricco di fiori; il sole fa capolino e ci concede una piacevole passeggiata lungo le sponde del lago. Torniamo a sobbalzare. I fuoristrada ora scendono sicuri fino alla Panamericana. Viaggiamo verso sud ed incontriamo il villaggio di Urbina, dove una strada sconnessa ci accompagna all’antica stazione dei treni, ora adibita a spartano agriturismo. Ci rifocilliamo con il canelazo, una bollente infusione di cannella corretta con acquavite e ammiriamo i due artigiani che producono piccole sculture con la tagua, una noce dura e bianca chiamata anche avorio vegetale. Il clima non aiuta, le nuvole gonfie si abbassano, impedendoci di fotografare il Chimborazo, vulcano spento alto ben 6310 metri, la maggior vetta dell’Ecuador. Ma è davvero spento? Pur se non vediamo la corona vulcanica che ci circonda, ne avvertiamo chiaramente la presenza: ci coglie impreparati la fitta pioggia di cenere che rovina senza rimedio la telecamera di uno di noi. Solo una volta giunti a Riobamba, la Sultana delle Ande, riusciamo a scorgere il Chimborazo e non solo… La cittadina è tranquilla; siamo gli unici turisti e questo certo non dispiace. Riobamba è il punto di partenza del famoso tratto ferroviario detto La Nariz del diablo (il naso del diavolo), ferrovia che un tempo collegava Quito a Guayaquil sulla costa, ma che ora termina a Sibambe per il piacere dei turisti che scoprono l’emozione di viaggiare in treno a capofitto lungo una ripida discesa, attraverso profonde gole, ponti e montagne, costeggiando pericolosi precipizi. La piazza principale di Riobamba è vuota: solo noi e qualche timido uccello. Un lato del piazzale è occupato dalla facciata della vecchia cattedrale. Sì, della costruzione originale rimane solo il frontale, tutto il resto andò distrutto da terremoti e vulcani. Brivido! Mentre leggiamo le inquietanti notizie sulla sorte della chiesa, percepiamo un soffio, un alito sulfureo…e alziamo lo sguardo. Sullo sfondo, al lato destro della cattedrale, si scorge Mama Tungurahua. Dieci minuti prima, al nostro arrivo in piazza, non l’avevamo notato ed è forse proprio per farci sentire la sua presenza che all’improvviso dal cratere del vulcano si alza un’imponente nube di fumo che presto oscura il cielo e rilascia la sua cenere sopra alle nostre teste, impregnando le narici di zolfo. Lo spettacolo è una forte emozione, un’immagine splendida che immortaliamo, ma che pure intimorisce. Trascorriamo una notte piacevole in un bell’albergo immerso nel verde, ma non possiamo dimenticare i vulcani che ci stanno a guardare. 28 luglio 2008 Questa è una data importante per il Perù. Il 28 luglio 1821, infatti, il generale argentino José de San Martín proclamò l’indipendenza del paese andino, anche se, in effetti, la guerra contro l’esercito spagnolo proseguì per alcuni anni. Tuttavia, ci troviamo ancora in Ecuador e in Perù vi arriveremo solo fra un paio di giorni. Lasciamo Riobamba spingendoci a sud, sempre seguendo la cordigliera delle Ande. Dopo una breve visita alla cappella di La Balbanera, che sorge sul sito della più antica chiesa dell’Ecuador (1534 d.C.), ci attende Ingapirca, la maggiore testimonianza inca del paese. Non è certo la pioggerella che prende a cadere ad impedirci di ammirare le rovine di questa bella città, luogo sacro dell’etnia cañari prima e inca poi. Oggi, il sito archeologico è protetto dallo stato, ma purtroppo nel passato non fu sempre così e per tale ragione fu depredato sia delle sue grandi pietre perfettamente squadrate, sia di oggetti e arredi funerari un tempo presenti nelle tombe. Ciò che resta è tuttavia interessante. Si possono ancora ben riconoscere varie strutture, la più importante delle quali è il cosiddetto Tempio del Sole, edificio ellittico dai muri in pietra, tipici dell’architettura inca. Giusto a causa del disguido cui Ingapirca fu abbandonata, ancor oggi appare difficile determinare la funzione che ebbe, anche se con buone probabilità si trattò di un centro cerimoniale e di un tambo, cioè una località di sosta, riposo e rifornimento per gli eserciti inca lungo la strada che collegava le due più importanti città di questa parte dell’impero: Quito e Cuenca. In questo luogo, come in molti altri dell’impero inca, erano praticati i sacrifici umani. Wendy, una simpatica ragazza ecuadoriana che ci accompagna attraverso le rovine di Ingapirca, ci spiega la funzione di tale cruenta pratica. Non dobbiamo stupirci, né scandalizzarci oltre misura, avverte, infatti il sacrificio umano per la religione inca e preinca non era fine a se stesso, bensì in relazione al benessere del popolo. I giovani, fanciulli e fanciulle, scelti per essere immolati erano i messaggeri destinati a raggiungere la dimora del Felino Dorato o Choquechinchay, per recare alla divinità la supplica della popolazione con la richiesta di prosperità e benessere. I messaggeri, consci ed onorati della propria missione, erano preparati all’evento e per lunghi mesi addestrati al sacro compito. Prima del sacrificio, erano drogati con l’essenza del Sanpedro, un succo mescalinico racchiuso nei carnosi arti del cactus omonimo. Sì, la spiegazione è plausibile, ma ugualmente non riusciamo a condividere e rabbrividiamo. Ci guardiamo negli occhi l’un l’altro e pensiamo. Il sacrificio umano è una pratica da aborrire, ma possiamo noi giudicare e condannare? Non sono forse sacrifici umani quelli che la nostra civiltà quotidianamente compie con guerre, massacri, terrorismo, genocidi? Gli incas miravano al benessere di tutta la popolazione, ad allontanare carestie ed epidemie. Il nostro mondo mira al dio denaro. A Cuenca, dove arriviamo nel pomeriggio, finalmente ci accoglie il sole. Situata a 2500 metri di altitudine e attraversata da tre fiumi, il più importante dei quali è il Rio Tomebamba, la città fu fondata dal grande sovrano inca Tupac Yupanqui, figlio di Pachacutec e qui nacque Huayna Capac, padre di Atahualpa e Huáscar, i due fratellastri che in seguito avrebbero dato vita alla guerra civile per la successione al trono e morte all’impero, favorendo l’invasione spagnola. Tumibamba è l’antico nome della città inca, pur se di quella civiltà non rimangono vestigia. Approfittiamo del tempo che ancora manca all’ora di cena per concederci un aperitivo e chiacchierare con Wendy che ci accompagnerà fino al confine col Perù, dopodomani. E Wendy racconta. La vita in Ecuador è molto difficile oggi per la grande maggioranza delle persone. A dire il vero, facile non è stata mai, però dopo l’introduzione del dollaro statunitense come moneta ufficiale nel 2000, tutto si è fatto molto più complicato: nel giro di poche settimane i prezzi aumentarono a sproposito, mentre gli stipendi rimanevano uguali o addirittura diminuivano. In breve tempo, la gente povera si ridusse alla miseria e il ceto medio alla povertà. Nonostante le promesse dei governanti succedutisi, la crisi non si è arrestata ed oggi continua ad accanirsi sulla popolazione. Rafael Correa, presidente dell’Ecuador dal novembre 2006, ha pure deluso ed ora è contestato da più parti. Le scuole, pubbliche e private, sono a pagamento e pensare di riuscire ad avere una buona istruzione è quasi utopia per la maggior parte della popolazione. Wendy narra parlando sottovoce, quasi vergognandosi di aver avuto l’opportunità di frequentare l’università che ora le permette di lavorare nel turismo, un settore che ancora un piatto di riso lo concede. Anche questa è America Latina. 29 luglio 2008 Cuenca, con i suoi oltre quattrocentomila abitanti, è la terza città dell’Ecuador, dopo Guayaquil e Quito, ma senza dubbio è la più graziosa ed il suo appellativo “Perla coloniale del sud” certo le si addice. Le anguste vie di ciottoli, gli edifici dai balconi andalusi e le piazze armoniose rendono piacevoli le passeggiate, nonostante il centro storico sia invaso da centinaia di auto che stonano con l’aspetto quieto della città. La nostra avventura inizierà solo in Perù, quando abbandoneremo le strade principali per inoltrarci in lande remote, ma non per questo manchiamo di apprezzare ciò che l’Ecuador ci regala e non approfittare di un angolo di mondo ricco di colori e di eccelsi artigiani sarebbe sciocco. La bella giornata di sole che ci accoglie questa mattina invita a perdersi nel pittoresco quartiere centrale, fra Parque Calderón, la piazza principale e le ripide scalinate di pietra che degradano fino alle verdi sponde del Rio Tomebamba, oltre il quale la strada sale al colle di Turi. La piccola chiesa omonima è in fase di restauro, ma è bello spaziare con lo sguardo su tutta Cuenca dal belvedere antistante e non può mancare la visita al laboratorio di ceramica più famoso della città, a pochi passi di distanza. Oggi è tempo di turismo classico e vogliamo dedicare alcune ore alla scoperta di una delle più rinomate fabbriche di cappelli Panama, quella di don Homero Ortega. Bé, questa proprio non la sapevo: i cappelli panama, i Borsalino per intenderci, hanno ben poco a che vedere con la città centroamericana dell’omonimo canale, infatti, la produzione di questi copricapo è ecuadoriana. I migliori panama dell’Ecuador, e di conseguenza del mondo intero, sono confezionati a Cuenca. La fibra proviene dalla cittadina di Montecristi, nei pressi della costa centrale, una zona umida dove trova il suo habitat la paja toquilla (paglia toquilla), un tipo di palma il cui nome scientifico è Carludovica palmata. A Montecristi, le piante sono raccolte in fasci che vengono pestati, poi aperti per estrarre le foglie selezionate con cura. Tutte le operazioni sono eseguite a mano. Le foglie scelte sono bollite per una ventina di minuti e poi appese ad asciugare per circa tre giorni, durante i quali si seccano attorcigliandosi a formare filamenti che in seguito saranno intrecciati. Il prodotto passa quindi alle fabbriche di Cuenca dove abili artigiani confezionano i cappelli di svariate qualità, dallo standard al superfino. Quest’ultimo è costituito da una trama talmente fitta che la pioggia non riesce a penetrare e può essere arrotolato tanto da passare attraverso un anello, senza rovinarne la piega. Pranziamo in allegria nel patio coloniale dell’albergo, con pane, formaggio, vino e caffè, quindi proseguiamo la visita della città. Camminando lungo le strade più discoste dal centro, incontriamo la gente dei barrios, i quartieri poveri che non conoscono il turismo. Scambiare un sorriso, una parola con i bimbi e le loro mamme infonde un senso di dolcezza e tenerezza, ma anche di tristezza disarmante. Non voglio far solo il turista, non fa parte del mio essere… sì, ma che fare per dare una mano a queste persone che spesso vivono nell’inedia? Vedo fanciulli rovistare fra i rifiuti alla ricerca di cibo, mamme che sulla soglia delle povere case fatiscenti pettinano i lunghi capelli ancora bagnati delle figliolette, un bimbo down che ci saluta con la manina… quanto si potrebbe fare con poco per aiutare! La frenesia del “fare” mi spinge a promettere a me stesso di riproporre i progetti dell’associazione Magie delle Ande Onlus anche qui, oltre che in Perù. Ma questo si vedrà al mio ritorno. E del progetto Huaro per bimbi disabili in Perù avrò occasione di parlare nei futuri articoli, quando questo splendido viaggio giungerà a destinazione. Non può mancare la visita al piccolo, ma prezioso Museo de los Costumbres Aborigenos, un’interessante raccolta di reperti appartenenti alle varie civiltà succedutesi nei secoli, a partire da cinquecento anni avanti Cristo. L’ultima giornata ecuadoriana si conclude con la cena in un ristorante tipico. Quando Wendy, la nostra guida, ce lo propone, pensiamo ad un locale caratteristico fatto a misura di turista, ma ci sbagliamo. Nel patio antistante la trattoria, un grande spiedo ospita un intero maiale che rosola lento e, di fianco, alcune enormi padelle colme d’olio bollente friggono grossi pezzi di carne ovina e suina. Ma non è tutto. A parte, sempre all’esterno del locale, un forno cuoce alcuni strani roditori, completi di testa, zampe e coda. Si tratta del cuy, popolare piatto indigeno che troveremo anche in Perù. Il cuy è quello che in Italia chiamiamo porcellino d’India, un tipo di cavia. All’interno, il ristorante è più che spartano: una decina di tavoli con le tovaglie di plastica, alcune sedie barcollanti e qualche avventore locale intento a sorbire litri di birra. Assaggiamo tutte le pietanze, alcune davvero buone, ma solo pochi di noi si azzardano a provare il cuy. Da domani anche Cuenca sarà un ricordo. 30 luglio Le sei del mattino. I fuoristrada rombano, mentre scaldano i motori. Per la prima volta durante il viaggio, oggi abbandoneremo le Ande e scenderemo verso l’Oceano Pacifico per entrare in Perù. La strada che percorriamo è la famosa Panamericana, la via che congiunge Fairbanks, in Alaska, all’Argentina, attraversando tutto il continente americano per una lunghezza di 26.000 chilometri. Una rete viaria prestigiosa, quindi, ma il tratto ecuadoriano è in uno stato pietoso. Certo, la strada è tutta asfaltata, ma sarebbe molto meglio che non lo fosse. I buchi che si aprono su entrambe le carreggiate sono infiniti e, nonostante la doppia trazione delle auto, siamo costretti a procedere in modo molto lento, con continue sterzate e innumerevoli frenate per non debilitare ancor più i nostri fondoschiena. Il paesaggio, in compenso, è un incanto. Infiliamo di seguito torrenti e canali, costeggiando piantagioni di cacao e banane, sempre più giù, fino alla costa dove giungiamo che è già pomeriggio. Il posto di frontiera a Zarumilla è un caos di auto, carretti, mototaxi, camion e pedoni, una torma di persone e cose che blocca il ponte fra Ecuador e Perù. Con non poca difficoltà, destreggiandoci fra uomini, animali e mercanzie, sbrighiamo le formalità di rito e, a passo di lumaca (letteralmente!), lasciamo la nazione che ci ha ospitati durante i primi giorni di viaggio per entrare nel paese degli incas. Solo una ventina di chilometri dividono la frontiera da Tumbes, la prima città peruviana, ma il sole è ancora alto nel cielo, per cui approfittiamo per visitare una località dimenticata dal turismo, ma di grande interesse naturalistico, il Bosco di Mangrovie, nei pressi di Puerto Pizarro. Già, Puerto Pizarro. A poca distanza da questo quieto villaggio di pescatori, che si apre sulle placide acque di una laguna, sbarcò, durante il suo terzo viaggio in Perù, Francisco Pizarro. Figlio bastardo di un nobile provinciale, il piccolo Francisco crebbe pascolando i maiali di uno zio materno. Privo di istruzione e addirittura analfabeta, era tuttavia ricco di ambizione e coraggio. Le sue peregrinazioni alla ricerca di gloria e denaro lo portarono dapprima in Italia, poi all’odierna Santo Domingo (l’isola di Española) ed infine a Panamà dove lo raggiunsero notizie incerte su di un fantastico regno dorato, l’Eldorado. Indebitatosi fino all’osso, assieme al socio Diego de Almagro, rincorse il sogno della giovinezza, imbarcandosi con pochi temerari alla volta delle inesplorate rive del sud Pacifico. Dopo i primi insuccessi, giunse infine alle coste dell’odierno Perù, dove sorgeva una ricca città con i templi ricoperti d’oro: Tumbes. Non riuscì, tuttavia, quella volta (correva l’anno 1526) ad approfittare delle enormi ricchezze e fu costretto a far ritorno a Panamà e successivamente in Spagna al fine di ottenere il permesso reale per la scoperta di nuovi mondi. Finalmente, nel 1531, riuscì ancora una volta a sbarcare a Tumbes. Qui, però, trovò una situazione ben diversa dalla precedente: la città era in rovina, saccheggiata dalle orde rivali provenienti dall’isola di Punà, sita nel Golfo di Guayaquil. Era, infatti, in corso una sanguinosa guerra civile fra le popolazioni soggette agli incas. Gli abitanti di Punà, fedeli al re di Quito Atawallpa, avevano distrutto Tumbes, seguace di Huáscar. Entrambi i contendenti erano figli dell’ultimo grande sovrano inca, Huayna Cápac, da poco deceduto colpito dal vaiolo, ma di madri diverse. L’astuto Pizarro seppe approfittare dell’occasione, alleandosi contemporaneamente con entrambi i rivali e dando inizio alla selvaggia invasione del Perù. A testimonianza dello sbarco spagnolo rimane solo una croce, ma preferiamo dimenticare un momento quanto avvenne quasi cinquecento anni addietro, per immergerci nella spettacolare vegetazione che offre la laguna. Affittiamo la prima barca a disposizione e senza indugio navighiamo nelle basse acque del verde bacino. L’intricato groviglio di rami e radici che affondano nell’acqua salata ospita una fauna ricca e presuntuosa che, per nulla intimorita dalla nostra presenza, si pavoneggia a pochi metri di distanza. Le acque immobili della laguna riflettono la luce del sole e il verde della vegetazione, regalando un contrasto delicato che immortaliamo. Aggrappati ai rami più alti delle mangrovie, numerosi iguana sonnecchiano scaldati dai raggi di Inti, il dio inca, pellicani chiassosi avvicinano l’imbarcazione chiedendo cibo, ma lo spettacolo più colorato è dato dalle migliaia di fregate. Questi uccelli volano sulle nostre teste, si rincorrono, gridano allegri, quindi planano sugli alberi e, i maschi, gonfiano gozzo e petto permettendoci di ammirare lo splendido busto scarlatto. Navighiamo nel bacino fino alla foce del Rio Tumbes; il clima è piacevole, le acque tiepide, ogni cosa appare deliziosa, pace dell’anima, ma ci guardiamo bene dal risalire il fiume, perché questo è abitato ancora oggi, come ai tempi di Pizarro, da terribili coccodrilli, animali diversi, pur se della medesima famiglia, dai caimani amazzonici. Giungiamo a Tumbes a sera. La città non è bella, ma simpatica è la squisita cena a base di molluschi e crostacei che ci attende. 31 luglio Appartenuta all’Ecuador fino alla conclusione della guerra per i confini del 1941, Tumbes è città di frontiera con alcuni ovvii vantaggi, ma pure con i suoi problemi. Qui si affollano commercianti, contrabbandieri e militari. Ecuador e Perù sono nazioni amiche, ora, ma lungo l’arco della loro storia sono state frequenti le dispute territoriali, sfociate alcune volte in brevi, quanto dolorose guerre. L’ultima non è poi tanto lontana nel tempo. Risale al gennaio 1995 per una questione di confini e di petrolio in Amazzonia, ripercussione del precedente conflitto avvenuto nel 1981, nella medesima zona, la Cordigliera del Condor, in selva amazzonica. La Panamericana che conduce a sud, costeggiando l’oceano, è in ottimo stato; si viaggia veloci fra dune desertiche e pozzi di petrolio, di tanto in tanto attraversando villaggi di mare, in questo periodo abitati solo dalla popolazione locale. La nostra prossima meta è la città di Chiclayo, ma la giornata di sole e il luccichio delle onde in lontananza sono un invito troppo allettante. Abbandoniamo la via principale e lungo una strada sterrata aggiriamo pompe e montagne di sabbia, scendendo verso una piccola borgata che si scorge laggiù, bagnata dal Pacifico. A Cabo Blanco termina il percorso. Si tratta di un villaggio di pescatori: poche decine di basse abitazioni con grovigli di reti da pesca al posto delle fioriere. Oltre la soglia delle case, ad appena quattro passi di distanza, il piccolo porto brulica di barche, pesci e pellicani. Cabo Blanco non è una località turistica, esiste solo una pensione, spartana ma pulita e una trattoria familiare. Eppure il posto è splendido, vi regna la tranquillità e il profumo di salsedine è acuto, per nulla inquinato, come da altre parti, dai gas di scarico: i nostri fuoristrada, imbarcazioni a parte, sono gli unici mezzi a motore in questa natura incontaminata… anche se in lontananza, a poche miglia dalla costa, si scorge una piattaforma petrolifera. Corriamo liberi sul bagnasciuga, godendo nel calpestare la sabbia vergine; le uniche impronte sono le nostre, quelle degli uccelli e le scie lievi lasciate da granchi e molluschi. Avvicinandoci al porticciolo, l’incontro che facciamo è inaspettato, quanto interessante. Un anziano signore procede adagio tenendo fra le mani un enorme mero, un tipo di cernia molto prelibato. Due chiacchiere, un sorriso e l’accordo è presto fatto. L’uomo è il titolare della trattoria che si affaccia sulla spiaggia ancora invasa dalle nostre orme. Pazienza se arriveremo tardi a Chiclayo, non riusciamo a rinunciare e in un batter d’occhio ci ritroviamo nella veranda del ristorante ad attendere il pranzo che si rivelerà squisito. Mentre la moglie prepara il pesce, il signore ci intrattiene mostrandoci antiche foto della sua trattoria e scopriamo che uno dei suoi passati avventori fu nientemeno che Ernest Hemingway. L’autore de “Il vecchio e il mare” era solito soggiornare a Cabo Blanco, nelle cui acque si dedicava alla pesca del marlin, prima di trasferirsi a Cuba. Ma il villaggio è stato reso famoso anche da un film, “Cabo Blanco”, appunto, del 1980, con Dominique Sanda e Charles Bronson. Chi avrebbe mai pensato che una borgata tanto piccola e dimenticata racchiudesse simili peculiarità? Il nostro interesse per i ricordi è ora distratto da profumi deliziosi. La tavola è presto colma di portate invitanti. Assaggiamo il cebiche, pesce crudo –la nostra cernia- marinato nel limone, con cipolla e peperoncino, pesce ai ferri e ottimi gamberi, dolci e croccanti. Abbandoniamo la costa volgendo la prua delle auto verso l’interno, superiamo la città di Piura, dove visse per qualche tempo lo scrittore Mario Vargas Llosa che qui ambientò il romanzo “La casa verde”, visitiamo il mercato artigianale di Catacaos, che non entusiasma, e imbocchiamo il deserto di Sechura. Centocinquanta chilometri e due sole curve. Il panorama affascina, l’interminabile nastro d’asfalto taglia deciso le basse dune di sabbia. Il deserto di Sechura non è del tutto arido, infatti, qua e là si scorgono forme vegetali che a forza si sono ritagliate uno spazio nel terreno secco e si distinguono alcuni carrubi dalle forme bizzarre. Piegate dai venti che periodicamente spazzano la pianura, le piante sono cresciute lungo un asse obliquo e paiono quasi antichi frati cappuccini raccolti in preghiera. Di tanto in tanto, circa ogni sette anni, il Fenomeno del Niño imperversa in queste lande, scatenando tempeste improvvise che inondano le sabbie. Alcuni anni fa, il Fenomeno scoppiò con tanta violenza da formare nel deserto un grande lago, sulle sponde del quale crebbe in breve tempo una rigogliosa vegetazione. La popolazione di Piura, incredula per tanta fortuna, non perse tempo e presto il lago divenne un’attrazione turistica. Come d’incanto, nacquero chioschi e improvvisati ristoranti, fu allestito un molo, si costruirono barche, crebbero balneari. Pareva una fortuna piovuta dal cielo per donare lavoro e benessere, ma dopo pochi mesi l’impietoso deserto ebbe la meglio, prosciugando il bacino e ripristinando il nulla. Scende la notte, buio assoluto, ma ecco che l’orizzonte s’illumina di mille fiaccole. Il deserto è finito, siamo a Chiclayo. 1 agosto Chiclayo Oggi non avremo lunghi trasferimenti, ma il programma è intenso, infatti, il dipartimento di Lambayeque con capoluogo Chiclayo è –come tutto il Perù, d’altronde- molto ricco di siti archeologici appartenuti a civiltà pre-inca. Sempre più spesso in questa provincia, si susseguono nuove scoperte, nuovi ritrovamenti che entusiasmano il mondo dell’archeologia internazionale. Qui, lungo la costa nord del Perù, raramente piove e anche stamane il cielo è sgombro da nubi, giornata ideale per sgambettare fra antiche rovine e splendidi musei. Siamo contenti perché, pur se il tragitto più difficile deve ancora iniziare, il viaggio sta procedendo bene, in linea con le nostre aspettative. Partiamo, procedendo all’interno della desertica pianura che, tuttavia, nell’antichità tanto brulla non poteva essere, infatti, gli abitanti di epoche passate erano ingegneri talmente abili da riuscire a convogliare l’acque delle Ande sino a qui, avvalendosi di complicati acquedotti che nulla avevano da invidiare a quelli costruiti dai romani. Il primo sito archeologico che visitiamo è Sipán dove, nel 1987, l’archeologo peruviano Walter Alva scoprì una tomba intatta, non meno ricca di quella egiziana di Tutankhamon. La sepoltura apparteneva ad un importante dignitario della civiltà Moche o Mochica (200 a.C.-600 d.C.), denominato Señor de Sipán. Il Signore di Sipán era uno dei tanti governatori delle province Moche. I Mochica divisero i propri territori in molte Signorie, collegate tra loro, ma indipendenti per amministrazione commerciale e ordinamento politico. Per tale ragione, non erano rare le controversie fra principati che a volte erano risolte dalla diplomazia, ma spesso sfociavano in violente contese. Tuttavia, a dimostrazione dell’alto grado di evoluzione culturale, i Moche non risolvevano i dissidi scatenando guerre senza senso che avrebbero solo contribuito a dilaniare la loro società. Nell’impossibilità di soluzione pacifica dei contrasti, i Príncipi si affidavano a propri campioni che si sfidavano in singolar tenzone. Alla presenza della popolazione di entrambi i feudi antagonisti, i due guerrieri eletti a rappresentare le Signorie si scontravano armati di asce e mazze, combattendo fino a che uno dei due stramazzava stordito al suolo. Lo sconfitto era successivamente giustiziato e il suo sangue bevuto in parte dai sacerdoti e in parte dal guerriero vincitore, non per dileggio, bensì per onorare le virtù del morto. A quel punto, i dissidi erano considerati risolti a favore della parte vittoriosa. La battaglia si mutava in festa e tutti, vincitori e vinti, partecipavano a solenni libagioni. Proseguiamo il cammino con la visita al piccolo, ma interessante Museo di Sicán e, dopo un rilassante intermezzo gastronomico in una trattoria della cittadina di Lambayeque, giungiamo al Museo Tumbas Reales de Sipán, voluto e diretto dallo stesso scopritore della tomba, Walter Alva. Il museo è una costruzione caratteristica, in tutto simile alle antiche piramidi Moche che in questi paraggi s’innalzavano duemila anni orsono. L’entrata non è al pianterreno come di consueto; una rampa esterna conduce alla sommità della piramide da cui si entra in un ambiente in penombra, avvolto da antiche musiche. L’effetto è notevole: pare davvero di aver abbandonato in un attimo la realtà ed essere entrati in un tempo lontano, quasi mistico. Le quattro piattaforme della piramide-museo ospitano centinaia di oggetti d’oro e argento, ritrovati nella maggioranza dei casi nella tomba del Señor e in parte in altre due sepolture, quelle del Vecchio Señor, di epoca antecedente, e del Gran Sacerdote. Spesso, durante l’anno buona parte della ricchissima collezione viaggia nel mondo, ospite di vari musei; questo comporta che non sempre sia possibile ammirare tutti gli oggetti, ma noi siamo fortunati. Solo un mese fa, parecchi reperti erano esposti al Museo di Berlino, tuttavia ora sono rientrati e possiamo felicemente godere dell’intera bellezza di queste opere d’arte raffinate. Walter Alva, anche grazie alla scoperta delle tombe, è considerato uno dei maggiori archeologi al mondo ed avere l’opportunità di incontrarlo sarebbe molto interessante, oltre che un onore. I suoi impegni non gli concedono molto spazio, fra conferenze e convegni in ogni luogo della terra, ma la fortuna non c’abbandona. Alva è un amico sin da quando, nel 2005, lo incontrai per la prima volta durante un simposio organizzato presso il Castello Sforzesco di Milano e, l’anno successivo, ci accordammo per valutare la possibilità di scrivere assieme un romanzo storico sui Mochica. Il progetto è tuttavia in fieri: ad Alva spetterà la raccolta delle informazioni, a me la stesura della storia. Grazie a questa nostra amicizia e alla sua presenza al museo, abbiamo l’opportunità di incontrarlo. Walter è felice di parlare del suo lavoro e i miei compagni di viaggio sono entusiasti, perché non è di tutti i giorni la possibilità di ascoltare una persona di tale spessore culturale. Il pomeriggio ci concede ancora qualche ora di luce che sfruttiamo visitando un altro importante sito archeologico. La pianura di Túcume comprende decine di antiche huacas, o piramidi di adobe, i mattoni di paglia e argilla cotti al sole. E’ impressionante la distesa di tombe, palazzi e templi, ma sconcertante è la quasi totale assenza di turisti. La cosa egoisticamente non ci dispiace, ma è un peccato che un sito di tale interesse e bellezza non sia stato ancora pubblicizzato in modo adeguato. Saliamo con fatica una ripida collina, dalla quale ci riempiamo gli occhi con la splendida vista che spazia per chilometri all’intorno. Stanchi, ma allegri e soddisfatti, dopo una doccia calda ci tuffiamo in uno dei migliori ristoranti di Chiclayo, un vero gourmet dove assaporiamo pietanze degne dei migliori palati, innaffiate dall’ottimo Tacama Blanco, uno dei pochi vini peruviani degni di menzione. Un bicchierino di pisco, l’acquavite peruviana, ci prepara per la notte, in vista del lungo viaggio che ci attende domani. 2 agosto Oggi inizia l’avventura più impegnativa. Sarà un viaggio molto lungo, verso mete a noi sconosciute: attraverseremo zone deserte, saliremo le Ande, ci tufferemo nella selva amazzonica e infine risaliremo a Chachapoyas. Da Chiclayo riprendiamo la strada che conduce al deserto di Sechura, che solo sfioriamo deviando verso est a Olmos, giusto alle porte dell’arida pianura. Il sole splende e questa prima parte del percorso è facile: il fiume d’asfalto sale docile i contrafforti andini, donandoci un paesaggio d’incanto composto di dolci rilievi separati da ampi canaloni che imbocchiamo per poi abbandonare e tornare a salire. Un punto nero si libra nel cielo di fronte a noi; ci fermiamo a osservare. Che sarà? Un falco, un’aquila o uno dei tanti gallinazos, uccelli predatori di carogne? Riprendiamo la marcia e l’avvoltoio si fa più vicino, pare indicarci la via, incitarci a proseguire con la muta promessa di uno spettacolo che presto apparirà, lassù, oltre l’ennesima curva. Ora sono due i grandi uccelli che seguono le nostre auto, no, sono tre, quattro! Eccone un altro e un altro ancora. Approfittiamo di uno stretto spazio che si apre sul ciglio della carreggiata e scendiamo in silenzio dai fuoristrada, per non impaurire i volatili. Non ci sono turisti, nemmeno un pastore, un mulattiere o un camion: solo noi, la leggera brezza che accarezza i bassi arbusti, la limpida volta celeste e loro. Sono dieci, forse dodici ora i grandi rapaci che planano sopra di noi; sembrano studiarci da lontano, valutare le nostre intenzioni, poi, rassicurati, si avvicinano. Il primo, più audace, punta le ali dalle estremità frastagliate sul nostro gruppo. E’ qui!, a poche decine di metri e pianta i suoi occhi furbi e vivaci nei nostri: è un condor! Sono tutti condor, femmine, maschi, adulti e giovanissimi. E’ un termine spesso troppo abusato, lo riconosco, ma non saprei come meglio descrivere lo spettacolo che stiamo vivendo: mozzafiato. Siamo tutti immobili, a bocca aperta, in contemplazione, emozionati. Non è la prima volta che mi capita di vedere i condor, ma non mi era ancora accaduto di trovarmi al cospetto di questi maestosi predatori in un luogo simile, al di fuori da itinerari turistici, in una natura incontaminata, senz’altra anima viva. Sempre seguiti a vista dagli splendidi condor, superiamo le ultime curve e arriviamo in vetta. Abra de Porculla, con i suoi 2.137 metri di altitudine, è il passo meno elevato delle Ande, abitato da un paio di famiglie che sopravvivono con la pastorizia, soprattutto pecore, capre e qualche lama, la coltivazione di patate –il tubero originario di queste terre- e con l’attività di mulattieri, trasportando le merci di prima necessità dalla strada alle borgate lontane, dove le auto non possono arrivare. Oltre il passo, scendiamo abbandonando le Ande. Siamo presto costretti a spogliarci di giacche a vento e felpe, laddove i brulli rilievi lasciano d’improvviso il passo a una vegetazione che si fa sempre più rigogliosa, di chilometro in chilometro. A poco più di settecento metri di altitudine, si apre una grande valle popolata da risaie, coltivazioni di banane, caffè, cacao: siamo giunti in alta Amazzonia. La sosta nella cittadina di Bagua consente un refrigerio presso una fontanella; il clima secco delle montagne si è mutato in opprimente umidità e invidiamo gli abitanti che incrociamo lungo la via, a petto nudo o in abiti succinti, i corpi abbronzati che luccicano come appena usciti dall’acqua. In poche ore, viviamo realtà del tutto diverse, sia per il clima, sia per i costumi della popolazione. Lungo la costa, le abitudini e lo stile di vita sono simili ai nostri, in montagna prevalgono le antiche tradizioni andine, le donne portano larghe gonne a più strati e i tipici copricapo a bombetta, mentre i maschi indossano pantaloni di lana al polpaccio e i chullos, berretti lavorati a maglia con i paraorecchi. Qui, in Amazzonia, gli abiti sono solo leggere immaginazioni di tessuto. I fuoristrada corrono fra le verdi piantagioni, costeggiano villaggi di capanne, imboccano ponti sotto i quali scorrono fiumi gonfi di acque a volte melmose e sempre giallastre e marroni, che parlano di miniere di rame e oro, di argento e zolfo, testimonianza di ricchezza per le imprese multinazionali, di inquinamento e sfruttamento per territorio e popolazione. Il grosso borgo di Pedro Ruiz è animato da commercianti, mototaxi e tricicli adibiti al trasporto di mercanzie. Proseguendo verso est, lungo la strada principale, la via s’inoltra all’interno della foresta amazzonica, ma la nostra meta è un’altra. Deviamo a sud, infilandoci nella valle del fiume Utcubamba e ci concediamo una breve sosta nel villaggio di Churuja, attratti da un gruppo di persone che gesticola. Oggi è sabato, il giorno per eccellenza dedicato in queste lande a un crudele divertimento, la “pelea de gallos”, il combattimento fra galli. Dentro ad una piccola arena circolare, due volatili si affrontano spavaldi, ma lo spettacolo ci fa solo tristezza e decidiamo di andarcene. Nei pressi del paese vi sono luoghi interessanti, quali le mummie di Karajia e la cascata Gocta; le prime sono sei sarcofagi della cultura Chachapoya incastonati in una parete rocciosa, mentre la seconda è la terza caduta d’acqua più alta della terra, dopo il Salto del Angel in Venezuela e le Tugela Falls in Sudafrica. Il tempo a nostra disposizione, purtroppo, non ci permette la visita dei due siti –che già conosco grazie a viaggi precedenti-, ma altre meraviglie ci attendono. Il clima cambia ancora; ora piove e la strada si fa difficile. Risaliamo, costeggiandolo, il rio Utcubamba, sfiorando l’interminabile parete di roccia: fiume da una parte, montagne di granito dall’altra e fango, tanto fango che inonda la via, mischiato a grosse pietre che evitiamo a stento. Proseguiamo lenti per non scivolare nel corso d’acqua. A mezza valle, infiliamo la deviazione che sale verso il capoluogo della provincia, Chachapoyas. In soli cinque chilometri, c’inerpichiamo dal fondo valle diretti alla cittadina di 25.000 abitanti che si erge a oltre 2.300 metri di altitudine; vi giungiamo che è quasi sera, imbrattati da capo a piedi di terra, stanchi eppur felici per la conquista di una nuova meta. Ci troviamo nel regno dei Chachapoyas, gli antichi e acerrimi rivali degli Incas. 3 agosto Chachapoyas, seppure con soli 25000 abitanti, è il capoluogo del dipartimento di Amazonas e sede universitaria. La cittadina non possiede grandi alberghi, ma solo spartane strutture ricettive. Il nostro gruppo, tuttavia, la notte scorsa ha approfittato di una bella pensione, la Casa Vieja, l’antico convento di San Giuseppe Operaio. Si tratta di un bell’edificio d’epoca coloniale, composto di un verde patio ricco di fiori e colori, il vecchio chiostro, circondato ai quattro lati da stretti porticati e balaustre al secondo piano, dalle quali si accede alle abitazioni. L’atmosfera tranquilla è il motivo dominante che contraddistingue tutta la città. Vie strette e poco trafficate, a senso unico, s’intersecano ad angolo retto attorno all’unica vera piazza, dove sorgono la cattedrale e il municipio. Passeggiando lungo le vie, non s’incrociano turisti, ma solo persone del luogo, molto operose, intente a trasportare le poche mercanzie che il territorio concede fino alla plaza. Qui il turismo di massa è sconosciuto e la gente vive di agricoltura, pastorizia e poco commercio con i paesi di fondovalle. Gli abitanti non hanno molti diversivi, ma appaiono sereni e disponibili a raccontarsi. Chachapoyas, quindi, è una località amena, lontana dal consumismo sfrenato e dalle notti folli delle grandi città occidentali, è una comunità per noi remota, d’altri tempi, da vivere per chi volesse scoprire –o riscoprire- il sapore di ricordi perduti, i ricordi dei nonni, dei filò serali in cui gli anziani raccontavano i tempi passati e i giovani ascoltavano attenti, ignorando tv e discoteche. Ma non si cada in inganno: questa non è una regione povera di cultura e tradizioni, tutt’altro. La città ha acquisito il proprio nome dalla florida civiltà che qui prosperò, quella dei Chachapoya. Le cronache dei “conquistadores” spagnoli e dei missionari –troppo spesso divulgatori di morte, oppressione e genocidi, più che della parola di Cristo- narrano di un popolo fiero, costituito da persone di alta statura e capelli chiari, per decenni acerrimi nemici degli incas, dai quali difesero la propria autonomia combattendo fin quasi alla completa immolazione e cedendo all’invasore solo dopo la caduta dell’ultimo, formidabile baluardo, Kuelap. Il viaggio prosegue riscendendo da Chachapoyas nella valle dell’Utcubamba. La strada sterrata che corre –si fa per dire- risalendo il corso del fiume è tappezzata di buche, ma il paesaggio sopperisce al disagio dei nostri fondoschiena; l’Utcubamba è a un metro da noi e scorre placido zigzagando fra la rigogliosa vegetazione e l’erta parete di roccia. A Tingo sostiamo qualche minuto. Il paese ha una triste storia: nel 1993 fu raso al suolo dalla piena del fiume e la maggior parte degli abitanti, terrorizzata dalle ripetute perdite di parenti e beni, decise di abbandonare per sempre il villaggio e di ricostruire le proprie case in una località più sicura, sulle pendici delle montagne. Seguiamo il cammino percorso dagli sfortunati paesani imboccando la deviazione che sale verso Tingo nuovo e la fortezza di Kuelap. Non è semplice transitare per questa strada stretta e accidentata che, pur se poco trafficata, all’incrociare qualche vecchio carretto obbliga i fuoristrada a manovre anche pericolose, avvicinando troppo il ciglio della carreggiata privo di parapetto, oltre il quale vi è l’abisso. Il paesaggio che si ammira è magnifico: laggiù in fondo scivola sinuoso l’Utcubamba, mentre di fronte agli occhi i monti si rincorrono, tagliati da larghi solchi, canaloni profondi verso i quali guardano diroccate costruzioni appese alle pareti, posti di guardia dei Chachapoya. Tingo Nuevo è un villaggio ordinato, lindo, con bassi edifici dipinti d’ocra, arancio e azzurro. La piccola piazza è un delicato gioiello con una fonte al centro in stile locale antico e minuti padiglioni dai tetti in paglia. E’ ancora lungo il tragitto che conduce alla vetta, ancora sobbalzi e polvere che sopportiamo volentieri, perché lassù attende l’immortale cittadella degli ultimi irriducibili. Dove termina la strada, si apre un grande piazzale d’erba nel quale lasciamo le auto. C’incamminiamo in salita, ansimando mentre attacchiamo le pendici del monte di fronte, lungo un sentiero di sassi, fra rovi e fiori. Dopo circa mezz’ora il tratturo si fa pianeggiante e finalmente riprendiamo fiato. In lontananza s’intravede un’alta muraglia di pietra, la mitica fortezza dei Chachapoya. Kuelap risale al XII secolo, quindi è più antica di Machu Picchu, la meravigliosa città inca costruita circa cent’anni più tardi, ma anche se meno imponente è ugualmente un gioiello architettonico. Le sue mura di pietra alte una ventina di metri rappresentarono un ostacolo insormontabile per le orde nemiche e solo gli Incas, dopo sanguinosi assalti, riuscirono ad avere ragione dei Chachapoya e di Kuelap. Le vie d’accesso alla fortezza erano –e sono- solo tre: ripide scalinate lungo le quali solamente una persona alla volta poteva passare. Due porte si aprono lungo la facciata principale, mentre la terza è situata sul lato opposto, che dà su di una profonda gola, lo strapiombo che guarda il fondovalle. Quest’ultimo passaggio, più che una vera porta d’accesso alla cittadella, costituiva l’assicurazione per la salvezza, l’ultima possibile via di fuga in caso di sconfitta. Fra resti di abitazioni circolari e camminamenti, si elevano le tre costruzioni principali: il Tintero, del quale non è ancora ben chiara la funzione, il Castillo, dove furono rinvenute numerose mummie chachapoya e il cilindrico Torreon, probabilmente un posto di osservazione, vista la sua posizione che domina l’abisso e permette di scrutare l’orizzonte. Non esistono alternative, dobbiamo percorrere a ritroso tutta la strada fino a Tingo e poi tornare a risalire l’Utcubamba sino a Leimebamba, dove pernotteremo. Ci resta ancora il tempo per la visita al piccolo e grazioso museo che raccoglie centinaia di mummie e alcuni quipu, gli strumenti di calcolo precolombiani, composti di cordicelle e nodi. Purtroppo, l’assurda guerra per l’estirpazione delle idolatrie condotta dai frati europei nel XVI secolo ha prodotto, tra le altre atrocità, la distruzione di migliaia di quipu, fra cui quelli fonetici, veri e propri libri che raccontavano la vita, le tradizioni e la storia dei popoli andini. Le mummie del museo, oltre duecento, provengono dalla Laguna de Los Cóndores, una località a circa trenta chilometri da Leimebamba e furono scoperte per caso nel 1996. Non esistono strade per raggiungere la laguna; per visitare quel luogo sperduto, sono necessari tre giorni di viaggio a cavallo, fra l’intricata foresta: sarà la meta di una futura spedizione. Piove qui a Leimebamba; la cittadina è piacevole, la gente cordiale, non abituata a ricevere visite straniere, non ancora, almeno. Riposiamo in una vecchia casa coloniale, adibita ad albergo e gestita dalla municipalità. Il ticchettio delle gocce che cadono sul tetto per tutta la notte concilia il sonno. Domani sarà un’altra dura giornata di trasferimento verso gli altopiani delle Ande. 4 agosto Piove. Carichiamo i fuoristrada con le nostre cose e ci avviamo a piedi, radenti ai muri per ripararci dall’acqua, verso il centro. Il brutto tempo non impedisce a Leimebamba d’essere animata: capannelli di persone incappucciate con teli cerati popolano i quattro angoli della piazza. Gli odori di umanità, misti a quelli caratteristici del selciato bagnato e dell’acre effluvio di sterco animale, impediti a diradarsi dalla densa cappa di nuvole, non infastidiscono, sono i profumi della vita attiva, degli abitanti che, con muli e cavalli, si apprestano a partire verso i boschi per una nuova giornata di lavoro. Contadini, boscaioli, mercanti si scambiano bottiglie di cañazo –il forte e pestifero distillato di canna da zucchero, la peggiore, quella scartata dalla produzione di rum- e qualche manciata di foglie di coca miste a llipta, una cenere vegetale utile a estrapolare gli alcaloidi contenuti nella “pianta degli dei”. Sì, perché la coca sulle Ande è utilizzata da millenni per rendere meno difficile sopportare fame, sete, altitudine e fatica, nulla a che vedere con la droga; la cocaina, infatti, è l’aberrazione prodotta dalla moderna “civiltà”, mediante procedimenti chimici. Le foglie di coca, invece, sono utili alla sopravvivenza a queste latitudini. Ricordo le parole di un curandero –lo sciamano delle Ande, il medico delle antiche tradizioni- parecchi anni fa: “La coca è da sempre conosciuta dai popoli delle Ande. Essa appartiene alle divinità, ci è stata data da loro; la coca aiuta a sopportare la fatica, la fame, la mancanza di ossigeno e la tristezza, per mezzo suo prevediamo il futuro e guariamo le infermità. Se usata saggiamente, è una pianta miracolosa, magica, ma chi non ha rispetto per essa, chi la tradisce e la usa per scopi impropri, viene punito severamente. In questi casi, la coca non dà scampo, la benedizione delle divinità si trasforma in maledizione che uccide”. (Tratto da “Magie delle Ande” di Gabriele Poli, EDT, 2000). La meta di oggi è la città di Cajamarca; il tragitto è lungo solo poco più di 250 chilometri, ma sarà necessario l’intero giorno per completarlo, a causa della difficile strada che sale fin quasi a 4000 metri, quindi scende alla valle del rio Marañon, ai limiti dell’Amazzonia, per risalire ancora una volta oltre i 3000 metri. La via che ci porta fra le nuvole è poco più di un sentiero impantanato, un tortuoso serpente che s’inerpica fra vegetazione sempre più rada fino al passo Barro Negro (3680 metri). Non c’è anima viva, solo il fumo denso delle nubi che avvolge quasi ogni cosa e qualche capanna che spunta dal nulla, sui cui usci pochi indigeni ci osservano senza interesse, sputando grumi di saliva mista a coca, intanto che ruminano quieti a fianco di lama e alpaca. Quel poco che si vede del paesaggio mette i brividi e scendiamo dalle auto solo per risalirvi quasi subito e calarci rapidi, in poche decine di chilometri, verso Balsas, quasi tremila metri più in basso, dove il sole torna a sorridere e il freddo ci abbandona, lasciando il passo al caldo e all’afa dell’alta Amazzonia. Il posto di controllo della polizia, predisposto negli anni ottanta per contrastare il terrorismo di Sendero Luminoso che a quel tempo imperversava nella zona, si trova in prossimità del ponte sul rio Marañon che divide le provincie di Amazonas e Cajamarca. Sendero Luminoso fu un movimento ispirato al maoismo, nato nella città andina di Ayacucho. Durante una devastante guerra interna prolungatasi per circa vent’anni, esercito e terroristi sconvolsero il paese, compiendo autentici genocidi di umili contadini. Altro gruppo guerrigliero fu il Movimento Rivoluzionario Túpac Amaru (MRTA) di stampo guevarista che fece molti meno danni rispetto alle forze dello stato e a Sendero. Fu il Movimiento Revolucionario Túpac Amaru, tuttavia, che compì l’impresa più eclatante, vale a dire l’occupazione dell’ambasciata giapponese di Lima. Nel dicembre del 1996, un commando del MRTA riuscì a intrufolarsi nell’ambasciata durante una festa, spacciando i suoi giovani componenti per camerieri. L’occupazione durò alcuni mesi, fino ad aprile del 1997, quando le teste di cuoio peruviane irruppero nella sede diplomatica attraverso un tunnel, uccidendo a sangue freddo i guerriglieri che si erano arresi. E’ giusto ricordare che il commando del MRTA non torse un capello agli ostaggi, anzi, il giorno dopo il sequestro ne liberò la maggior parte. Nonostante ciò, l’allora presidente del Perù, il dittatore Alberto Fujimori, non ebbe pietà. Anche a causa delle sue nefandezze contro il rispetto dei diritti umani, ora Fujimori si trova incarcerato a Lima. I due poliziotti sbracati ci guardano senza scomodare i propri fondoschiena dalle sedie appoggiate al muro della postazione militare, qualche venditrice di frutta e dolciumi si avvicina timida con un sorriso meravigliato: “Chi saranno mai questi disperati stranieri che si avventurano in lande sperdute come questa?”, immagino che si chiedano. Passiamo oltre. Il Marañon è uno dei più importanti fiumi del Perù, affluente principe del Rio delle Amazzoni; scorre pacifico, trasportando nelle sue acque giallastre tronchi e fogliame, ma la calma sorniona del suo incedere nasconde la sempre latente insidia di piene improvvise che di tanto in tanto devastano la regione. E si torna a salire, ancora una volta in direzione delle vette andine. La strada non migliora, si arrampica stretta e tortuosa fino a Celendín, dove finalmente scoviamo, a lato del mercato indigeno, un ristorantino che offre chicharrones, pezzi di maiale fritto, e altri piatti tipici di carni e verdure. Gli ultimi cento chilometri di percorso sono meno complicati e quando la via si fa ampia e dritta comprendiamo che la nostra meta è vicina. Cajamarca, l’antica Caxamarca inca, ci accoglie col pallore dell’ultimo sole pomeridiano.