Perù: un arcobaleno di emozioni

1° / 3° GIORNO: LA MAGIA DEL DESERTO (MILANO – LIMA – PARACAS e ISOLE BALLESTAS – ICA – NASCA) E così ci siamo: dopo mesi e mesi di preparativi e riunioni, il 13 aprile è finalmente arrivato e l’aereo per il Perù ci attende a Madrid. Anche se sono solo le 3.30 del mattino e per tutto il tempo che impieghiamo...
Scritto da: Sara Bruno 3
perù: un arcobaleno di emozioni
Partenza il: 13/04/2002
Ritorno il: 28/04/2002
Viaggiatori: in gruppo
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1° / 3° GIORNO: LA MAGIA DEL DESERTO (MILANO – LIMA – PARACAS e ISOLE BALLESTAS – ICA – NASCA) E così ci siamo: dopo mesi e mesi di preparativi e riunioni, il 13 aprile è finalmente arrivato e l’aereo per il Perù ci attende a Madrid. Anche se sono solo le 3.30 del mattino e per tutto il tempo che impieghiamo per raggiungere Linate ci accompagna una pioggia incessante, il nostro entusiasmo è alle stelle e i nostri occhi sono pronti per esplorare questo Paese che per adesso ci siamo accontentati di ammirare in fotografia ma che da oggi vogliamo scoprire con tutti i nostri sensi. Dopo quattordici ore di volo, i nostri piedi toccano finalmente il tanto agognato suolo peruviano e i nostri corpi sono subito aggrediti dall’appiccicosa ed invadente garua, l’umidità che soffoca Lima per quasi tutto l’anno. Un breve viaggio in pullman tra le vie ricche di colori e di rumori della capitale, fondata da Francisco Pizarro il 6 gennaio 1535 ed oggi abitata da quasi otto milioni di persone, ci porta al nostro hotel, vicino al Parco El Olivar, nel quartiere San Isidro: dall’ultimo piano lo sguardo si perde tra le mille luci che, in lontananza, sembrano dissolversi a causa della nebbiolina persistente. Con la mente resa particolarmente leggera da un “pisco sour”, un aperitivo a base di brandy, limone e zucchero, ricoperto da una schiumetta di albume d’uovo in cui galleggiano allegre due gocce di angostura, ci buttiamo alla scoperta di questa metropoli, definita da Jacques Le Marie “più lontana dal Perù di Londra”, dirigendoci verso il quartiere di Miraflores, tra la povertà dei bambini che chiedono l’elemosina ad ogni angolo di strada e l’opulenza dei palazzi che si stagliano contro il cielo a due passi dall’oceano. La città è rumorosa e caotica, complice forse il sabato sera, e il traffico si rivela subito uno dei suoi punti deboli: le automobili sembrano uscite da un vecchio film cubano, con le loro carrozzerie lunghe e dai colori impensabili, e faticano a muoversi tra la moltitudine di tassisti che cercano di attirare l’attenzione dei turisti suonando il clacson. Raggiungiamo un locale con una terrazza sospesa sull’oceano e, a lume di candela, chiacchieriamo in completa libertà. L’argomento principale è il viaggio, con le sue molte sfaccettature: la cultura, il divertimento, il conoscere popoli diversi, pensieri diversi, la filosofia, la natura. Arriviamo alla conclusione che il Perù dovrebbe permetterci di affrontare molti di questi aspetti: ci attendono due settimane ricche di archeologia e misteri, deserti e aspre montagne, città e paesini. Col passare del tempo, la luce della candela si affievolisce sempre più e un leggero stordimento, attribuito al fuso orario, ma causato sicuramente dal pisco sour, si impossessa delle nostre menti e dei nostri corpi, che reclamano un po’ di riposo. Per tornare in albergo, ci affidiamo alla guida di un impavido tassista che, per districarsi tra le vie prese d’assalto da turisti e limensi a caccia di divertimento, sfoggia una conoscenza delle regole della strada molto particolare, in cui brusche frenate e improvvise inversioni di marcia sono le protagoniste indiscusse. Il giorno dopo, smaltiti brandy e scossoni del taxi, ci lasciamo alle spalle le vie ancora assonnate del centro e le decadenti baraccopoli della periferia, abitate principalmente da persone trasferitesi dagli altipiani con la vana speranza di una vita migliore, per immergerci nel brullo deserto costiero, il cui pallido beige è interrotto solo raramente da qualche zona di verde creata dal nulla da un timido fiume che, nato dai ghiacciai eterni delle Ande, va a morire nell’Oceano Pacifico. Percorriamo la Carrettera Panamericana, lungo serpente di catrame che collega l’Ecuador con il Cile, fino a Paracas, nell’omonima penisola, dal cui porticciolo partono i motoscafi diretti alle Isole Ballestas. Qui, nelle fredde acque dell’oceano, la natura ha allestito per noi, umili spettatori, uno spettacolo che lascia senza fiato. Solleticati da una leggera brezza, ammiriamo, meravigliati ed emozionati, il passo impacciato di una famigliola di pinguini che cerca un po’ di riservatezza dietro uno scoglio, due sartillos che amoreggiano indifferenti al rumore delle barche e dei turisti, il rosso forte di una stella marina aggrappata alle rocce, la corsa di un granchio (o, come lo chiamano qui, ragno del mare) sugli scogli e il volo minaccioso degli avvoltoi dalla testa rossa. Tuttavia, sono i leoni marini i protagonisti della scena che più attira la nostra attenzione: su una piccola spiaggia, sotto gli occhi attenti e premurosi delle madri, una moltitudine di cuccioli sguazza allegra nell’oceano, mentre i papà, pigri, osservano dagli scogli più lontani. È grazie alla corrente di Humboldt, che permette loro di avere le temperature tipiche delle latitudini inferiori ed una dieta molto ricca e varia, che questi animali hanno potuto colonizzare le isole. I loro richiami riempiono l’aria e si confondo con le nostre risate e le nostre esclamazioni di stupore. Lungo il tragitto, ci fermiamo ad osservare il Candelabro, una gigantesca figura incisa sulle colline della costa di Paracas: alcuni pensano che sia legata alle linee di Nasca, altri credono che sia opera degli Spagnoli, qualcuno scomoda addirittura gli extraterrestri, ma nessuno sa con certezza di che cosa si tratti né perché si trovi in quel luogo. Io ne rimango affascinata, ma forse non faccio testo, visto che riesco a farmi emozionare anche da un albero o da una nuvola, mentre la maggior parte dei miei compagni di viaggio storce il naso, scettica. Una volta ritornati a riva, ci avventuriamo nel deserto della Reserva Nacional de Paracas e un fuoco artificiale giallo, arancione e beige, sospeso tra l’azzurro del cielo e quello dell’oceano, si apre ai nostri occhi. Soffia un vento caldo che sembra divertirsi a giocare con migliaia di granelli di sabbia in grado di depositarsi in ogni angolo del corpo, così come le onde dell’oceano si sono divertite, nel corso degli anni, a modellare la costa rocciosa fino a ricavarne una formazione con un grande arco che qui chiamano Cattedrale. Lo sguardo spazia tra la linea dell’orizzonte, il sole accecante e il mare arrabbiato e si ferma ipnotizzato dai giochi di onde che il vento ha creato sulle dune sabbiose. Anche se è uno spazio ristretto e so che al di là delle dune c’è un paese, mi viene in mente tutta la magia del deserto letta sui libri o vista nei film: tramonti rapidi ma intensi, caldo insopportabile seguito da un freddo penetrante, immensi cieli stellati, calma, tranquillità, serenità… Purtroppo, i miei sogni sono subito interrotti dal rumore del motore del pullman che mi riporta bruscamente alla realtà. Una realtà fatta di un buon pranzo a base di cheviche e pesce alla griglia. Il cheviche è un piatto tipico del Perù, a base di pesce marinato con lime e peperoncino. La bocca, resa arida dalla vista del deserto, si sente appagata dal sapore acidulo che scivola verso lo stomaco e la mente è felice di iniziare a scoprire a poco a poco ogni particolarità di questo Paese. E così, saziato il corpo, la mente diventa ancora più ingorda di nuovi luoghi, nuovi incontri, nuove esperienze ed è pronta per il trasferimento ad Ica, dove visiteremo il Museo Regional. Durante il tragitto, mentre tutti cadono tra le braccia di Morfeo, vittime del sonnellino dopopasto, io cerco di tenere gli occhi aperti, per non lasciarmi sfuggire ciò che scorre fuori dal finestrino, che sia una nuvola dalla forma strana, una piantagione di cotone o un bambino che alza la mano per salutarmi. Lungo la Panamericana, si susseguono immagini in netto contrasto tra di loro: una zona arida, completamente desertica, seguita da un fiume che scorre fino all’oceano lasciando dietro di sé una striscia di un verde brillante, quasi sfacciato, rispetto all’opacità vista pochi metri prima; un gruppo di case poverissime tra le quali spicca un cartellone pubblicitario della LanPerù a forma di aeroplano; un vecchio chino sulla sedia a leggere un giornale e un bambino che corre con il suo cane sollevando una nuvola di polvere. Contrasti forti, che saranno un po’ il leit motiv di questo viaggio: assetate distese di sabbia e valli rigogliose, l’amore per la natura tipico degli Incas e la distruzione seminata dagli Spagnoli, l’oro delle chiese e la povertà di un mendicante che chiede l’elemosina in piazza… Mentre la mente si perde tra tutte queste immagini, il pullman continua a macinare chilometri e, in breve tempo, eccoci ad Ica, all’interno del Museo Regional, tra tessuti della cultura Nasca e mummie dal sorriso sdentato, quipu incas e crani deformati come segno di distinzione della classe sociale più potente. Il museo è piccolo, ma ricco di reperti interessanti e, una volta usciti di lì, rimane solo più il tempo per una sosta in una piccola oasi e poi di corsa all’hotel. Il mattino seguente, sveglia di buon’ora e partenza per Nasca. Il paesaggio non cambia: la Carrettera Panamericana taglia in due il deserto e le rare piante che riescono a crescere qui, grazie a qualche piccolo torrente, sembrano sfruttare appieno quella poca acqua che le nutre, colorandosi di un verde vivo, allegro. L’occhio è come ipnotizzato da questa esplosione di colore che emerge improvvisa in mezzo a una distesa brulla, battuta dal vento. Ai margini della strada, si notano poche baracche alle cui finestre si affacciano alcuni bambini curiosi; i loro genitori sono nei campi e anch’essi alzano il capo al nostro passaggio. Durante il viaggio, cerchiamo di documentarci il più possibile sulle famose linee che stiamo per sorvolare. Sono state tracciate dalle culture di Paracas e Nasca tra il 900 a.C. E il 600 d.C. E Maria Reiche, la loro scopritrice, ritiene che rappresentino un calendario astronomico usato per l’agricoltura. In realtà sono state avanzate molte teorie su queste figure ed io credo di accettare quella che parla di un’opera creata per gli dei che, dal cielo, possono ammirarla ogni giorno. La curiosità e l’adrenalina aumentano a mano a mano che ci avviciniamo al piccolo aeroporto e lasciano il posto allo stupore una volta che l’aereo decolla e il pilota incomincia ad indicare le figure sotto di noi. Un condor dall’apertura alare di 130 m, un extraterrestre con la mano alzata per salutarci, un fenicottero dal collo lunghissimo, una scimmia con una stravagante coda attorcigliata, due grosse mani, una con quattro e l’altra con cinque dita… sono solo alcuni dei misteriosi disegni che scorrono sotto i nostri occhi ansiosi di scoprire. Il volo dura circa trenta minuti e, una volta atterrati, le espressioni sui nostri volti sono le più disparate: alcuni sono stupiti, altri sono dubbiosi, altri ancora sono euforici. Ci accomuna una cosa soltanto: tutti continuiamo a porci la stessa domanda – Perché? E con questo interrogativo saliamo sul nostro pullman per dirigerci verso il Cimitero di Chaucilla, dove, con il vento caldo del deserto che ci soffia in faccia, vaghiamo tra dodici tombe dell’epoca Nasca. Si tratta di buche nella sabbia al cui interno sono stati ricostruiti i corpi di uomini, donne e bambini, con i loro vestiti, i loro ornamenti e le loro pannocchie da sgranocchiare nell’aldilà. Attorno a queste tombe, una distesa di sabbia in cui si scorgono ancora alcuni pezzi di ossa che hanno tenuto testa al passaggio dei secoli grazie al caldo secco di questa landa desolata. A dispetto di quello che si può pensare, l’aria che si respira è tutt’altro che lugubre: la sensazione è che questa gente sia riuscita a sconfiggere il tempo, e che quel deserto, contro cui ha dovuto lottare in vita, l’abbia aiutata a sopravvivere una volta passata nell’aldilà, conservandone non solo le ossa, ma anche i capelli, i tessuti e le ceramiche affinché noi oggi possiamo ammirarli ed emozionarci. Con il vento secco che continua a sferzarci il viso e i piedi che sprofondano a ogni passo sempre di più facendo fatica a riemergere, ritorniamo verso il pullman e, nel pomeriggio, visitiamo la bottega di un artigiano che fabbrica ceramiche con il metodo Paracas, rimanendo senza parole di fronte alla passione tramandatagli dal padre. 4° / 9° GIORNO: IL FASCINO DELLE ANDE (AREQUIPA – COLCA CANYON – PUNO e IL LAGO TITICACA) Il giorno dopo, ci attende il trasferimento da Nasca ad Arequipa: sono circa dieci ore di pullman per passare dall’oceano alla “ciudad blanca” situata a 2.325 m. Sul livello del mare, nella zona degli altopiani. Vediamo il paesaggio mutare con il passare delle ore. Al mattino, davanti ai nostri occhi abbiamo ancora il deserto, reso malinconico da un pallido sole che cerca di sconfiggere l’onnipresente nebbia, e la costa rocciosa, contro cui migliaia di onde arrabbiate si trasformano in spumeggianti rivoli bianchi. Su questa terra solo i cactus sopravvivono e sembrano implorare una goccia d’acqua con i loro rami rivolti verso il cielo coperto di nubi. Gli avvoltoi dalla testa rossa che sorvolano la spiaggia in attesa di una preda rendono ancora più inquietante l’ambiente. A poco a poco, l’oceano viene coperto da una collina e di fronte a noi si apre un’ampia zona di altipiani desertici. Il tempo di ammirare il sole abbandonarci in uno scoppio di rosso sangue, giallo ed arancione ed eccoci arrivare in città con il favore delle tenebre. Non riusciamo a scorgere i tre vulcani che circondano Arequipa, il Chachani, il Misti e il Pichu Pichu, ma ne avvertiamo la presenza, impauriti ed elettrizzati al tempo stesso. In albergo siamo subito accolti con una tazza fumante di mate de coca, una bevanda che, da adesso in poi, ci accompagnerà tutti i giorni, per superare il famigerato soroche, il mal di montagna, che a queste altitudini non deve essere sottovalutato. Ceniamo a lume di candela, con il sottofondo della legna scoppiettante nel caminetto e di quattro musicisti che, con i loro zufoli e flauti di Pan, ci avvertono che siamo a tutti gli effetti arrivati nella zona andina. La “città bianca”, chiamata così per le sue case costruite con una particolare pietra vulcanica color latte, il sillar, si svela a noi solo il mattino successivo. Quando sorge l’alba, colorando di rosa tutto intorno a noi, siamo ormai in periferia e ci stiamo dirigendo verso il selvaggio Colca Canyon, che alcuni ritengono il più profondo del mondo. Ci inerpichiamo per una tortuosa strada sterrata, attraverso la Reserva Nacional Salinas y Aguada Blanca, che occupa 367.000 ettari ad un’altezza media di 3.850 m, e rimaniamo senza fiato di fronte alle maestose cime delle Ande che si stagliano contro il cielo in lontananza, incoronate da una striscia di nuvole candide. Una in particolare sembra sovrastare ogni cosa. Mi attrae. La guida dice che si chiamo Ampato ed è così imponente da far venire i brividi. È alta 6.380 m. E per raggiungere la sua vetta ci vogliono tre giorni. E molti litri di mate de coca… Le nuvole in cielo sono stranissime, sembrano batuffoli di cotone adagiati su una stoffa azzurra. Sono ferme, non sono in competizione con il sole, che qui è accecante, non cercano di coprirlo, anzi, sembrano aver raggiunto con lui un accordo per rendere il luogo più suggestivo. Tutto è fermo, immoto, solo qualche uccellino ogni tanto spicca il volo, spaventato dal nostro arrivo. Una vigogna sta brucando, indifferente, a qualche metro da noi. È un altopiano immenso: un’unica strada sterrata lo attraversa. Guardando queste distese, la mente vaga, senza confini, libera da ogni tipo di briglia o costrizione. È la stessa sensazione provocata dalla vista di un cavallo che galoppa nel vento, di un condor che si libra nel cielo aprendo le sue immense ali, delle onde dell’oceano che si infrangono sugli scogli con una forza incontrollabile. Libertà, libertà, libertà… Continuiamo a salire, rapiti da tutto ciò che scorre fuori dal finestrino, fino a raggiungere il Passo Patapampa, a 4.820 m, caratterizzato dalla presenza di numerosi tumuli di pietra che, secondo la leggenda, rappresentano degli omini in grado di portare via la stanchezza dei viaggiatori. Il fiato manca, non so se per l’altitudine o per la vista di questo cielo che, ogni giorno, mi affascina sempre più; sicuramente, non manca per la stanchezza, anzi, starei delle ore ad ammirare il profilo delle Ande innevate o le nuvole sospese nel blu o gli occhi luminosi di un’andina che cerca di venderci un caldo maglione per proteggerci dal freddo pungente, ma ci rimane solo più il tempo per scattare una fotografia e poi iniziamo una spettacolare discesa fino a Chivay. Intorno a noi, gli allevamenti di lama e alpaca e le distese di yareta, una specie di muschio che qui si usa come combustibile, che ci hanno accompagnato fino a questo momento, lasciano il posto alle coltivazioni di cereali che hanno dato il nome a questa valle, infatti, in quechua, la lingua degli Incas, Colca significa granaio. Mai nome fu più azzeccato: segale, orzo, grano, quinoa si susseguono sui terrazzamenti incaici arroccati sulle pendici delle montagne e ci regalano un arcobaleno verde, giallo, arancione, rosso con mille sfumature. I colori qui sono all’ennesima potenza. Domina il verde, quello brillante dei campi di patate e dei prati, quello pallido dei cactus e delle agavi che resistono, imperterriti, anche a queste altitudini, il verde acqua degli eucalipti, i cui semi profumano tutta la valle; poi c’è il rosso della terra, ricca di ferro e di magnesio, dei fichi d’India maturi e della quinoa, un cereale piccolo e di forma sferica che, per le sue qualità nutritive, fu consumato da Neil Armstrong e i suoi compagni durante la prima missione sulla Luna; non manca il giallo dei campi fioriti e delle pannocchie di mais messe a seccare al sole. Tuttavia, il colore che più attira l’attenzione è sempre il blu del cielo che, purtroppo, nel pomeriggio, viene coperto da un lenzuolo di nuvole grigie che annunciano pioggia. In lontananza, i tuoni ci rivelano che si sta già scatenando un temporale e sulle vette delle Ande starà cadendo una fitta nevicata. Noi, intanto, arriviamo al Colca Lodge e ne approfittiamo per un bel bagno caldo nelle piscine termali in riva al fiume che ci permette di rilassare i muscoli scossi dal lungo viaggio in pullman. Il Colca, che scorre a due passi da noi, sembra avvertire il cambiamento di tempo diventando sempre più impetuoso. Un pescatore butta la rete dall’altra parte della riva, ma non sembra avere molto successo… Fortunatamente, le nuvole portano il loro carico di pioggia lontano da noi lasciando apparire un sole imbronciato e privo di brio che, in breve, è costretto ad abdicare al cospetto di una luna brillante ed al suo fido esercito di stelle. Il mattino successivo, l’alba colora la valle di riflessi rosati e il sole sale rapido in cielo ad augurarci buona giornata. Dopo due ore di pullman e una breve sosta a Yanque, il “paese dei signori”, raggiungiamo la Cruz del Condor, dove, grazie alla nostra buona stella, che ci accompagna dall’inizio del viaggio, riusciamo ad avvistare quattro condor. Il loro volo maestoso nella stretta gola del canyon è l’essenza della libertà. È poesia. È una sensazione unica, difficile da descrivere. Forza, potenza, eleganza fusi insieme in queste creature la cui apertura alare può raggiungere i 3 metri… Trasmettono un senso di vertigine, un brivido: sembrano sospesi nell’aria a metri e metri di distanza dal fiume impetuoso che scorre sotto di noi e il cui ruggito ci arriva solo smorzato. Dopo questa breve sosta, il nostro viaggio verso Arequipa riprende, riattraversando questa stupenda valle-arcobaleno. Nei campi, uomini e donne sono occupati a raccogliere le ultime patate, mentre, lungo la strada, molti sacchi già pieni sono in attesa del furgone che li porterà in città. Le mucche si mescolano a lama e alpaca e si inerpicano sui pendii colonizzati dai cactus alla ricerca di un po’ d’erba da brucare. Tre donne sono ferme sul ciglio della strada e dalle loro spalle si affacciano i visini curiosi dei loro bambini, legati saldamente alla schiena da una bella stoffa colorata. I loro occhi sono enormi: il bianco della cornea è sommerso dal castano scuro delle iridi; le loro mani giocano con i lunghi capelli neri e setosi delle mamme, mentre osservano il nostro pullman cercare di evitare un cane fermo in mezzo alla strada. Ripercorriamo la stessa strada del giorno prima, lasciando la nostra stanchezza agli omini del Passo Patapampa, e arriviamo ad Arequipa verso le 15.30, pronti per visitare il Monastero di Santa Catilina che, nel centro della “ciudad blanca”, si estende per quasi 20.000 m2. Qui, scopriamo che è bello gironzolare tra i modesti alloggi delle monache, o godersi il panorama della città dalla terrazza sopra la chiesetta, o cercare gli anfratti più carini da fotografare tra le strette vie colorate, perdendosi la spiegazione della guida che si ostina a riempirci il cervello con i nomi delle madri superiore che si sono succedute alla conduzione di questo convento. Quando usciamo, decidiamo di posticipare al mattino successivo la scoperta del resto della città e così, dopo una notte di riposo, alle 9.00 siamo già in Plaza de Armas, davanti alla cattedrale, costruita dagli Spagnoli e rovinata dall’ultimo terremoto: su uno dei suoi campanili, scalpellini e muratori si avvicendano per rimettere in sesto le parti danneggiate, mentre alle sue spalle la cima innevata del Misti sembra controllare che facciano un buon lavoro. Anche le altre chiese portano i segni dell’ira della terra, ma soprattutto lasciano trasparire la distruzione seminata dagli Spagnoli, che hanno usato buona parte dell’oro rubato agli Incas per decorare gli altari e il legno strappato alla Pachamama per costruire pulpiti e cori finemente intagliati. Dopo un ultimo sguardo alla vallata, raggiungiamo l’aeroporto, dove ci accoglie Juanita, la principessa di ghiaccio, una vergine inca sacrificata sulla vetta dell’Ampato più di cinquecento anni fa e offerta alle montagne per sedare la loro ira che spesso si manifestava con eruzioni, valanghe o altre catastrofi. Naturalmente, si tratta di una copia: la vera Juanita, in questo periodo dell’anno, riposa in una ghiacciaia, per essere in perfetta forma durante la stagione alta, quando migliaia di turisti faranno la coda davanti al Museo Santuarios Andinos per ammirarla. Dall’aereo, contempliamo ancora una volta le cime dei tre vulcani e la città bianca, poi, in breve tempo, ecco apparire sotto di noi il verde splendente della valle del Titicaca. Atterriamo nella città di Juliaca e ci fermiamo per qualche minuto tra le sue vie, rallegrate dal continuo scampanellio di tanti sgangherati risciò e illuminate dai mille colori delle bancarelle cariche di frutta, tra le quali si aggirano molti turisti golosi, inebriati dal dolce profumo sospeso nell’aria e indecisi tra una zuccherosa banana e una succosa mela verde, un’invitante papaia e un dissetante grappolo d’uva. La scelta è difficile e ancor più difficile è contrattare con le determinate donne andine, ma riusciamo a spuntarla e, borsa traboccante di frutta in mano, ritorniamo al pullman per raggiungere la necropoli di Sillustani, situata su una collina sulle rive del Lago Umayo. Qui si trovano numerose “chullpas”, antiche torri funerarie usate dai Colla, una civiltà antecedente gli Incas, per seppellire i loro nobili. Sono costruite con enormi blocchi di pietra, su uno dei quali è ancora visibile l’immagine di un serpente, ed hanno una sola piccola apertura verso est, dove sorge il dio Sole, che veniva chiusa dopo che la mummia, insieme ai suoi averi e alle sue scorte di cibo, prendeva possesso della torre, facendola diventare la sua casa per l’eternità. È un luogo magico: il merito forse è della cornice naturalistica, o del volo di uno sparviero che ci sorprende mentre stiamo ammirando le chullpas, o di Clever, la nostra guida, che ci rende partecipi dello stretto legame che ancora unisce il suo popolo alla Pachamama, o delle nuvole in cielo che si muovono rapide, lasciandoci intravedere per pochi secondi una pallida luna, o del sole che fa risplendere le acque leggermente increspate del Lago Umayo. Rimaniamo un po’ di tempo a passeggiare su questa collinetta, tra le anime dei Colla, attratti come delle calamite da queste torri ricche di ferro che si aprono verso il cielo per ricevere da lui tutta l’energia necessaria per riportare alla vita la persona che in esse è stata sotterrata, poi arriva l’ora di risalire sul pullman. Lungo la strada che conduce a Puno si susseguono allevamenti di alpaca e lama, casette dal tetto di paglia, prati infiniti ed enormi pozze d’acqua, eredità dell’appena terminata stagione delle piogge, in cui cielo e nuvole si specchiano, vanitosi. Clever continua a parlare dell’antica religione incas e dei loro tre mondi su cui vegliava il dio Sole: il cielo, rappresentato dal condor, la terra, il puma, e l’acqua, il serpente. Quando arriviamo al nostro albergo, sulle rive del Lago Titicaca, in breve tempo il cielo passa dal rosa e giallo del tramonto al nero della notte, dando ospitalità ad una miriade di stelle e alla luna, che occhieggia da dietro la collina. Le mille luci di Puno, riflesse sul lago, sembrano unire la città, di giorno divisa tra quechua e aymara. La nostra cena è allietata da uno spettacolo folcloristico molto vivace: danzatori con vestiti sgargianti e maschere grottesche e ballerine ricoperte di lustrini si muovono sulle note allegre emesse da un gruppo di musicisti muniti di flauti, zampogne e strani sonagli. Puno è considerata la capitale folcloristica del Perù, con i suoi trecento tipi diversi di danze tradizionali, le cui origini risalgono al periodo antecedente la conquista, legate al calendario agricolo o a eventi come la semina o il raccolto. Dopo lo spettacolo, andiamo a dormire, convinti che il cielo stellato ci regalerà un bellissimo sole per domani, giornata dedicata alla navigazione sul lago, ma, al risveglio, le nuvole in cielo non promettono nulla di buono. Qualche goccia di pioggia ci accompagna al piccolo porto e continua a cadere mentre attraversiamo le enormi distese di totora, la canna che ricopre buona parte di questa zona del Titicaca e che viene utilizzata dagli Uros oltre che per costruire le barche, le case e le famose isole galleggianti, anche come cibo, grazie al suo vago sapore di cocco. Attracchiamo vicino ad una “balsas”, una tipica imbarcazione di totora, la cui alta prua a forma di puma rende onore al Lago, il cui significato è “Puma grigio” o “Puma di fuoco” e, un po’ impacciati, iniziamo a camminare su questi strati di canna. Nonostante un cartello ci saluti con un “Welcome in the Uros Islands”, sappiamo che l’ultima indio uro è scomparsa nel 1959, causando l’estinzione di uno dei popoli più affascinanti delle Ande. Un popolo che si è adattato a questa insolita esistenza galleggiante secoli fa, per sfuggire ai Colla e agli Inca. Un popolo nelle cui vene, secondo i conquistadores spagnoli, scorreva un sangue denso e nero come la pece che permetteva, con l’aiuto di una strana magia, di sopravvivere alle rigide temperature del lago. Un popolo che aveva fatto di queste isole artificiali il suo mondo e che raramente si avventurava sulla terraferma, forse incapace di vivere senza lo strano effetto che fa camminare sopra i cuscini di totora. Oggi le isole sono diventate un approdo per turisti curiosi, noi compresi, a caccia di fotografie o di souvenir o di un luogo diverso dal solito, ed è un po’ deprimente vedere lo spettacolo offerto da questi lontani parenti degli Uros che ci invitano a fare un giro sulla balsas o ci fanno visitare le loro case, la loro scuola… Nell’insieme, le Islas Flotantes risultano abbastanza tristi, forse anche per colpa del cielo, che continua ad essere coperto. Adesso capisco cosa intendeva Patty, la nostra guida ad Arequipa, quando ci metteva in guardia sulle bizze del tempo recitando un vecchio proverbio: “Mai fidarsi di un cane zoppo, delle lacrime di una donna e del cielo delle Ande”… Lasciamo le isole galleggianti ad altri turisti pronti ad assaporare la sensazione di camminare sulla totora e ci dirigiamo verso l’Isola di Taquile, credendo sempre di più al proverbio di Patty quando uno splendido sole si libera del lenzuolo di nuvole e fa risplendere le gelide acque che stiamo solcando. Ci vogliono circa due ore e mezza per raggiungere l’isola, ma il tempo scorre veloce persi in contemplazione di questa distesa d’acqua da cui partirono Manco Capac e Mama Ocllio per fondare la dinastia degli Incas. Tutt’intorno, non si vede una barca. Solo noi per km e km; solo noi e i quattro elementi fondamentali: il sole, i cui raggi infuocati ed accecanti sembrano attratti dal lago, il cielo, su cui emerge qualche sprazzo di cotone, l’acqua, di un blu lapislazzuli da lasciare senza fiato, e la terra, in lontananza, dove si distinguono i terrazzamenti inca, eterni, e le vette innevate della Cordillera Real boliviana. Molti esploratori ed avventurieri hanno navigato qui alla ricerca della mitica catena d’oro, del peso di due tonnellate, che gli Incas custodivano nel Coricancha, il tempio del Sole di Cusco, e che, secondo la leggenda, venne gettata nel lago per preservarla dalle razzie dei conquistadores. Per adesso nessuno ha trovato niente: si vede che la rana gigante lunga più di mezzo metro che Jacques Cousteau giurò di aver visto negli abissi fa una buona guardia… Taquile appare ai nostri occhi come una montagna posata sull’acqua e, in effetti, per raggiungere il paese, adagiato sulla cima, occorre percorrere circa cinquecento scalini. Clever ci indica un percorso alternativo: si tratta di un sentiero affacciato sul lago che ci permette di salire in modo più graduale, senza dover fare i conti con la mancanza di fiato, e di godere di numerosi scorci molto suggestivi. Lungo la strada, incontriamo un uomo che sta sferruzzando. Qui è una cosa abituale. Mentre le donne sono nei campi, gli uomini passano la giornata a confezionare strani berretti che, a seconda del colore, suggeriscono se la persona è sposata oppure no: il copricapo dei celibi è rosso e bianco, mentre quello degli sposati è solo rosso e finemente ricamato.

Raggiunta la sommità, lasciamo ancora una volta il nostro sguardo spaziare tutt’intorno, mentre Clever continua ad affascinarci raccontandoci le tradizioni di quest’isola. Qui le persone vivono in comunità e quasi tutti si sposano tra di loro. L’uomo e la donna si frequentano per qualche mese, convivono per circa due anni, il tempo necessario a lui per confezionare la tela che la moglie userà per portare a spalle i bambini e a lei per realizzare un poncho che lui indosserà per ripararsi dalle rigide temperature, dopodiché arriverà il matrimonio, seguito da quattro giorni di festeggiamenti che coinvolgeranno tutti gli abitanti di Taquile. Dopo il sì, la donna comincerà a tessere una cintura per il marito a cui aggiungerà qualche ciocca dei suoi capelli, per impreziosirla ulteriormente. L’isola è caratterizzata da un forte legame con la Pachamama: tutte le volte che una persona beve qualcosa, che sia acqua, vino o Inca Cola, una strana bevanda gialla che sa di Big Bubble, deve prima versarne un piccolo sorso a lei, come segno di ringraziamento. La stessa cosa succede con le foglie di coca, vero e proprio tesoro per queste popolazioni: prima di iniziare a masticarle, occorre offrirne una al Sole, una al Lago e una alla Terra. Dopo pranzo, per raggiungere il porticciolo, ci attendono cinquecento gradini affollati di uomini chini sotto sacchi pieni di rifornimenti per il ristorante, bambini dal sorriso triste che ci chiedono un sol per essere fotografati e turisti appena sbarcati ansiosi di raggiungere la cima. La barca ci sta già aspettando, così ci rimane solo più il tempo per una rapida occhiata a questo piccolo paradiso e poi non ci resta che ripartire in direzione di Puno. Durante la navigazione, il sole ci abbandona e una moltitudine di nuvole temporalesche prende il suo posto. Vediamo i fulmini scagliarsi sul lago in lontananza, mentre le cime della Cordillera Real sono illuminate da una strana luce. Le isole galleggianti sono ormai deserte: l’unico movimento è quello delle canne di totora sferzate dal vento. Il tempo di sbarcare a due passi dal nostro albergo ed ecco cadere le prime gocce di un temporale che durerà fino a notte, accompagnato da tuoni assordanti e lampi così forti da illuminare a giorno la collina circostante, creando un’atmosfera da brivido. Il giorno dopo, complice un cielo sempre più imprevedibile ed affascinante, ecco splendere il sole sulle vie allagate e sui campi ricoperti di acqua di Puno. È tempo di dire addio al lago per raggiungere Cusco, la capitale archeologica del Perù. La nostra ultima immagine del Titicaca è legata ai raggi mattutini che esaltano le sue mille sfumature di blu e alle immense distese di totora che ricoprono la zona vicino alla riva. Durante il viaggio, oltrepassiamo il Passo La Raya, a 4.338 m, dove nasce il fiume Urubamba o Vilcanota, che, da adesso in poi, ci accompagnerà tutti i giorni, stupendoci per la sua impetuosità. Stiamo infatti entrando nella Valle Sacra degli Incas, attraversata da questo “fiume sacro” che la rende fertile e vitale. Ormai il deserto della costa è solo un ricordo sbiadito e i nostri occhi sono abituati ai colori splendenti di questa zona. Nell’aria, il profumo persistente degli eucalipti ci inebria. 10° / 16° GIORNO: I MISTERI DELL’IMPERO INCA (CUSCO – VALLE SACRA – MACHU PICHU – LIMA – MILANO) Dopo due soste, una al tempio di Viracocha, il dio fondatore della civiltà inca, e una a Andahuaylillas, per visitare la cosiddetta “cappella sistina del Sud America”, arriviamo a Cusco, l’ombelico dell’impero inca, la città dove la verga d’oro di Manco Capac scomparve nel terreno ad indicare che quello era il luogo migliore per dare origine ad una fiorente civiltà. L’immancabile Plaza de Armas ci accoglie al tramonto e ci stupisce la notte, quando si riempie di luci: le due chiese barocche e il parco al centro creano un’atmosfera molto romantica e i portici, ricchi di negozietti e ristoranti, invogliano a passeggiare. E così ci confondiamo nella marea di turisti, tra bambini che cercano di venderci qualsiasi cosa, dalle gomme da masticare alle cartoline, e camerieri che vogliono a tutti i costi farci consumare una cena tipica nel loro ristorante, scoprendo che è bello perdersi tra le botteghe, alla ricerca di un berretto, di un tappeto o solo di un pretesto per fare due chiacchiere con il proprietario. Il mattino successivo, siamo in perfetta forma per iniziare a scoprire le meraviglie di questa capitale archeologica e così ci incamminiamo per la città, stupendoci di fronte ai muri inca su cui sono stati edificati i palazzi spagnoli: le pietre sono perfettamente incastrate tra di loro, senza l’utilizzo di nessun collante, in un raro esempio di solidità che ha saputo tener testa ai più violenti terremoti che nei secoli hanno sconvolto questa zona. Una sorte diversa è toccata agli edifici dei conquistadores, con i loro classici balconi in legno intagliato, più volte annientati dalla rabbia della Pachamama. Un esempio è rappresentato dalla Chiesa di Santo Domingo, dove ci fermiamo per la nostra prima visita. Questa sorge sulle rovine di Coricancha, il principale tempio inca di Cusco, ed è crollata due volte nel giro di tre secoli, mentre le mura dei templi della luna, delle stelle, del tuono e dell’arcobaleno sono ancora lì, indistruttibili, a testimoniare la grandiosità delle opere di questa civiltà. Si dice che queste mura fossero ricoperte da settecento lamine d’oro massiccio del peso di due chilogrammi ciascuna, ma, a pochi mesi dall’arrivo degli Spagnoli, di questo rivestimento non rimaneva più niente, così come non c’è più traccia delle pannocchie dorate ed argentate, a grandezza naturale, custodite nel tempio, che venivano piantate durante i riti agricoli per chiedere fertilità ed abbondanza. Tutto l’oro è stato fuso in lingotti prontamente spediti alla madrepatria. Comodamente seduti nel chiostro del convento, ascoltiamo Enrico, la nostra guida, raccontarci i misteri della croce andina. Una croce portatrice dei tre valori più importanti per gli Incas: Imparare, Lavorare, Amare. Una croce che rappresenta i tre regni in cui essi dividevano il mondo: il cielo, o condor, dove risiedevano Viracocha, gli altri dei e gli eventi naturali, la terra, o puma, patria degli uomini, delle piante e degli animali, e il regno sotterraneo, o serpente, dove trovavano asilo i semi, le mummie e la Pachamama. Tre mondi collegati tra di loro attraverso le pacarinas, dei canali sotterranei che erano visti come fonti di luce e di vita poiché era attraverso questi che la terra donava i suoi prodotti agli esseri viventi. Dopo il convento, è la volta del Museo Inca, che ospita una bella collezione di oggetti in metallo e in oro, gioielli, ceramiche, tessuti e mummie. Girovagando fra le varie stanze del palazzo, conosciuto anche con il nome di “casa dell’ammiraglio” perché il suo primo proprietario fu l’ammiraglio Francisco Aldrede Maldonado, ci soffermiamo a scoprire i mille particolari della vita quotidiana della civiltà incaica: l’importanza del mais, il culto della coca, l’allevamento dei lama, lo studio delle stelle e soprattutto lo splendore del sole, di cui l’Inca era il rappresentante sulla Terra. Fra i molti reperti, pochi frammenti di mazze e lance sono testimoni della distruzione seminata dagli uomini di Pizarro che, accolti fiduciosamente dall’Inca Atahualpa perché visti come una divinità dalla pelle chiara che veniva da oltre le acque, nel giro di due giorni, tra il 16 e il 17 novembre 1532, appena sbarcati sulla costa dell’attuale Ecuador, hanno massacrato, con 37 cavalli, 2 cannoni e le loro spade di ferro, duemila indios e ne hanno fatti prigionieri altri mille. Dopo una serie ininterrotta di vittorie e genocidi, nell’ottobre del 1533, gli Spagnoli sono giunti a Cusco, dove la loro fame di ricchezze e territori non si è fermata neanche di fronte alle possenti mura della fortezza di Sacsayhuaman, il “falco soddisfatto”, che noi visitiamo nel pomeriggio, sotto una leggera pioggia. Questo forte rappresenta il muso di un puma, animale sacro a cui si ispirarono gli Incas quando gettarono le basi per la città: il corpo era disteso nella parte bassa, con il cuore che batteva in Plaza de Armas, al tempo grande il doppio rispetto ad oggi, mentre la testa era all’erta su questa collinetta che dominava la città, con i denti aguzzi, le ventidue mura a zigzag poste su tre livelli che costituivano le fortificazioni principali, pronti ad attaccare i nemici. Mentre camminiamo tra queste mura ricche di storia dove, ne siamo convinti, si aggirano ancora le anime degli Incas brutalmente uccisi, Enrico ci racconta che qui è stata combattuta una delle più aspre battaglie della conquista: circa due anni e mezzo dopo l’ingresso di Pizarro a Cusco, il ribelle Manco Inca si impossessò di Sacsayhuaman e pose sotto assedio i conquistatori, asserragliati nella città. Solo un disperato attacco condotto da cinquanta cavalleggeri guidati da Juan Pizarro riuscì a sconfiggere gli incas e a porre fine alla rivolta. Manco Inca sopravvisse e si ritirò nella fortezza di Ollantaytambo, ma la maggior parte dei suoi soldati perse la vita nello scontro e i cadaveri attirarono grandi frotte di condor delle Ande. È per questo motivo che nello stemma di Cusco compaiono otto condor. Dopo Sacsayhuaman, visitiamo le altre tre rovine arroccate sulla collina di Cusco: Qenko, il cui significato letterale è “zigzag”, luogo dedicato al sacrificio dei lama, che deve il suo nome ai canali per lo scolo del sangue scavati ai lati dell’altare, dove un campesinos particolarmente devoto ha appena offerto alla Pachamama un po’ d’incenso, il cui profumo deciso ci solletica il naso, Puca Pucara, la “fortezza rossa”, chiamata così a causa della colorazione assunta dalla terra in particolari condizioni di luce, e Tambo Machay, “grotta per riposarsi”, probabilmente un tempio dedicato all’acqua, con una vasca cerimoniale in pietra decorata conosciuta anche come “El Baño del Inca”. Il pomeriggio si conclude con la visita a due delle tante chiese sparse per la città, a commemorare l’atrocità delle spade spagnole che imposero il verbo di Cristo sporcandosi di sangue indio: la Cattedrale e la chiesa di San Blas. La prima, le cui torri barocche svettano in Plaza de Armas, è famosa per le numerose opere d’arte della Escuela Cuzqueña, una corrente pittorica nata dall’incontro tra i grandi pittori spagnoli, chiamati in Perù per raffigurare i volti dei santi, e i ragazzi di bottega di Cusco che, anziché limitarsi a rifinire i dettagli, com’era stato loro ordinato, ne hanno approfittato per consumare la loro vendetta, disseminando le tele di simboli incaici e rendendo le mani dei personaggi sacri molto simili a dei piedi. Purtroppo la famosa “Ultima Cena”, dove Gesù e gli apostoli pasteggiano con il cuy, il porcellino d’India, e la chicha, la birra di mais, è in restauro e quindi dobbiamo accontentarci degli altri quadri, grandi e lugubri, caratterizzati dall’uso ridondante di oro zecchino e dalla mancanza di prospettiva. All’uscita, il sole ritorna ad abbagliarci, asciugando le gocce cadute poco prima sugli alberi del parco al centro della piazza, mentre una nuvola sospinta dal vento veleggia allegra dietro il campanile della chiesa La Compañia, costruita sopra le fondamenta del palazzo di Huayna Capac, l’ultimo sovrano inca, che regnò su un impero unito e non ancora conquistato. Ci rimane il tempo per la visita della Chiesa di San Blas, con il pavimento in discesa e un pulpito in legno definito il miglior esempio di arte coloniale dell’intaglio delle Americhe, e per una passeggiata nella stretta via che unisce il quartiere, in cima alla città, con Plaza de Armas. I negozi di articoli religiosi si confondono con quelli di souvenir e, davanti alle loro vetrine, le donne andine, con i lunghi gonnelloni, i cappelli stravaganti e un lama al guinzaglio, si mettono in posa, su richiesta dei numerosi turisti armati di macchina fotografica, per un sol. I loro figli sgambettano su e giù per la strada, provvisti di cartoline di Machu Pichu, di dita veloci per farle scorrere davanti agli occhi indifferenti dei passanti e di molta voglia di contrattare, mentre i tassisti scendono a rotta di collo verso Plaza de Armas, dove, suonando il clacson, faranno capire a chiunque abbia voglia di conoscere i mille monumenti di Cusco che loro sono disponibili. Arrivati in albergo, una tazza fumante di mate de coca, sorseggiato sui comodi divani, si porta via la stanchezza e il freddo dai nostri muscoli, che si rivelano subito pronti per un’altra immersione nelle vie ora illuminate di Cusco. È in programma una cena tipica all’Inca Grill, un ristorante sotto i portici della piazza, dove un gruppo di musicisti si esibisce nel suo repertorio musicale, spaziando da “El condor pasa” a “Let it be”. Le note sono un po’ malinconiche, ma un pisco sour ci rende subito più allegri e da il la ad una cena caratterizzata da un’immancabile sopa, dal solito piatto di patate (qui ne coltivano più di trecento tipi!) e da una creme brulèe alla coca dal gusto molto particolare. Il mattino seguente, la Valle Sacra, 15 km a nord di Cusco, si apre davanti ai nostri occhi assonnati con i suoi campi coltivati, simili a un grande mosaico le cui tessere colorate sono state accostate a casaccio dalla fantasia di un bambino, e i suoi piccoli villaggi sparsi lungo il corso dell’Urubamba, con le vie strette su cui si affacciano fatiscenti case dal tetto di paglia. Ci fermiamo a Pisac, dove, percorrendo un sentiero panoramico difeso da massicce porte di pietra e ripidi gradini, raggiungiamo le rovine inca, appollaiate su uno sperone roccioso 600 m. Sopra il paese. Una volta abituati al senso di vertigine provocato dallo strapiombo, lasciamo lo sguardo vagare sulla valle sottostante e sui pendii di fronte, terrazzati fino al cielo, perdendoci così la spiegazione di Enrico che forse ci avrebbe permesso di apprezzare ancora di più le camere e i templi, perfettamente conservati, di questo centro che doveva avere una funzione sia religiosa che di difesa. Scendendo in paese, ci fermiamo tra le tante bancarelle che ravvivano le vie del centro a mercanteggiare con gli indios. Pisac è famosa per il suo mercato che, soprattutto la domenica, si anima grazie ai tanti andini provenienti dai paesi limitrofi e alla folla di turisti curiosi che si reca in paese anche per assistere alla messa celebrata in quechua e seguita dallo scambio di foglie di coca tra i sindaci dei villaggi vicini, in segno di pace, e dall’offerta di alcune gocce di chicha alla Pachamama. Al pomeriggio, dopo una faticosa salita lungo i terrazzamenti posti a sua difesa, raggiungiamo la fortezza incaica di Ollantaytambo, dove Manco Inca, il ribelle, pianificò una delle rare vittorie contro gli Spagnoli, chiamando dalla giungla arcieri esperti nello scoccare frecce e facendo deviare il corso del fiume per allagare la valle sottostante e creare serie difficoltà a cavalli e cavalieri. Il suo successo, però, ebbe vita breve: poco dopo, alle forze spagnole di Cusco si unirono quelle di ritorno da una spedizione in Cile e un corpo di cavalleria quattro volte più grande attaccò di nuovo Ollantaytambo, costringendo Manco Inca a ritirarsi nella roccaforte di Vilcabamba. Dalla montagna di fronte, il Viracocha scolpito nella pietra non ha potuto far altro che assistere, impotente, alla disfatta della civiltà che un secolo prima aveva creato, così come adesso assiste alle orde di turisti che, guide illustrate e macchine fotografiche alla mano, ogni giorno prendono d’assalto questo sito, stupendosi di fronte agli enormi blocchi di pietra trasportati fin qui dalla cava a sei chilometri di distanza che hanno costituito le basi per una parte del tempio, poi rimasta incompiuta. Tra le vie del villaggio, che sorge ai piedi dei terrazzamenti, su fondamenta inca, vediamo per la prima volta un gruppo di portatori. Siamo entrati nella zona dell’Inca Trail, il percorso che in quattro giorni, partendo dal famoso chilometro 88 della ferrovia, permette di raggiungere il Machu Pichu a piedi, valicando tre passi, uno dei quali a 4.200 m. Di quota, e questi ragazzi sono disponibili per accompagnare i turisti trasportando zaini carichi di tende, sacchi a pelo, cibo, che spesso pesano quanto loro. Ai piedi non hanno scarponi, ma scarpe aperte ricavate da copertoni usati, e le loro spalle sono ormai irreparabilmente piegate. Enrico ci spiega che l’agenzia per cui lavorano li paga meno di 9 soles al giorno e quindi loro cercano di guadagnare qualcosa facendosi fotografare dai turisti… La sera pernottiamo a Yucay, all’interno di una vecchia casa coloniale trasformata in albergo. Il cedro che ci accoglie all’entrata, su cui convivono fiori appena sbocciati, frutti non ancora maturi ed altri pronti per essere colti, trasmette gioia di vivere e senso di continuità, mentre i giardini intorno alle camere sembrano una tavolozza di colori su cui un pittore distratto ha dimenticato il giallo splendente delle bocche di leone, il fucsia dei gerani e il verde dell’erba rinvigorita dalla stagione delle piogge appena passata. Dall’altra parte della via, altre stanze sono state ricavate da quello che un tempo era un convento. Qui, il negozio di souvenir, dove morbidi maglioni di alpaca cercano di attirare l’attenzione dei turisti infreddoliti, e le note di “My way”, che escono dagli zufoli di un immancabile gruppo di andini a disturbare concentrati giocatori di biliardo, creano un contrasto un po’ blasfemo con la stupenda chiesetta dai colori pastello che appare, timida, alle spalle del ristorante. La notte, il fantasma che si dice infesti una delle camere non si fa vivo, forse spaventato dai fulmini temporaleschi che squarciano il cielo, seguiti da tuoni capaci di rompere il silenzio sonnacchioso caduto tutt’intorno. Al risveglio, la pioggia continua a cadere e le nubi minacciose in agguato all’orizzonte contribuiscono ad avviare nel peggiore dei modi la nostra giornata dedicata alla visita di Machu Pichu, la ciudad perdida de los Incas. In preda allo sconforto, raggiungiamo la stazione di Ollantaytambo, dove prendiamo posto su un comodo treno dotato di mille comfort, ma sprovvisto di quell’atmosfera un po’ rustica che il nome, Trenino delle Ande, evocava in noi. Ci aspettavamo di trovare donne dirette al mercato con sacche traboccanti di maglioni, berretti e pannocchie di mais da vendere ai turisti, o uomini con la pelle bruciata dal sole e una strana bolla all’angolo della bocca, dove le foglie di coca, masticate insieme a un pezzetto di una particolare pietra, stavano diffondendo le loro svariate virtù, invece ci accolgono due hostess sorridenti che, mentre il treno scende fino ai 2.000 m. Di Machu Pichu, lasciandosi alle spalle la pioggia, ci offrono la colazione, un immancabile mate de coca e la possibilità di comprare ogni tipo di souvenir. All’uscita da ogni nuova galleria, la foresta ci avvolge sempre più, mettendo in scena uno spettacolo grandioso. Ci sono foglie grandi quanto noi, tempestate di mille goccioline di umidità, che si contendono un po’ di spazio con orchidee e gladioli selvatici i cui colori splendenti sembrano un inno alla vitalità, mentre i tronchi degli alberi, ricoperti da uno spesso strato di muschio verde ed onnipresente, fanno a gara per conquistare un raggio di sole. Arrivati alla stazione di Aguas Calientes, un pullman ci attende per portarci alle rovine attraverso una strada ripida e tortuosa a picco sul fiume Urubamba che, visto dall’alto, sembra un enorme serpente marrone che si insinua nella foresta profanandone la sacralità. Dopo dieci minuti di continui scossoni, cominciamo a intravedere le prime costruzioni, stagliate contro le nuvole grigie, ma è dopo aver varcato la soglia d’ingresso e percorso pochi gradini, che Machu Pichu si svela in tutta la sua magia, con i terrazzamenti, i templi e la cima dell’Huayna Pichu, la Giovane Vetta, che fronteggia orgogliosa il Machu Pichu, la Vecchia Vetta, a cui diamo le spalle mentre osserviamo, rapiti, questo spettacolo. Siamo divisi tra la smania di partire subito alla scoperta dei tanti segreti racchiusi tra queste mura secolari e la voglia di rimanere lì ancora un po’, a far vagare la mente, portandola indietro al tempo degli Incas, a immaginare timide Vergini del Sole affacciarsi alle finestre, o attenti astronomi discutere di solstizi attorno all’Intihuatana, o devoti sacerdoti correre verso il Tempio del Sole per celebrare un rito. Pensiamo allo stupore di Hiram Bingham che, il 24 luglio 1911, mentre era alla ricerca di Vilcambamba, l’ultima roccaforte inca, poi individuata anni dopo nell’inaccessibile e remota giungla, si imbatté quasi casualmente in questa cittadella scampata alle razzie spagnole e ci vengono in mente le parole scritte nel suo resoconto: “Mi immersi nell’umida atmosfera del sottobosco, con il cuore che martellava. Davanti a me, un muro coperto di muschio, seminascosto dagli alberi”. Dopo cinque anni di lavoro, questo muro e tutti quelli che lo circondavano sono stati liberati dall’invadenza della foresta e dei serpenti e questa meraviglia archeologica, magistralmente incastonata tra precipizi vertiginosi, ha finalmente rivisto la luce. Negli ultimi anni, il sito è stato proclamato patrimonio dell’Umanità dall’Unesco e, ogni giorno, migliaia di visitatori giungono fin qui dai quattro angoli della Terra per ammirare questa testimonianza pietrificata della potenza dell’impero inca. Nonostante ci sembri un sogno, complice l’atmosfera ovattata creata da una leggera nebbiolina che ogni tanto si alza dalla giungla, anche noi siamo tra quei fortunati e, gambe in spalla, seguiamo Enrico per i ripidi scalini che ci portano al Tempio del Sole, l’unico edificio rotondo di Machu Pichu, da cui ha inizio la visita. A poco a poco, oltrepassiamo l’Intihuatana, un pilastro di roccia utilizzato per prevedere i solstizi, e la Piazza Centrale, dove quatto lama stanno brucando la tenera erbetta del prato, per raggiungere la Roccia Sacra, presa d’assalto da alcuni seguaci della new-age arrivati fin qui per fare il pieno di energie positive, e concludere con la zona bassa, di carattere più pratico, dove, tra gli edifici destinati a prigioni, una pietra scolpita a forma di condor, simbolo di libertà, ricordava ai detenuti ciò che avevano perso, forse per sempre. Al pomeriggio, dopo aver oltrepassato la Capanna del Custode della Roccia Funeraria, un edificio chiamato così per la sua vicinanza con una roccia scolpita probabilmente usata per mummificare i nobili, camminiamo per circa un’ora, con il corpo aggredito dall’umidità della foresta, per raggiungere l’Intipunku, o “porta del sole”. Questa è l’ultima tappa dell’Inca Trail, dove la vista della “ciudad perdida de los Incas” ripaga gli esausti trekkers di tutti gli sforzi compiuti nei quattro giorni di cammino, e deve il suo nome ai primi raggi del sole che, al mattino, passano attraverso questi blocchi di pietra prima di illuminare i templi di Machu Pichu. Da qui lo sguardo corre dal serpente d’acqua che si snoda nella valle sottostante ai picchi innevati delle Ande, dai tornanti della strada, dove una nuvola di polvere ci avverte che nuovi turisti sono in arrivo, alle sconfinate distese di alberi che ricoprono queste montagne, habitat di migliaia di animali forse non ancora scoperti dall’uomo, ma ritorna sempre, come ipnotizzato, alle rovine, integrate alla perfezione con la cornice naturalistica circostante. Vaghiamo per tutto il pomeriggio tra i templi ed i terrazzamenti, sentendo l’energia di Machu Pichu invaderci il corpo, sempre accompagnati dal volo di un passerotto, sicuramente la reincarnazione di un inca che ha deciso di vegliare su di noi, fino a quando non arriva l’ora di risalire sul pullman per raggiungere l’albergo ad Aguas Calientes. Quando scende la notte, le alte montagne ricoperte di alberi che circondano il paesino, con la loro forma di panettone, risultano opprimenti, soffocanti. Il cielo sembra imprigionato, distante, ricoperto da una coltre di nubi che non lascia intravedere le stelle, mentre il ruggito dell’Urubamba pare aumentare sempre più di intensità. Al mattino, quando ci perdiamo tra le vie in costruzione di Aguas Calientes, un paese nato grazie alla scoperta di Bingham ed oggi colonia di hotel moderni ed assolutamente fuori luogo, ci assale una sensazione di tristezza, che neanche il sole splendente riesce a cancellare. Gli alberi abbattuti per fare posto a nuove strade ricche di ristoranti e negozi di souvenir, gli sguardi bramosi dei bambini indio fuori dalle hall dei grandi alberghi, i cani randagi che si azzuffano davanti a un osso gettato per terra, il rantolo del treno che si ferma proprio in mezzo alle bancarelle e una continua umidità che soffoca e toglie il fiato ci fanno quasi apprezzare il “Trenino delle Ande” che, nel primo pomeriggio, ci porta via da questo luogo inabissato nella valle, dove il contrasto tra ricchezza e povertà appare forte ed insuperabile. Risalendo verso Cusco, la valle dell’Urubamba ci offre un collage di immagini da antologia: il rosso vivido di un gladiolo selvatico che spicca tra il cupo verde delle foglie di un ficus benjamin, un cactus che si staglia contro un cielo di un’intensità quasi dolorosa, un’agave che protende le foglie verso il sole, il giallo intenso delle ginestre che quasi ferisce lo sguardo, le Ande con i loro ghiacciai che incombono sulle nostre teste ed alimentano il fiume, sulle cui rive crescono strani alberi dal tronco contorto, e le varie sfumature rossastre dei fichi d’India che stanno maturando e che presto saranno depredati da alcuni bambini che ci salutano mentre il treno fischia passando in mezzo a un gruppo di case dal tetto di paglia. Dopo tre ore di viaggio, gli ultimi raggi del sole, che abbandonano il cielo lasciandogli una ferita rossa, alzano il sipario sullo spettacolo offerto dalla città di Cusco, completamente illuminata, che appare ai nostri occhi dall’alto della collina. Le due chiese di Plaza de Armas, la Cattedrale e la Compañia, di giorno così nauseanti nel loro opulente barocco, catalizzano gli sguardi, come raffinate prime donne che, sul palco di un teatro, si contendono il favore del pubblico, con un’interpretazione intensa e ardente. In cielo, la luna piena, elegante nel suo semplice vestito di luce, dirige impeccabile la sua orchestra di stelle e, mentre si diffondono le note dei violini di Orione, ecco le quattro voci della Croce del Sud rompere il silenzio ed accompagnare le acrobazie luminose delle due stelle che brillano in piazza, lasciando il pubblico basito. Anche le case della periferia e della collina intorno alla città, chiamate a svolgere il ruolo di comparse, hanno sostituito l’abito stinto del giorno con uno più scintillante, su cui brillano migliaia di lustrini. In un continuo sferragliare, il treno abbandona la cima della collina e le luci al suo interno, prima spente per permetterci di ammirare in totale intimità lo scintillio della città, vengono riaccese, in modo violento ed inaspettato; sui nostri volti, l’espressione sognante ed incantata indugia fino a quando non arriviamo in stazione ed il caos ci avvolge, crudele e malvagio, con le urla dei tassisti, l’odore dei gas di scarico, la confusione del mercato che sta per concludersi lasciando sulle strade qualche frutto, delle casse vuote e dei fogli di giornale che volano sospinti da una leggera brezza. Con negli occhi ancora lo spettacolo di poco prima, arriviamo sul palco di Plaza de Armas, al cospetto delle due chiese, per ammirare i loro piccoli particolari da vicino: lo slancio verso l’alto delle torri, il bronzo delle campane ravvivato da un particolare bagliore, il verde della porta trasformato dalla luce calda che lo illumina. Solo adesso scopriamo la funzione di regista svolta dal parco, in grado di unire le due prime donne, in competizione tra di loro, con le sue luci morbide e lievemente soffuse. Il mattino successivo, senza trucco e vestito da sera, la piazza ha perso la sua magia. Le due chiese non riescono a nascondere del tutto i loro difetti, come la patina grigia che avvolge i muri o una porta leggermente scrostata, e i piccoli taxi e i pullman carichi di turisti parcheggiati al loro ingresso le rendono un po’ volgari. Solo il parco sembra non risentire troppo della spietata luce del giorno, in grado di smascherare ogni minima imperfezione: le panchine comode richiamano frotte di turisti allegri e i raggi del sole trasformano le gocce zampillanti della fontana in tanti brillanti di effimera durata, mentre le foglie degli alberi si lasciano cullare da un dolce venticello, disturbate ogni tanto da un uccellino che cerca un po’ di riposo su un ramo. Noi, andatura rilassata e boleto turistico alla mano, approfittiamo dell’ultima giornata a Cusco per visitare ciò che nei giorni precedenti ci è sfuggito. Raggiungiamo il palazzo del sesto sovrano inca, Inca Roca, dove, tra le varie pietre che costituiscono il muro, dovrebbe essercene una con ben dodici lati. Un bambino si offre di farci da guida e ce la indica: naturalmente, non resistiamo alla tentazione di contare e rimaniamo sbalorditi quando ci rendiamo conto che la pietra ha veramente dodici lati ed è perfettamente incastrata tra le altre. Il bambino, fiero dei suoi antenati, ci fa sapere che questo non è l’unico esempio di pietra poligonale presente nelle mura inca: a Torontoy, una rovina di secondaria importanza, a metà strada tra Machu Pichu e Ollantaytambo, è stato trovato un blocco con addirittura quarantaquattro angoli! Forse ci sta prendendo in giro, ma noi gli crediamo, ringraziandolo per le informazioni e lasciandolo a un altro gruppo di turisti che si sta avvicinando al muro con aria scettica. Dopo aver superato una moltitudine di cambiavalute appiccicosi, ecco apparire davanti ai nostri occhi il cortile del Coricancha, il tempio del Sole, su cui si affaccia il Convento di Santo Domingo: seduti sull’erba soffice, raramente interrotta da qualche macchia fiorita, proviamo a tornare indietro con la mente di circa cinque secoli, al tempo in cui gli Incas non avevano ancora conosciuto il ferro delle spade spagnole, e ci immaginiamo un enorme parco dove piante, animali e fiori erano riprodotti in oro massiccio e anche le stesse zolle di terra erano costituite da pezzi di oro fino. Nell’angolo, un gregge di lama con relativi pastori dorati ci osserva mentre due pannocchie argentate sono infilate nel terreno, secondo un antico rito propiziatorio. Ogni giorno qui venivano esposti alla luce del dio sole i corpi mummificati di diversi sovrani inca, a cui i sudditi più fedeli portavano cibo e bevande, mentre, di notte, quando la città era immersa nel sonno, esperti sacerdoti alzavano gli occhi alla volta stellata e si dedicavano allo studio della Via Lattea, il sacro fiume in grado di collegare il mondo dei vivi con quello dei morti. La nostra ultima sosta è davanti al Palazzo Municipale, sul cui balcone di legno intagliato sono issate due bandiere: una, con tutti i colori dell’arcobaleno, sventolava già ai tempi del Tahuantinsuyu, l’impero inca, rappresentando i quattro quarti in cui questo era diviso, mentre l’altra, con una striscia bianca al centro, su cui spicca lo stemma della nazione, e due strisce rosse ai lati è la bandiera peruviana. La leggenda vuole che i suoi colori siano stati scelti da Josè de San Martin, il liberatore del Perù, rimasto abbagliato dalle sfavillanti ali di uno stormo di fenicotteri in volo sulla costa di Paracas la sera dell’8 settembre 1820, quando il sole stava tramontando. Al pomeriggio, ormai sazi di monumenti e palazzi, ci dedichiamo allo shopping nel quartiere di San Blas, sulle cui strette vie, che salgono da Plaza de Armas fino alla chiesa sulla collina, si affacciano numerose botteghe artigianali. In una di queste, un pittore sta dipingendo con gli acquerelli il volto di una bambina con un variopinto berretto calato sulla testa, da cui spuntano due impertinenti trecce nere, mentre, sulla soglia del negozio di fronte, una signora con il viso coperto di rughe sta confezionando un tappeto su cui un lama bruca l’erba di un improbabile prato verde acido, sotto gli occhi del suo pastore. Nella parte più alta, vicino alla chiesa, incontriamo quasi esclusivamente botteghe di articoli religiosi: al loro interno, i proprietari sono in attesa di qualche cliente, con lo sguardo fisso sugli scaffali ricolmi di crocefissi in legno eccessivamente elaborati e di miniature della Cattedrale aggredite dalla polvere, mentre dalle vetrine, i santi raffigurati sulle tele ispirate alla Escuela Cuzqueña, con la loro postura rigida, quasi fossero impagliati, e l’espressione austera, sembrano disapprovare la nostra andatura rilassata e le nostre mani intralciate da numerose borse dalle quali spuntano caldi berretti di alpaca, tipiche tele colorate e zufoli che difficilmente proveremo a suonare una volta tornati a casa. Alla sera, mentre le nostre gambe cercano un po’ di riposo sulle panchine della piazza, i nostri occhi, fino ad oggi sempre pronti ad illuminarsi di fronte ad una nuova scoperta, lasciano trasparire, per la prima volta, un velo di tristezza per il distacco imminente. Un distacco che si rivela in tutta la sua brutalità il mattino successivo quando l’aereo per Lima ci augura buona giornata con un assordante rumore di motori, il freddo quasi polare dell’aria condizionata e l’assurdo ripieno di una brioche offertaci insieme ad un mate de coca ormai inutile. All’atterraggio, ci accoglie una città rumorosa, inquinata e soffocante: le strade brulicano di taxi e pullman turistici i cui gas di scarico, aiutati dall’immancabile garua, creano una persistente foschia che rende il cielo grigio e poco attraente. I nostri corpi, abituati al clima secco delle Ande, faticano ad accettare l’umidità e accolgono con grande piacere la frescura del Convento di San Francesco, dove, dopo aver ammirato una splendida biblioteca in legno i cui libri, con le pagine ormai ingiallite dall’inesorabile avanzata del tempo, sono stati studiati già dai primi conquistadores, ci immergiamo nell’atmosfera un po’ lugubre delle catacombe tra le cui mura basse e odorose di muffa si dice siano state sotterrate circa 70.000 persone. I brividi che ci corrono lungo la schiena, alimentati dal sorriso sinistro dei numerosi teschi perfettamente conservati e disposti in modo ordinato insieme a femori, tibie ed altre migliaia di ossa, si placano solo quando ritorniamo in superficie e la calda luce del sole ci ferisce gli occhi. Lasciamo il convento camminando un po’ insicuri sui suoi pavimenti feriti dai numerosi terremoti che, ciclicamente, hanno colpito la città, e in breve tempo raggiungiamo la Cattedrale barocca che, con le sue torri di un grazioso giallo pastello, ravviva le grigie vie del centro. Al suo interno, in una sfarzosa cappella decorata con preziosi mosaici colorati, hanno trovato asilo i resti di Francisco Pizarro, le cui “gloriose” imprese vengono ricordate con un’imponente statua, donata dagli Spagnoli, che troneggia nell’angolo opposto di Plaza de Armas. Su questa, il conquistador, nella realtà un mediocre cavaliere, si erge impettito a cavallo di un purosangue, che, quando la statua si trovava nel centro della piazza, fu accusato di rivolgere il posteriore verso la cattedrale. A seguito delle continue lamentele dell’autorità ecclesiastica, il monumento venne spostato davanti al Palazzo del Governo, dove rimase fino a quando uno dei principali uomini politici che vi lavoravano subì la stessa sorte toccata a Pizarro nel lontano 1541: venne assassinato. Questo fatto causò la preoccupazione dei suoi superstiziosi colleghi che, tormentati dal pensiero di una maledizione, decisero di spostare la statua nella posizione attuale. Proprio davanti al Palazzo del Governo, sulla cui sommità sventola la bandiera rossa e bianca, assistiamo al cambio della guardia, tra squilli di trombe e allegre uniformi blu e rosse, e poi, dopo una sosta a Miraflores, per un’ultima occhiata all’oceano, dove una moltitudine di surfisti è alla ricerca dell’onda giusta, e una breve visita alle vie sonnacchiose del Barranco, il quartiere degli artisti, famoso per la sua sfrenata vita notturna, arriva l’ora di raggiungere l’aeroporto e di abbandonare questo Paese che, con i suoi forti contrasti, ci ha regalato grandi emozioni. Al decollo, davanti alla notte stellata di Lima, la mia mente è tempestata da mille immagini che si sovrappongono: la nuotata di un cucciolo di leone marino, il collo del fenicottero scolpito nel deserto di Nasca, i colori vividi del Colca Canyon, la magia di Sillustani, il blu incantato del Lago Titicaca, le luci di Cusco, l’energia dei templi Machu Pichu e, soprattutto, la morbidezza del caldo maglione di lana acquistato alla Cruz del Condor che, indossato nelle fredde sere invernali, mi riporterà alla memoria il sorriso aperto e sincero di quell’andina vestita di mille colori…



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