Quipu, il mistero della scrittura inca
Tra i tanti luoghi comuni che circondano le civiltà andine, v’è quello secondo il quale gli Inca –e di conseguenza tutte le culture a loro antecedenti- non possedessero una qualsivoglia forma di scrittura. In effetti, per lunghi secoli, e purtroppo qualche volta ancora oggi, molti studiosi del Tahuantinsuyu hanno avallato tale mito, perché...
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Tra i tanti luoghi comuni che circondano le civiltà andine, v’è quello secondo il quale gli Inca –e di conseguenza tutte le culture a loro antecedenti- non possedessero una qualsivoglia forma di scrittura. In effetti, per lunghi secoli, e purtroppo qualche volta ancora oggi, molti studiosi del Tahuantinsuyu hanno avallato tale mito, perché di mito si tratta. L’impero inca era basato su una struttura organizzativa complessa ed egualitaria che garantiva i medesimi privilegi e gli stessi doveri a tutta la popolazione, esclusa la classe elitaria. Il popolo viveva suddiviso in nuclei familiari allargati, gli ayllu, che formavano comunità lavorative dove ogni persona aveva accesso ai beni dello stato. Non esisteva la proprietà privata e nemmeno la fame o l’indigenza. La gente comune parlava una lingua molto simile all’odierno quechua o runa simi, lavorava assieme per il bene di tutti e, di tanto in tanto, partecipava alle feste organizzate dal capo villaggio, il curaca. Gli abitanti, tuttavia, non potevano allontanarsi senza permesso dai confini del proprio ayllu. Queste umili persone fornivano la manodopera necessaria alla costruzione di strade, ponti, teleferiche, al rifornimento e manutenzione dei magazzini, i tambo, alla lavorazione della terra e prestavano regolare servizio nell’esercito. Non frequentavano scuole e non conoscevano la scrittura, ma utilizzavano un semplice strumento di calcolo per la registrazione degli animali allevati o del raccolto, la yupana. Ancor oggi usata in alcune località andine, la yupana è una sorta di abaco, composto di una tavola di legno o argilla divisa in riquadri, per mezzo della quale è possibile effettuare le semplici operazioni di addizione, sottrazione e moltiplicazione, con l’aiuto di piccole pietre o semi. Per la nobiltà e la casta sacerdotale, la situazione era diversa. Esisteva un altro idioma, sconosciuto al popolo, per mezzo del quale i dignitari conversavano, legiferavano e scrivevano, permettendo loro di mantenere un forte distacco con la popolazione comune, di fatto emarginandola e dominandola.Tale lingua, ignota pure al cronista meticcio Garcilaso de la Vega, non è giunta sino a noi o, almeno, non è stata ancora decifrata. Quando gli Spagnoli completarono l’invasione del Perù, iniziò un’acerrima campagna di estirpazione dell’idolatria e a farne le spese furono anche i quipu che vennero sistematicamente distrutti. Le popolazioni indigene spiegarono agli invasori che quelle strane cordicelle annodate rappresentavano la scrittura regale, ma sebbene alcuni cronisti dell’epoca riportassero la notizia, gli spagnoli, molti dei quali analfabeti, compreso il comandante Francisco Pizarro, non prestarono attenzione all’interessante rivelazione, forse perché associavano il linguaggio scritto con le lettere del nostro alfabeto e non riuscivano a comprendere un sistema del tutto diverso. Questo tipo di scrittura era il Capacquipu o “nodo reale”, come affermò con forza nei suoi scritti il gesuita meticcio Blas Valera. Documenti importanti redatti dal religioso sono stati scoperti in questi ultimi anni, grazie agli studiosi e scrittori Clara Miccinelli e Carlo Animato, autori di diversi scritti, fra i quali ricordo “Quipus” e il giallo storico “Nerofumo. La doppia ombra del gesuita maledetto”. I Capacquipu si basano sulla divisione sillabica di varie parole chiave che, combinate, formano frasi articolate. Gli indigeni peruviani confidarono agli spagnoli che i quipu regali narravano, tra le altre cose, la storia del popolo inca e le gesta dei suoi condottieri. Ma, ripeto, quasi tutti questi “libri” furono distrutti e solo pochi esemplari si salvarono; tuttavia, non tutto è perduto, perché negli ultimi anni si sono susseguite scoperte di notevole importanza (antiche città, necropoli, santuari) ed esistono possibilità di rinvenire qualche altro quipu fonetico che possa svelare il segreto della lingua reale inca. Una leggenda racconta che il sistema di cordicelle fu ideato da Manco Capac fondatore della dinastia, in onore di Inti, il dio Sole. Distendendo un quipu sopra ad un tavolo, è possibile, infatti, osservare come, da una corda principale, si diramino funicelle secondarie a mo’ di raggiera, fornendo l’impressione di una riproduzione dell’astro solare. Pare che anche i ceques rappresentassero un quipu gigantesco. I ceques erano 40 o 41 linee immaginarie che si irradiavano dal Coricancha, il tempio del Sole di Cusco, verso le quattro direzioni del Tahuantinsuyu; lungo tali raggi, sorgevano piccoli templi, adoratori o santuari, 328 in tutto, in onore delle divinità andine. A Cusco, la capitale dell’impero, esisteva un grande archivio statale, una sorta di biblioteca che conteneva migliaia di quipu. Dopo l’arrivo degli spagnoli, anche questa preziosa fonte d’informazione andò distrutta. Esiste un altro tipo di quipu, probabilmente il più conosciuto, che era usato come strumento di calcolo complesso. Il sistema base è composto di una corda principale dalla quale se ne diramano altre, provviste di nodi. Non tutte le corde sono unite alla principale, ma alcune sono legate alle secondarie. Erano allacciate saldamente per mantenere una posizione fissa e lungo il loro percorso vi erano gruppi di nodi, inframmezzati da spazi vuoti. Fra la moltitudine di quipu distrutti, se n’è salvato uno che comprende ben 1.800 corde pendenti. I gruppi di nodi formano una rappresentazione simbolica di numeri. Ogni posizione consecutiva dei nodi, procedendo dall’estremità libera della corda, fino a dove questa è legata ad un’altra, rappresenta una potenza più grande di 10. I nodi più lontani dalla corda madre costituiscono le unità, poi le decine, le centinaia e le migliaia. I quipu erano di cotone, fibra coltivata lungo la costa del sud Pacifico per la prima volta nella storia, più raramente di lana o metallo. Le cordicelle erano di colore differente che specificava la natura dell’oggetto e la tinta della corda principale indicava l’articolo dominante. Deputati all’interpretazione dei quipu numerici erano i quipucamayoc, matematici esperti nell’uso e nella decodificazione. Ogni ayllu aveva il proprio quipucamayoc. Le foto in: http://www.peru.it http://www.magiedelleande.it Gabriele Poli