Un delirio chiamato Islanda
11 luglio 2007,mercoledì: Londra(Gatwick)-Reykjavik. Il solito battito più veloce del cuore..evviva, il bagaglio non supera i venti chili!(quante prove, sulla bilancia di casa!). Poi è la volta del “metal detector” che suona appena arrivo io, “ Ah, sì, è il mio bustino per la schiena”, ispezione dell’addetta in separata sede, mentre Thomas ostenta la flemma inglese che lo ha contraddistinto sin dai tempi del liceo, ma in realtà si scoccia un po’. Ci siamo: decollati! L’Irlanda del nord è sotto di noi e durante sprazzi di sereno si vede il verde dei campi e una città (Belfast, o così mi par di capire dalla voce in perfetto inglese ma troppo spedìta per me)..poi nuvole e nuvole sino all’atterraggio. Deserto, all’improvviso, esplode lo spazio che si dilata di beige e marroni, non un albero. Questo è il primo impatto con la penisola di Reykjanes. Inizia il fascino strano che non ci abbandonerà più, la prima puntata della creazione che cercherò di raccontare poi e l’incontro con la gentilezza e l’efficienza degli Islandesi. Si nota già nell’aeroporto di Keflavik, dove il ragazzo del market ripete paziente, sorridendo nel suo perfetto inglese, la cifra della spesa(sarà una quarantina di euro ogni giorno, panini e bottigliette di acqua, avevamo letto che tutto costa carissimo, perché l’Islanda importa quasi tutto).. Vi ho taciuto per ritegno lo sgomento provato allo sportello del cambio, nonostante la preparazione psicologica durata cinque mesi. Non fa nulla, è solo un attimo, via alla ricerca dell’auto noleggiata e disseminata per l’immenso parcheggio, pur così ben indicata dall’addetto! ( naturalmente poi un ragazzo, interpellato da noi, ci indica il posto con esattezza). Saranno otto gradi, il vento è forte, sono imbacuccata nel mio goretex, mentre Thomas sfida con più determinazione di me le intemperie e infine scova la Polo, su cui occhieggia un pallido raggio di sole sfuggito alle nuvole. Inizia il mio ruolo di navigatrice, le cartine stradali sono ben tre(Landmaelingar Islans 1:250 000), più una piantina di Reykjavik. Tocca a me ora filmare in sintesi i cinquanta chilometri che ci separano dalla capitale dell’Islanda, immortalare le prime sorgenti geotermiche che si stagliano all’orizzonte alla mia destra, mentre dal lato di Thomas(unico guidatore per tutto il viaggio) appare l’oceano in tutta la sua imponenza. Entriamo in città e troviamo in ben che non si dica l’hotel, orientati dal fatto che esso si trova nelle vicinanze dell’aeroporto dei voli interni. Il clima fresco mette a suo agio Thomas che non protesta nello scaricare i bagagli(io ho comprato l’intimo termico in un negozio specializzato, ma lui non ha voluto sentir ragione, dopodichè inizia il documentario usuale(filmati) del primo dei nostri alberghi. Pulizia, ottimo design e comfort li caratterizzerà tutti, servizi privati compresi. Fuori dalla finestra si vedono case bianche, gialle e rosse dal tetto spiovente, la luce è tanta e mi abituerò a dormire senza il buio completo, per fortuna aiutata da una tenda piuttosto scura. La tv non c’è e non ce ne saranno nei giorni a venire, ma avremo modo, prossimamente, attraverso l’autoradio, di entrare nella magia dei suoni dell’islandese, lingua rimasta pressoché uguale dal Medioevo. Dopo la scorpacciata dei soliti panini(saranno comunque buonissimi, nell’intera Islanda), Thomas si addormenta subito. Non succede così mai a me, che in genere mi arrovello un po’ dall’ansia, che però stavolta è mescolata alla sconfinata felicità nel pensare che domani inizia il vero e proprio circuito islandese.
12 luglio 2007, giovedì: Reykjavik-Saudarkrokur(320 Km) Il sole, il sole! Sono le nove e mezzo, e, dopo un’abbondante colazione, Thomas inizia a snocciolare i suoi primi chilometri, lasciata Reykjavik, che visiteremo al termine del nostro tour. Seguiremo per quasi tutto il viaggio la statale 1, detta “Ring road”, asfaltata per il 90%, che parte e torna alla capitale seguendo un percorso circolare. (Noi compieremo il giro in senso orario). Io inizio da subito a dare informazioni a Thomas, (mi son preparata per mesi) ma resto a tratti attonita a guardare il cielo, di un azzurro così luminoso che mette i brividi, e l’oceano, di un blu intenso. Qui non ci sono città, solo villaggi o piccoli paesi, prati e un susseguirsi di balle di fieno incappucciate in sacchi bianchi(utili contro l’umidità, credo) che da lontano si scambiano per pecore, e questo lo si vedrà quasi dappertutto. Prima di Akranes (a nord di Reykjavik) imbocchiamo il tunnel sotterraneo del “fiordo delle balene” per accorciare un po’ la strada, come suggerito dalle guide Lonely Planets e dalla Routard, le nostre due “bibbie”- In breve arriviamo a Borgarnes (non immaginatevi centri cittadini, qui si arriva a poco più di 1200 abitanti, ma anche due case e una chiesa, come noteremo in seguito, sono segnati sulla cartina). Il paese si raggiunge subito dopo un ponte, quindi giriamo a destra per inoltrarci nell’interno dell’isola.( direzione nord est). Spazio e ancora spazio, mucche, pecore, cavalli.. A volte bisogna rallentare perché qualcuno di essi, incuriosito, si avvicina. Ogni minuto è uno scorcio diverso da filmare, difficile descrivere la commozione che mi prende, seduta sul sedile un po’ reclinato, con la cartina che consulto a tratti e un occhio sempre pronto sul pulsante della telecamera. Per ora domina il verde dei prati, ma da lontano rilievi appaiono qua e là, la terra, erba a parte, è scura (nera e varie tonalità di marrone) perché di chiara origine vulcanica. A un certo punto vediamo ergersi i coni vulcanici del Grabrok e del Grabrokarfell. Facciamo sosta sotto il primo, vicino a un posto di ristoro(villaggio di Bifrost) dove compro pranzo e cena insieme(panini, in tutte le salse e con tutti i contorni). In cima al Grabrok si può salire ma il percorso si fa quasi subito erto e, data la mancanza di tempo, ci limitiamo solo a fotografare e a filmare il vulcano. Dopo circa un’ora di sosta ripartiamo per arrivare a Bru (ponte), un villaggio che funge da crocevia, proprio in bocca allo Hrutafjordur, fiordo strettissimo che fa parte della più ampia “Baia dell’orso”, naturalmente spettacolare, dove facciamo benzina. (Conviene qui dire che le pompe spesso sono senza benzinaio, si usa la carta di credito e dopo un po’ si diventa esperti in questo “fai da te”). A questo punto si alza un vento terribile e la temperatura chiaramente si abbassa. Le nuvole sono ancora lontane ma si stanno avvicinando. Ci abitueremo spesso a questi cambiamenti repentini climatici. Riprendiamo la marcia e , ben attenti a rimanere sulla statale n1(la statale n.61, da Bru, va invece verso i fiordi occidentali) costeggiamo il fiordo(foto storiche di Thomas e filmati miei sul mare blu dove si vedono già alzarsi le onde). Pieghiamo poi verso est e rivediamo la Baia dell’Orso a Blonduos (seicento abitanti circa), dove Thomas ne approfitta per fare un pisolino e poi prendersi un caffè (lunghissimo…). Io lo seguo anche perché il vento continua e i raggi del sole vanno e vengono ma non mi riscaldano affatto. ( d’altra parte, siamo in piena Islanda settentrionale!) .Ci sono ragazzi locali che stanno sistemando l’asfalto e ridono tra loro, vestiti la metà di come sono vestita io. E’ chiaro… Thomas ostenta un goretex spesso slacciato(gliel’ho comprato io a viva forza) e indossa solo a tratti un cappellino di lana, anche perché il suo ultimo look è una rasatura completa e forse sente un po’ freschetto anche lui). Ma torniamo alle emozioni…Tra i colori molteplici che affogano nella rètina e i suoni ( il rumore del vento e quelli dei vari corsi d’acqua che via via incontriamo) vorrei esser capace di creare una colonna sonora al filmato che via via si va dipanando sotto i nostri occhi.. Emozione è anche fermarsi per l’ennesima volta e trovare, a sinistra della strada, una chiesetta in legno col tetto in torba(chiesa di Vidimyri), risalente al 1834,entrare(pagando isk 200 a testa) e incantarsi di fronte a una pala di altare del 1616 e a un organo con il libro dei cantici aperto, e provare a cantare in islandese seguendo le note…(no comment). Emozione sarà poi fermarsi a Glaumbaer (antica fattoria risalente al 1700 e abitata per due secoli) e aggirarsi per le dodici stanze, attenti ai soffitti bassi ma anche a una vecchia macchina da cucire, a letti a castello in legno, ad un antico strumento ad arco a due corde (fiddla), a botti e altri utensili da cucina e piatti ancora appesi, scoprire che non fa freddo perché i tetti in torba erano e sono potenti isolanti dalla temperatura esterna.. Emozione sarà rifocillarci in una sala da the molto particolare, accanto a questo magnifico museo del folclore. Emozione in più per Thomas vedere due ragazze carine (soprattutto una) servire specialità islandesi in costume tipico. Tutto questo a Glaumber, dopo aver lasciato la statale 1 e aver deviato per la strada 75… Tutto questo prima di arrivare a Saudarkrokur, posizione magnifica sullo Skagafjordur. Sono le sette di sera e, piuttosto stanchi, individuiamo il nostro piccolo hotel color arancio. Il sole ha ultimamente giocato a rimpiattino con le nuvole, nel pomeriggio. Vedremo domani. E così, con accanto il peluche di pulcinella di mare che ho comprato proprio nella hall dell’albergo, mi addormento (Thomas è già alla seconda fase del sonno). 13 luglio 2007, venerdi: Saudarkrokur-Laugar, Km 220 circa.(Islanda settentrionale). Be’, non poteva durare.Il cielo ora è plumbeo, le nuvole sono basse e il tempo non accenna a schiarirsi. Pazienza! Forza, maciniamo la seconda serie di chilometri, tornando sulla statale 1, dopo aver lasciato la strada 75. Thomas, al contrario è molto “luminoso”, perché gli ho permesso di tornare alla sala da the di Glambaer (tanto era sulla strada) per rivedere una delle due bellezze locali. Ostentando una certa naturalezza, le ho prese sotto braccio e così Thomas ci hai immortalato in una foto. Avremmo sperato in una schiarita per vedere qualcosa di più di Akureyri, ma ci viene incontro solo un forte vento che mi fa lottare, accanto alla pompa di benzina a cui mi rifornisco. Più di zero gradi non saranno, quindi ci infiliamo in un market lì accanto anche per non gelare. Usciti con le sporte cariche del solito menù, facciamo qualche giretto in città. Akureyri, la più bella città d’Islanda a detta di molti, ha sicuramente il suo fascino anche così, certo che col sole sarebbe stata un’altra cosa, anche perché il fiordo in cui è adagiata non si vede quasi. (Peccato per il panorama). Percorro i gradini che mi separano dalla chiesa principale, che si erge sul centro cittadino, ma non posso vedere né l’organo a 3200 canne né i rilievi sulla vita del Cristo, né la crocifissione (interpretazione insolita, avevo letto sulle mie due guide), né la nave votiva appesa al soffitto. Sono le ore 14 e la chiesa è chiusa perché stanno celebrando un funerale(!). Cercando invano di scaldarmi, percorro ancora un po’ con Thomas il centro pedonale, ammirando le deliziose case bianche e colorate che tentano di ravvivare il cielo. E pensare che qui c’è anche un giardino botanico favorito dal microclima…a parte oggi. Dopo un’oretta di sosta, quindi, decidiamo di proseguire alla volta della cascata Godafoss, che troveremo proprio accanto alla “Ring road”. La raggiungiamo nel pomeriggio. La leggenda narra che la cascata è chiamata così perché “l’oratore della legge”dell’Althing (parlamento islandese), nell’anno 1000, dopo aver meditato per 24 ore, decise che l’Islanda sarebbe diventata una nazione cristiana. Perciò gettò, davanti a questa cascata, a cui era vicina la sua fattoria, tutte le sculture delle divinità norrene. Il posto turistico (soliti giapponesi con le macchine fotografiche) mi fa comunque sfidare le intemperie perché la cascata è davvero bella ed imponente, e i colori, in tutte le gamme del grigio, danno una sensazione di grande mistero. I gradi saranno forse tre e il vento imperversa, e dopo una breve lotta con la natura, non riuscendo a resistere per molto, riprendiamo il circuito. Infine ci si stacca dalla “Ring Road” per arrivare a Laugar (strada n.845) verso le diciassette , piccolo villaggio dove pernotteremo. Notiamo la bandiera islandese e quindi riconosciamo la catena dei piccoli alberghi proposti dal nostro tour operator. Le nuvole e il freddo si stanno ancor più abbassando, non par vero di poter concedersi una doccia ristoratrice! Nell’accogliente e pulita camera, Thomas, chiuso nell’accappatoio, inizia poi a camminare nervosamente su e giù per significare che le sue energie, per quel giorno, non sono ancora esaurite. Dopo le otto di sera è ancora lì, quindi io, che comunque mi ero dovuta riposare un po’, propongo di andare verso il lago Myvatn, non molto lontano. I gradi dovrebbero essere zero ma entro coraggiosamente in auto, seguita dal mio partner sempre a suo agio con le basse temperature. Il cielo è sempre più scuro e le nuvole sempre più incombenti, ma per fortuna non accenna ancora a piovere. E così, in un’atmosfera da “mostro di Lochness”, iniziamo a conoscere l’aspra bellezza del posto. I temuti moscerini, per fortuna, non si vedono (avranno freddo anche loro?). Parcheggiamo e ci avventuriamo nella distesa di pseudocrateri di Skutùstadir, all’estremità meridionale del lago. Dietro di noi resta il Myvatn con le sue oltre 50 isole o isolotti, infarcito da basse nubi. Sotto i nostri piedi vediamo alcuni pseudocrateri originati dalle esplosioni di gas prodottisi dal passaggio della lava fusa nell’acqua. Il terreno è nero e marrone, naturalmente lavico, con ciuffi verdi che ondeggiano al forte vento. Io cammino spedita per non morire di freddo, Thomas invece si sente a suo agio e filma un gran numero di uccelli e di fiori “pelosi”, come li definiamo noi, senz’altro una specie endemica che cresce in questi posti, ove i fiori devono ben ripararsi dal vento in qualche modo!!Alberi zero, naturalmente. Molti uccelli volano sopra di noi, piuttosto preoccupati perché invadiamo il loro territorio, li capisco perché temono per i loro nidi. Mi è parso riconoscere dei piovanelli, secondo il manualetto ”Uccelli”(edizione Vallardi), ma non siamo esperti in materia. …E’ difficile descrivere una sensazione di solitudine più assoluta, qualcosa che tuttavia non mi incute timore ma, se non fosse per il freddo, mi farebbe avanzare ancor più per esplorare. Si ha come una sete di spazio, un desiderio di immergersi ancor più nella natura e per alcuni momenti cedere all’oblìo. …E quindi torniamo all’auto con una certa fretta, perché, nell’incanto che entrambi ci ha preso, non ci siamo subito accorti che stava iniziando a piovere. Siamo rimasti più di un’ora e mezza sul posto così ora, una volta in hotel, divoriamo i soliti panini e stavolta mi sento proprio stremata. Domani ci aspetta un’altra giornata densa di immagini da cristallizzare nella rétina. 14 luglio 2007, sabato: Laugar- Seydisfjordur (Km 260 circa), cioè verso i fiordi orientali. Non vi ho mai parlato dello skyr..yogurt islandese di cui regolarmente ci abbuffiamo. Compatto e quindi meno cremoso di quello italiano, risulta poi più salato e lo aggiungiamo alle more..e questa è solo la prima tappa della colazione…da provare! Dopo quindi un lauto primo pasto, ci dirigiamo, come ieri sera, verso la zona del lago Myvatn, stavolta per esplorarla meglio. I percorsi sono tanti! Noi scegliamo il passo di Namascar e il cratere Viti. Lode a Dio, fa ancora piuttosto freddo, quindi..niente moscerini famigerati di cui avevamo letto ovunque!!Inoltre, grazie alle nuvole meno incombenti, c’è più luce e parcheggiamo risoluti all’entrata della prima zona, dopo aver comprato “ pranzo-cena- classico” e un paio di souvenirs in un market a Reykjahlidh, villaggio di poco più di 400 anime. Poi iniziamo la spedizione vera e propria, imboccando il passo di Namascar. Arriviamo quindi alla cresta color pastello del Namafjall, disseminata di solfataree…della serie ”ben venuti all’inferno!” Attraversiamo ponticelli, già subito storditi dall’odore malsano dell’anidride solforosa(o acido solfidrico?). Vediamo sbuffi d’acqua fuoriuscire dalla terra, acqua che ha quasi sempre uno strano colore blu tendente al viola(temperatura 200°C), fumo uscire da qualche pertugio di bizzarre costruzioni di pietre (logicamente vulcaniche) . Ognuna di queste particolari sorgenti è incorniciata da terra desertica ove la crosta terrestre è spaccata in più punti (attenzione a non poggiarvi le scarpe, vi brucereste) e da striature giallastre man mano che ci si avvicina a ogni sbocco di soffione o sorgente. Il resto è spazio e ancora spazio senza soluzione di continuità. Thomas per un po’ sparisce, è un puntolino lontano che si china, osserva e scatta fotografie. Potrebbe essere Harrison Schmitt dell’Apollo 17, intento a raccogliere qualche reperto. Poi torna, gli è venuto mal di stomaco (anche il mio apparato digerente non scherza) e così, nonostante il paesaggio “lunare”, torniamo alla nostra auto. Dopo tre chilometri(svolta a sinistra per la strada n.863) arriviamo alla zona del vulcano Krafla. Non c’è molto tempo, quindi esploriamo solo una delle numerose bocche aperte nel corpo centrale di questo vulcano. La serie di eruzioni che formò il cratere che ora esploreremo(Viti, largo 320 metri) iniziarono nel 1724 e durarono ben cinque anni e, sebbene l’attività vulcanica sia continuata ad intermittenza fino ai nostri giorni, il Viti(che significa “inferno”in islandese) è ora considerato inattivo. Un sentiero a piedi, in salita, ci porta in breve tempo all’altezza del cratere. Quindi, dopo aver ammirato la sua imponenza e la sua bellezza(terra color marrone cangiante + lago, formato all’interno del cratere, completamente blu), lo giriamo seguendone il perimetro. Scopriamo, dietro al Viti, due laghi gemelli, sorgenti fangose bollenti, caratterizzate dall’odore malsano già citato in precedenza. Nonostante il persistente mal di stomaco, prima di scendere il sentiero del cratere Viti che ci riporterà all’auto, non possiamo fare a meno che pensare alla mano di Dio, che qui, come a Namafjall, ha tracciato con mano un vivo dejavue della prima puntata della Creazione. Ore 15.30 circa. Torniamo sulla “Ring Road”(ripercorrendo a ritroso i tre chilometri sulla strada n.863) e seguiamo il cartello per Egilsstadir, meta peraltro ancora lontana. ***parentesi Thomas ed io avevamo già battibeccato parecchio la sera prima con la cartina sotto il naso, perchè io avrei voluto allungare la strada passando per Husavik e la penisola di Tjornes (strada n.87 e n. 85) e successivo arrivo ad Jokulsargljufur(“canyon del fiume glaciale”) e alla cascata Dettifoss(strada n. 864), posti di rara bellezza. Purtroppo, in uno dei suoi momenti tipici( e per fortuna abbastanza rari) di “bastian contrario alla Thomas”ciò non è stato possibile. L’indicazione di “parte di strada non asfaltata” ha bloccato il pur temerario uomo. Avevo straletto da più siti internet che la strada del canyon è infatti piuttosto sconnessa, ma che comunque non rappresenta problemi neppure per una 2 x 4 come la nostra Polo, basta rallentare e avere prudenza. Mi è rimasto quindi un rimpianto indicibile che spero di colmare( cioè di tornare in Islanda e percorrere in un altro viaggio i fiordi settentrionali, comprese le sopra citate imperdibili zone). ***chiusa parentesi. Da qui in poi attraverseremo Km. 170 circa di NULLA.. Non per niente abbiamo fatto il pieno di benzina a Reykjahlidh(vedi lago Myvatn). Difficile esprimere ciò che si prova osservando il paesaggio lunare, misterioso e sovrannaturale che si presenta alle nostre pupille…uno spazio dentro lo spazio. Giunti a Grimsstadir, un’isolata fattoria posta tra l’incrocio tra la “Ring Road” e la strada n. 864, tento un’ultima volta, invano, di convincere Thomas a deviare un momento per vedere almeno la cascata Dettifoss…ma coi “bastian contrari” c’è poco da discutere. Quindi proseguiamo sulla statale n.1 lungo il NULLA e l’isolamento continua, ti copre persino il cervello come un qualcosa di quasi palpabile, un tantino inquietante, anche se denso di fascino. Terre laviche costellate di pietre ocra ricordano moltissimo qualche immagine di Marte che si può vedere sul sito della Nasa, ma a volte il terreno cambia e si copre di mini collinette ricoperte di muschio, senza contare i vari fiumi o torrentelli, probabilmente di origine glaciale, che ci hanno accompagnato in tutti questi giorni. Superfluo è dire che non esiste neppure un piccolo arbusto. Infine, a tardo pomeriggio, il NULLA sparisce per far posto al paese industriale di Fellabaer e, dopo un ponte, alla cittadina gemella di Egilsstadir, 1637 anime, secondo l’ultima edizione della guida Lonely Planet. Il paese, squadrato e piuttosto monotono, non dice un gran che, ma già lo avevo letto. Per questo, nel pacchetto del tour operator scelto, pagando 60 euro in più, avevamo rinunciato a un pernottamento qui( interrompendo la catena alberghiera scelta dal tour operator stesso) per optare per un paese molto pittoresco a km 27 di distanza, di cui mi ero innamorata praticamente dall’estate scorsa, “smanettando” su Internet. Quindi, intravisto il bel lago lungo e stretto di Egilsstadir ( chiamato Logurinn) che sapevamo già di non poter circumnavigare per mancanza di tempo, abbiamo deviato per la strada n.93( asfaltata), salendo, con una serie di curve impressionanti, sino a un passo. Da qui la vista dall’alto di Seydisfjordur, il paese pittoresco di cui ho detto sopra, sapevo essere incomparabile, ma è stata a noi preclusa per le nuvole che, oltre ad esserci state compagne per tutto il viaggio di oggi, ora si sono abbassate ulteriormente, facendoci vedere comunque rivoletti e cascatelle poeticissimi che circondano tutto il villaggio, in cui abitano 804 persone. Altre curve, stavolta in discesa ( da prendere con prudenza) , ci hanno condotto infine a quello che molti (noi compresi) definiscono il più bel fiordo orientale, lungo km.16, sulla cui imboccatura si affaccia appunto Seydisfjordur, piccola città circondata da imponenti montagne. Tra l’altro, nel suo porto, attracca ogni giovedì il terminal del traghetto della Smiryl line, che partito dalla Danimarca (o dalla Norvegia) si ferma alle isole Shetland e poi alle isole Faer Oer, prima di arrivare qui. Ci sistemiamo nell’unico hotel presente, l’hotel Aldan, : ci tocca una camera deliziosa, con mobili antichi, caldo parquet, bagno annesso pulitissimo con piastrelle bianche e nere, accessoriato e funzionale. Dopo aver gustato il solito menù già descritto in precedenza, usciamo alle ventitrè per avere un quadro più completo di Seydisfjordur. Una fiaba… le nuvole sono basse e alcune si insinuano tra casette blu, gialle, rosse, bianche, verdi. Dalle linee armoniose delle costruzioni si comprende che c’è stato un buon studio architettonico. Thomas non fa altro che inquadrare scorci, io filmo tutto, immortalo anche il tenue rumore dell’acqua del fiordo, che danza, a tratti, al lieve vento. Lottiamo contro il gelo (forse zero gradi) e l’umidità che si insinua nelle ossa, cogliamo la poesia che gli abitanti hanno voluto trasmettere in ogni cosa. A ridosso dei monti color smeraldo che sovrastano il paese troviamo anche la “chiesa blu” ( che in realtà è azzurra), in cui ogni giovedì, in questo periodo, ci sono concerti di musica jazz. E’ mezzanotte passata quando rientriamo in hotel e ci ritempriamo nel tepore di soffici piumini che ci conducono beatamente al sonno.
15 luglio 2007, domenica: Seydisfjordur – Hofn (Km 260 circa), cioè il percorso da nord a sud dei fiordi orientali. In un delizioso negozietto di Seydisfjordur ho comprato un maglione di lana spessa, a disegni geometrici blu, azzurri e bianchi ( è un po’ caro ma è una favola ed è fatto a mano), Thomas mi ha invece offerto un cappellino di lana nera con i copriorecchie. Il benzinaio, per fortuna, è aperto anche di domenica e ci fermiamo per comprare i soliti panini con l’acqua. ( Il mini-market, purtroppo, è chiuso.). Partiamo alle undici e rifacciamo le curve della strada 93: stavolta c’è il sole, per cui Seydisfjordur è immortalata da telecamera e foto. Per incanto, le nuvole che gravavano sul paese sono sparite. La prossima tappa è Reydarfjordur, imboccando la strada 92(asfaltata), insediamento di 650 anime. Il paesaggio è sempre incantevole( anche se il sole ha deciso di sparire già), ma le case secondo me, sono costruite con linee meno poetiche di quelle di Seydisfjordur e quindi il fascino ne risulta un po’ impoverito. Questo luogo è infatti essenzialmente un porto commerciale. Base militare degli alleati della seconda guerra mondiale, possiede un interessante Museo della Guerra che noi purtroppo non abbiamo potuto vedere per mancanza di tempo. Proseguiamo il fiordo iniziando a percorrere la strada 96 sino a Faskrudsfjordur, fondato da pescatori francesi alla fine dell’Ottocento. La località non è molto attraente, tuttavia Thomas scatta una foto da “urlo” perché di fronte al villaggio si stagliano due isolette deliziose: Andey (colonia di anatre) e Skrudur (abitata da sule). Continuiamo a percorrere curve ( per ora sempre asfaltate) sino a Stodvarfjordur, villaggio un po’ sonnolento che Thomas percorre un un battibaleno, nonostante le mie suppliche di fermarsi almeno mezz’ora per vedere il museo di minerali della signora Petra Sveinsdottir, come raccomandavano le guide Routard e Lonely Planet. Dopo un’altra battibeccata, qualche chilometro oltre ci accorgiamo che la strada 96 cede il posto alla “Ring Road”, presso il villaggio di Breiddalsvik. Non perdetevi una bella passeggiata nella baia, camminando sulla sottilissima sabbia grigia (Thomas ed io siamo rimasti folgorati dal posto)…Attenzione, il vento c’è quasi sempre ed è veramente impetuoso. Di fronte a noi l’oceano, in tutta la sua imponenza. Che esperienza! Ripresa la marcia, eccoci in breve nel Berufjordur, fiordo incassato tra pareti di riolite. Arrivati alla bocca del fiordo segue per qualche chilometro una strada sterrata in ghiaino, con grande disappunto di Thomas, strada facilmente percorribile, comunque..basta rallentare. La sponda sud occidentale è dominata dal monte detto “Roccia di Dio”, che si staglia per 1068 metri( anche da qui vennero gettati, pare, gli idoli pagani quando l’Islanda si convertì al Cristianesimo nell’anno 1000 d.C.) E’ pomeriggio inoltrato quando giungiamo a Djupivogur, 386 anime, altro villaggio di pescatori, interessante per i vecchi edifici e il pittoresco porticciolo da dove, tempo permettendo, alle ore 13 di tutti i giorni, vi sono escursioni per l’isola di Papey. Abitata una volta da frati irlandesi, ora qui vi dimorano solo foche ed uccelli marini. (A parte l’ora non adatta, comunque, ho i miei dubbi che in una giornata tanto plumbea sia partito il traghetto poche ore fa). Dopo esserci rifocillati in un ritrovo discretamente affollato ( e comperato qui i viveri soliti per la cena) torniamo alla nostra incantata solitudine riprendendo il viaggio. Il desiderio di vedere l’isola di Papey al largo della costa è forte, tuttavia presto constatiamo che ciò è impossibile poiché davanti ad essa si stagliano almeno un paio di isolotti lunghi che quindi ne impediscono completamente la visuale. Dopo pochi chilometri, altro tratto di ghiaino, comunque percorribile con la consueta prudenza. La cosa rimarrà così per un po’ (qualche chilometro di ghiaino alternato a strada asfaltata), ma ormai ci abbiamo fatto l’abitudine. Ecco…però all’Islanda non ci si farà mai l’abitudine, né al sempre pittoresco fiordo che appare all’improvviso, né al “ lato monte” del percorso, che varia da tratti pianeggianti di muschio verde brillante a parti sabbiose di terra tipicamente vulcanica, né ai monti lavici troneggianti all’improvviso su di noi, dopo una curva, di aspetto un tantino inquietante perché, all’apparenza, almeno, un po’ franosi. Superato un ennesimo promontorio, ecco infine una laguna, così particolare e così fuori dal mondo da togliere il fiato. Nella prima parte c’è ancora un po’ di vero mare, segue poi un terreno paludoso: entrambe le parti sono costeggiate da due lingue di terra,”Fjorur” ne specifica il nome la cartina. All’interno di tutto ciò, tra le mille sfumature di beige e marrone puro della sabbia e l’acqua a tratti melmosa, a tratti più limpida, un vociare alto sovrasta ogni cosa. Sono centinaia di anatre e di cigni di varie specie! Il mare, a quest’ora della sera, è molto affollato. Il lato monte è invece tutto un susseguirsi di spettacolari montagne di riolite. Dopo esserci dimenticati di tutto per almeno un quarto d’ora, filmando il più possibile, entriamo nell’ultima baia, (ovvio che si tratta ancora di uno splendido scenario), dopodichè arriviamo al cartello che indica Hofn. Senza entrare in questa “metropoli”( borgo di pescatori di 1783 anime, specifica la guida Lonely Planet) proseguiamo per circa dodici chilometri, sempre seguendo la statale n.1, dove troviamo, a sinistra, la breve deviazione per il nostro hotel. Il tempo è rimasto piuttosto nuvoloso per tutto il pomeriggio, con qualche breve schiarita che non ci ha impedito comunque di ammirare le continue meraviglie che si sono apprestate ai nostri sguardi. Ora sono circa le nove di sera e, arrancando con le valigie verso l’entrata dell’albergo, ci accorgiamo con un piccolo disappunto che è scesa un po’ di nebbia, giusto impedendoci di ammirare una propaggine del ghiacciaio Vatnajokull, visibile dall’hotel, così almeno assicura la valanga di deplians turistici che ci siamo portati. Forse due, forse tre gradi.Ci fermiamo un attimo ad ascoltare il silenzio che ci racchiude come un’ostrica e infine “sentiamo” davvero il monumentale ghiacciaio, senza ancora vederlo. Si ha la sensazione di essere di fronte ad un’essenza, a una creatura che possieda innumerevoli anni. Apriamo ogni poro della pelle e ogni nostro senso per ricevere più informazioni possibili: ricordi ancestrali, saggezza atavica e molto altro, che non riusciamo davvero a comunicare a parole. Più tardi, dopo una sospirata doccia calda e il sapore del merluzzo ancora in bocca gustato dentro i panini, rimango col naso schiacciato contro il vetro dell’hotel( per la cronaca: comodo, molto pulito, curato nel design, come anche quelli che abbiamo sinora incontrato). Né io né Tomas riusciamo ancora a discutere delle emozioni che ci stanno arrivando a raffica in questi giorni. Rimaniamo in silenzio a guardarci, ogni notte, prima di prendere sonno. FINE DELLA PRIMA PARTE Un delirio chiamato Islanda(SECONDA PARTE) 16 luglio 2007, lunedì : Da Hofn ad Hella(km 370 circa). Il Vatnajokull ci ha svegliato, insieme a un solitario raggio di sole sfuggito alle nuvole, spruzzandoci nelle pupille bagliori azzurrini dalle sue lingue di ghiaccio. Impietriti, prendiamo atto dell’emozione senza nome che ci chiude la gola: si tratta di una parte della calotta polare, formatasi a partire da 2500 anni fa circa, la terza al mondo per dimensione dopo Antartide e Groenlandia. Pensando a questo, saliamo lentamente in auto. Thomas, nonostante il momento di grande liricità, non dimentica di essere ordinatissimo e sistema con perizia i bagagli. Oggi ci attende la prosecuzione della discesa da nord a sud dei fiordi orientali. Prima tappa, la meraviglia più “gettonata”: la visione dello Jokulsarlon. Durante i primi chilometri, (ci siamo concessi di partire verso le dieci, nonostante la lunga tappa) attraversiamo la regione paludosa di Myrar, costituita dai delta di due fiumi dal nome lunghissimo ed impronunciabile. L’incanto di questo posto vale pure una sosta, soprattutto nell’ammirare le storme di uccelli acquatici che lo popolano. Dopo un’ora e mezza circa dalla partenza, arriviamo in prossimità del tanto atteso Jokulsarlon. L’unico raggio di sole è sparito e inizia una fitta pioggerellina che tuttavia non ci impedisce di estasiarci, appena parcheggiata l’auto, di fronte agli azzurri iceberg luccicanti che galleggiano su un lago. Profondo circa 200 metri, leggiamo sulle nostre due guide, lo Jokulsarlon è una laguna popolata da iceberg staccatisi dal ghiacciaio Breidamerkurjoekull che avanza e si ritira periodicamente. Trascorriamo un po’ di tempo ad immortalare con telecamera e macchina fotografica questi posti. Io sono imbacuccata nel mio goretex rosso, guanti e berretto obbligatori. Anche Thomas si è allacciato il goretex. Ciò è sintomatico: potrebbero essere non più di due gradi, anche perché si è levato un vento pungente. Individuiamo le imbarcazioni anfibie provviste di ruote per scendere nella laguna. Facciamo il biglietto e con un nodo in gola saliamo su una delle imbarcazioni per una gita di circa 40 minuti. Una simpatica ragazza, la guida della piccola spedizione, spiega in inglese e in francese il motivo per cui alcuni iceberg sono così azzurri e del come si formano. L’incanto è massimo quando, quasi alla fine del tragitto, notiamo, sdraiati tranquillamente a prendersi la pioggerella, un gruppetto di foche marroncine. Riusciamo a filmarle per un paio di secondi, mentre una di esse ci fissa con una certa curiosità. Dopo aver preso una bevanda calda e qualche panino presso il caffè Jokulsarlon, situato nei pressi, riprendiamo la marcia e iniziamo ad inoltrarci nel primo Sandur: si tratta di depositi di limo, sabbia e ghiaia erosi dai ghiacciai e trasportati a valle dalle innondazioni e da corsi d’acqua dai letti fluviali ramificati. Per fortuna il vento non è forte, altrimenti la Polo si sarebbe fatta un inevitabile bagno di sabbia. (Gli Islandesi, tuttavia, leggiamo nelle guide, hanno pompe di lavaggio disponibili gratuitamente presso quasi tutte le stazioni di servizio…notevole!). Verso le quattordici arriviamo allo Skaftafell, il parco nazionale più conosciuto d’Islanda. Altra zona “da urlo”: calotta glaciale e ghiacciai lottano per arrivare alla costa, gli spazi in cui immergere lo sguardo sono infiniti…Il senso della distanza, in Islanda, è particolare e ingannevole. Dopo aver parcheggiato presso il Centro visitatori che fornisce opuscoli e cartine, nonché utili informazioni, rinunciamo all’escursione sul ghiacciaio a causa dei miei problemi alla schiena di cui ho parlato all’inizio, e optiamo per un sentiero facile (un’ora e tre quarti tra andata e ritorno) che arriva sino alla cascata Svartifoss: quest’altra meraviglia della natura è fiancheggiata da colonne di basalto a strapiombo . Il tempo si è schiarito, per fortuna, quindi la camminata è stata veramente piacevole. Prima di partire ci fermiamo al Centro visitatori in cui, nel reparto souvenirs, compro a Thomas una sciarpa. Ne approfittiamo anche per fornirci dei soliti viveri per la cena. Rieccoci quindi a percorrere altri sandur, in un quasi nulla assoluto come ormai da giorni. I paesi segnati nella cartina sono spesso semplici villaggi, come quello di Kirkjubaejarklaustur(nome davvero impronunciabile!), dove però c’è una stazione di servizio e un market. Sono ormai le diciannove quando arriviamo al crocevia per Vik. Giriamo a sinistra per arrivare alla magnifica spiaggia del villaggio e rallentiamo a passo d’uomo, a un certo punto, per far transitare una mandria. Una delle mucche percorre la strada al rallentatore perché ha le mammelle stracolme di latte. Intorno, prati e colline di un verde quasi smeraldo e …il sole, infine, sta uscendo dalle nubi piroettando i suoi raggi tra la sabbia nera che si sta avvicinando al nostro sguardo. No, non è ancora finita la giornata! Parcheggiamo e camminiamo in riva al mare, quasi bianco dalla luce, accanto a noi, così variegato in toni d’arancio più a sud, invece, verso l’altopiano roccioso di Dyrholaey, al cui margine orientale si erge un ampio arco di roccia, dove appunto stanno giocando alcuni raggi di sole. Ci immortaliamo in varie immagini: io sono esterrefatta, in una foto, mentre guardo le colonne basaltiche che ricordano un gigantesco organo da chiesa, situate alla base di un promontorio a picco sul mare; un un’altra Thomas osserva i primi impacciati voli dei piccoli delle pulcinelle di mare. Infine, facciamo delle riprese del luogo a trecentosessanta gradi, quindi rimangono immortalate anche le grida di questi tenerissimi volatili. Verso le venti ripartiamo, e siccome la meta è ancora un po’ lontana, informiamo l’albergo del nostro ritardo. (i vaucher degli hotel sottolineavano l’importanza di avvisare in caso di un arrivo oltre quell’ora). Sono io che balbetto nel cellulare alcune frasi nel mio impacciatissimo inglese. Dall’altro capo del filo una donna, padronissima della lingua e con pronuncia molto chiara, ci tranquillizza che la camera ci verrà tenuta e ci ringrazia per averla avvisata. Anche questa è fatta! Dopo una trentina di chilometri arriviamo al villaggio di Skogar, davvero minuscolo, e imbocchiamo una deviazione a destra che in breve ci porta all’imponente cascata di Skogarfoss. Alle venti e trenta, come se non ne avessimo ancora avuto abbastanza, veniamo assaliti dai barbagli e dagli spruzzi dell’acqua impetuosa di Skogarfoss, che si butta con un salto di sessantadue metri su un pendio roccioso. Ci bagniamo, naturalmente, e facciamo quindi attenzione alla macchina fotografica e alla telecamera. E’ ormai il crepuscolo, ma la luce radente, azzurrina, le ombre lunghe, il cielo rasserenato, contribuiscono a questa atmosfera da fiaba. Tra sosta e chilometri rimanenti, arriviamo ad Hella alle ventuno e trenta e qui accade l’unico piccolo inconveniente del viaggio. Dopo aver scaricato i bagagli, il maitre ci assegna una camera con bagno “al piano”, nonostante il vaucher dell’hotel mostratogli indichi chiaramente che è stata prenotata una stanza con bagno privato. Sicuramente è stato un errore non obbiettare, ma il nostro silenzio, conseguente alla sua frase, è stato dettato da un’improvvisa e totale stanchezza, per cui saliamo alla nostra stanza senza replicare. Subito però ci pentiamo della nostra reticenza. La camera è carina ma davvero troppo piccola. Una volta spalancate le valigie sul pavimento, se vogliamo spostarci per la stanza dobbiamo salire sui letti, entrambi naturalmente a una sola piazza e messi tutti e due sulla stessa linea, separati solo da un minuscolo comodino. L’armadio “fai da te”, inoltre, non ha stipiti e chiaramente esiste un solo piccolo lavabo. Thomas, dopo tutti quei chilometri, rimane estremamente contrariato, perché per lui la doccia privata è un “must”. Non sempre accetto bene anch’io i cambiamenti, ma, forse per una reazione nervosa, stavolta mi metto a ridere e mi bardo in un asciugamano e mi autoconvinco che, in fondo, posso far finta di essere appena uscita da una piscina a Sanremo, dove vado regolarmente, e sgattaiolo fuori per rassegnarmi a scegliere una delle due docce al “piano”, comunque pulitissime. Tornata in camera l’umore di Thomas è sempre nero e stiamo per litigare perché al solito io, avendo l’abitudine di parlare a voce troppo alta, vengo salutata da una risposta inequivocabile che corrisponde a una tempesta di pugni sul muro proveniente dal nostro misterioso vicino che alle dieci, evidentemente, vuole già dormire. Ci ammutoliamo e iniziamo a compiere i movimenti per mangiare nel modo più silenzioso possibile, regolando poi al minimo lo scroscio d’acqua per lavarci i denti. Ancora qualche colpetto inequivocabile ci arriva dalla stanza, e concludiamo che le pareti qui sono estremamente sottili. Per completare l’opera ci accorgiamo che esiste un’unica spina bipolare , che occupiamo per ricaricare le batterie della telecamera. Essendo una spina incassata alla parete, non permette di inserire nessuna spina doppia, anche se bipolare. Quindi, il kit di prese di tutti i tipi esistenti al mondo, comprato prima di partire, non serve a nulla. La seconda presa è di tipo “magic”( la usavo io alla fine degli anni ottanta per far sentire i primi cd a scuola…sono insegnante di musica, a proposito), ma da anni sento che in Italia non è più in uso. Ignoro le proteste di Thomas e scivolo in camicia da notte al pian terreno, per chiedere se hanno una spina “magic”. Almeno dieci minuti impiego per farmi capire dal maitre, che alla fine conclude che non esiste una spina “magic” nell’hotel da infilare nella presa omonima… Quindi, mentre Thomas calma la sua rabbia scivolando nel sonno, rimango sveglia sino alle due del mattino per caricare la batteria della telecamera e poi innestare quella della macchina fotografica. Domani, altrimenti, come si farebbe ad immortalare i ricordi?? Comunque, sono davvero esausta. 17 luglio 2007, martedì : Da Hella a Reykjavik(Km 250 circa). Ignaro della mia notte movimentata, Thomas mi sveglia impaziente mentre alle dieci sono ancora sprofondata nel sonno. In ben che non si dica ci prepariamo e iniziamo la tappa odierna: il Circolo d’Oro. A Selfoss, dove sostiamo in un supermercato per acquistare i soliti panini con acqua, lasciamo la Ring Road per girare a destra sulla strada n. 35 (asfaltata). La giornata è qualcosa di spettacolare: come il primo giorno del circuito, troneggia il sole che non ci abbandonerà più. Assaliti da colori molto più vividi di quelli dell’Italia (provare per credere, in una giornata di vero bel tempo!), mentre la luce scorre a nastri davanti ai nostri occhi, arriviamo a Geyser verso le dodici e trenta (siamo partiti alle undici da Hella). Il posto è davvero un po’ troppo turistico, per noi amanti della solitudine, ma come perderci Geysir? Abbiamo tuttavia letto nelle guide che la sorgente omonima è inattiva dagli anni Sessanta, a causa di pietre e terra in quantità innumerevole lanciate dai turisti. Fortunatamente ora c’è una sorgente calda sostitutiva: lo Strokkur, che emette zampilli sino a 35 metri ogni 10 minuti. Mentre Tom prepara macchina fotografica e telecamera, io rifiuto decisamente di partecipare all’operazione perché non sono brava con queste riprese impegnative e, se venissero male, lo rimpiangerei tutta la vita. Intanto lo Strokkur ha appena zampillato facendo emettere una corale esclamazione di giubilo alle almeno cinquanta persone che accerchiano l’area. La magia dell’acqua che compie questo salto terrificante è davvero qualcosa che va oltre il miracolo, per cui mi rifiuto di descrivere a parole perché non ne esistono di appropriate per descrivere il fenomeno. Ho letto che le eruzioni avvengono circa ogni dieci minuti, per cui, dopo circa centoventi secondi, faccio tranquillamente il periplo dell’area…Un crescente e preoccupante brusio, però, mi fa voltare allarmata, appena in tempo per schivare il successivo, altissimo zampillo. ( in netto anticipo!) Da anni non posso correre, ma le mie gambe sono scappate per conto loro… Thomas mi raggiunge preoccupato, poi si calma perché, grazie a Dio, non è successo niente, a parte l’unico semplice fatto di essere guardata dall’intero gruppo di persone con aria sbigottita. La frase di Thomas “Ti fai conoscere anche qui! ” ha il potere di raffreddare velocemente le (poche, per fortuna) bollenti gocce che mi hanno raggiunto. Bene… forse conviene svignarsela, decido, infilandomi nel negozio di souvenirs poco distante, e uscendone dopo pochi istanti, perché vi sono davvero esposti oggetti di dubbio gusto. Sentendo davvero caldo ( sono circa diciotto gradi) restiamo in maglietta, distesi in un’aiuola, per consumare il pranzo, poi ripartiamo alla volta della cascata Gullfoss. Sembra sempre che i nostri sensi abbiano fatto il pieno, ma non è così. Mentre Thomas rimane un po’ indietro a filmare, io imbocco le rampe in discesa verso la cascata che si getta con un salto di trentadue metri in un canyon. Mi bagno quasi completamente perché mi avvicino molto, ma non me ne importa nulla. Fa caldo, ma la cosa più incredibile è l’arcobaleno creato dagli spruzzi d’acqua che giocano col sole. Per questo l’euforia ha avuto il sopravvento e sono fradicia. Non proseguiamo sino al ghiacciaio Langjokull, perché la strada diventa una pista (precisamente la F35), quindi invertiamo la marcia e torniamo a Geysir. A questo punto giriamo verso la strada n. 37, in direzione Thingvellir. Dopo alcuni chilometri, circa alle ore diciotto, imbocchiamo la sterrata strada 365, che Thomas affronta con aria accigliata perché è costituita da ghiaino. Tuttavia, la sua proverbiale prudenza e la bellezza stratosferica dei luoghi lo ricompensano ampiamente. L’infinito sembra ampliarsi ulteriormente, sembra di percorrere un deserto marziano. Almeno tre volte sostiamo. Thomas si fa fotografare da lontano, immerso in questo “terreno marziano”, mentre si appoggia a una roccia alta quasi quasi quanto lui stesso. Davvero, gli manca solo la tuta spaziale! Dopo essere passati finalmente a una strada asfaltata, la n. 36, alle diciannove circa arriviamo al parco di Thingvellir. Questa pittoresca vallata, immersa in un ondulato paesaggio di colate laviche, ha il terreno solcato da crepacci rocciosi, ruscelli che scorrono tra campi di terra vulcanica e cascate che si gettano in canyons spettacolari. Il quadro è completato da muschi e foreste di betulle nane. Storicamente il Thingvellir è un sito importantissimo, perché fu sede del primo parlamento islandese(Althing), che si riunì qui per la prima volta nel 930 d.C. Costeggiando il misterioso e fiabesco lago Thingvallavatn, ricco di strolaghe e altri uccelli migratori, oltrechè molto pescoso, parcheggiamo al Centro visitatori e proseguiamo a piedi per arrivare all’Almannagjà, fenditura che si estende tra la zolla nordamericana e quella europea, le quali si stanno allontanando di un millimetro all’anno l’una dall’altra. Insomma, siamo su una fossa tettonica in piena regola! Qui scorre il fiume Oxarà, che prima di sfociare nel lago sopraccitato, forma una serie di belle cascate. In cima all’Almanagjà, infine, un’asta di bandiera segnala la Logberg (Roccia della legge), dove l’oratore della legge recitava a memoria il codice al Parlamento in seduta. Purtroppo non rimane tempo per visitare una delle prime chiese d’Islanda situata sulla sponda opposta del fiume Oxarà, perché sono già le otto di sera. Dopo aver avvisato l’hotel di Reykjavik del fatto che arriveremo più tardi, ci rimettiamo in marcia per arrivare alla capitale, reinserendoci sulla strada n. 36(sempre asfaltata) e beandoci ancora di alcuni scorci del lago Thingvallavatn. Un altro piccolo inconveniente: per un’ora almeno non riusciamo ad entrare nel centro di Reykjavik. Scoprendolo solo a posteriori, restiamo confinati nella zona dei quartieri periferici orientali, poi, infine, Thomas ha un lampo di genio perché segue i cartelli che indicano la direzione verso l’aereoporto dei voli interni, zona non lontana dal nostro hotel, come già ribadito all’inizio. Alle 22.02 parcheggiamo davanti all’albergo. Ultimo obiettivo : l’immersione in una doccia e i panini. Più tardi, mentre già Thomas dorme, impiego almeno un’ora nel cercare un cavo, messo chissà dove nella fretta, al mattino, importantissimo perché elemento indispensabile per ricaricare le batterie della telecamera. Mi cade un oggetto nello stesso istante in cui ritrovo il famigerato cavo. Thomas si sveglia di colpo e chiaramente si arrabbia. Domani lo sentirò…rassegnamoci! La luce filtra in qualche modo dalla tenda scura. Nella penombra di una incantevole notte islandese, finalmente mi rilasso. FINE DELLA SECONDA PARTE Un delirio chiamato Islanda (TERZA PARTE) 18 luglio 2007, mercoledì: Reykjavik. All’alba di mezzogiorno (ben in vista il cartellino fuori dalla porta: “do not disturb”) apriamo un occhio su una giornata incerta, con un pallido sole che sembra indugiare e sbuffare ogni tanto un raggio, fuori da uno squarcio di coltri illividite. La parola d’ordine oggi è “relax”, dopo i giorni precedenti vissuti così intensamente. Bighelloniamo in stanza compiendo una lunga toilette a cui segue il solito “pranzo”già menzionato, comprato naturalmente il giorno prima.( usassimo questa “dieta” per un mese ci ammaleremmo…ma, tant’è!). Ci concediamo tutta la calma possibile per vestirci e uscire, dopo aver fatto bollire del the nell’angolo cottura della nostra camera. Oggi, seguendo l’itinerario della guida Lonely Planet, faremo un giretto per il centro storico di Reykjavik, o almeno tenteremo. In auto, dopo una breve ricerca, troviamo un parcheggio in una piazzetta vicino alla città antica. Iniziamo a sbattere le palpebre su un avveniristico edificio come il Hafnarhusid, creazione di acciaio arrugginito, calcestruzzo e vetro ( sede di una sezione del Museo d’Arte della città), ma ci ritempriamo lo spirito, poco dopo, facendo il giro dell’isolato( Vesturgata ), ammirando antiche graziose case in legno. Neanche il tempo di tirare il fiato…seconda sorpresa.. Un’ altra costruzione impensata : un avveniristico Municipio(Radhus), costruito in calcestruzzo, lava e vetro: fissiamo sbalorditi l’acqua che fuoriesce dall’alto e cola lungo le pareti rivestite di muschio, per finire nel lago Tjorn. Ammirato più avanti l’imponente teatro in legno Idnò , costeggiamo il lago, pittoresco e pullulante di anatre e di oche e sbarriamo di nuovo gli occhi: ci si proietta davanti una Casa a torre, in legno e con la cupola a bulbo, occupata, dice la guida Lonely Placet, da una comunità di attori. Attraversiamo quindi due zone residenziali con alcune ville eleganti….sino a che, dopo aver proceduto sinora con calma e con molte pause (gradini e panchine), come sono sempre costretta a fare, a un certo punto vengo presa da uno dei miei celeberrimi attacchi d’ansia e supero Thomas di qualche decina di metri, mentre lui continua imperterrito a filmare…panico autentico di arrivare dopo la chiusura della Hallgrìmskirkja, la grande chiesa moderna simbolo di Reykjavik, visibile da almeno venti chilometri di distanza!! Thomas, ancora un po’ torvo per via dell’episodio del “cavo” della notte precedente, diventa addirittura “nero”(non ha tutti i torti… dovevamo rilassarci!). Io, ancora ignara di aver provocato un simile flagello, penso solo che, a rischio della sopravvivenza delle mie vertebre, si debba arrivare a tutti i costi in cima alla chiesa proprio oggi. Ho letto, sempre sulla guida, che la chiusura è alle ore 18. Quindi arrivo trafelata alle 17.45, facendo gesti eloquenti a Thomas ancora indietro e che ostenta la massima indifferenza, poi noto con disperazione il cartello sulla porta dell’edificio: chiusura ore 17.00. Mi siedo affranta su una panchina della grande piazza antistante la chiesa e quasi sembra irridermi la statua di Leifur Eiriksson( Leif il Felice, figlio di Eric il Rosso, noto per essere stato l’esploratore vichingo che per primo scoprì l’America). Costui è raffigurato in piedi sulla prua della sua nave, con l’espressione di chi sa e ha previsto tutto…anche un nuovo continente, altro che la chiusura anticipata di una chiesa! Il tempo si ostina a rimanere nuvoloso, ma non impedisce a me e a Thomas di filmarci a vicenda sullo sfondo delle colonne di calcestruzzo della chiesa, riproducenti colonne di basalto vulcaniche. Immortaliamo anche il campanile, alto settantacinque metri( su cui spero vivamente di salire domani). Infine mi sdraio stremata sulla suddetta panchina, mentre Thomas cerca di farsi passare il malumore girando attorno alla piazza. L’ultima parte del pomeriggio si consuma tornando al parcheggio, sebbene l’auto non sia proprio dietro l’angolo. Imbocchiamo, tra le altre vie, Laugavegur, la strada forse principale di tutta la città, pullulante di vetrine, bar, belle ragazze (a Thomas sta passando il malumore), mamme di tutti i tipi con carrozzine, ragazzi in jeans con maniche corte che sfilano impavidi(saranno dieci gradi, non di più, ma è chiaro che per loro fa caldo)… Intanto, io parto alla carica di un supermercato…là a destra, ecco, il Bonus, si risparmierà un po’….Una piccola folla umana piena di borse per la spesa esce dal suddetto luogo..quasi mi calpesta…Il Bonus sta chiudendo, all’alba delle 19.00! Mentre Thomas filosofeggia sul fatto di poter anche restare senza cena, io scovo un ristorante chiamato Rossopomodoro e ci entro con decisione. Cenare solo con qualche biscotto è il colmo, non sia mai! Thomas mi segue controvoglia. Il posto è pulito, romantico, a lume di candela, ci sono coppie, famiglie, bambini…Peccato che il conto sia oltre settanta euro in due!!(due consommé di patate e due insalate con crostini). All’uscita siamo un po’ mogi, ma mi rinfranco vedendo aperto un altro supermercato, il “10-11” (segnalato dalla guida turistica) e, ahimè, non veduto prima, anche perché questo rimane aperto 24h su 24h. Dopo quindi aver fatto scorta di panini per il giorno dopo, ci dirigiamo con decisione al parcheggio. Per oggi può bastare. Chiaramente, vista l’ora indecente in cui siamo usciti, non possiamo pretendere che ci abbiano rifatto i letti…ma noi desideriamo solo il getto di una doccia, con quel po’ di odore di zolfo a cui ci siamo abituati come fossimo a casa nostra, facendo attenzione a regolare bene l’acqua perché diventa bollente in pochi istanti. Più tardi, in camicia da notte, osservo una signora che innaffia tranquillamente le piante del suo giardino, proprio di fronte al nostro hotel. Costei non sarà magra come un giunco…ma mi sembra che non abbia neppure un cappotto! Io invece mi rifugio nel mio piumino e converso amabilmente con Thomas, a cui è passato il malumore del tutto. Domani…Un altro giorno a Reykjavik…Ricordiamoci di portare il costume, non mi voglio perdere un bagno alla Laguna blu…No, è troppo turistico…Ma che importa? E’ una volta nella vita…Thomas non risponde: lui, serafico, che non conosce neppure il senso della parola ansia, è entrato nel mondo dei sogni.
19 luglio 2007, giovedì: Reykjavik e penisola di Reykjanes( Km 105 circa). Ci si alza non abbastanza presto per riuscire a far colazione in hotel, ma non troppo oltre, affinché stavolta qualcuno riordini la stanza. Dopo biscotti e the consumati in camera, prendiamo l’auto e parcheggiamo nella stessa piazzetta di ieri. Per prima cosa mangiamo qualcosa di più consistente al bar Victor, su un lato della piazza in pietra di Ingolfstorg, tra alcune case di legno e un orifizio da cui esce il vapore intrappolato nel sottosuolo. Thomas ingoia a più riprese una tazzona di caffè (lunghissimo) islandese, invece io propendo per un altro the che accompagno con un paio di buoni pasticcini. Infine ci concediamo un’ insalata con crostini a parte (ancora!..ma il resto è davvero troppo proibitivo). Dopo essere passati dall’ufficio del turismo, da lì a due passi, per cambiare i soldi in corone, ci dirigiamo verso la Hallgrimskirkja. Finalmente riusciamo ad entrare! Nell’interno, essenziale, abbiamo modo tuttavia di ammirare una splendida scultura del Cristo e un fantastico organo costituito da oltre 5200 canne (!). Saliamo quindi in ascensore …e pazienza se la musica corale, di cui parla la guida Lonely Planet, non ci fa da cornice, perché veniamo ripagati dalla stupenda veduta della città. Il tempo è variabile, ma ora ci sta regalando un raggio di sole che va a infrangersi contro alcune tra le case multicolori di legno, rivestite in lamiera, che si ergono quasi con noncuranza accanto agli edifici artistici e ultramoderni, alcuni già notati ieri. Su una collina, argenteo, si pavoneggia il Perlan, il serbatoio geotermico della città. Sull’altro lato schiuma l’oceano, si notano le onde increspate, e ogni cosa è contornata dal magico rumore del vento che quassù è una sinfonia. Più oltre, in una nebbiolina colorata di pioggia, troneggia il monte Esija, a oltre 900 m sul livello del mare. Ci scuotiamo da un vero e proprio incanto per scendere attraverso una scaletta e poi in ascensore, mentre il nostro tempo è stato scandito, ogni quarto d’ora, dal suono dell’ orologio della chiesa, che comunque non ci ha disturbato grazie al suo timbro vellutato, anche se molto intenso. Non impieghiamo molto a tornare al parcheggio, anche perché abbiamo programmato un’escursione lungo la penisola di Reykjanes. Arrivarci è semplice perché basta seguire le indicazioni per l’aeroporto di Keflavik (voli internazionali), seguendo la strada n. 41 che abbiamo già percorso all’inizio del viaggio. Stavolta, però, un po’ prima, giriamo a sinistra imboccando la strada n. 43 per Grindavik. Appena fuori dalla capitale è ricomparsa naturalmente anche la distesa immensa di lava nera vista giorni prima. Leggiamo che questa penisola è una piccola Islanda in miniatura perché tagliata in due dalla spaccatura che separa la placca americana da quella eurasiatica. Riappaiono quindi anche le solfataree e le sorgenti di acqua calda, che per ora vediamo solo da lontano. La prima tappa è la celeberrima Laguna Blu, che deve la propria esistenza alla vicina centrale elettrica geotermica di Svartsengi, alimentata dall’acqua di mare che viene portata a alte temperature, questo dopo averla fatta passare attraverso fori di trivellazione nella lava. Alla fine il vapore ( …naturalmente stiamo leggendo dalle guide turistiche, non è “farina del nostro sacco”), termina in una grande laguna artificiale con temperature dai 37 ai 39 gradi. Purtroppo, appena arrivati nei pressi della Laguna, mi sento dire da Thomas di andare da sola: implacabile, “l’ineffabile marito” prosegue che non verrà perché il posto è “troppo turistico” per lui. Bah…Non posso forzarlo, tuttavia sono un po’ delusa perché avrei voluto condividere con lui anche questa esperienza! Entrati in un grande edificio e affittato il costume e l’asciugamano( dimenticati in albergo…imperdonabile!), lascio a malincuore Thomas e mi dirigo verso lo spogliatoio femminile dove una babele di lingue mi assale ( spagnolo, giapponese, ignote lingue scandinave, russo.. ), ma ogni donna sorride all’altra e spiega a gesti dove lasciare abiti e monili in argento (si rovinerebbero a contatto con l’acqua). Superata l’operazione “armadietti”, esco trattenendo il fiato nella temperatura di non più di dieci gradi (i raggi di sole continuano benevolmente a fuoriuscire da striature di nuvole) e la distanza è comunque molto breve prima di entrare. E’ questo il paradiso??? Non esistono parole per descrivere il benessere improvviso che mi coglie, notare i sorrisi e le occhiate eloquenti che uomini e donne (io compresa) si scambiano tra le alghe verde-azzurro, le nuvole di vapore che fuoriescono dalla superficie e la melma silicea che mi affretto a mettermi sul viso a mo’ di maschera di bellezza. Così conciata mi dirigo verso le vetrate dell’edificio dove aspetto invano che il viso di Thomas appaia per vedermi (sarà andato nella caffetteria a fianco del reparto spogliatoio, no?), ma siccome si vedono solo altri uomini che filmano le rispettive partners in acqua, ritorno dov’ero prima. Vengo poi attratta da una prorompente cascata e, assicuratami che non sia gelida, mi ci butto sotto, una volta venuto il mio turno. Non finisce qui perché ora noto un pontile con docce: mi ci dirigo un po’ guardinga… e scappo dopo due secondi tornando da dove sono venuta. Sarebbe stato sicuramente corroborante, ma non sono così coraggiosa.. L’acqua era gelida! Infine vedo alcuni giapponesi che si insinuano in anfratti più lontani, lanciandosi lunghe esclamazioni, per me alquanto misteriose. Naturalmente mi avvicino anch’io, ma dura pochi attimi…. l’acqua è caldissima e mi sta scendendo la pressione del sangue. Rimango ancora un po’ nei posti a me più congeniali, poi però mi accorgo di essere qui da quasi un’ora! Doccia, vestitura veloce, constatazione deprimente che i capelli sono stopposi e impresentabili ,( scordati anche shampo e balsamo, veramente assurdo!) infine giro per la caffetteria…Thomas forse ha trovato la donna della sua vita proprio qui? Niente paura.. Riservato qual è, ha impiegato il tempo a percorrere un giro esterno a piedi contornato da altre propaggini della laguna. Almeno per un quarto d’ora stresso il pover uomo riportandolo dentro per comprarmi una crema di bellezza di sali minerali della laguna…(la meno costosa, perché quella che faceva al caso mio sarebbe costata troppo, cioè 80 euro circa!!). Rimango euforica per un po’, si sorpassa intanto Grindavik e, imboccata la strada n. 427, “ l’autista consorte” guida e non sospetta che il percorso diventerà per lunghi tratti sterrato. (Avrete già capito che la cartina di questa zona Thomas non l’aveva neppure guardata da lontano!). Quando succede la prima di una di queste varie tappe, inizio a sudare freddo ( e lui chiaramente si inquieta) . La strada è veramente bruttina, comunque il paesaggio è qualcosa di così indescrivibile che a poco a poco ci distraiamo e….pensiamo ai gironi dell’inferno danteschi, mantenendo una velocità “storica”di non più di venti chilometri all’ora. Ci fermiamo a Krisuvik, zona geotermica dove la temperatura è di 200 C sotto la superficie ed emerge bollendo. Guardiamo il tutto un po’ stralunati, ma non è finita qui perché poco dopo è la volta del gruppo di sorgenti termali e pozze di fango di Seltùn, appena la nostra Polo svolta a sinistra nella strada n. 42. Stavolta ci sono pure le passerelle di legno che si snodano tra le vasche gorgoglianti! Notiamo, nel fango che circonda le fumarole, riflessi iridescenti, probabilmente per la presenza di minerali, anzi, la guida Lonely Planet lo conferma. L’odore causato dalle nuvole di vapore sulfureo completa il quadro. Risaliamo in auto, crediamo obbiettivamente che non si possa vedere null’altro, oggi, ma non è così: ecco la materializzazione di tutti gli incubi di bambina, il sinistro e tuttavia bellissimo lago Kleifarvatn!! La guida turistica infatti scrive che ci sarebbe un mostro dalla forma di verme, nascosto in fondo, secondo una leggenda. Le acque, in cui si specchia un cielo illividito e senza più un briciolo di sole, sono comunque davvero contornate da diverse spiagge di sabbia nera che sembrano preannunciare l’orrendo animale. Sono ormai le 20.30 quando ci riportiamo sulla strada n.41 che ci ricondurrà nella capitale. Il percorso ormai è asfaltato, con grande gaudio di entrambi, ed è facile rientrare in città, conoscendo già la via. Decidiamo, è comunque d’obbligo, di lavare la Polo, presso uno dei lavaggi automatici che qui sono gratuiti, prima di rientrare in albergo. Thomas si esibisce nella sua precisione dirigendo diligentemente la pompa d’acqua in ogni meandro dell’auto, mentre dietro di lui l’oceano si rischiara perché fa capolino una fetta di sole tra le nuvole. Che quadro! Io filmo anche questo, tappata nell’auto, e ancora stupita che nessuno venga a chiederci almeno qualche corona per il lavaggio. Le ventuno sono già passate quando parcheggiamo e iniziamo a sentire i morsi della fame. Benedetti siano i panini, il getto caldo della doccia subito bollente, i piumini dove ci avvolgiamo! A poco inizia a attanagliarci un’acuta malinconia…domani si torna a casa, non è possibile! Mentre la luce della “notte bianca islandese” filtra dalla finestra e sembra quasi guardare con mestizia le nostre valigie pronte, mentre Thomas ha la fortuna di chiudere l’interruttore dei pensieri e piombare subito nei sogni, un’idea improvvisa danza nella mia mente, si materializza nel cuore: torneremo, fantastica Islanda!! Sarà il turno della penisola di Snaefellsness e dei fiordi occidentali…. Mi avvolgo ancora più strettamente nel piumino e un attimo prima di crollare nel sonno sorrido pensando che ci sarà anche una terza volta, con l’aiuto di Dio: non vogliamo mica perderci i fiordi settentrionali?
20 luglio 2007, + venerdì 21 luglio, sabato. Raccontarvi del malinconico ritorno, della pioggia a scroscio su Londra, della nebbia che avvolge i nostri silenzi, del bollitore del the in camera che fotografiamo perché ha una linea interessante e soprattutto perché non vogliamo parlare del nostro nodo alla gola?? Potremmo invece parlarvi dell’intuizione dell’esistenza di Dio quando l’aereo si solleva all’aeroporto di Gatwick e il sole prorompe fulgido cancellando il plumbeo. Tuttavia, ( e questa è l’ultima battuta del mitico film “Irma la dolce”, una delle pellicole non mi stancherò mai di rivedere..) mi sento di concludere: ” …ma questa è un’altra storia!!!”