1998 – India, Rajahstan

E così nel 1998, nel bel mezzo di una quasi definitiva e forse un po’ auspicata crisi coniugale, sono partito da solo per l’India, meta agognata da sempre ma quantomai difficile e meravigliosa nello stesso tempo. Esito quasi a sbilanciarmi, perché così tanto mi manca da vedere e conoscere, ma sono quasi certo che definire l’India “Il...
Scritto da: steweboy
1998 - india, rajahstan
Partenza il: 13/10/1998
Ritorno il: 02/11/1998
Viaggiatori: da solo
Spesa: 1000 €
Ascolta i podcast
 
E così nel 1998, nel bel mezzo di una quasi definitiva e forse un po’ auspicata crisi coniugale, sono partito da solo per l’India, meta agognata da sempre ma quantomai difficile e meravigliosa nello stesso tempo. Esito quasi a sbilanciarmi, perché così tanto mi manca da vedere e conoscere, ma sono quasi certo che definire l’India “Il Viaggio” non si discosti molto dalla realtà. Voglio anticiparvi, un po’ parafrasandola, la splendida definizione che dell’India fa la solita Lonely Planet: “Un Paese dal quale – quando vi ci trovate – non vedete l’ora di partire, ma che quando avete abbandonato vi richiamerà a sé con la sua magia ogni notte, ogni istante della vostra vita, fino a che non deciderete di farvi ritorno.” Per la preparazione dello zaino mi sono limitato a stiparvi veramente solo lo stretto indispensabile, e probabilmente anche meno; vi basti pensare che durante tutti i voli aerei (Genova-Londra e Londra-Delhi) ho viaggiato “bagaglio a mano”! Per la cronaca (visto che su queste pagine proprio di “cronaca di viaggio” si tratta) lo zaino conteneva cinque magliette, cinque paia di mutande, cinque paia di calze sportive, un paio di calzoni lunghi, un paio di calzoni corti, un asciugamano “da ospiti” di cotone leggero (no spugna), un costume da bagno, un K-Way, un paio di scarpe di ricambio, un filo da stendere, un pezzo di sapone di Marsiglia e basta. Contavo infatti di riuscire – complice il clima torrido che mi aspettavo di trovare ad Ottobre-Novembre – a lavare ed asciugare i miei indumenti con una certa frequenza. Sono partito con scarpe outdoor alla caviglia, calzoni di cotone, una T-shirt ed una felpa bistrattata dal tempo. Il primo errore è stato quello di portarmi dietro un gilet di pelle multitasche, convinto di utilizzarlo a mo’ di paparazzo (un obiettivo ogni tasca, batterie in un’altra, rullini nella “cartucciera” ecc.): troppo caldo, troppo pesante il gilet, troppo scomodo per la durezza della pelle, morale: dopo due giorni in fondo allo zaino per tutto il viaggio! Non ho naturalmente fatto a meno della mia attrezzatura fotografica, della mia inseparabile agendina (uso le Moleskine come Bruce Chatwin: consentitemi un vezzo snob una volta ogni tanto!) e, neanche a dirlo, della Lonely Planet acquistata quattro mesi prima e già “vissuta” e piena di segnalibri (vi consiglierei di utilizzare quelli adesivi e fluorescenti tipo Post-It: utilissimi per segnare tutte le cose da vedere ed i capitoli di frequente utilizzo. La loro utilità sta inoltre nel fatto che, una volta visti i vari posti che ci eravamo prefissati, essi possono essere staccati e riattaccati più in basso sulla pagina in modo da risultare invisibili, ma sempre presenti qualora dovessimo ripercorrere un itinerario o rifare un viaggio).

Tralascio il tragitto aereo, svoltosi con estrema comodità, senza alcun tipo di intoppi ed a prezzo davvero contenuto a bordo di ottimi aerei della British Airways, la quale – di solito verso Marzo-Aprile – se ne esce con offerte che in allora si chiamavano “Volamondo”: prezzi scontatissimi per voli acquistati con largo anticipo e da fruirsi in periodi di bassa stagione.

Sbarco nell’aeroporto di New Delhi (nel quale avevo già fatto scalo nel lontano 1987 – vedi) nel primo pomeriggio, e dopo aver cambiato i miei dollari in rupie ed ottenuto uno sconcertante cumulo di carta colorata e sporca che non sapevo davvero dove stipare mi dirigo alla biglietteria delle Ferrovie Indiane. Bisogna spendere alcune parole per questa azienda veramente titanica: 63.000 Km di binari con tre scartamenti diversi, 280.000 vagoni, 8.000 locomotive, 1.500.000 dipendenti (dicasi un milione e cinquecentomila!), 14.500 treni circolanti ogni giorno che muovono oltre 14.000.000 di persone toccando 6.800 stazioni, le Indian Railways sono uno dei motivi di vanto per l’India.

Documentatomi in anticipo, mi presento allo sportello e chiedo al gentilissimo impiegato di fornirmi i biglietti per il mio tragitto: Delhi-Varanasi per quel pomeriggio e Varanasi-Agra dopo tre giorni. Decidiamo insieme la classe di percorrenza (seconda! Non dimenticate la F.B.V. Please), il posto da assegnarmi ed altre amenità. Pago (una cifra irrisoria) ed ottengo una ricevuta, stampata su carta bianca a modulo continuo con una stampante ad aghi che parte solo dopo aver ricevuto alcuni sonori sberloni sul coperchio. Piuttosto dubbioso sul definitivo esito positivo di questa prenotazione, mi dirigo verso la fermata degli autobus di linea – situata immediatamente fuori dal terminal arrivi – per andare direttamente alla stazione ferroviaria di Delhi.

Appena abbandonata l’avvolgente frescura dell’aria condizionata, le mie narici vengono aggredite da una violenta mistura di odori quasi solidi. Mi accorgo subito che l’Odore dell’India altro non è che un particolare cru dell’ormai noto Odore dell’Oriente, anche se in questo bouquet che mi trovo per la prima volta ad annusare devo confessare che una buona percentuale viene occupata da effluvi piuttosto mefitici: odore di fogna (su tutti, ahimé), gas di scarico, spazzatura al sole da troppo tempo; ma anche curry, cannella, chiodi di garofano, spezie varie, terra calda, vento profumato e, ovviamente, la mia e la nostra personale suggestione. Cerco di rassegnarmi, e di pensare che ben presto le mie narici si abitueranno al nuovo aroma, e che mi sembrerà strano per contro l’odore dei pitosfori e del mare quando tornerò a casa. Mi sistemo lo zaino in spalla e, entusiasta e stimolato, cammino di buona lena verso la fermata.

E qua, per la serie “non si finisce mai di imparare”, commetto un peccato di pigrizia ed un conseguente quasi-grave-errore-con-quasi-spiacevoli-conseguenze del quale vi prego di prendere buona nota. Mentre – solo – aspetto il mio autobus per il centro città (tutti gli altri passeggeri utlizzavano gli onnipresenti taxi), vengo avvicinato da un ragazzo sui vent’anni, che comincia con la solita manfrina che avrei imparato a conoscere e dismettere con disprezzo: c’è uno sciopero degli autobus per tutto il giorno, ed in più ci sono “disordini” a New Delhi con gran dispiego di polizia, non mi conviene aspettare i mezzi pubblici e se voglio guarda caso lui ha un’auto, mi può dare un passaggio e persino aiutarmi a cercare un albergo pulito ed economico in una bella zona di Delhi! A questo punto è d’obbligo una breve spiegazione: l’intera economia indiana si basa su corruzione a vari livelli, mazzette e provvigioni. Qualora accettassi l’offerta, il mio “autista” sicuramente prenderebbe a prestito l’auto di un suo amico-socio (riconoscendogli ovviamente una parte dell’importo da me pagato) e mi porterebbe in un albergo con cui esistono già accordi “provvigionali” (parte del prezzo della camera gli verrebbe girato come “brokeraggio”); gli artifici architettati da queste persone sono perlopiù “in buona fede”, nel senso che dietro non esistono intenzioni criminali tipo rapina, furto, violenza; esiste soltanto la disperata ricerca di qualche introito extra che, acuita dalla necessità, assume talvolta contorni un po’ più grossolani di una semplice offerta di beni e servizi. La Lonely Planet dedicata all’India riserva quasi un intero capitolo alla descrizione di questo tipo di “truffe”.

In questo caso io avrei potuto però essere un filino più sfortunato. Spiego a chiare parole al mio interlocutore che non intendo credere a nulla di quello che mi ha raccontato, che voglio prendere il mio autobus, che non credo alla storia dei tumulti né a quella dello sciopero, che se ne può andare a cercare altri polli da spennare; questo abbassa il capo contrito e mi chiede scusa, mi dice che è vero sono tutte balle, che l’unica verità è che fa il tassista quattordici ore al giorno, ha finito il turno mezz’ora fa e stava cercando qualcuno da riportare in città “in nero” mentre ritorna a casa, per intascarsi il prezzo intero della corsa in barba alla compagnia che gli fornisce il taxi e che gli riconosce una percentuale irrisoria sulle corse “tassametrate”. Per portarmi alla stazione ferroviaria di Delhi mi chiede quindi un prezzo inferiore al costo del biglietto dell’autobus. A questo punto non ho logici motivi per rifiutare, accetto l’offerta e lo seguo al vicino posteggio dove salgo sul suo taxi, una vecchia Ambassador a gasolio agricolo che si avvia sputacchiando sulla strada che porta al centro città.

Dopo un centinaio di metri, sul bordo della strada – sbracciandosi per farsi notare – compare un altro ragazzo, coetaneo del mio autista; questi rallenta, accosta e – dicendomi che si tratta di un suo amico che deve tornare anch’egli a Delhi – lo fa salire sul sedile del passeggero. Il taxi riparte. Dopo qualche minuto, l’”amico” dell’autista si gira verso di me e mi chiede quanto costa il mio orologio (un vecchio Citizen Aqualand comprato a Singapore nel 1987 per un centinaio di dollari); gli rispondo “qualche decina di dollari”. Poi indica la collanina d’oro che porto da sempre al collo con una medaglietta del Cristo degli Abissi e mi rivolge la stessa domanda; non rispondo ma sorrido. Quindi accarezza la mia borsa fotografica, mi chiede un’ulteriore valutazione del contenuto, estrae un coltellino a serramanico e comincia a giocarci, dicendomi che gli ultimi turisti gli avevano dato una bella mancia, pur di arrivare in tempo in città, e mi fa vedere un biglietto da 20 sterline inglesi ed uno da 50 dollari USA.

Rifletto rapido: sono comunque un bel ragazzo di un metro e novantuno per ottantotto chili, il mio zaino e la borsa fotografica sono ai miei piedi, è pieno giorno e le strade sono gremite di gente. Senza attendere oltre mi sporgo in avanti, afferro la leva del freno a mano del taxi e la tiro senza pietà: l’auto si ferma sbandando in mezzo alla strada ed entrambi gli altri occupanti sbattono contro il parabrezza; afferro i miei bagagli, apro la porta ed esco dal veicolo, chiedendo agli inevitabili, numerosi curiosi subito accorsi di chiamare la polizia. In quel momento l’autista esce dalla macchina e comincia a prostrarmisi ai piedi urlando “Sorry, sorry, come in please we take you to the station for free”; in italiano, lo mando dove avrei dovuto mandarlo prima e che non posso esplicitare in queste righe e mi dirigo – chiedendo indicazioni agli astanti – verso la prima fermata dell’autobus. Dopo cinque minuti, con ancora un po’ di adrenalina dietro gli occhi pulsanti, sono seduto sul bus di linea con capolinea alla stazione ferroviaria.

Arrivo al binario – dopo una ricerca piuttosto lunga dell’esatta banchina di arrivo del mio treno – con un paio d’ore di anticipo; gironzolo un po’ lungo i marciapiedi e mi fermo ad un chiosco ad acquistare un paio di samosa (frittelle di pasta ripiene di verdura, normalmente alquanto saporite per non dire piccantissime) ed una bottiglia di Pepsi, per una cifra che per mera vergogna non riesco neppure a contrattare. Seduto su di una panchina consumo il mio pasto frugale, estinguo il fuoco delle mucose con la bibita gelata, tiro fuori la Moleskine e comincio a scrivere le prime parole del mio diario di viaggio. Ad un tratto avverto un lieve tocco su di una spalla; mi giro a guardare chi sta cercando di attrarre la mia attenzione, e il mio stomaco ha un sussulto: un lebbroso senza un occhio e con il naso ridotto a due fori oscuri al centro della faccia mi sorride a modo suo e mi accarezza una spalla come a dire “stai calmo, non succede niente”.

Ora, la lebbra – o Morbo di Hansen – non è assolutamente di facile trasmissibilità: i veicoli primari di contagio sono il sangue e la saliva, ed il 90% delle persone sane è naturalmente immune; inoltre il contagio è reso ancor più difficile nel caso di persone ben nutrite. È quindi praticamente impossibile rimanere contagiati durante un viaggio, a meno di non avere rapporti intimi, prolungati e costanti, con ammalati di lebbra ancora contagiosi. I lebbrosi indiani sono convinti che, toccando persone sane, possano rimanere parzialmente “contagiati” dalla loro salute; è quindi comprensibile come possa far loro piacere il contatto con esse. Non è purtroppo quasi mai vero il contrario: di norma le sembianze di un lebbroso – specie se “di lunga data” – sono quantomeno sconvenienti, e ben difficilmente si può accettare a mente fredda il contatto con qualcosa che ci disgusta o come minimo spaventa. Se poi pensiamo allo snobismo sociale del mondo occidentale, che guarda magari con disprezzo una persona che esce spettinata o che indossa vestiti con colori non “coordinati”, possiamo facilmente immaginare come la vicinanza con un lebbroso che cerca il contatto possa rappresentare un vero shock.

Reprimo con forza l’automatico gesto di ritrarmi, mi dico qualcosa tipo “Che cazzo, Stefano, sei arrivato fin qua per giocare a Bruce Chatwin, viaggio da solo zaino in spalla popoli e paesi da scoprire e pensa locale e vivi con loro e blablabla, e poi al primo lebbroso che ti tocca ti comporti come un turista da beach club?”, sorrido al mio nuovo amico e mi lascio accarezzare. Sulla banchina compaiono come per incanto altri lebbrosi, e dopo un po’ altri ancora; mi si avvicinano tutti e chi più chi meno cominciano a toccarmi, con estrema delicatezza ma mi toccano. Sorrido con le labbra ed accenno un gesto di assenso con la testa, ma il sorriso è un po’ di marmo; gentilmente, cerco di far capire loro che ben volentieri mi faccio toccare e che apprezzo il loro interesse; gradirei tuttavia che non si accalcassero tutti quanti addosso a me e ai miei bagagli, che fa già piuttosto caldo ed i loro corpi non aiutano una corretta ventilazione dell’ambiente. Come sono venuti, se ne vanno, voltandosi spesso come a ringraziarmi con ampi cenni della testa e delle mani (o di ciò che ne resta).

Continuo per un po’ a scrivere sulla Moleskine, ma la grafia è alquanto tremolante; bene o male passa il tempo, e con un paio di minuti di ritardo il Poorva Express si presenta sul binario. Controllo sul mio “biglietto” il numero della carrozza, la trovo con un po’ di fatica (il treno è composto da almeno venti vagoni!) e scopro che a fianco della porta di ciascun vagone è stato incollato un tabulato che riporta la composizione dei posti prenotati al suo interno, e che il mio riverito nome figura esattamente dove mi è stato assegnato dall’impiegato dell’aeroporto. Funzionassero così le nostre Ferrovie…Ma questa è ancora un’altra storia! Salgo sul treno, e prendo posto nel mio scompartimento accanto al finestrino. Sono circa le quattro e mezza del pomeriggio, e l’arrivo a Varanasi è previsto per domattina verso le cinque e mezza. Saluto i miei compagni di viaggio man mano che vengono ad occupare i loro posti a fianco del mio, e mentre cerchiamo di intavolare le prime conversazioni intelligibili il treno parte fischiando. Splendido! A proposito di conversazione, va precisato che in India esistono tre lingue principali (Hindi, parlato perlopiù nel Nord-ovest; Bengali, parlato a Calcutta e quindi nel Nord-est; Tamil, parlato principalmente nel sud del subcontinente indiano) oltre a quaranta altre lingue minori, comunque piuttosto diffuse. Per consentire una comunicazione tra le diverse etnìe linguistiche, dopo la colonizzazione inglese si è deciso di comune accordo che il ricorso alla lingua di Albione sarebbe stata una soluzione ideale. Non è pertanto raro ascoltare il contadino bengalese discutere del tempo con un venditore di sementi rajastano in un inglese la cui qualità generale non ha molto da invidiare a quello insegnato nella maggior parte delle scuole italiane…E questo ancora a proposito di “altre storie”! Dopo una sosta imprevista nella periferia di Delhi a fianco del fiume Yamuna (che attraversa la capitale e che viene utilizzato come scarico delle fogne a cielo aperto di tutto il network urbano, oltre dieci milioni di persone!) che mi stordisce con un odore che non pensavo potesse esistere nell’universo conosciuto, il treno riparte verso il crepuscolo. Al calare della sera, i miei cinque compagni di viaggio cominciano febbrilmente ad organizzarsi per la notte, il che mi lascia notare alcune cose che finora avevo trascurato; il sedile unico su cui siamo accomodati (tre per parte) copre tutta la lunghezza dello scompartimento, lo schienale ha curiosamente le esatte dimensioni del sedile, e così pure la mensola portabagagli su cui sono stati posati – guarda un po’ – i nostri zaini e valigie. Le successive mosse sono: liberare la mensola dai bagagli, che vengono posati spietatamente su di un pavimento che farebbe suicidare Mastro Lindo; ribaltare lo schienale in posizione orizzontale e fissarlo alla mensola soprastante con due catene di metallo che non avevo sinora notato; stipare i bagagli a calci e spinte sotto il sedile: ecco pronte sei magnifiche cuccette per la notte incombente! Per una tacita convenzione che scopro lì per lì, chi siede a fianco del finestrino dorme sulla cuccetta più bassa. Saluto i miei “coinquilini” e mi sdraio sulla panca, convinto di riuscire a dormicchiare.

Naaaaa.

Primo problema: la cuccetta è lunga al massimo un metro e settanta-settantacinque, il che significa che mi mancano almeno quindici centimetri per rimanere davvero coricato. Secondo problema: è piuttosto stretta e non riesco a stare sdraiato di schiena senza che il mio braccio sinistro cada per terra, sfiorando l’innominabile pavimento (e considerando che mi mangio le unghie…). Terzo: non appena noi sei passeggeri ufficiali prendiamo posto nelle cuccette, almeno altri sei “clandestini” che erano sinora rimasti in piedi in corridoio si affrettano ad occupare il pavimento e gli spazi delle cuccette non protetti dal nostro corpo. Terzo-e-mezzo: considerando che per gli indiani di norma i rumori corporali comunque emessi fanno parte del Karma di ognuno e non sono quindi di base stigmatizzabili, ben presto lo scompartimento si tramuta in una buca d’orchestra per fiati misti con lo stesso profumo di una discarica abusiva di teste di pesce. Come ho già scritto più volte, il corpo umano è una macchina stupendamente adattabile, e verso mezzanotte riesco comunque ad addormentarmi…Fino alla prima stazione. Benché il termine “Express” sia infatti più che d’uopo (in dodici ore circa di viaggio il mio treno non si ferma più di una decina di volte), ad ogni stazione di sosta appaiono dal nulla miriadi di venditori di ogni tipo che aggrediscono i vagoni come facevano gli apaches con le diligenze della Wells Fargo, urlando ripetutamente con il loro personale accento la tipologia del bene/servizio da loro commercializzato. Nel mio beato dormiveglia avverto appena lo stridìo dei freni ed il rallentamento progressivo del treno, accorgendomi come in un sogno della fermata quando, posizionatosi esattamente sotto il mio finestrino (naturalmente munito di sbarre di ferro come tutti i finestrini di tutti i treni indiani: servono ad evitare l’ingresso di clandestini, ma nel malaugurato caso di un incidente esse bloccano anche la fuga ai passeggeri intrappolati; ecco il motivo per cui i disastri ferroviari in India sono di solito caratterizzati da un ingentissimo numero di vittime) uno di questi fottuti venditori mi urla nelle orecchie “Naaaaaamkiiiinnnnnnn, naaaaaahhhhmkiiiiihhhhhhhnnnnnn!!!” (per i curiosi: il Namkeen è un misto di noccioline, legumi secchi, spezie, molto sale ed altri abominî croccantelli e salatini che va per la maggiore nella Top Ten degli snack da viaggio; in alcuni ipermercati italiani ed europei si comincia a trovare, di norma sotto la definizione omnicomprensiva di “Bombay mix”. In realtà ogni venditore “DOC” di Namkeen si vanta di possedere la propria ricetta segreta. Se decidete di assaggiarlo – e si deve! – procuratevi MOLTA acqua per le ore successive!) facendomi sobbalzare nella cuccetta, costringendo il mio cranio ad entrare in un duro contatto con la soprastante brandina ed obbligandomi quindi a mettere da parte per l’occasione il mio disprezzo per la bestemmia.

Decido di NON comprare il Namkeen, ma di rischiare un Puri: una sorta di densa zuppetta vegetale servita dentro una foglia ed accompagnata da un Chapati (l’onnipresente panino tondeggiante simil-piadina, alimento di base – insieme al dhal, l’acquosa minestra di lenticche – per le centinaia di milioni di indiani indigenti). Per il controvalore di circa 3 Rupie (150 lire, circa 7 centesimi di Euro) ottengo una larga foglia abilmente ripiegata dentro la quale il mio “fornitore” versa una cucchiaiata di questa sbobba profumata di curry, porgendomela quindi tra le sbarre del finestrino insieme al chapati di mia spettanza. Pago con un biglietto da 100 rupie, che il venditore guarda come se gli avessi porto il coglione sinistro imbalsamato di uno stegosauro; me lo restituisce scrollando la testa e sorridendo; gli faccio cenno che non ho altro e lui – sempre a cenni – mi fa capire che Pazienza!, glielo pagherò un’altra volta. Meno male che il mio vicino di sopra, ridestato dalla mia testata, riesce a cambiarmi il biglietto da cento con una immane tascata di foglietti sulla cui composizione non mi fermo ad indagare, tra cui riesco però a discernerne un paio che portano il numero “5”. Ne porgo uno al “purista”, che mi restituisce una moneta grande come un Lp e si allontana al grido di “Puripuripuripuripuriiiiiiiiiii… Puripuripuripuripuriiiiiiiiiii!!!!”.

Mi accingo a cibarmi, quando noto con un certo disappunto che nel mio Puri non esistono posate; gli altri passeggeri utilizzano direttamente le mani, sporcandosi appena appena la punta delle dita. Quando termino il mio pasto sono coperto di Puri freddo fino ai gomiti, ho due patacche sui calzoni e un rivoletto al curry che mi sgocciola dal mento sulla maglietta. Tolgo “la più grossa” con il resto del chapati, poi prelevo dallo zaino le mie fedeli salviettine inumidite e ne consumo metà confezione nel – vano – tentativo di riacquistare un aspetto umano. I miei compagni di viaggio mi guardano ridendo senza vergogna fino alle lacrime; non posso farne a meno e mi unisco di cuore all’ilarità collettiva, mentre dentro di me sento già di amare l’India.

Tra un altro paio di Puri, un doveroso Namkeen ed un paio di banane che mi provocano quasi subito una bella colica intestinale (che mi fornisce la scusa per un fastoso Bimixin party) il treno arriva verso le cinque del mattino, con qualche minuto di anticipo, a Varanasi Junction, dove mi affretto a scendere ed a scoprire che al mattino fa proprio bello fresco: sarà l’umidità del fiume, sarà che la bruma della notte deve ancora lasciare il posto al primo tepore del sole, ma si gela davvero! Dopo una breve contrattazione salgo sopra un triciclo motorizzato che mi porta verso il Gange, i suoi ghat e le innumerevoli guesthouse a buon prezzo segnalate dalla Guida.

Varanasi, la vecchia Benares, è senza dubbio la città più sacra dell’India. Bagnato dal fiume Gange, Mother Ganga come la chiamano qui, questo posto magico è principalmente costituito da numerosissime scalinate che conducono al lungofiume, i cosiddetti ghat. Da questi, i pellegrini possono accedere al mistico fiume praticamente da ogni punto della città, che di fatto si sviluppa in lunghezza lungo le rive del Gange. Secondo la religione indù, il fedele che muore e che vede le sue spoglie cremate a Varanasi assurge direttamente al più alto livello del Paradiso induista senza dover sottostare alla lunghissima serie di reincarnazioni previste per i fedeli “standard”; non è quindi sorprendente il vedere la quantità di cremazioni che ogni giorno vengono effettuate in questo luogo. Ma attenzione, non tutta Varanasi è considerata “DOC” per le cremazioni dei defunti: esistono solo alcuni ghat nei quali i fedeli devono essere bruciati sulle pire per assicurarsi il biglietto di First Class per l’aldilà: su tutti il Manikarnika Ghat, caratterizzato dalle numerose pire che ardono contemporaneamente giorno e notte; altri ghat “validi” sono l’Harishchandra Ghat ed il Jaisain Ghat. Nota personale: non escludo una sorta di autoconvincimento indotto dall’indiscussa misticità del posto, ma ho assistito a cremazioni in tutti i ghat sopracitati e ho dovuto mio malgrado (di solito sono piuttosto tetragono alle credenze mistico-popolari) dar ragione ai miei interlocutori indiani: l’unico posto dove non si avverte il tipico, disgustoso odore della carne bruciata è proprio il Manikarnika Ghat; negli altri, benché il numero dei defunti che ardevano sulle pire fosse di gran lunga inferiore a quello delle salme presenti nel ghat più famoso, il lezzo diventava ben presto realmente insopportabile. Sarà un gioco di correnti d’aria, sarà la particolare topologia della città, fatto sta che è molto suggestivo lasciarsi cullare dalla consapevolezza che qualcuno molto più in alto di noi ha stabilito una serie di regole ben precise, che non si lasciano turbare da piccoli, stupidi, insignificanti pregiudizi di presunta “modernità” e “impossibilità fisica”.

E´curioso il rapporto che gli Indiani hanno con la morte: per un occidentale esso risulta quasi incomprensibile, anche se la nostra religione cattolica insiste col dire che la morte altro non è che il passaggio ad una vita migliore eccetera eccetera. Basta assistere ad un funerale dalle nostre parti per accorgersi come – nonostante le belle parole – la morte venga vissuta veramente come un’irreparabile disgrazia, sottolineata da pianti, lamenti, svenimenti e scene di varia disperazione da parte dei parenti e conoscenti superstiti. In India non ho visto nessuno piangere per i propri defunti: il passaggio dalla vita terrena a quella ultraterrena è davvero vissuto come un atto di routine quotidiano. La migliore spiegazione di questo atteggiamento mi è stata data due anni dopo, sul treno Calcutta-Varanasi dove viaggiavo insieme a mio fratello (leggerete, leggerete…), da un simpatico direttore di banca di Calcutta che si recava in vacanza a Lucknow e con il quale abbiamo condiviso lo scompartimento durante le tredici ore circa di tragitto comune. Questo splendido personaggio mi ha fatto un discorso così concepito: “In tutto il mondo, l’eccesso di un bene ne provoca automaticamente un ribasso di valore. Così, se uno possiede molto denaro, esso ha per costui un valore percepito di molto inferiore a quello che potrebbero attribuirgli persone più povere; se uno possiede venti automobili, la perdita di una rappresenta un ammanco facilmente sopportabile; se uno possiede cinquanta paia di scarpe, il fatto di gettarne via un paio perché logoro è solo normale routine. In India ci manca tutto: abbiamo solo moltissime vite umane.”. La conseguenza di questo ragionamento, logica ma agghiacciante, ha perseguitato i miei sogni per parecchio tempo.

Bene o male, il mio triciclo motorizzato, nel quale stavo ormai lentamente congelando, mi deposita all’inizio del ghat più grande di Varanasi, il Dasaswamedh Ghat. Ancora semiassiderato, pago le poche lire di tariffa e mi dirigo verso la Sita Guesthouse, consigliata dalla Guida per il buon rapporto qualità-prezzo-cortesia-pulizia-cibo-comodità. Il palazzo è situato esattamente sulle rive del Gange, è imbiancato di fresco e se non fosse per le dozzine di scimmie che ne popolano i cornicioni potrebbe sembrare quasi spagnoleggiante. Dopo un brevissimo esame dei dintorni, entro nella “reception”: affare fatto, la stanza costa 100 rupie a notte (le vecchie 5.000 lire, circa 2,5 Euro). Chiedo di poterla vedere (Nota: quando viaggiate in posti “da Lonely Planet”, chiedete SEMPRE di vedere la stanza. Piccoli indizi vi possono far preferire una guesthouse ad un’altra e, visti i prezzi medi delle stanze per chi viaggia al nostro livello, il fatto di investire magari 1 Euro in più nella guesthouse a fianco vi può garantire una notte tranquilla e non un’epica battaglia con gechi, pantegane o scarafaggi), la apprezzo e concludo l’accordo. La camera è spaziosa, ha due letti in legno con materassi discreti e lenzuola pulite, un bagno decente con doccia e WC “occidentale” (mi piace leggere quando sono “in bagno”: avete mai provato a leggere una rivista seduti su una toilette alla turca???), ma soprattutto due finestroni che danno direttamente a sud, sul Gange, su cui – sono ormai circa le sei del mattino, vedo sorgere il sole.

Disfo alla bell’è meglio lo zaino e mi dirigo sul tetto della guesthouse, adibito a ristorante, dove consumo una colazione pantagruelica a base di uova, caffè-e-latte-condensato, ananas e banane. Essendo una città santa, a Varanasi è bandito ogni tipo di carne, ma la varietà della cucina indiana non me la farà rimpiangere per tutto il viaggio. Appena sazio, controllo lo stato di carica della mia macchina fotografica, mi metto in spalla lo zainetto piccolo con lo stretto indispensabile e mi getto verso Mother Ganga.

Vengo naturalmente assalito da una pletora di venditori di cartoline-collanine-braccialettini-miniature di divinità, che riesco a scollarmi di dosso – sempre con il sorriso sulle labbra – solo dopo un bel po’ di tempo. Eclissatisi i venditori è il turno dei barcaioli: a Varanasi è infatti usanza noleggiare una barca a remi per un giro sul Gange sia al tramonto che all’alba. Come già più volte sottolineato, dedico la mia preferenza ad un omino di mezza età che siete mite sulla sua barca di legno dalle mille fessure e non si accalca insieme agli altri intorno a me. Ci mettiamo d’accordo per vederci questa sera al tramonto, e direttamente domattina prima dell’alba sotto la Sita Guesthouse; il prezzo pattuito mi fa riflettere sul fatto che finora l’India è di gran lunga il posto più economico dove mi sia trovato a viaggiare… Continuo il mio fatale andare lungo i ghat, la cui topografia, benché dotato di alcune mappe della Lonely Planet, non è di immediata comprensione. È comunque possibile percorrere tutta la lunghezza di Varanasi senza praticamente dover mai abbandonare il lungofiume; lasciatomi alle spalle il Dasaswamedh Ghat – di gran lunga il più “popolato” e frenetico, lungo le cui sponde riesco a scattare qualcosa come 40 fotografie – proseguo in direzione del Manikarnika Ghat, che grazie all’aria particolarmente limpida sembra assai vicino, ma che dopo un bel po’ di cammino sotto un sole che diventa sempre più rovente ogni secondo che passa, comincia a sembrare un vago miraggio. Già da dove mi trovo riesco comunque a discernere numerose colonne di fumo grigio che si avvitano verso il cielo. Temo onestamente di confrontarmi de visu con questa realtà piuttosto cruda: se il sacrificio dei bufali a Sulawesi (vedi) mi ha causato qualche vago turbamento, come reagirò osservando esseri umani che vengono bruciati fino al totale incenerimento su cataste di legna, e non solo? Scrivo “non solo” perché come al solito la realtà “vera” è molto più agghiacciante della realtà “romanzesca” di molti reportage di viaggio. Per cremare completamente un corpo umano di media grandezza, è stato calcolato, occorrono circa 250 chilogrammi di legna; il costo di essa supera di gran lunga il reddito medio annuo di un indiano di casta medio-bassa. Va da sé pertanto che il reperimento di sufficiente legna da ardere – considerato che probabilmente i fornitori del Manikarnika Ghat caricano sul loro prodotto un certo qual “valore aggiunto” in virtù della “sacralità” ed “esclusività” del luogo – rappresenta per buona parte delle famiglie dei defunti un impegno economico di grandissima portata. Non è però obbligatorio per nessuno il preparare per i propri defunti una pira composta dai 250 Kg. “regolamentari”: in una terra come l’India ognuno è libero di comportarsi come crede, e se un defunto viene deposto sopra – diciamo – una micropira di 80 chilogrammi di legna lo si lascia libero di ardere come meglio credono i suoi congiunti. Il fatto (truculento) è che la carenza di combustibile non consente però al corpo di consumarsi completamente: ecco allora intervenire i Chandal, una particolare casta di Intoccabili (affronterò questo argomento un po’ più avanti), che – riparandosi dal calore elevatissimo con un mantello grigio dotato di cappuccio – prendono letteralmente a bastonate il povero cadavere semiconsunto al fine di ridurlo in pezzi più piccoli che possano essere carbonizzati con maggior facilità dalle deboli fiamme. Qualora anche con questo accorgimento la pira si rivelasse insufficiente, sempre i soliti Intoccabili concluderanno il loro “servizio funebre” gettando nelle acque del Gange i residui ancora incombusti del de cuius.

Non tutti i cadaveri possono però essere cremati: esistono alcune categorie di persone che in base alla religione indù devono essere gettati direttamente nel Sacro Gange con dei pesi legati al corpo, e non possono conoscere la pira che assicurerebbe loro di bypassare tutte le reincarnazioni ed assurgere direttamente al Nirvana. Tra di esse vi sono i bramini (che si devono reincarnare, perché in una vita sola non possono adempiere alla loro sacra missione), i bambini, le donne incinte, le persone decedute a causa del morso di serpenti velenosi o comunque di morte violenta (che si devono reincarnare perché di fatto non hanno avuto diritto a vivere una vita completa, che per le donne incinte riguarda anche la creatura non-nata che portano in grembo) ed i lebbrosi (perché, più prosaicamente, si crede che la malattia possa propagarsi in distanza, nascosta nel fumo della cremazione).

Mentre osservo le varie fasi della cerimonia tra il curioso, l’ipnotizzato e il vagamente nauseato, vengo avvicinato da un personaggio vestito di bianco-Dixan che si presenta come un bramino e mi chiede se mi farebbe piacere assistere alle cremazioni da un punto di vista privilegiato; sperando che non mi offra di sedere direttamente sulla pira decido ancora una volta di fidarmi e lo seguo dietro il Manikarnika Ghat, dentro un portone, su per delle scale anguste e malconce…Fino ad un terrazzo privato che dà esattamente sopra le pire fumanti. Scattare foto è rigorosamente proibito, ma “simmo in India, paisà!” e dietro una ventina di rupie che passano rapidamente di mano riesco ad impressionare un buon mezzo rullino. Il “bramino” mi spiega a questo punto in maniera piuttosto esauriente tutto quanto vi ho già esposto più sopra; aggiunge che il costo della legna è davvero proibitivo (una pira da 250 Kg. Costava nel 1998 circa 400 dollari americani, almeno secondo lui, ma anche secondo altre fonti che ho trovato in Internet il prezzo è da considerarsi abbastanza corretto) e che lui fa parte di un’associazione benefica (ci siamo!) che vuole permettere a tutti – anche ai più poveri – una cremazione dignitosa. Tira fuori un quadernino dove dice di aver annotato molto diligentemente tutte le donazioni fatte dai turisti che mi hanno preceduto, e me lo mostra: parrebbe che due turiste americane abbiano devoluto 1.200 dollari (!), tre francesi altri 800 dollari, e due sorelle italiane – solo la settimana prima – la bellezza di 1.500 dollari. Lo guardo con la mia occhiata numero 27 (ci sei o ci fai), gli allungo 100 rupie a titolo di ringraziamento personale (cercando di dimenticare la F.B.V., la Franca che mi guarda da chissà dove e mi disprezza, ed il fatto che questa somma rappresenta due notti in albergo a Varanasi), reggo con nonchalance il suo sguardo da cobra e mi catapulto giù dalle scale per riguadagnare le sponde del Gange.

Vi anticipo che questo sistema “raffinato” di accattonaggio è una prerogativa dell’India; incontrerò vari personaggi del genere (dal “sedicente bramino” al “professore universitario”, dal “guardiano di templi in pensione” all’”ex-generale dell’esercito”) durante ogni tappa del mio viaggio (e due anni dopo insieme a mio fratello) e tutti, tutti, si dilungheranno in spiegazioni colte e forbite, concludendo il loro più o meno lungo discorso con una riflessione sul costo della vita, tirando quindi fuori un quadernetto (un’agendina, un bloc-notes…) su cui sono annotati ingentissimi e quindi incredibili “lasciti” erogati da turisti qualunque che – a sentire i miei svariati interlocutori – non hanno esitato ad investire in una singola donazione un importo di molto superiore all’intero budget di un viaggio di tre settimane in India, aereo intercontinentale compreso. Il mio consiglio a questo proposito è di fare “da scemi”, annuendo con sincera partecipazione e lasciando al nostro amico – che comunque ha investito per noi una discreta quantità del suo tempo – un importo “ragionevole” per gli standard indiani. Credo onestamente che 100 rupie siano anche troppe, davvero. Vi ricordo che un dipendente delle ferrovie di grado medio guadagna – al Febbraio 2003 – 2.500 rupie al mese.

Mentre aspetto che su Varanasi calino le prime ombre della sera mi rifocillo con un paio di samosa seduto sulle gradinate di un ghat minore, respirando quest’atmosfera davvero unica (Varanasi, dall’alto dei suoi tremila anni e più di storia, è considerata una delle città più vecchie del mondo: quando Romolo e Remo giocavano a rimpiattino sui prati dei Sette Colli, qui si festeggiava come minimo il cinquecentenario della fondazione…) di vita, morte, pace e fervore religioso. Sto aspettando che arrivi l’ora del mio appuntamento con il barcaiolo, e per ingannare l’attesa vi parlo brevemente del sistema delle caste in India. Secondo la religione induista, esistono quattro caste principali: i Bramini (o la casta dei preti); i Kshatriyas (soldati, governatori e figure politiche in genere); i Vaisyas (agricoltori e commercianti); i Sudras (artigiani, operai e uomini di fatica in genere). Al di sotto di esse esiste una quinta casta, quella degli Intoccabili (che Mahatma Gandhi ribattezzò Harijan, “i figli di Dio”, ma che preferiscono farsi chiamare Dalit, “gli oppressi”). Agli Intoccabili – che come dice il loro nome non possono essere neppure toccati dai membri delle altre caste, anzi: se la loro ombra incrocia quella di una persona di rango più elevato, quest’ultima deve sottoporsi ad un complicato rituale di purificazione! – spettano i lavori più umili ed incredibili: dal bastonatore di cadaveri visto più sopra allo “sturatore” di fogne intasate, dalla raccolta di sterco di mucca (per farne “tortine” che, seccate, verranno utilizzate come combustibile) all’incredibile occupazione dei Bhangis, sotto-casta degli Intoccabili destinati a svuotare le latrine delle case non dotate di scarico per un compenso di 5 Rupie (circa 10 centesimi di Euro) a casa. Naturalmente, non è consentito né il “salire” da una casta all’altra né il matrimonio tra caste differenti; l’unica speranza che i Dalit possono nutrire è quella di reincarnarsi – dopo la morte, che di solito avviene abbastanza presto – in una forma di vita più fortunata (tipo il totano, ad esempio…). Il National Geographic del Giugno 2003 ha dedicato a questi “Figli di Dio” un servizio davvero agghiacciante.

Dopo questa piacevole chiacchierata è ormai sera, ed il barcaiolo, puntuale come un cronometrista svizzero, mi attende ormeggiato di fronte alla mia guesthouse. Salgo sul natante, ed egli comincia a remare contro corrente, lasciando scivolare la barca a poche decine di metri dai ghat e consentendomi un nuovo ed ancor più suggestivo punto di vista della città. Mentre “Caronte” volge la prua in favore di corrente per dirigerci verso il Manikarnika Ghat (che opera 24 ore su 24), noto che ha una brutta piaga proprio sul palmo di una mano. Tiro fuori dallo zaino un po’ di polverina disinfettante ed un paio di cerotti King Size e cerco alla bell’è meglio di proteggergli la ferita dal contatto con il legno dei remi; mi ringrazia con un cenno della fronte sudata e continua imperterrito a vogare di buona lena. Dal fiume e con le tenebre, le fiamme che illuminano il Sacro Ghat lasciano davvero senza fiato, e dopo avermi diffidato con un sorriso dall’immortalare la scena su pellicola, il mio barcaiolo mi deposita di fronte alla Sita Guesthouse. Quando faccio il gesto di pagarlo, mi mostra la mano fasciata e fa segno di “no” con la testa, come a dire che considera il mio intervento “medico” un pagamento sufficiente; devo quasi minacciarlo per convincerlo ad accettare comunque le poche rupie pattuite; ci diamo appuntamento per la mattina successiva, ben prima dell’alba.

Il Gange è ancora un nastro scuro e sinuoso quando mi ritrovo seduto sulla barchetta. Guardando verso l’altra sponda (quella di fronte a Varanasi) mi pare di discernere un vago chiarore arancione. I ghat sono quasi deserti, fatta eccezione per alcuni dhobi-walla (lavandai di professione) che sbattono ritmicamente la biancheria contro delle pietre umide (devo averli sorpresi nella funzione “risciacquo”…) ed un bramino che presenta le offerte del mattino a Mother Ganga. Man mano che il mio traghettatore prosegue lungo il fiume l’aria si fa più chiara, ad est si comincia ad intravvedere il cerchio del sole ancora sfocato dalla foschia, ed i ghat cominciano a popolarsi; con scelta di tempo maturata da – credo – lunghissimi anni sul “ponte di comando”, proprio quando il sole comincia imperiosamente a colorare di una calda tonalità di giallo-arancio i ghat, il barcaiolo arresta il natante di fronte al Dasawamedh Ghat, brulicante di una variopinta folla di pellegrini che si accalcano sulle scalinate per arrivare al Gange e cominciare quindi le abluzioni. Probabilmente mi “fumo” un paio di rullini, ringrazio il mio “capitano”, saldo il conto e mi faccio lasciare sul bordo di un ghat minore vicino al Dasaswamedh. Il mio stomaco gorgoglia un po’, come a ricordarmi che non solo non ho fatto colazione, ma da quando sono in India non sono ancora neppure entrato in un ristorante, cibandomi di cibi “da viaggio” acquistati da venditori ambulanti. Seguo le indicazioni della Guida e ben presto sono seduto ad uno splendido tavolo di lamiera zincata in uno dei ristoranti più “raccomandati” di Varanasi. Mangio come un branco di bufali, spazzolando un buon numero di portate deliziose, bevendo alternativamente Pepsi gelata e the caldo, ed al momento del conto sono piacevolmente sorpreso di pagare quanto avrei speso in Italia per una brioche riscaldata ed un cappuccino-mezza-tazza-solo-schiuma.

Gironzolo un po’ per le stradine interne di Varanasi, visito un paio di templi e mentre sto per ritornare “in albergo” per riposare un paio d’ore sbatto dentro due ragazze, con zainetto in spalla, che stanno discutendo tra loro in tedesco. Parlo discretamente questa lingua mitteleuropea, e comunque abbastanza per capire che le due amiche non sono per niente contente della loro sistemazione alberghiera. Chiedo loro dove hanno trovato alloggio ed una di esse mi risponde che, sbagliando, si sono fidate dell’autista del “triciclo” che le ha portate in una triste, sporchissima e cara guesthouse sperduta tra i vicoli della città. Io sono personalmente molto contento della mia sistemazione, e mi permetto di suggerire loro di venire alla Sita Guesthouse a chiedere se ci fosse ancora qualche stanza libera. In effetti, una volta sul posto, il gestore ci conferma che ci sono ancora un paio di stanze libere; le ragazze si sono subito invaghite di questo posto, ma si dicono sicure del fatto che il “loro” albergatore non vorrà lasciarle andar via tanto facilmente. Rinunciando a malincuore al mio riposino pomeridiano, mi offro di accompagnarle, ed in effetti scopro ben presto che si è trattato di una decisione saggia, in quanto il gestore della loro guesthouse sulle prime si rifiuta di lasciarle andar via, a meno che non gli paghino le tre notti che avevano promesso di restare, più 500 Rupie per riavere gli zaini. Siccome non sopporto le prepotenze di ogni tipo, esco dalla guesthouse con fare bellicoso e ben presto trovo un poliziotto. Gli spiego l’accaduto, e non appena gli offro 50 rupie come ringraziamento anticipato questi irrompe nell’alberghetto e comincia ad urlare in dialetto stretto all’indirizzo del gestore, il quale – incazzato come una bestia ma sottomesso dall’Autorità Costituita (e un po’ corrotta…) – prende gli zaini delle ragazze e li sbatte platealmente fuori dalla porta, invitandoci con ampi gesti delle braccia ed urla (credo) oscene a seguirli.

Bene o male, dopo un quarto d’ora siamo tutti seduti sul terrazzo della Sita di fronte ad una succulenta insalata di frutta ed un the fumante. Le ragazze si chiamano Renate e Sabine, sono tedesche della ex-Germania Est e parlano ovviamente tedesco, inglese ed un perfetto russo. Renate è laureata in lingue e si esprime correttamente anche in francese, italiano e polacco. I nostri dialoghi sono quindi un misto di tre-quattro lingue alla volta, ma l’importante è capirsi.

Questo è il mio Viaggio Da Solo, e non ho intenzione di aggregarmi a nessun tipo di viaggiatore (o viaggiatrice che sia); dall’atteggiamento delle ragazze mi sembra di capire – fortunatamente – che neppure loro sono alla ricerca di ulteriori compagni di viaggio. Alla sera passeggio lungo il fiume (in India bisogna dare al tempo il valore che riteniamo debba avere: possiamo decidere di muoverci e spostarci freneticamente, se vogliamo, ma anche di lasciarci scivolare le ore tra le dita come sabbia in una clessidra. Questo è il motivo che mi spinge a viaggiare non organizzato: la gestione del mio tempo, delle mie sensazioni, dei miei momenti di – consentitemelo – beatitudine) finchè mi trovo circondato da una folla festante, guarda caso in prossimità del sempiterno Dasawamedh Ghat dove ogni sera, verso l’imbrunire, si tiene una cerimonia di comunione e compenetrazione con Mother Ganga; alcuni sacerdoti celebrano quella che potrebbe sembrare una funzione religiosa accompagnata da musiche di cimbali, alla fine della quale tutti quanti gettano sulla superficie del fiume una miriade di lumini i quali, trasportati dalla corrente, trasformano il Gange in un lunghissimo festone tremolante. Soddisfatoo e con gli occhi pieni di immagini indimenticabili, torno a “casa” per la mia ultima notte a Varanasi.

Il mattino dopo mi godo l’alba dalla mia stanza, e mi dirigo quindi verso la prima fermata di autobus con l’intenzione di visitare Sarnath, un altro luogo sacro a pochi chilometri da Varanasi, questa volta per i Buddhisti. L’India, tra le altre cose, è un incredibile crogiuolo di religioni, che riescono a convivere di norma in maniera sufficientemente pacifica; così a meno di mezz’ora di strada dalla città più santa dell’Induismo mi trovo catapultato in un luogo altrettanto sacro per il Buddhismo…Che si rivela però una mezza delusione. Vi è ben poco più di qualche rovina sparsa, l’unico reperto ben conservato è il Dharmek Stupa (lo stupa è un tempio buddhista di pianta circolare che viene utilizzato per pregare semplicemente girandovi attorno), alto circa 30 metri e con 28 metri di diametro, dove pare che il Gautama Buddha abbia predicato per la prima volta dopo essere stato “Illuminato”.

Alle porte di Sarnath si accalca un enorme numero di mendicanti, storpi e disgraziati in genere che assaltano letteralmente ogni visitatore pregando per qualche rupia; il problema non è fondamentalmente quello di scialacquare pochi spiccioli di infimo valore, ma è piuttosto rappresentato dal fatto che – come per il caso dei lebbrosi della stazione di Delhi – se un malcapitato decidesse di elargire una piccola elemosina si troverebbe ben presto assediato da decine di disgraziati imploranti. Piuttosto deluso torno a Varanasi, faccio “i bagagli”, saluto le tedesche con un “auf wiedersehen” e mi dirigo alla stazione. Il Marudhar Express arriva come al solito quasi in orario (altro che Indonesia!) e ben presto riparte alla volta di Agra. Sono ormai a conoscenza delle procedure di “trasformazione” notturna dei posti a sedere, ed ancora una volta mi trovo nella cuccetta più bassa dello scompartimento, che come al solito alle prime ombre della sera si popola di numerosi “cuccettisti” abusivi che ne riempiono ogni più infimo angolo. Nonostante venga destato più volte da varie grida belluine “Puripuripuri…”, “Namkinnnnnnnnamkiiiiiinnnnnn…” e “Chaichaichaichaichaichaichaiiiiiiiiiiii…” (il the) nelle stazioni di sosta lungo il percorso, arrivo al mattino ad Agra insolitamente riposato. Nota: memore del furto patito in Indonesia nel 1990 (vedi) dormo con la borsa fotografica legata al mio corpo con un triplo giro di catenella metallica assicurata con un lucchetto. Se mi rubano lo zaino perdo sostanzialmente poche migliaia di lire di abbigliamento usato, ma la borsa fotografica…Passaporto, denaro contante, biglietto aereo e carte di credito sono in un sottile marsupio che porto sempre in vita, ulteriormente fissato all’interno dei pantaloni con una spilla da balia.

Arrivato nel centro della città – che immaginavo dominata dal Taj Mahal ma che in realtà lo nasconde piuttosto bene – mi dirigo all’Hotel Siddharta, una guesthouse raccomandata da indovinate-chi che si trova direttamente fuori dalle mura del famoso monumento. Per 100 rupie mi viene assegnata un’ampia camera con letto matrimoniale, ventilatore, bagno con doccia e vista giardino. Lancio lo zaino sul letto, mi faccio una rapida doccia, mi rivesto ancora bagnato ed in capo a 10 minuti sono di fronte alla porta di ingresso del Taj Mahal. Pago il biglietto (di importo irrisorio allora, ma che dal 2000 è stato aumentato alla folle cifra di 500 rupie per i non-indiani!!!) e mi dirigo verso il portale di ingresso.

Non mi considero un tipo facile all’emozione, e modestamente ho avuto la fortuna di visitare un pochino di mondo; ho visto grandi città, splendidi paesaggi, parchi naturali, spiagge incontaminate, famosi monumenti, meraviglie naturali mozzafiato; ho visto il Taj Mahal centinaia di volte: in fotografia, su cartoline illustrate, in trasmissioni televisive, sulle riviste di viaggio, sulle etichette di mille prodotti indiani, su magliette…E persino in un poster appeso di fronte al mio letto all’Hotel Siddharta.

Quando però mi sono trovato di fronte alla stupefacente, muta grandiosità di quest’opera immortale, ebbene, non mi vergogno a confessare di aver provato qualcosa di molto simile alla Sindrome di Stendhal (il famoso autore francese che nel 1817, durante una visita a Firenze, rimase talmente estasiato dalla visione di opere d’arte così belle che ebbe un malore): la sensazione più prepotente era quella di non riuscire a credere totalmente a quello che i miei occhi stavano osservando, rifiutandomi quasi di accettare con razionalità le immagini che mi si presentavano davanti. Anche mio fratello, una specie di orco, quando nel 2000 si troverà qui insieme a me mi confesserà di sentire come un insopprimibile groppo alla gola.

Come in un sogno, mi dirigo verso la costruzione, che torreggia in fondo ad un lungo camminamento, sovrastando le rive dello Yamuna River (che per inciso era stato indicato da studiosi dell’ambiente come il corso d’acqua più inquinato del mondo) e regalando ai fotografi appassionati (ma anche a quelli con le macchinette usa-e-getta) inquadrature indimenticabili. Senza poterlo osservare di persona, dalle immagini universalmente note non è assolutamente possibile avere un’idea delle dimensioni del Taj Mahal (che i cinici bollano come “la più grossa cappella funebre del mondo”); la prossima volta che avrete l’occasione di guardarlo – in televisione, su una rivista, su Internet o dove meglio credete – provate a focalizzare la vostra attenzione sul portone di ingresso centrale (alto almeno 5-6 metri); cercate di individuare le persone che vi si affollano intorno e comincerete a farvi un’idea di quanto in realtà questo monumento sia imponente.

Il marmo bianco del Rajastan cambia colore ad ogni minima variazione nella tonalità della luce esterna, ed in quest’atmosfera senza tempo mi viene quasi la tentazione di fermarmi qui tutto il giorno per fotografare il Taj Mahal sotto ogni tipo di situazione; poi mi rammento che non ho tre mesi di tempo per completare l’itinerario che mi sono prefissato…Esco a malincuore dalle mura del tempio, e mi trovo in un vicoletto mefitico pieno di venditori che propongono ai passanti una serie pressoché infinita di cibi ignoti, la cui unica caratteristica comune è quella di sobbollire in abietti pentoloni anneriti. Gli “stand” dei venditori sono in pratica minuscole camerette ricavate nel muro di contenimento, grandi appena per ospitare le terga dei commercianti e qualche pezzo di “combustibile biologico” (vedi più sopra…). Non domo, riesco persino ad assaggiare qualche manicaretto prima di dirigermi al Forte di Agra (inghiottendo durante il tragitto un paio di Bimixin a titolo preventivo). Questa costruzione, iniziata nel 1156 dal figlio del capostipite dell’Impero Mogul (o Moghul, o Mughal che dir si voglia) ma terminata solo nel 1605 (con Shah Jahan, il costruttore del Taj Mahal, che fece erigere buona parte delle strutture interne al forte), è senz’altro da considerarsi il secondo buon motivo per visitare Agra, una città che non ha onestamente nient’altro da offrire. La visita del forte, dal quale si gode una splendida vista da lontano del Taj Mahal lato fiume, richiede comunque – anche volendola effettuare di buona lena – almeno un paio d’ore, dopo le quali decido di recarmi in un ristorante, per rifocillarmi ma anche e soprattutto per riposarmi un po’ le gambe e gli occhi. Si avvicina il tramonto, e mentre aspetto che arrivino le portate che ho ordinato comincio a chiedermi che colore avranno adesso le pareti del Taj Mahal. Che stupido! Non riesco neppure a godermi un’oretta di pausa: mangio voracemente la mia merenda-cena, scolo a garganella l’onnipresente Pepsi (per motivi politici non meglio approfonditi dal sottoscritto, la Coca-Cola è ritornata in India – dopo oltre quarant’anni di assenza “obbligata” – solo qualche anno fa) e mi dirigo a passo veloce verso i cancelli del grandioso mausoleo.

In effetti ne vale la pena, poiché tutto il monumento appare come tinto di un pallido rosa-arancio. Scatto un altro paio di dozzine di foto (anche se, già rassegnato, so che all’atto della cernita pre-proiezione dovrò sacrificarle quasi tutte per non vedere gli amici intorno a me cadere addormentati uno alla volta) e mi dirigo – questa volta davvero! – verso il mio alberghetto. Cado addormentato quasi subito, anche perché verso le 9 di sera il simpatico gestore stacca il generatore e tutto quanto piomba in un buio più denso del liquame dello Yamuna River. Apro gli occhi di scatto dopo qualche ora, destato da un cane che ha pensato bene di guaìre esattamente sotto la mia finestra; controllo l’orologio: sono le quattro e mezza e non ho più sonno. Attenzione: questo è il vantaggio incommensurabile di viaggiare da soli; nessuno a cui rendere conto, nessuno che si lamenta perché ti fermi mezz’ora per studiare l’inquadratura di una foto, nessuno che sbuffa perché vuoi andare a dormire troppo presto/tardi, nessuno che ti chiede se sei scemo quando ti alzi alle quattro del mattino, nessuno che ti obbliga a seguirlo in posti che non ti interessano, nessuno che ti sussurra: “Andiamo?” o simili amenità. Il mio non vuole essere un inno alla misoginìa né al boicottaggio delle relazioni umane; esistono ovviamente vantaggi e svantaggi sia a viaggiare in compagnia che a farlo da soli; in questo momento però sono incredibilmente felice di essere da solo. Mi vesto rapidamente, afferro la macchina fotografica (ed un rullino di scorta, you never know…) e, percorrendo viuzze deserte, ritorno dentro le mura del Taj Mahal.

La luce azzurra della notte che sta per finire (violentata dal sole, ha scritto un compianto Poeta genovese), frammista alla bruma dell’alba, rivela il mausoleo come dietro un sipario translucido. Sono attonito di fronte a tanta bellezza; nascosti dalla vegetazione, dei monaci stanno nel frattempo intonando i loro inni sacri. È un momento che mi porto dentro ancora adesso, e le fotografie scattate in quell’occasione sono tra le più care che conservo. Mentre alzo la testa dal mirino della macchina fotografica sento un rumore dietro di me: sono due turisti di mezza età (marito e moglie inglesi, scoprirò poi) che – probabilmente insonni tanto quanto me – hanno avuto la stessa mia idea, e si tengono per mano con gli occhi lucidi, ascoltando il mormorio dei monaci ed osservando questa scena fuori dal tempo. Ci scambiamo uno sguardo di compiacente soddisfazione, ma nessuno rompe il silenzio con parole superflue.

Al definitvo sorgere del sole, ritorno brevemente al Siddharta Hotel, faccio colazione e mi preparo per andare a visitare la città abbandonata di Fatehpur Sikhri, situata ad un’ora circa di autobus da Agra. Questa città – capitale dell’impero Mogul dal 1570 al 1586 – è stata costruita secondo la leggenda come un gigantesco ex-voto da parte dell’imperatore Akbar, che voleva così ringraziare il Santo Sheikh Salim Chisti (residente per l’appunto nell’allora piccolissimo villaggio di Fatehpur Sikhri) per avergli per così dire concesso la grazia di generare un figlio maschio. Alla base dell’abbandono della nuova capitale pare vi sia stata l’oggettiva impossibilità di assicurare ad essa un sufficiente approvigionamento idrico. Le vestigia che rimangono sono comunque ottimamente conservate, ed una visita appare oltremodo consigliabile. Di norma in India non bisogna temere inopinati afflussi di turisti (fatti salvi alcuni luoghi “top”), potendocisi quindi concedere il lusso di girare con una certa libertà e senza pressioni di alcun tipo. Sceso da uno dei numerosissimi autobus che fanno la spola con Agra, passo tre ore buone a visitare la città, declinando con cortesia sempre minore le innumerevoli profferte di guide, di “bramini”, “professori” o sedicenti tali (vedi più sopra…) che mi perseguitano fin dal primo momento. Sulla via del ritorno, dopo aver acquistato una samosa piccante oltre ogni dire da un venditore ambulante, mentre ero quasi convinto di saltare su di un autobus notturno diretto verso Jaipur – mia prossima meta nell’ideale itinerario che mi sono costruito – scopro leggendo attentamente la Guida che tra Agra e la mia destinazione ideale si trova il paesino di Barathpur, sede del Parco Nazionale di Keoladeo. Questo parco, fondato originariamente nel 1850 come riserva di caccia per cervi, e successivamente nel 1901 – grazie ad un’enorme disponibilità d’acqua – destinato a riserva di caccia per anatre (ad esclusivo appannaggio di clientela “VIP”: maharaja, re, viceré, senatori, generali), fu definitivamente trasformato in un santuario per avifauna nel 1956, fino a divenire Parco Nazionale nel 1981, ed entrando addirittura nel World Heritage nel 1985. L’unico motivo per effettuare una sosta a Barathpur è quindi la visita a questo immenso parco; i giorni a mia disposizione me lo consentono, la mia solita manìa di non effettuare alcuna prenotazione vincolante anche…Ed è così che, salutati gli amici del Siddharta Hotel e fatte su le mie poche masserizie, salto sul primo mezzo diretto a Jaipur via Barathpur, dove arrivo in tarda serata. Trovo posto nella prima guesthouse di fronte alla fermata del bus (inutile gironzolare troppo quando si arriva in un posto col buio, tanto ormai ho capito che lo standard delle guesthouse in India è di molto superiore – a prezzi ancor più ridotti – di quello che si può trovare in una qualsiasi regione dell’Indonesia), poso i bagagli in camera e mi dirigo verso il primo ristorante…Dove incontro Renate e Sabine intente a decifrare il menu unto e bisunto. Ci salutiamo come vecchi amici e, visto che il destino rema in questa direzione, decidiamo di visitare insieme, l’indomani, il parco di Keoladeo.

Mi sveglio di buon’ora, faccio colazione, noleggio alla “reception” una bicicletta che ha conosciuto secoli migliori ed un paio di binocoli progettati probabilmente ancora da Galileo Galilei, mi metto al collo la macchina fotografica con già montato il teleobiettivo che finalmente – dopo parecchi viaggi in cui ha svolto meramente il ruolo di zavorra – riuscirà forse a sancire in questa occasione la sua utilità, e pedalando devo dire con andatura traballante raggiungo l’ingresso del parco; Renate e Sabine mi stanno aspettando, cavalcando due velocipedi in confronto dei quali il mio veicolo sembra lo Space Shuttle. Renate ostenta al collo un paio di binocoli da teatro con inserti in finta madreperla, e quasi temo di scoprire Sabine dotata di un cannocchiale alla Nelson, per scoprire invece che la loro guesthouse – fatta salva l’apparecchiatura in possesso della sua amica – non disponeva di ausilî ottici degni di tal nome. Paghiamo l’ingresso (salatuccio in verità, ma sempre mooolto meno di un biglietto del cinema da noi) ed entriamo nel parco, accompagnati da un sinistro cigolio di pedali. Insieme al biglietto ci viene consegnata una mappa che definire artigianale sembra un dovuto atto di carità, la quale ci consente perlomeno di capire che non riusciremo a visitare tutto il parco neppure in sella ad un motorino truccato. Decidiamo quindi di limitare le nostre pedalate ad un ristretto dedalo di viottoli ciclabili.

La quantità di uccelli presenti in quest’area è davvero impressionante. Scattiamo numerose fotografie (anche se il mio 70-300 non è neppure lontanamente adatto per avvicinare degnamente le “prede”: si dovrebbe ragionevolmente utilizzare come minimo un 600mm); incontriamo antilopi, cerbiatti, uno sciacallo spelacchiato e, oziosamente sdraiato al sole, un Pitone Moluro di almeno 3 metri di lunghezza! Ci rifocilliamo frugalmente (sono stufo di scrivere “samosa”, ma conoscete la realtà…) e riprendiamo la visita del parco, dal quale usciamo con il culo arrossato tipo mandrillo in amore solo nel tardo pomeriggio. Fedele alla mia decisione di non accollarmi compagni di viaggio non preventivati, saluto nuovamente le ragazze dell’Est, pago la stanza e salto sul primo autobus che vedo diretto a Jaipur.

Trascorro una notte da tregenda a bordo del mezzo, osservando con occhio tremolante la pazzia conclamata del nostro autista che, incurante di sensi unici, strade strette, ponti pericolanti, segnali di divieto ed esseri viventi misti sulla carreggiata, continua a guidare a velocità terrificante sorpassando altri bus, camion, carri tirati da buoi con una mano premuta sul clacson e l’altra dedicata – a turno – a scavare nel naso, a recuperare reperti fossili nelle orecchie, ad azionare la leva dei fari abbaglianti, a schiacciarsi le zanzare sulla faccia, a grattarsi il culo e, talvolta, a tenere il volante.

Non so come non so dove non so perché, ma quando – insospettito da un subitaneo quanto inaspettato rallentare del mezzo – decido di riaprire gli occhi che avevo serrato nell’assurda pretesa di dormire un po’, scopro che stiamo entrando, sani e salvi, dentro la gigantesca stazione degli autobus di Jaipur. Per un po’ tetragono a qualsiasi mezzo su ruote, mi carico lo zaino in spalla e mi avvio a piedi verso la Evergreen Guesthouse, in cima alla Top Ten della Lonely Planet. Per quanto situato in un vicoletto per nulla ameno, come peraltro le strade adiacenti, questo alberghetto offre al suo interno uno splendido e rilassante giardino verdeggiante. Trovo una bella stanza al primo piano, deposito i bagagli e, un po’ sconvoltino in verità, vado a sdraiarmi un’oretta sulla fresca erba del giardino. La guesthouse è piena di ospiti, tutti apparentemente impegnati nella compravendita di oggetti di fabbricazione indiana: argento, articoli in legno, stoffe pregiate, prodotti di artigianato locale, pietre dure, vestiti; per chi non lo sapesse, infatti, Jaipur è universalmente considerato IL posto del Rajastan (e non solo) dove effettuare i migliori acquisti, con una miriade di negozi e bancarelle tra cui scegliere ed il miglior rapporto qualità/prezzo/truffa. Per quanto non fondamentalmente interessato ad intraprendere – per ora, almeno… – la carriera di mercante internazionale, devo confessare che alla fine della mia permanenza qui il mio zaino risulterà ben più carico di quando sono arrivato.

Oltre che per gli acquisti, la “città rosa” (la parte vecchia di Jaipur è interamente costruita – mura di protezione e portali di accesso compresi – in pietra rossastra, che al calar del sole assume una piacevolissima e calda tonalità rosa) è rinomata soprattutto per i molti palazzi monumentali (su tutti il famosissimo Hawa Mahal, il Palazzo dei venti), il forte sulla collina, l’Iswai Minar Swanga Sul (il minareto che domina la città vecchia) e l’osservatorio astronomico (Jantan Mantar), costruito tra il 1728 e il 1734 dal Maharaja Jai Singh II, ovviamente appassionato di astronomia. Nella prima giornata riesco a visitare – e fotografare – quasi tutte queste “attrazioni”; verso sera mi dirigo in un famoso ristorante, Niro’s, dove per un importo risibile riesco a godere del miglior pasto finora effettuato in India. La notte trascorre tranquilla e piuttosto fresca, ed il mattino dopo mi avvio – di buon’ora e di altrettanto buona lena – verso l’Amber Fort, un grandioso forte costruito su di una collina che domina Jaipur. Dopo un’arrampicata resa particolarmente ardua dal caldo feroce, non rimpiango le forze spese poiché sia il forte di per sé stesso che la meravigliosa vista che da lì si gode della città e dei suoi monumenti sono realmente indimenticabili. Dato fondo alle scorte di acqua che previdentemente mi ero procurato, con passo MOLTO più tranquillo mi riavvio verso il basso, deciso a visitare ancora il Palazzo Reale.

Questo splendido edificio ospita al suo interno una preziosissima collezione di opere d’arte e pezzi unici, tra cui le due famose giare d’argento che figurano nel Guinness dei Primati come i più grossi manufatti al mondo forgiati in questo metallo. Pare infatti che nel 1901 l’allora re d’Inghilterra (ed Imperatore dell’India…Sic!) Edoardo VII invitò a Londra il maharaja Madho Singh di Jaipur; motivi religiosi imposero però al maharaja di rispettare alla lettera alcune regole fondamentaliste: la nave su cui viaggiava non doveva avere a bordo alcun tipo di carne; ogni giorno egli avrebbe dovuto spargere dietro al trono (che si portava dietro: o tempora, o mores!) un po’ della sacra terra di Jaipur; durante tutta la sua permanenza all’estero, inoltre, egli non avrebbe potuto bere altro che la sacra acqua del Gange. I migliori maestri argentieri furono pertanto incaricati di studiare un sistema in grado di permettere al sovrano di trasportare la quantità d’acqua giudicata necessaria per bere, lavarsi e preparare i propri pasti per tutta la durata del suo soggiorno all’estero, stimata in due mesi; furono quindi costruite tre gigantesche giare, ognuna pesante oltre 350 Kg., con un’altezza di circa un metro e sessanta ed una circonferenza di più di quattro metri, capaci di contenere novemila litri d’acqua cadauna.

Durante il viaggio, una forte tempesta costrinse il maharajah ad acconsentire che una giara venisse sacrificata a Varuna (il dio del mare induista) per calmare le acque. Il resto del soggiorno si svolse senza grossi problemi, viene da pensare, visto che ancor oggi le due giare superstiti sono la main attraction di questo palazzo.

Uscendo dalle porte del Palazzo Reale, mi fermo divertito ad osservare alcuni incantatori di serpenti, che “ipnotizzano” con i movimenti del loro flauto i malcapitati cobra che vivacchiano dentro le loro ceste rotonde. Uno di questi “artisti”, ad un tratto, mette la mano dentro una cesta più piccola che conserva al suo fianco, ne estrae un “minicobra” di qualche decina di centimetri e sottile come il mio dito mignolo, e me lo porge sorridendo. Il serpentello è tenerissimo: per quanto molto piccolo è perfettamente uguale ai suoi parenti adulti; in segno di minaccia si erge prepotente ed arriva perfino a gonfiare il collo. Guardo preoccupato il suo padrone: non è – penso – che ora il nanetto mi morde una mano? L’incantatore comprende il mio (fondato) timore, e mi fa segno che ha già provveduto a strappare i denti veleniferi alla povera creatura; affascinato da questo splendido animale, ma intristito dalla sua sorte grama, lo restituisco al legittimo proprietario che fa il gesto di chiedermi un contributo per l’onore concessomi. Gli allungo dieci rupie giusto per scollarmelo dalle caviglie e mi avvio verso la città vecchia, ignorando le probabili allusioni alla professione di mia madre che il “serpentiere” continua ad urlarmi dietro in dialetto locale. Alla sera, l’ultima qui a Jaipur, ceno al famoso ristorante LMB (che di fatto è l’abbreviazione del nome originale, Laxmi Mishthan Bhandar o qualcosa di similmente impronunciabile, che nessuno però utilizza) particolarmente specializzato in dolci di vario tipo, tra cui mi viene raccomandato un gelato al formaggio e fiori freschi di zafferano che – appena il primo cucchiaino mi scivola in bocca – viene onorato con l’immediato ordine di un’ulteriore porzione.

Il mattino successivo saluto tutti gli amici dell’Evergreen Guesthouse (compreso Mario, un “romanaccio” di mezza età che vive sei mesi qui e sei mesi in Italia, commerciando tutto il commerciabile, ivi comprese alcune mercanzie che – per quanto ampiamente reperibili quasi in ogni città – non risultano tuttora di legale introduzione nel nostro Paese se non attraverso i canali della Criminalità Organizzata…) e mi dirigo verso la stazione degli autobus da dove, dopo solo un paio d’ore di attesa, riparto alla volta di Pushkar. Questo paesino – altro importante luogo sacro dell’India ed unico posto in tutto il subcontinente dove esista un monumento dedicato alla divinità induista Brahma – è particolarmente famoso per la Kartik Purnima (altrimenti conosciuta come la “Fiera dei cammelli”), una festa della durata di cinque giorni che si tiene ogni anno tra Ottobre e Novembre e richiama a Pushkar almeno un milione di partecipanti da tutto il Paese. Siccome non amo il casino (ed in questa occasione il termine “casino” implicherebbe probabilmente nuove vette di caos infernale) ho procurato di arrivare a destinazione ben al di fuori di questa ricorrenza. Le parole della Lonely Planet su Pushkar suonano all’incirca: “un paesino al quale il viaggiatore potrebbe pianificare di dedicare non più di un giorno, ma che trasmette istantaneamente a chi vi giunge una tale pace e sensazione di benessere che il momento della partenza viene sempre rinviato; di giorni, di settimane e talvolta anche di mesi”. Pur non disponendo di un grandioso budget di giorni di viaggio e avendo quindi pianificato di fermarmi qui un giorno/un giorno e mezzo al massimo, non “riuscirò” infatti ad andarmene che alla fine del terzo giorno, rinunciando quindi ad una visita un po’ più approfondita di Delhi.

La cosa ridicola è che a Pushkar non c’è praticamente nulla da fare; d’accordo, il tempio di Brahma è l’unico in India; il tempio posto in cima alla montagnola che domina il paese vale la scalata infernale che comprende circa 400 gradini alti mezzo metro l’uno; il laghetto sacro (poche decine di metri di diametro) al centro della città vecchia è foriero di pace interiore. Ma poi basta, e per visitare queste “attrazioni” un turista irrequieto potrebbe per l’appunto impiegare un paio di giorni; il fatto è che a Pushkar si sta bene, bene davvero. Niente stress, nessuno urla, nessuno sbraita, persino i venditori ti sussurrano “namasté” quale massima espressione della loro frenesia commerciale; neppure la nutritissima colonia di scimmie che vive in riva al laghetto (ufficialmente: in realtà “infestano” quasi tutta la città) risulta particolarmente chiassosa. La vita a Pushkar consiste nel passeggiare per le vie, fermarsi a guardare le acque del lago che non fanno neppure la fatica di incresparsi, bersi un the, mangiare qualcosa (essendo una città sacra esiste solo cucina vegetariana), ri-sedersi in riva al lago e guardare il sole che si muove lento da est a ovest colorare di un arancione sempre più scuro le sue acque fino a sparire dietro i palazzi: un altro giorno è andato, un altro giorno arriverà, che fretta c’è? Avete qualcosa di meglio da fare? Investire in borsa soldi che di fatto non avete per comprare azioni che di fatto non esistono in un mercato virtuale fatto di trasferimenti di denaro eletrronico su conti presenti solo dentro le memorie informatiche di computer sepolti da qualche parte in Connecticut o nello Yorkshire? Cercare di migliorare la vostra vita giocando al Lotto o al totocalcio e regalando denaro duramente guadagnato in cambio di una promessa di benessere statisticamente inattuabile? Cambiare moglie/marito/amante/compagno/a per scoprire dopo qualche mese che nulla è cambiato, che qualcosa ci dà sempre fastidio? Naaaaaaa…Venite a Pushkar a guardare gli uccelli che all’alba si ritrovano sulle rive del lago per bere e rinfrescarsi le piume; chiudete gli occhi dietro il tempio di Brahma per sentire i canti dei monaci che ringraziano per questo nuovo giorno; seguite un bramino nel suo apparentemente casuale percorso quotidiano, oppure fate come ho avuto la fortuna di fare io: entrate nella scuola elementare e regalate al maestro una dozzina di penne biro; verrete invitati di cuore ad assistere ad una lezione, “comodamente” seduti dietro un banco della classe.

Decido di vivere “alla grande” e di investire 250 rupie in un paio di notti al Grand Hotel Pushkar “con suites in riva al lago e piscina aperta tutto l’anno”. Mi viene assegnata una stanza davvero regale, i cui due terrazzi danno rispettivamente sul lago e sul giardino curatissimo, dove fa bella mostra di sé la decantata piscina, in realtà un tantinello limacciosa, ma tant’è. Mi infilo il costume da bagno e mi dirigo fiducioso verso una delle sedie a sdraio che si trovano a bordo vasca. Ce ne sono tre, in totale, e due sono già occupate. Da Renate e Sabine. Appena ci riconosciamo, scoppiamo a ridere di gusto, e decidiamo di non sfidare più inutilmente il nostro Karma che, evidentemente, vuole che completiamo insieme almeno una piccola parte del nostro viaggio; passiamo quindi i due giorni che mi restano a gironzolare ed a rilassarci in compagnia (non pensate male, per cortesia: l’ultima cosa che ho voglia di fare in questo viaggio magnifico è quella di impegolarmi in storie di sesso; l’India è davvero troppo interessante per perdere tempo dentro un letto. E no, non sono omosessuale né impotente: quando viaggio mi piace viaggiare…), a provare i numerosi ristorantini, a scoprire che dosi massicce di lassi (la bevanda nazionale indiana: yoghurt frullato con ghiaccio e con l’aggiunta di frutta fresca o di aromi; esiste anche il cosiddetto “Special lassi” che pare sia particolarmente ricco di marijuana, ma non rientra nelle mie preferenze) causano non imprevisti problemi intestinali (è mia personale opinione che il nome della bevanda altro non sia che una easy abbreviazione di “lassativo”), a scambiarci sia i nostri pareri sui diversi posti visitati che – ovviamente – gli indirizzi (con Renate, a distanza di sette anni, intrattengo ancora un piacevole rapporto epistolare via email).

Tempus fugit, e ben presto mi trovo sul bus diretto a Delhi, impegnato a salutare mestamente dal finestrino le mie amiche tedesche che – guarda un po’ – hanno deciso di fermarsi qui un altro paio di giorni! Il tragitto fino alla capitale indiana mette a dura prova le parti del mio corpo maggiormente a contatto con i sedili roventi, ed arrivo a destinazione giusto in tempo per mangiare qualcosa in centro, comprare un libro in Connaught Place, declinare l’offerta di servizi di un “rinomato” pulitore di orecchie che mi presenta addirittura un quadernetto con annotate le più entusiastiche recensioni del suo operato da parte di clientela internazionale, saltare su un altro bus – di linea urbana, questa volta – e farmi portare all’aeroporto.

Il Jumbo della British Airways, in perfetto orario, rulla potente sulla pista di decollo…Ed inchioda i freni di colpo ad oltre metà rincorsa! Ristabilita la calma a bordo, il pilota ci annuncia che durante l’accelerazione per il decollo ha ricevuto un segnale di allarme da uno dei quattro motori, che non è possibile viaggiare in queste condizioni e che pertanto l’aereo ritornerà al posteggio dove verrà tentata una riparazione urgente; qualora essa non sortisse esito positivo il volo verrà cancellato, verremo ospitati gratuitamente in un lussuoso albergo di Delhi e ripartiremo quindi il giorno successivo. Rimaniamo quattro ore dentro il velivolo; dal mio finestrino riesco ad osservare un’alacre attività intorno ad uno degli enormi reattori del Jumbo. Ad un tratto, scrollando la testa, un piccolo indiano che indossa una tuta bianca afferra uno strumento complicatissimo e si infila fino alla vita dentro il motore. La carlinga dell’aereo trasmette, chiarissimi, alcuni colpi inferti con violenza inaudita che sembrano – ohiohi – provenire esattamente dal reattore “in riparazione”. Dopo qualche minuto l’omino abbandona la sua posizione, porge lo strumento ad un aiutante, si pulisce le mani sulla tuta e fa ampi gesti a tutti quanti i suoi assistenti di abbandonare le posizioni. In capo a neanche dieci minuti il pilota annuncia testuale: “Gli ingegneri indiani asseriscono (sic!) di aver riparato il guasto. Proveremo adesso ad effettuare il decollo, ma tenetevi pronti ad una brusca frenata poiché al primo accenno di malfunzionamento saremo costretti nuovamente ad interrompere con decisione la manovra. Buon viaggio con British Airways.”.

All’interno dell’aereo ognuno prega a modo suo; ho buone ragioni di pensare che – vista la varietà di passeggeri – più o meno ogni divinità conosciuta all’Uomo sia stata tirata in ballo in questo frangente. Saranno state martellate, scalpellate o soltanto colpi sordi, ma inaspettatamente il Jumbo alza il muso e ben presto avvertiamo il carrello principale che abbandona il suolo indiano e si ripiega ubbidiente nella sua sede. Il resto del viaggio fino a casa trascorre senza ulteriori particolarità, fatti salvi gli sguardi dei miei compagni di viaggio sul bus di linea che dall’aeroporto mi deposita sotto casa. Sarà l’Odore dell’India, sarà che non mi rado da diciotto giorni, sarà che la biancheria che ho nello zaino ha decisamente bisogno di una permanenza a 90° in lavatrice. Sarà che i miei occhi tristi – guardando le auto lucide, la gente vestita perfettamente e un po’ alienata, l’infinito alternarsi verde-giallo-rosso dei semafori che superiamo – sembrano voler trattenere dentro di essi ancora per un po’, quale ultima scialuppa di salvataggio sul mare dell’oblìo, una scintilla d’alba sul Taj Mahal. Uno spruzzo di Gange.

Una piuma che rimane, mossa dal vento, sulle rive del lago di Pushkar.



    Commenti

    Lascia un commento

    Leggi anche