Maroc mon amour

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Scritto da: elda torres
Partenza il: 02/04/1995
Ritorno il: 18/05/1995
Viaggiatori: in coppia
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By Elda Torres Vagabondages: Maroc mon amour Con immagini di Paolo (qui non presenti) © Elda Torres Vagabondages 2- Maroc mon amour Vagabondages 1- Quaderni dall’India, EurOpenDumpLink ed. 2005-2007 su vulgo […Net] – Vagabondages – Quaderni dall’India: Elda Torres – Quaderni dall’India. Testo completo foto di Paolo Pobbiati.

India Shining e Hindutva (zafferanizzazione) Grande potenza che brilla proprio …

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Indice: 1.

Casablanca – Meknès – Volubilis Casablanca, la sincretica La borghesia di Casà Meknès e Volubilis In bus verso Marrakech 2.

Marrakech la rossa Djemaa el Fnaa Nel souk Splendori e miserie Lungo le mura esterne: bellezza e desolazione Le tombe saudiane Riti berberi 3.

La tradizione e le tentazioni del modernismo Bile di porcospino, Medio Evo presente I tentati dal progressismo Il punk-rap locale Repressione sessuale e pappagallismo mediterraneo Notte inquieta Le insistenze maschili L’immagine del re vigila ovunque, in tv il Corano 4.

Agadir- Tiznit- Merleft Agadir, la bianchissima Tiznit, porta del Sahara Merleft 5.

Essauira Essauira la variopinta In bus verso Casà La tempesta di sabbia Aeroporto di Casà: in attesa del volo per Parigi

1. Casablanca – Meknès – Volubilis Partiamo dallo Charles de Gaulle, tutto acciaio, vetri e cemento armato, saliscendi di scale mobili e tapis roulants, riflessi all’interno dei cristalli e degli acciai color bluette, grigio sino ai toni del lilla. Anche l’aeroporto di Casà è bello, molto moderno con i colori dominanti del rosso e del grigio. Mentre noi usciamo in cerca di un taxi sta arrivando un personaggio importante circondato da quattro gorilla, una ventina di soldati lo accolgono nelle loro lunghe vesti bianche e fez rosso.

Casablanca, la città sincretica Camera d’albergo, Hotel Venise, in una delle strade del centro, albergo prenotato a Firenze, la signorina dell’agenzia assicurava vista sul mare, purtroppo impedita per gran tratto dal porto industriale. Città per metà europea, per metà islamica. La città vecchia sopra al porto, dedali di strette stradine dove domina il mercato con merce di ogni tipo, soprattutto artigianato locale, che pende dai soffitti e dalle pareti in una confusione di forme e colori. Dopo ore che percorriamo le stesse strade senza rendercene conto, la sovrabbondanza delle merci ci ha quasi nauseato.

Ritroviamo finalmente la città nuova, le larghe vie con i palazzi bianchi, o comunque sempre chiari, che ricordano Nizza o terrazzati in modo digradante come nelle periferie parigine. Qui i quartieri e le larghe vie con al centro grandi palme sono eleganti e ricordano da vicino il gusto francese, anche i negozi, sia nella merce che nell’arredamento. Selciati curati, belle fontane, piante decorative, donne eleganti tipo parigino, siamo lontanissimi dal gusto della città vecchia. Girando a piedi troviamo interi quartieri commerciali, dove c’è un numero spropositato di ingrosso di tessuti di tappezzeria. Noto parecchi negozi di bici di ogni tipo e che i caffè sono chiamati crémeries, come dire latterie.

Le immagini sono di discreto benessere, ma quello che è del tutto evidente è la spaccatura che esiste tra la città vecchia e la nuova, lì la gente veste per lo più abiti tradizionali, qui quasi tutti all’occidentale, lì si avverte anche una certa povertà, qui per lo più ricchezza, lì un dedalo di strade strette a struttura labirintica, case massimo a due piani di modesta fattura anche se non manca una qualche traccia di vistoso restauro, qui gusto modernista e sulle larghe strade enormi sottopassaggi appena costruiti illuminati da luci soffuse di verde. Dell’antico Marocco in questa parte della città restano i venditori di tè di menta, decorati con lunghe casacche colorate, grandi cappelli di paglia in capo e in spalla una specie di contenitore borraccia dalla forma di zampogna fatto di pelliccia con lunghi becchi in corno.

Alle cinque del pomeriggio, mentre sto ammirando il cielo turchese, seduta in un caffè a un tavolino all’aperto, una quarantina di uomini si sdraiano sul marciapiede in doppia e tripla fila e pregano con il viso rivolto alla Mecca che in questo preciso caso coincide con alcune vetrine di abiti da sera. La borghesia di Casà Abbiamo un’amica a Parigi, Najette, di origini marocchine. I suoi nonni, ricchi mercanti di tessuti, si sono trasferiti in Francia alla fine degli anni quaranta. Lei è nata a Parigi, dunque una francese in tutto, anche nella sua formazione scolastica, si è laureata in legge con il massimo dei voti alla Sorbona. A Casà ha numerosi cugini due dei quali abbiamo conosciuto ad una festa a casa sua, una settimana prima di partire. Sapendo che noi eravamo in procinto di visitare il Marocco ci hanno dato il loro telefono di Casà e prima di lasciare la città abbiamo provato a chiamare. Proprio Med, diminutivo con cui viene chiamato dagli altri Mohammed, risponde all’apparecchio e subito ci invita a cena a casa sua. Si combina per la sera dopo. Il quartiere ove ci dirigiamo verso le sei del pomeriggio del giorno seguente, dopo aver dato l’indirizzo al tassista, è uno di quelli che si trovano nella parte bassa della città ma verso l’interno. Attraversati diversi quartieri commerciali con molti negozi e magazzini, iniziano le zone residenziali, rigorosamente circondate da alti muri di recinzione. Davanti ad una palazzina a tre piani circondata da una gran giardino si ferma il taxi. C’è un cancello automatico che si apre quando Laszlo dice il suo nome e chiede di Med o di sua moglie Jasmine. L’altra faccia del Marocco ci apre le porte. Ci accoglie una giovane cameriera che ci fa accomodare in un gran salotto arredato con molto gusto, dove si incontrano culture stili e diversi, così che si rispecchia bene il sincretismo culturale dei padroni di casa: tappeti marocchini pieni di colore a terra e su una parete come arazzi, moderni divani bianco panna, bassi tavolini di legno intarsiato tipici della regione e un gran tavolo di rigoroso stile svedese davanti alle ampie finestre aperte sul giardino. Si vedono le cime delle palme che si agitano al vento. La giovane cameriera chiede se vogliamo bere qualcosa ed ecco arrivare Med che con un sorriso smagliante ci stringe la mano, dice alla ragazza di andare e che pensa lui a noi.

E’ un bel ragazzo Med, allegro, tranquillo, molto cordiale. Ci offre dei dolcetti che sono in un bellissimo piatto di ceramica bianca a disegni blu. Riesco a mala pena a mangiarne uno, per me sono troppo dolci, Laszlo invece ne mangia tre, uno di seguito all’altro. Med è un ingegnere edile, sta dicendo che anche lui ha studiato a Parigi per qualche anno, ma la mia passione è l’ architettura, e vorrei tanto avere tempo per visitare l’Italia. Laszlo lo invita ad essere nostro ospite in Chianti. Io non sto troppo seguendo la conversazione, piuttosto osservo gli oggetti sparsi: sopra un tavolo basso un grande vassoio di ottone sbalzato con sopra un portavasi in ceramica contenente una palma nana, anche una specie di antica anfora in terracotta, dalla strana forma molto panciuta e collo strettissimo. Serviva a mantenere fresca l’acqua anche sotto un caldo torrido, precisa il nostro ospite, avendo constatato la mia curiosità. L’intera serata con Med e Jasmine risulterà molto piacevole, entrambi colti, lei è avvocato e si sta battendo per una riforma del diritto di famiglia, dal momento che, ci racconta, nel paese vige ancora quello tradizionale molto legato alla struttura patriarcale. Curiosi, senza paraocchi, più vicini come mentalità agli europei di quanto avessimo potuto immaginare.

Meknès e Volubilis Il giorno dopo abbiamo affittato un’auto per arrivare a Meknès, ore di viaggio e infine la città che non è però la nostra meta ultima. Siamo arrivati sin qui in realtà per visitare Volubilis, un’antica città romana i cui resti ci hanno detto pregevoli. Decidiamo di proseguire sin lì e fermarci in città al ritorno.

La valle dove siede l’antica Volubilis romana è verdissima, davvero splendida la posizione. La visita meritava il viaggio: mosaici perfettamente conservati, bassorilievi marmorei ancora perfetti, colonnati, basiliche, tutti resti in buono stato di conservazione. E poi la struttura urbanistica con strade perfettamente simmetriche, perpendicolari e le porte della città ancora del tutto presenti.

Il giro ci occupa gran parte della giornata, così infine assai stanchi del viaggio in auto e della lunga passeggiata, ci fermiamo a dormire nell’hotel che è lì vicino e che richiama nelle forme architettoniche la città sottostante, le colonne infatti abbondano. Quattro stelle, costruito ad uso degli occidentali, camerieri molto gentili, persino ossequiosi, splendidi bagni, grandi terrazze. Serata tranquilla, siamo i soli ospiti del grande albergo, così dal momento che la cucina, dicono, non è ancora attrezzata, ceniamo con panini seduti in terrazza di fronte alla città antica.

Il giorno dopo visita lampo a Meknès. Visita lampo perché ignari della struttura della città, avendo trovato parcheggio fuori una maestosa porta, provenendo da nord-est, siamo entrati in città da quel lato. L’ingresso ci ha portato al mercato all’ingrosso delle carni, con vicoli stretti come budelli dove, oltre all’odore nauseabondo, pezzi di animale: teste, lingue, budella, sporgevano da tutti i lati brulicanti di mosche e insetti. Tantissima la folla nei vicoli mentre passavano ragazzetti con quarti di animali sanguinolenti, insomma per noi è stato troppo come inizio di giornata. Entrambi senza aver fatto nemmeno la colazione, siamo stati colti da nausea, siamo subito tornati indietro ma vuoi per l’afflusso di gente vuoi per la difficoltà di orientamento abbiamo vagato ancora mezz’ora senza più riuscire a trovare lo sbocco dell’uscita. Ci siamo ripresi a fatica una volta di nuovo all’aria aperta. Così abbiamo vagato in auto per circa un’ora ammirando la città dalla strada, senza fare soste né visite a palazzi. Comunque molto bella. Il proposito è di tornare a visitarla, in migliori condizioni di spirito.

In bus verso Marrakech Primi di aprile, già il sole picchia fortissimo, abbiamo bisogno di grandi cappelli e occhiali scuri per proteggerci dalla luce accecante. Casablanca sfila veloce sotto i nostri sguardi, lungo tutta l’antica muraglia ogni cinquanta metri c’è un poliziotto e così lungo tutto il confine della città lungo il porto. Nella prima periferia ci sono tantissimi cantieri di nuovi palazzi e di piccole ville, la città è in espansione, le nuove costruzioni, quasi tutte bianche, sono arricchite da piante verdi e fiori, buganvillee e mimose, spesso anche aranci ai lati delle nuove strade. La nuova borghesia le abita, qui la maggior parte degli uomini e delle donne vestono all’occidentale con una certa raffinatezza, ma non è raro vedere una percentuale di djellabah, la lunga tunica tradizionale, soprattutto quando, ancora più distanti dal centro compaiono quartieri in costruzione ma certo più poveri. Sulla strada che da Casablanca porta a Marrakech passando per Settat, parecchi chilometri di pianura, attraversiamo terre fertili: campi di verdi diversi, più morbidi tendenti al giallo, più smaglianti o più scuri, tanti piccoli rettangoli composti insieme. I fiori ai lati: margherite gialle o color arancio, fiori spontanei in mezzo ai campi, bianchi o viola, ma anche rossi papaveri in mezzo al grano già grosso e alle piante alte di fave. Un mese avanti la stagione rispetto all’Europa.

Vediamo da lontano un grosso paesotto: Ber Rechid, dove il bus non ferma, invece a Settat, città di discreta ampiezza, sosta di un’ora che passiamo a mangiare qualcosa in un ristorante della piazza.

Ripreso il cammino, iniziano dolci colline anch’esse verdi ma avanzando il terreno diviene arso, sono tantissime le zone dove è evidente il rimboscamento. Centinaia di migliaia di giovani alberi ad inverdire campi che altrimenti sarebbero aridi, certo per il momento sono piccole piante ma cresceranno e renderanno verde una regione desertica. Nel bus oltre a noi, altri quattro europei, due francesi e due tedeschi, poi gente del luogo con indosso la tradizionale tunica di lana grossa, grezza, spesso tessuta a mano e in testa cappelli di lana. Per noi è caldissimo e ci stupisce che siano tutti bardati come se fosse freddo. Ci sentiamo come svedesi in Italia.

Avvicinandoci a Benguerir, le colline lasciano il posto ai monti, adesso solo zone desertiche, brulle, non un albero, niente macchie verdi, solo terra rossa e strade polverose. Qualche basso muretto con dentro il nulla, case basse, dieci in tutto, circondate a volte da un recinto, sono piccoli villaggi in mezzo al niente, appaiono all’improvviso, a volte annunciati da un vecchio a dorso di un asino con le due bisacce cariche ai lati. Vivono temendo il sole, asfissiati dalla polvere che si alza al passaggio di una bicicletta o da un carro tirato da asini. Il passaggio di un bus è una vera calamità perché la polvere sollevata resta sospesa in aria a lungo come una nebbia micidiale che toglie il respiro. Questi rari villaggi come appaiono così scompaiono all’improvviso, sembrano visioni, e prima e dopo solo il deserto.

Donne chine sotto grandi gerle sulla schiena, sotto il carico di piccoli legni i loro corpi quasi scompaiono, guida il piccolo gruppo un vecchio su un mulo anche l’animale carico sino all’impossibile. Risalgono uno stradello pietroso nei pressi del borgo Benguerir. Un’immagine biblica. 2. Marrakech la rossa All’improvviso compare Marrakech, solo annunciata da alcune linee verdi che indicano la presenza dell’acqua. Nella parte nuova, lungo av. Mohammed Abdelkrim El Khattabi, una delle vie principali che taglia a mezzo la città moderna, anche qui cantieri, case in costruzione o appena terminate, queste curate e cinte da giardini. Quando si giunge alla stazione dei bus, in attesa dei bagagli noi europei siamo circondati subito da una folla di giovani che ci propongono taxi e hotels. I due francesi e i due tedeschi snobbano tutti e si danno arie da gran conoscitori del luogo, capiamo che almeno due di loro sono cooperanti, noi accettiamo il passaggio da un tassista che si è dato la pena di aiutare l’autista del bus a scaricare i bagagli e diamo l’indirizzo del nostro hotel già prenotato. Il tassista ci fa attraversare per più di mezz’ora tutta la Medina per condurci al nostro piccolo hotel che poi scopriremo essere non lontano dalla grande piazza.

Fuori solo una piccola insegna in arabo e in francese, la porta si apre su un grande cortile interno simile a un chiostro, sino a una certa altezza i muri sono coperti di piastrelle di ceramica bianche con disegni blu cobalto e turchese, il giardino in mezzo è pieno di gelsomini e aranci, un grande tavolo in ferro battuto dipinto di bianco da un lato, tutto pieno di colori e nello stesso tempo leggero, arioso. La signora che dirige il piccolo hotel è grassa e vestita con una ampia tunica azzurra dal tessuto leggero che si muove ad ogni passo mentre si dirige verso di noi attraverso il giardino. Ci riceve molto gentilmente, grandi sorrisi, parla un francese non del tutto corretto, ci dice che la nostra camera è al primo piano, ci offre un tè alla menta. Subito dopo chiama ad alta voce una giovane ragazza che sollecita prende le nostre valigie, ma Laszlo la prega di lasciar perdere, lei con un sorriso timido e dicendo parole cortesi in un francese stentato si incammina per le scale davanti a noi, facendoci strada.

La nostra camera è ampia, letti gemelli e bagno piccolo con doccia, arredamento tipico, la finestra grande che dovrebbe dare sulla strada è ricoperta da una specie di reticolo in legno così che si vede poco del fuori, soprattutto non si è visti, un piccolo vano finestra con tende color arancio si apre sul corridoio che circonda anche il primo piano del cortile interno da cui provengono rumori e voci. E’ l’interno di una tipica casa marocchina e si capisce, da come sono posizionate le camere che il controllo sociale anche all’interno della famiglia è molto forte. Praticamente non esiste il concetto di privacy.

Djemaa el Fnaa Più tardi la piazza Djemaa el Fnaa, piena di gente, di bancarelle, di i turisti. In mezzo alla folla un gruppo di giovani ballerini vestiti di bianco da prova di grande abilità, da soli o in coppia, salti, voli, acrobazie. Infine sorridono soddisfatti. Stanno ricevendo il meritato applauso mentre si aggiungono a loro due bimbetti, ricominciano l’esibizione tutti insieme con i piccoli che già si mostrano molto pratichi della cosa. Ancora applausi, il grande spettacolo di strada è appena iniziato e andrà avanti sino a notte fonda. Dieci metri più in là altro gruppo di folla circonda altri attori, uno di loro non sembra del luogo, è altissimo, lunghi capelli disordinati biondo rossiccio, con una foga da profeta popolare dapprima fa un a solo recitando la sua nenia cadenzata poi interloquisce con il gruppo degli uomini che gli sono seduti intorno a circolo. Tutti gli attori, solo uomini stranamente acconciati, battono i propri piedi sopra un tamburo di latta, urla, canti, danze si susseguono, seguendo un ritmo incalzante e incessante. Qui quanti seguono affascinati tutta la scena è gente del luogo e chissà cosa stanno dicendo mi chiedo, perché l’insieme ha in sé qualcosa di rituale. Mi vengono in mente i nostri cantori popolari, i burattinai in Sicilia, ma ormai per noi sono tradizioni perse, sopravvivono come forme di antiquariato, ormai staccate dalla nostra realtà presente. Qui invece la partecipazione emotiva è alta.

Una coppia di maturi olandesi, tenendosi per mano, guardano inorriditi un altro personaggio: costui mostra con uno sguardo d’orgoglio un enorme scorpione nero che gli passeggia sul naso mentre dalla bocca gli pende una grossa lucertola e intorno al suo collo si muove un serpente. Tra il pubblico, soprattutto turisti europei, anche qualche bambino molto incuriosito dal personaggio fiabesco. Ed ancora suonatori di pifferi, di tamburi, più in là un altro gruppo suona una specie di mandolino. Ai margini della piazza, seduti a terra, vecchi ciechi chiedono l’elemosina con le mani tese, gli occhi vuoti, cantando una specie di nenia, qualcuno tra loro snocciola quello che per loro è una specie di nostro rosario.

Dalla piazza si entra per tante piccole strade nel souk, per cui non c’è verso di sfuggire, ne evitiamo tre di piccole strade ma anche la quarta ci fa ripiombare dentro un groviglio di merci esposte, ormai è quasi buio, dappertutto suoni e canti, profumi e cattivi odori, dal momento che la quarta stradina ci ha condotto all’interno di uno stradello, un vicoletto di nemmeno un metro di larghezza, ove le merci esposte sono carni circondate da nuvoli di mosche. Torniamo velocemente sui nostri passi, indietro sulla piazza, urge una cartina della città che troviamo in un negozio di souvenirs a due passi da dove siamo sbucati.

Nel souk Nella zona del mercato la merce sovrabbonda, anche se in un modo diverso da quanto avviene in Europa. Solo prodotti di artigianato: tappeti, arazzi, tessuti di ogni tipo, oggetti di rame o altro metallo, gioielli poveri e poi tantissimo cuoio. Se questa merce, per esempio le scarpe, invadesse il mercato italiano, l’Italia perderebbe dal momento che i prezzi sono davvero competitivi, spinta da questo pensiero mi fermo e dopo aver scelto un modello di scarpe che non mi dispiace provo se siano confortevoli. Non lo sono, si sentono troppo le cuciture interne, vera pelle, ma troppo rigida, per ora gli industriali italiani possono stare tranquilli.

Le stradine del mercato sfociano in piccoli spiazzi dove si lavorano i filati e le stoffe, così che i cortili sono pieni di drappi e matasse, vere macchie di colore. Derb Debbaghi: i vicoli si dividono in trivi e quadrivi, ill labirinto ci ottiene e ci vince, noi giriamo a vuoto persi in esso. Ai bordi delle vie più larghe si intravedono piccole moschee soffuse di luce verde, da dove proviene il gusto del fresco e dell’ombroso ma per noi solo una sbirciatina dall’ingresso che non ci è consentito, plaisir des yeux, dicono loro, per noi i luoghi di culto qui sono proibiti, dentro pregano, ci dice il guardiano come a dire che la nostra entrata disturberebbe.

Splendori e miserie I quartieri più ricchi sempre nella parte antica della città hanno piccole porte di ingresso di legno intarsiato o di ferro battuto e bullonato, dipinte di turchese o di blu, si aprono su cortili interni spesso arricchiti da giardini, dove dominano i bianchi e i turchesi delle pareti e delle ceramiche, anche le finestre sono impreziosite da ferri battuti o da intarsi nel legno. I giardini sono stupendi, con palme, aranci, lillà, mimose, gelsomini, tutto è in fiore e i profumi inebrianti. Ci sono quartieri moderni residenziali costruiti lungo Avenue des Nations Unies, a ridosso delle mura che racchiudono la città vecchia, la nuova architettura si confonde con l’antica perché in qualche modo ne riproduce le forme, sempre alti e interminabili muri circondano case e giardini privati, qui vive una ricca borghesia che veste all’occidentale ma diversamente da Casablanca è decisamente minoritaria.

Anche i giardini pubblici sono molto curati, quelli che sin qui abbiamo visitato, per esempio il parco Bab Djedid, e l’altro accanto diviso in due da Avenue Mohammed V che da il nome anche all’Università vicina, non hanno certo prati all’inglese data la scarsezza dell’acqua ma grandi alberi sotto i quali i figli di una borghesia ricca, da soli o in piccoli gruppi, passeggiano con libri in mano. I giovani sia donne che uomini vestono all’occidentale, raro anche l’uso del chador, indossato da qualche giovane donna per altro con qualche vezzo nel vestire, come l’uso di pantaloni stretti. Qui il solo prato verde è quello per i bambini, spazio recintato dove si paga per entrare, per il resto il terreno è ovunque arido, polveroso attraversato da piccoli fossetti per l’irrigazione. L’acqua qui è davvero una ricchezza. Attraversando rue Fatima ci siamo addentrati nella città vecchia, Derb Tizougarine, Assoul, Harat es Soura, quartieri poveri dalla struttura spesso labirintica, le strade ad un certo punto finiscono e non è facile ritrovare l’uscita, anche perché qui i nomi hanno solo scritte arabe. I vicoli non hanno acciottolato, solo polvere rosa, appaiono interni cadenti ma ancora vissuti. Anche qui qualche botteguccia ad uso della gente che vi abita, scomparso lo smalto dei colori del centro, perché le bici e i piccoli scooters che vi transitano sollevano una tale quantità di polvere che si posa su tutto, diffondendosi per l’aria che infatti diventa irrespirabile. In certe di queste strade alla polvere si unisce il fumo dei barbecues dove arrostiscono brochettes di carne. E ancora polvere e segatura nei quartieri dove ci sono segherie negli androni. Qui vecchi cenciosi e sporchi si trascinano radendo i muri, moltissimi i ciechi che si aiutano con un bastone, anche i bambini hanno un aspetto d’abbandono. Vista una scena che mi ha molto colpito: una donna tutta vestita di nero, solita tunica djellabah con cappuccio, seduta al bordo di una strada di polvere che allatta un piccolo bimbo di qualche mese, anche il viso è coperto da un velo anch’esso nero, e poi la mammella nuda che si offre al piccolo e alla vista dei passanti. Penso che sia una vedova ma perché restarsene lì in mezzo alla polvere? Domande similari mi porrò spesso anche nei giorni seguenti alla vista di queste donne sole, povere, con prole che chiedono vergognosamente l’elemosina o tentano di vendere qualcosa.

Tanti i vecchi spesso ciechi, seduti o sdraiati a terra snocciolano il loro rosario e pregano, ai bordi delle strade polverose o stretti nel vano di una porta, o stesi lunghi per terra blaterano da soli a voce alta, vecchi soli, forse un po’ pazzi. Cenciosi e sporchi, con l’aiuto di un bastone si trascinano avanti radendo i muri se sono ciechi. Non è raro trovare uomini ma più spesso donne che camminando parlano da sole a voce alta, qui la devianza non è protetta o guidata o nascosta come succede in Europa, ma lasciata a se stessa. La gente sembra tranquilla, nonostante le sacche di miseria, relativamente pochi i mendicanti, ma povertà diffusa nei quartieri fuori dai circuiti turistici: una vecchia donna cerca di venderci i suoi quattro pani e alcune arance. Vista di nuovo una donna con un neonato sporco, con le caccole al naso, involtolato in stracci, mentre ciuccia avido il latte materno da una mammella, sola cosa nuda in un corpo completamente nascosto da tunica e cappuccio, l’intero viso è coperto, la donna seduta su uno scalino di un portone offre questo triste spettacolo di sé, mi chiedo cosa significhi questo, vuole forse impietosire? È un modo di chiedere la carità? Non ha una casa? Sono mille le domande che questa nuova visione, la seconda in due giorni, mi pone, e non sapendo rispondere non oso avvicinarmi per porgerle qualche moneta. Prima della fine della giornata osservata un’altra scena similare per le strade di un misero quartiere ai margini delle vecchie mura: una donna ancora giovane tutta vestita di nero con un piccolo bimbo di qualche mese legato sulle spalle che fugge di corsa con il bimbo sballottato di qua e di là alla vista di un poliziotto che sbuca sul viottolo, lei rapida raccatta i tre fazzoletti stesi in terra con dentro povera merce, calzini in poliestere. Non è la prima volta che osservo come la gente abbia timore e scappi alla vista di poliziotti.

Vorremmo rientrare al nostro albergo. Dopo il lungo giro a piedi nella città, dopo tanta merce e polvere e grida e suoni ho solo voglia di silenzio, di aria pura, ma nonostante la cartina camminiamo per quasi un’ora prima di ritrovare la strada perché avendo sconfinato dalla zona turistica ci sono vicoli spesso senza nome. Muri color rosa o arancioni o rossi o color mattone scuro, i diversi toni si intrecciano evidenziati dalla luce arancio in uno sfumare prezioso del giorno al tramonto. Lungo le mura esterne: bellezza e desolazione Oggi abbiamo fatto un lungo giro per la città in carrozzella, tirata da cavalli, come fanno gli americani a Firenze. Sembrava un pomeriggio afoso di agosto con le strade polverose di tanti mesi senza pioggia, invece è solo aprile. Il cielo basso carico di nuvoli scuri, la pioggia dava la sensazione di essere imminente ma non arrivava. Abbiamo percorso tutta la parte sud della città vecchia per arrivare ai giardini del re, non quelli privati nascosti da alte mura ma a quelli pubblici di libero accesso. Una immensa distesa di antichi ulivi per chilometri, in mezzo ad essi ben disposti quadrati di alberi da frutto e di aranceti che stordiscono di profumo intenso. Il vento caldo creava nuvoli di polvere rosa che investiva noi e i rari passanti a piedi. Qualche studente con libri e quaderni in mano o sottobraccio all’ombra dei grandi alberi. Due ragazzetti di forse tredici anni con fionde in mano scagliavano sassi in lontananza. Li abbiamo ritrovati un’ora dopo nei pressi dell’antica piscina senza acqua mentre giocavano a colpire piccole pietre disposte sul bordo. Il fondo della grande vasca ha la terra spaccata per l’arsura ma sullo sfondo che è alle spalle si notano monti innevati , la catena dell’Alto Atlante con la cima del Toubkal che si erge per quattromila metri circa.

Per piccoli rigagnoli l’acqua scorre dalle montagne verso la città. Nel silenzio ne sentivamo il leggero fruscio. Dalla nostra posizione si godeva una grande vista sulla città, sopra spuntavano le alte torri delle moschee. Ancora un’ora di cammino in carrozzella intorno alle mura ma questa volta da un altro lato così da costeggiare per intero la cinta che racchiude l’intero centro urbano antico. Scendendo verso la città si intravedeva molto spazio verde all’interno, spesso dietro questi veri fortini si nascondono sfarzosi giardini. Ancora ampie zone di uliveti, alberi enormi, ombrosi, maestosi, intrecci di rami e tronchi come in una foresta. Sdraiate a terra due guardie ridevano al nostro passaggio. Mura e ancora mura, muraglie dappertutto a separare anche i quartieri tra loro, linee geometriche, forme labirintiche, qualche porta è aperta, si scorgono giardini lussureggianti dove dominano le palme e il giallo della mimosa si mescola agli aranci e al lillà, arrivano vampe di aria profumata. Ecco i giardini paradisiaci dell’Islam, troppo spesso solo privati.

La città ricca e potente è un’oasi nel deserto, città di ricchi di antica data che qui hanno le loro dimore, mentre le nuove classi emergenti vivono in altri quartieri di recente costruzione. Quando la foresta di ulivi si dirada arriva il nulla, solo mucchi di immondizia nel piatto deserto arido senza un solo cespuglio, qui parecchie le porte aperte per entrare in città da dove si scorgono piccole vie tra le pareti contorte delle case. Asini sono posteggiati all’esterno, un vecchio lacero è sdraiato accanto a un enorme mucchio di immondizia. Alla svolta di una curva appare un bastione solitario, un fortino che guarda la cinta delle mura da una distanza di qualche centinaio di metri nel perfetto nulla piatto.

Alle sei del pomeriggio siamo davanti alla porta che introduce nella Kasbha. Siamo assetati, scendiamo per cercare un caffè dove poter bere qualcosa. Il cielo si è fatto ancora più grigio ma niente pioggia, anzi si è alzato un vento secco che alza la polvere delle strade, spira minaccioso trascinando nuvoli di sabbia. Due donne ammantate vestite di nero trascinano per mano due piccoli nel vento contrario. Noi stiamo cercando le tombe Saadiane e con la cartina davanti non riusciamo a capire quale via possa condurci. Un ragazzino ci viene incontro e ci chiede quale sia la nostra direzione, ci informa che siamo entrati in un quartiere chiuso dove non troveremo caffè o altri locali, da qui non si accede ad altri quartieri e ci indica l’alto muro che racchiude questo ghetto. Il ragazzetto ci dice gentilmente che avrebbe anche voglia di accompagnarci ma “mi prenderebbero per un ragazzo guida o omosessuale..” e ride timido, ma sempre gentilmente ci accompagna alla porta da cui siamo entrati e ci indica la direzione “..Basta seguire le mura e quando troverete una grande porta con un albero sotto, quella è la vostra di ingresso..” Facciamo a piedi almeno un paio di chilometri nel vento furioso della strada di sabbia che circonda le mura di cinta, pentiti, pentitissimi di aver mandato via la carrozzella. Comincio a capire il perché di così tante mura, difesa dai nemici certo, di sicuro anche dal vento e dalla sabbia. Niente tombe saadiane per oggi. La pioggia arriva finalmente mentre sta imbrunendo e noi arriviamo in albergo. Dopo tanto vagare per tutto il giorno è un gran piacere sentire il ticchettio della pioggia mentre a letto io e Laszlo scherziamo e ridiamo come bambini.

Dopo giorni di clima pesante finalmente due giornate di sole con il cielo chiaro e trasparente, niente umidità finalmente. Dalla terrazza sul tetto dell’hotel ammiro la montagna dalle cime innevate, eppure l’aria è dolce come quella di un buon giugno in Italia, calda senza essere afosa e ricca di profumi.

Per tutta la giornata passeggiamo instancabili per ogni parte della città, i quartieri separati da alte mura, le strade nella penombra perché ombreggiate da stuoie ove c’è frescura a confronto con gli spazi dove il sole picchia, luce diffusa con triangoli e ellissi di luce date dalle forme degli archi, ripetuti in mille archi lungo le vie. Quartieri dove si lavorano i metalli: il ferro, il rame e l’ottone, in altri il cuoio, in altri ancora le stoffe, i filati, la gomma ricavata da vecchi pneumatici riciclati. L’artigianato è la vera specialità del Marocco.

Le tombe saudiane Non è stato facile riuscire a scovarle senza la cartina in francese dimenticata in albergo, infine ecco la grande costruzione con stucchi e marmi bianchi, ma le enormi porte in bronzo sono chiuse. Delusi dalla fatica della camminata per ammirare infine solo l’esterno, ci siamo seduti su un gradino stanchi e accaldati, ed ecco comparire un ragazzetto di quelli che hanno la vocazione dell’accompagnatore, di quelli che ti seguono per tutto il cammino a cinque metri di distanza e quando hai bisogno di un’informazione te la vendono per qualche diram. Ci indica un angolo e lì, quasi invisibile da una certa distanza si apre uno stretto vicolo, al massimo 70 centimetri di larghezza, un budello tutto svolte e archi, infine ecco la meraviglia di un giardino superbo: siepi lussureggianti e ordinate di rosmarino e menta, cespugli e rampicanti foltissimi puntellati di fiori color lilla, fiori ovunque che creano macchie di colori diversi nel verde delle siepi e nei rosso-rosa dei muri. Restiamo incantati da tanta atmosfera e nel silenzio del luogo godiamo della bellezza cercando rifugio dal sole del pomeriggio. Uccelli diversi riempiono l’aria di gridi e canti, la sensazione del meraviglioso ricreato, il miracolo della mano dell’uomo che ha lottato e vinto il deserto intorno. Siamo silenziosi in tanta piacevolezza ed ecco comparire di nuovo il ragazzetto di poco prima, adesso ci vuole mostrare gli interni e raccontare tutta la storia per altri cinque diram. Splendide le tre sale, una con un colonnato veramente superbo tutto in marmo, la nostra guida narra la storia in francese con pessimo accento, facendo di tanto in tanto sfoggio di quel poco di italiano che conosce, e dunque la tomba in marmo di Carrara è quella del settimo re, il più grande della sua stirpe, fruttuosissimo padre, 350 mogli e mille figli… Intanto è arrivata una compagnia di svizzeri tedeschi che ascoltano incantati la storia, tra loro una tipa particolarmente pignola comincia a fare domande su gerarchie tombali di figli e nipoti ma il ragazzetto per questo chiede altri soldi, intanto il silenzio e l’incanto del luogo si è dissolto e noi ci allontaniamo, ma all’uscita c’è un gruppo di mendicanti appena arrivati e dunque ecco una nuova distribuzione di obolo.

Vicina la moschea di El Mansour, vorremmo visitarla ma come sempre non ci è permesso e dunque ci accontentiamo di ammirare da fuori i disegni dei mattoni e gli arabeschi del minareto.

Il giorno dopo ci rechiamo a vedere sempre da fuori, ancora un ingresso vietato in quanto moschea, la Koutoubia, che si trova assai vicina al nostro hotel. Costruzione del XII sec. Voluta dal Sultano Yacoub El Mansour, che ha fatto edificare anche la torre Hassan di Rabat e la Giralda a Siviglia. L’epoca d’oro dell’Islam.

Il palazzo del Pascià Oggi è divenuta biblioteca Ben Youssef, notevole la facciata con le tre porte monumentali. Grande sfarzo, gusto delle geometrie e del floreale, divieto delle immagini e dunque tutto si gioca sulla combinazione delle forme e degli intarsi. Sale maestose. Gli appartamenti della prima moglie e delle altre tre legali, quelle permesse dalla legge, ma un pascià ricco poteva permettersi tutte le concubine che voleva. Costui ne aveva radunate una ventina negli appartamenti più interni, che davano su un cortile separato, gran giardino quadrato attorno al chiostro delle camere. Rinnovato collegio femminile di cui godeva un sol uomo. I servi naturalmente eunuchi, dopo aver esaudito i piaceri occulti del loro padrone da giovani , finivano la propria vita intrigando come serve pettegole in mezzo alle donne.

Il primo ministro aveva due stanze da letto una per la notte, l’altra per la siesta pomeridiana. I troni sono diversi, uno di legno dipinto, un altro intarsiato. Le stanze dei ragazzi, zeppe di oggetti di lucido ottone e argento, pugnali, fucili, e poi gioielli e tappeti a non finire.

I saloni delle feste, dove gli uomini si riunivano a fare banchetti, danze e giochi, in alto su una parete dietro un traforo di legno, un merletto super raffinato, il luogo da dove le donne guardavano dal momento che non erano ammesse a partecipare direttamente, e poi il posto per i musici … la nostra guida, un vecchio marocchino molto simpatico si dilunga nei particolari che sa piacciono agli stranieri.

Riti berberi C’era un folto gruppo di berberi accampati fuori dal centro e dalla zona turistica, non troppo lontano dalle mura. Sedevano a terra uomini e donne nei loro abiti tradizionali, davanti grandi vassoi con bricchi di tè alla menta, alcuni uomini fumavano il narghilè, altri suonavano tamburi o una sorta di piccolo violino, alcune donne una specie di nacchere, altri ancora avevano intonato una sorta di botta e risposta, come una preghiera. Ad un certo punto si sono alzati in piedi e hanno iniziato a danzare come presi da esaltazione, pochi semplici passi di danza su un ritmo suggestivo. Sembravano divertirsi moltissimo, gridavano all’uso berbero, soprattutto le donne. Dopo le danze collettive ecco una specie di teatro mimato, forse improvvisato. Intanto si era radunata intorno una piccola folla ed ecco che a fine festa qualcuno di loro si è fatto verso il poco pubblico a chiedere denaro. Quello che pensavo solo un rito privato di una collettività chiusa si è dimostrato essere un modo di rimediare un po’ di soldi. A sera dalla finestra aperta mi perdo dietro i merletti di Marrakech, i suoi canti e suoni di tamburi. 3.

La tradizione e le tentazioni del modernismo In casa comanda la donna anziana su tutte le altre più giovani, ma fuori le donne non hanno alcun peso, regna il maschio e l’anziano sul giovane.

La matriarca è distesa su un divano all’ombra nel suo cortile, mangiucchia qualcosa mentre la musica accompagna i suoi gesti lenti. Quattro ragazze dai tredici ai venti anni sono addette ai lavori domestici, da mane a sera puliscono la casa, ora le scale, ora il cortile, ora battono i tappeti o fanno a mano il bucato. Le donne con il passare dell’età diventano ancora più grasse, quasi obese, conservano spesso bei visi e begli occhi, loro punto focale.

Bile di porcospino, Medio Evo presente Finalmente in albergo, nella corte di ingresso troviamo la nostra ospite che sta dettando ad una sua inserviente una ricetta contro non so quale malanno raccomandando l’uso della bile di porcospino, con l’espressione calma e sicura da strega esperta. Le fate e le streghe delle mie fiabe di bimba erano come lei, stessa acconciatura, lo stesso essere grassa e felice, stessa estetica arcaica.

Nei quartieri della Medina il popolo vive ancora nei secoli passati, è l’immagine di un Medio Evo quella che ci appare, per noi occidentali l’iconografia relativa è quella, stesso scenario senza bisogno di aggiunte o sottrazioni o ritocchi, solo abiti tradizionali con varianti certo. Accanto al djellabah, la classica lunga tunica con cappuccio e spacchi laterali di cotone o lana grezza tessuta a mano, uguale per donne e uomini, a volte con qualche ricamo al bordo del collo per la veste femminile, le donne vestono anche antichi grandi pepli, bianchi o neri, che avvolti intorno coprono anche il capo e il viso. Il risultato estetico è molto più gradevole. I tentati dal progressismo Le giovani popolane cittadine spesso sono più appariscenti, preferiscono coprirsi il viso con tessuti velati tipo poliestere, spesso grasse sembrano infagottate in djellabah già confezionati con tessuti scadenti, utilizzano in misura limitata una specie di rete che trattiene i capelli, più spesso il chador, un fazzolettone avvolto intorno al capo molto in uso a Casablanca. I giovani urbanizzati preferiscono vestirsi in jeans e maglietta e imbroccare straniere è la loro occupazione principale. Mi è capitato più di una volta di vederli ripresi dagli anziani che fanno la voce grossa, allora qualcuno di questi ragazzi smette di importunare la bionda di turno e si allontana con la coda tra le gambe, ma qualcun altro osa rispondere ed esprimere dissenso. In una società dove gli anziani ancora contano moltissimo su qualche punto la tradizione cede ma è fenomeno raro, la società è profondamente islamica e il riferimento principale è la tradizione di cui i vecchi sono portatori rispettati.

Il punk-rap locale C’è un tipo che per tutto il tempo che siamo restati in città ho osservato ogni giorno in sosta sempre in una delle vie di entrata nel souk, è un giovane marocchino che si è tinto di biondo i capelli un po’ lunghi, si acconcia in modo bizzarro, un po’ punk e un po’ rapper, un giorno con un codino, il giorno dopo con le treccine, sempre con delle spille a balia nelle orecchie a mo’ di orecchini, jeans strappati stretti, resta appoggiato per ore alla stessa parete, mattino e pomeriggio sempre là, davanti a un traffico di passanti frettolosi, frotte di bambini, bici e scooters. Guarda le straniere specie se bionde, le segue con lo sguardo mentre scompaiono tra la folla. Lo immagino che sogna di evadere da una società patriarcale che deve sentire assai stretta, sogna magari di discoteche, di concerti rock, soprattutto di scappare in Europa ad incontrare finalmente ragazze bionde, andare a Roma o a Parigi, come il figlio della vicina che tutti deplorano ma lui pensa invece che infine ce l’ha fatta. Intorno avrà di sicuro la famiglia ipersoffocante, tutti con djellabah, l’ho visto ieri ripreso da un vecchio che gli parlava con severità. Forse il padre. Osservo l’espressione di noia e tensione sul suo volto. Quel giovane di poco più che venti anni mi fa pensare a quanto scriveva Wittgenstein sull’esistenza come labirinto, come luogo da cui uscire, eccolo il giovane ribelle di Marrakech come una mosca in bottiglia che tenta di trovare l’uscita.

Repressione sessuale e pappagallismo mediterraneo Canti, dolci musiche, grida e pianti di bimbi i suoni che giungono dalla strada nel primo pomeriggio. Nel giardino dell’hotel invece verso sera da un vecchio grammofono canzoni d’amore in francese, cantate da interpreti marocchine che raccontano l’amore sentimentale e romantico in modo ingenuo, come da noi negli anni cinquanta. Nei testi si narra di lusinghe dei maschi cui bisogna resistere. Certo è che il pappagallismo mediterraneo, diffuso dalla Portogallo alla Grecia, passando per il sud d’Italia e la Spagna, impera anche qui in Marocco.

A Casà, come chiamano Casablanca, come a Marrakech o Agadir, in ogni caffè o hotel o altro luogo pubblico le donne occidentali, europee e americane, si ritrovano gli occhi addosso degli uomini. Anche quando non si fanno apertamente avanti fissano aspettando un cenno di assenso. Capitato anche a me, quando si è da sole il fenomeno è più vistoso, quando si è in compagnia maschile guardano lo stesso ma con più pudicizia. L’altro giorno il tipo più sfrontato, tra quelli che guardavano, si è avvicinato, ha chiesto a Laszlo se poteva prestargli o vendergli la sua gazzella, che sarei stata io, per un buon numero di pecore e due tappeti.

Una mia amica marocchina che vive a Bruxelles da molti anni dice che loro rispettano solo la figura del maschio ed è per questo che quando si è in compagnia maschile guardano senza avvicinarsi, ma se si è sole allora diventano insistenti e inopportuni perché per il solo fatto di essere europee ci pensano donne facili. La stessa cosa succedeva qualche decennio or sono in Sicilia o in Grecia alle donne che venivano dal nord, sguardi ammiccanti, parole a doppio senso. La sostanza di fondo sembrava lusinghiera, cioè essere oggetto del desiderio ma in realtà celava un sentire pieno di disprezzo: le loro donne a casa sotto chiave e le turiste insidiate perché ritenute donne abbordabili. A sentire le ragazze europee con le quali abbiamo fatto conoscenza lungo il nostro tragitto, incontrate nei vari hotel, l’esperienza è molto comune, quando siedono in pubblico sono guardate con insistenza, poi un po’ per scherzo e un po’ sul serio i ragazzi osano avvicinarsi ai maschi che sono in loro compagnia e dicono se vogliono vendere le loro gazzelle…Gli occidentali ridono se hanno dello spirito e in genere ne hanno.

Possono però succedere cose più sgradevoli, per esempio come è capitato a me una sera che sono andata da sola verso l’imbrunire a comprare qualcosa, sono passata davanti allo stesso caffè dove passavo ogni giorno, i soliti ragazzi seduti lì davanti a fumare, io tiro dritto senza guardarli perché mi hanno provocato già altre volte, ma ritornando dalla piazza sono costretta a rifare la stessa strada dal momento che non conosco un altro modo per rientrare all’hotel. Di nuovo i soliti ragazzi che a vedermi sorridono parlano tra loro e dicono qualcosa, io non li guardo né rispondo, continuo per la mia strada accelerando il passo, ma quando dopo un angolo vedo già l’entrata del mio albergo distante forse cinquanta metri, ecco che mi trovo di fronte il gruppetto di prima. Sono in cinque, forse sei, mi stringono al muro, ridono e parlano a voce alta ma non li capisco perché usano l’arabo, mi viene paura che facciano sul serio, che abbiano cattive intenzioni, stretta al muro mentre stanno già allungando le mani mi abbasso e riesco a sgaiattolare tra le loro gambe, attacco una corsa ed arrivo più morta che viva alla porta chiusa dell’hotel, mi attacco al campanello, batto pugni sul legno, grido, urlo, e finalmente la ragazzetta tuttofare apre, mentre con la coda dell’occhio guardo indietro, il vicolo è vuoto.

Il giorno dopo cambiamo albergo per evitare che il gruppetto del caffè abbia la tentazione di riprovarci.

La repressione sessuale è evidente, fortissima come il desiderio che produce, le donne offrono gambe coperte e rosse labbra, l’uomo avvampa solo a vederle passare, mi diverto ad osservare la voglia di sesso che proprio perché tanto repressa torna fuori prepotente in molti modi, si concretizza soprattutto negli sguardi che si lanciano uomini e donne, come accadeva ai nostri meridionali, vedi la Sicilia ma anche la Calabria, di qualche decennio fa. Le giovani per strada sono sempre accompagnate da madri o zie, comunque da donne mature o anziane, non più appetibili per i maschi, le madri vigilano, cercando di seguire con lo sguardo velato e obliquo ove si è diretto lo sguardo audace della figlia. Le donne giovani qui scompaiono veloci dietro gli usci ma lanciano occhiate vivaci e acute prima di sparire alla vista. I giovani hanno sguardi furbi e le scrutano con discrezione.

Cos’è il sincretismo qui tra la modernità e la tradizione? Una ragazza velata che viaggia in scooter, come ho visto ieri nei pressi dell’Università.

Notte inquieta Notte inquieta dopo una cena succulenta al El Maghreb, famoso ristorante del centro nuovo della città. Sembrava tutto squisito ma alle quattro del mattino mi alzo in preda ad un mal di pancia orrendo, arrivo appena in tempo in bagno per vomitare anche l’anima, scopro che l’acqua non c’è, faccio svariati tentativi per eliminare come posso la massa maleodorante del cibo rigettato, servendomi di fazzoletti di carta e di bottiglie di acqua minerale. Saprò il mattino dopo che per l’endemica carenza d’acqua di notte in questo periodo la fornitura viene sospesa.

Fatico poi a riaddormentarmi, sento i canti dei mullah che pregano ogni mattina prima dell’alba. Al risveglio alle nove del mattino, la sensazione che ho è quella di trovarmi in un mare in burrasca su una nave squassata dai flutti. La mia ostessa che ho visto bene essere una vera matriarca, comanda su un esercito di sole donne di svariate età, non ho ancora visto un uomo tra gli inservienti, i soli maschi circolanti sono gli ospiti del suo hotel, appena ho detto di essere stata poco bene durante la notte e per questo debbo cercare una farmacia, mi informa che sarà lei a mandare qualcuno a prendere il giusto medicamento per me, ma io non mi fido, visto le ricette da lei consigliate a base di bile di porcospino, lei insiste ed io pure, così dopo una lunga discussione riesco ad avere informazioni sulla farmacia più vicina. Laszlo dorme ancora ed io esco nella luce del giorno diretta alla farmacia che dista tre isolati.

Le insistenze maschili Durante il tragitto sono ripetutamente infastidita da uomini e ragazzi che mi avvicinano chiedendomi di farmi da accompagnatore, non capisco tanta insistenza, iniziano tutti sempre con la stessa frase: Prima volta a Marakech?” in francese si capisce. Rispondo ogni volta che ringrazio ma non ho bisogno di nessun accompagnatore, che so cavarmela da sola; dopo la quinta proposta in nemmeno trenta metri percorsi comincio ad essere seccata, non rispondo più gentilmente come ho fatto sin qui, faccio solo un cenno di diniego con la testa e con le mani e passo oltre.

Questo non basta, non serve, come mi avvicino alla piazza centrale ecco una turba di ragazzetti, gli stessi che nei giorni precedenti avevo notato scorrazzare nei vicoli della città vecchia, farsi tutti intorno così insistenti al punto che non riesco a fare un passo, mi circondano da ogni lato, parlano tutti insieme nel loro francese approssimativo. Penso in un primo momento che vogliano soldi e siccome non sono dell’umore giusto per affrontare una garbata discussione sulle loro richieste, metto mano al portafoglio e distribuisco diram con la falsa idea che una volta accontentati mi lascino in pace, ma ecco arrivarne altri, sino a quando non ho più monete.

Vedo da lontano una coppia di poliziotti cui vorrei chiedere su quale lato della piazza dovrei dirigermi per trovare la farmacia che mi occorre. Faccio fatica a forzare il blocco dei ragazzetti che ho intorno perché si rilevano più insistenti del previsto, vorrebbero tutti farmi da accompagnatore al mercato e non ascoltano le mie parole che dicono chiaramente che non è mia intenzione entrare nel souk, ma tanto faccio che riesco ad avvicinarmi un poco ai due poliziotti che stanno cambiando direzione, chiamo a gran voce e finalmente nel chiasso che già invade la piazza uno dei due si volta e io alzo un braccio per richiamare l’attenzione, la folla dei ragazzetti si disperde immediatamente.

Intanto mi sono diretta all’angolo della via dove si trova la farmacia con altri pretendenti accompagnatori a seguito tre passi dietro. Riesco ad arrivarci sfinita. I farmacisti, due uomini, sono molto cortesi e quando sono sul punto di uscire, nei pressi della porta, noto un vistoso passeggio di grosse formiche sul pavimento bianco per altro lustro. L’immagine del re vigila ovunque, in tv il Corano.

Ieri sera siamo entrati in un caffè a bere un tè alla menta e comprare sigarette, solo uomini, tanfo di tabacco, sotto la foto del sovrano, sola immagine che si trova ovunque, in un lato quattro giocano a carte e tutti gli altri intorno guardano la partita. Anche da noi in campagna puoi osservare scene del genere. La tv è accesa, sullo schermo per tutto il tempo della nostra permanenza seduti ad un tavolo, un ragazzino di dieci anni recita i versetti del Corano. Il Marocco non è certo una teocrazia assoluta, anzi tra i paesi islamici passa per moderato, certo è che le foto del sovrano sono in molti villaggi le uniche immagini che si trovano nei luoghi pubblici, sui pali della luce, lungo le strade, nelle piazze, nei caffè e nei negozi. 4.

Agadir- Tiznit- Merleft In bus Marrakech- Agadir. All’uscita dalla città ancora il verde della vegetazione ci accompagna per circa un’ora, tutta fatica dell’uomo che ruba il nulla del deserto, case basse, case rifugio dal sole, dal vento, dal deserto, quasi indistinguibili alla vista da lontano, lo stesso rosso della terra.

Costeggiamo prima poi cavalchiamo l’AntiAtlante, la montagna aspra di roccia puntellata di rari verdi cespugli spinosi, da piante grasse simili al cactus ma basse e uniformi. Grandi nuvoli grigi occupano il cielo e le cime delle montagne, a tratti qualche squarcio di turchino. Rari gli uomini, uno nascosto dal suo ruvido djellabah sale un ripido sentiero scosceso, ghiaioso, a dorso di mulo carico di due bisacce ai lati. Alcune donne tornano chissà da dove con gerle piene di fieno, ancora figure bibliche. La montagna diventa sempre più dura, arsa e aspra, pietra rossa ma anche bianca e rosa.

Qui rari villaggi, sparsi nel nulla, nascosti tra le rocce. Ad ogni fermata del bus, soprattutto nel borgo di Tizi N’Test, entrano mendicanti che quasi cantando raccontano i propri mali, come un mistico lamento, quasi tutti i viaggiatori fanno offerte.

Evidente la spaccatura tra campagna e città, tra povertà e ricchezza, tra tradizione e tentativi di modernizzazione che nei tessuti urbani sono più insediati.

Agadir, la bianchissima Bianca e spettrale, splendente sotto il sole accecante della luce del pieno mattino.

Moltissimi i quartieri in costruzione, alcune zone con pali elettrici che si ergono solitari in attesa delle case a venire. Spesso costruiscono prima i muri di cinta, vere e proprie muraglie, sembrano sistemi di difesa e insieme prigioni.

Grandi piazze e architetture ben distribuite. Parchi recenti lussureggianti, gli amici del sole soprattutto rossi occupano grandi spazi come tappeti fioriti:interi prati di questo splendido fiore che si presenta in tutta la sua bellezza. La città si presenta prevalentemente con costruzioni nuove, dal momento che è stata in massima parte ricostruita dopo un terremoto, molte le strutture ricettive, il turismo è in pieno sviluppo. Alberghi con piscina immersi nel verde ospitano italiani, svizzeri tedeschi, soprattutto classe media francese con la puzza sotto il naso. Bar accoglienti, all’europea, il lusso occidentale fa capolino. Una città quasi del tutto moderna. Spiaggia lunga, ampia di sabbia fine. In alto domina il paesaggio l’antico forte e la città distrutta dal terremoto che ha fatto 1500 morti.

Sembra una città nata ad uso e consumo dei turisti, ma lo stesso si odono i canti dalle moschee e le donne vestono bianchi pepli con cui avvolgono anche il capo e parte del viso.

Sesso, sesso e ancora sesso in un paese mussulmano ove i giovani sentono profumo di femmina come cani da lepre. Naturalmente le lepri sono quelle che qui gli uomini del luogo chiamano gazzelle, bionde soprattutto, le occidentali, mentre guardano male questi stessi uomini le proprie donne alla vista un po’ troppo emancipate, le fanno sentire puttane per aver tagliato i capelli o per un pantalone un po’ troppo stretto, se poi le vedono accompagnate con un occidentale criticano la cosa a voce alta, per strada le chiamano putain, la grande infamia che ovunque regna, qui un po’ di più.

Cerco di leggere in spiaggia ma il vento è forte e solleva la sabbia fine anche all’altezza di cinquanta centimetri, Laszlo tutto rosso dal troppo sole.

Un gallo fa la siesta sotto la sedia di una gelateria di lusso ove siamo seduti all’ombra a prendere un po’ di refrigerio. Il gallo alza la testa e canta a lungo.

La cameriera all’Hotel des palmiers bussa forte la mattina alle nove, poi apre e fa un sorriso malizioso, quando è seria invece ha un’espressione del viso un po’ ebete.

La sera per la città o la mattina in spiaggia si avvicinano ragazzi a chiedere se vuoi chocolade, tu rispondi non merci, e loro a insistere “Mais c’est vraiment très bon.” Tu ribadisci “non merci” e dopo diversi no finalmente il tipo se ne va, ma dieci minuti dopo ne arriva un altro. Faticosa la faccenda. Passiamo le giornate lunghissime di luce soprattutto al mare, a mangiare gelati e dolci, nel pomeriggio giriamo nei parchi che sono così belli, sediamo all’ombra, leggiamo entrambi moltissimo. Siamo molto rilassati e forse per questo riesco a scrivere troppo poco, il saggio sull’Europa per cui avevo portato qualche materiale non prosegue, ho scritto pochissimo e questo mi disturba. Laszlo dice che non so godere il dolce far niente, che non riesco mai a rilassarmi davvero, che ho sempre la testa in movimento.

“Non sei affatto libera di lasciarti alle spalle tutto.” E ride di me che invece me la prendo. So che ha ragione, è vero, mi sembra di aver perso tempo se non ho scritto almeno tre pagine al giorno. Lui vorrebbe che io dessi spazio solo al nostro rapporto, almeno durante la vacanza.

Oggi lunedì di Pasqua, mi sono alzata all’alba, gli uccelli impazzavano l’aria di grida, poi mi sono riaddormentata ma quando mi sono alzata, il programma fatto per l’ultima giornata qui è fittissimo, ero ancora stanca, dormito troppo poco perché ieri notte baldoria di musiche e danze con amici francesi ospiti del nostro stesso albergo. Così quando esco dalla camera per scendere a fare colazione, senza volerlo maldestramente urto un vaso nel corridoio e questo cade fracassandosi. Di corsa per le scale il padrone dell’hotel, sono mortificata, dico. In contemporanea cominciano a suonare vari campanelli nelle varie stanze, è tutto un aprirsi e chiudersi delle varie porte e io lì in mezzo come un’ebete a chiedere scusa a tutti.

Tiznit, porta del Sahara Da Agadir a Tzinit solo deserto con poche oasi sparse, arriviamo a sera, fuori le mura il nulla piatto infinito.

Il giorno dopo visita alla spiaggia di Aiglao? Forse è questo il nome. Una strada punta dritta verso il mare tra basse colline, c’è un forte vento, l’oceano è crestato di bianco, lunghe onde cimate di spuma. In spiaggia non c’è anima viva, siamo i soli che ascoltano il rombo oceanico che si spande portato dal vento e quasi ci impedisce di ascoltarci a vicenda, restiamo in contemplazione del cielo con l’azzurro quasi rubato del tutto da grandi nubi grigie che promettono tempesta. Alle nostre spalle digradano verso il mare gialli costoni di collina.

Il giorno dopo puntata nel deserto fuori la città, con un auto affittata percorriamo per più di un’ora la strada di terra battuta verso Goulimine, senza incontrare nessuno, dapprima deserto di sassi e pietre, l’essenza della desolazione, poi sabbia, dune morbide, sinuose che sembrano corpi di donna. Ci fermiamo per percorrere un tratto a piedi sino alla cima di una duna, da lì si gode un paesaggio splendido, vallate, colline, un sali e scendi di linee tondeggianti. La sensazione è invitante pur nel nulla. La nostra auto comincia a mal funzionare, dal motore esce fumo, quasi finisco nel panico. Infine nel nulla avvistiamo un furgone 504 Peugeaut guidato da un vecchio arabo, costui si ferma e ci offre di portarci sino alla spiaggia distante a suo dire una ventina di chilometri, naturalmente il prezzo che chiede è esorbitante, ma non abbiamo scelta.

L’arabo, che ha un cranio rasato di fresco semicoperto da un turbante bianco, fila a cento chilometri l’ora scendendo come un folle verso il mare nel tutto intorno desolato e assolato. Una volta arrivati insiste per un prezzo maggiorato della corsa. Non capiamo nemmeno in quale spiaggia siamo finiti, ma almeno ci sono due case, un caffè-bottega che vende qualcosa, chiediamo un telefono che non c’è, ma il tipo del caffè chiama il figlio che si offre di accompagnarci a Tzinit ove arriviamo nel tardo pomeriggio, quasi notte.

La sera alle undici ancora caldo, quasi nessuno in giro, solo qualche giovanotto annoiato in cerca di compagnia. L’ultimo tè alla menta della giornata, che è stata faticosissima.

Il giorno dopo ancora visita accurata della piccola città medievale che assomiglia ai nostri borghi, qui vita separata: gli uomini con gli uomini, le donne con le donne, e le donne stanno in casa, in giro se ne vedono davvero molto poche, tutte vestite in modo tradizionale, niente djellabah, ma solo grandi pepli girati intorno al corpo sino a coprire il capo e parte del volto, a proteggere il pudore e insieme a ripararsi dal vento, dal sole. Molto più estetico il peplo del djellabah soprattutto di quelli in poliestere.

Merleft Il giorno dopo ancora, gita programmata sino a Merleft, taxi collettivo preso insieme a due francesi e tre svizzeri, tutti noi siamo i soli europei in zona, tutti ospiti del solo hotel. Colline bruciate, cactus che riempiono piccole zone recintate, qualche gruppo di case arroccate sopra qualche cima sassosa, poi zona piatta per chilometri, solo bassi cespugli di cardi in fiore e piante grasse spumose e irte. La strada sembra girare in tondo intorno al macigno duro aspro assolato.

Quaranta chilometri che sembrano non finire mai, infine verso il mare azzurro tra due colline digradanti con l’orizzonte coperto da nuvoli spessi. Il paese: a sinistra sul punto più alto un forte color rosso, più in basso una bianca moschea e tante piccole case bianche e rosa. Una serie di costruzioni che sembrano edifici pubblici, forse scuole.

Una strada che diventa piazza, tutta arcata ai due lati, colori bianco, rosa turchese e giallo, un seguire di archi colorati. Poche botteghe aperte, la merce è ridotta all’essenziale: solo arance, cipolle, pomodori e patate, niente altro; in una di queste bottegucce troviamo i formaggini La Vache qui rit. I vecchi sugli usci, qualche ragazzo che vorrebbe parlarci, si capisce che rientra tra i disadattati del luogo, per lui noi rappresentiamo un barlume di un mondo che vorrebbe conoscere, spiaccica solo qualche parola in francese. Laszlo tenta una comunicazione mentre io guardo questo paesaggio lontano da tutto, il vecchio forte sulla collina, la bianca moschea, i dolci pendii sino al mare, i vecchi alberi sagomati dal vento marino, una spiaggia dimenticata in un pomeriggio assolato. Intanto sento la pena di questo ragazzo che vorrebbe fuggire.

Lascio Merleft con la sensazione di essere in capo al mondo. Ritorno a Tzinit a notte fonda con il taxi che svolazza come sulle montagne russe, quando incrocia un camion o un’altra auto vira solo all’ultimo minuto, solo al rendersi conto che l’altro conducente non cede il suo posto sulla strada. Una follia. Un miracolo che si sia giunti sani e salvi.

Lasciamo Tzinit sotto un sole cocente, l’orario della partenza doveva essere all’incirca alla una, ma sino a quando il bus non è pieno o quasi non si parte. Il ragazzo magro che si occupa dei bagagli urla per due ore Agadir, Agà, Agà, Dir, Dir, Dir, Agà, Agà, Agà. Una nenia senza posa. Sono le tre passate quando finalmente il bus si muove sotto un cielo cocente e un’aria immobile. Dentro un caldo soffocante. Avevamo previsto due posti vicini io e Laszlo, ma rientrati al momento della partenza troviamo le nostre cose spostate, il mio vicino, un uomo del luogo vestito di una tunica di lana sopra un’altra di cotone, preme vigorosamente la sua coscia contro la mia, ne sono fortemente infastidita, cambio posto. Filiamo veloci sotto il sole a picco nella bianca luce del deserto per un buon tratto, quando ci avviciniamo ad Agadir compaiono verdi campi, alberi ombrosi. Il sole del tardo pomeriggio crea linee argentee nell’oceano, brillio dell’acqua che rende la luce ancora più accecante.

Nei pochi giorni passati in precedenza in città, avevamo fatto vita da turisti, hotel-spiaggia-locali, la nostra intenzione è fermarci ancora per tre giorni.

5. Essauira Da Agadir verso Essauira. Partiti alle sette e mezzo di sera, dopo un pomeriggio passato passeggiando in mezzo a parchi, tra gelati e pasticcini, infine Laszlo dal barbiere e io dalla visagiste.

Il sole è al tramonto sull’oceano calmo piatto, tempo caldo umido, cielo nebuloso e grigio, prevale il grigio perla anche nel colore del mare e del globo solare, tutto immerso nella foschia.

Infine la città scompare con l’estrema parte del porto industriale e gli ultimi crateri di terra spaccata dal terremoto che la distrusse un tempo. Lasciamo nella luce fioca del crepuscolo la costa per inoltrarci nell’interno, costa prima rocciosa poi piatta ricca di arbusti e alberi. Piantagioni di banani nani le cui foglie strepitano al vento.

Prima fermata in un piccolo villaggio, forse Smimou il nome, sosta in un posto di ristoro, dove noi ordiniamo café au lait e un pezzo di dolce e i marocchini tajine e tamira. Chiamano il nostro cibo moderno e criticano l’adattabilità di alcuni di loro a noi infedeli per amor di soldi. Lo fanno a voce alta in francese in modo da farci capire. Ancora in bus, seguente scena: entrano due donne berbere con uno scialle di lana rigato sulla testa che le copre sino alla vita, per gonna un asciugamano di spugna di pessima qualità, entrano e si accomodano vicino al finestrino di sinistra mentre sul lato destro c’è un giovane indigeno di bello aspetto. Costui si gira a guardarle e la donna più vicina a lui si scopre una parte del viso, tira fuori la lingua lanciando uno sguardo acuto. Il ragazzo la guarda mentre il viso della donna è di nuovo scomparso dietro lo scialle. Dopo poco costei si rigira di nuovo e scopre un poco la sua gamba e ancora mosse oscene con la bocca. Anch’io osservo la scena stupita.

Arrivo a Essauira alle undici di sera.

Essauira la variopinta Appena arrivati, il solito tipo che si offre di portare bagagli e fornire un hotel, accettiamo perché qui non abbiamo prenotato in anticipo, purtroppo l’unica stanza disponibile non è gran cosa, al pianterreno, poco luminosa e soprattutto rumorosa. Ma per due notti è sopportabile. La città merita la visita, bella la posizione, i colori, l’atmosfera. Prevale il bianco, misto all’ azzurro. La città ha una struttura diversa rispetto a quelle qui conosciute, infatti è stata disegnata da un francese nel 700 che si era ritrovato prigioniero del sultano della zona. Porto di pirati viveva di bottini rubati alle navi francesi, inglesi, spagnole quando si avvicinavano troppo alla costa. Dopo arrivarono portoghesi e spagnoli, loro la rocca che domina il mare. Come porto naturale è difeso benissimo dalla natura del luogo, baia quasi inaccessibile ai nemici per le rocce che salgono sul costone sino al torrione, dove ancora ci sono cannoni spagnoli, made in Barcellona, a testimoniare un passato di potenza. Il bastione grigio con accanto case che sembrano olandesi o portoghesi, dopo inizia la rosa muraglia mussulmana. Le influenze diverse si mescolano. Dentro le mura giardini fioriti e sulla strada principale un acciottolato che potrebbe essere quello che si trova su Chaussée d’Ixelles, strade perpendicolari dove si susseguono archi color rosa, le porte turchesi con bordi gialli, sfavillio di luce e colori.

Il mercato della carne si trova su una strada porticata con archi bassi ma a punta gotica, le colonne un po’ tozze tutte piastrellate di piccole ceramiche blu e turchese. Piccole teste di agnello o piedi d’asino disposti in mostra sui banconi, quarti di piccoli animali sanguinolenti pendono tra budella, trippe, cuori e fegati. Il mercato del pesce sembra un piccolo angolo di Francia arcaica.

Il mercato delle spezie ricco di rossi e gialli ma non così vario come quelli d’oriente. Le botteghe restano aperte sino a tardi, solo verso le undici di notte la città si svuota e giunge un po’ di sollievo dal caldo.

Botteghe e laboratori di artigianato, soprattutto lavorano il legno, specialisti di intarsi, ma anche il cuoio, il vimini, l’ottone, altri metalli, la gomma. Un androne accanto all’altro da dove si sprigionano fumi e cattivi odori. Nei ristoranti fanno solo cucina locale, gli uomini fumano la pipa di Kift, non si vede una donna nemmeno in cucina. Dopo cena andiamo al cinema, non tanto per vedere il film ma per osservare da vicino il comportamento della gente. Il film è italiano, Bud Spuncer e Girotti, solo uomini nel locale, l’unica donna tra il pubblico sono io e naturalmente tutti mi osservano, donne anche le due mascherine che indossano un grembiule nero come quelli che si usavano un tempo per le studentesse nei nostri licei. Entrambe sono irritate, una di loro mastica gomma, mentre assai scortesemente spiega ad un avventore che non è quello il suo posto, qui infatti a seconda delle file varia il prezzo, 2 diram, 3 diram, ma il tipo fa finta di nulla, imperterrito come se la donna non stesse parlando a lui se ne rimane seduto, la donna a questo punto esce dalla sala a chiamare il padrone del locale che subito spunta e si fionda sul tipo che infine è costretto a cambiare sedile. Tutti ridono alle buffonerie dei due protagonisti, ma la pellicola è di pessima qualità, in dieci minuti quattro interruzioni, due scene senza audio e poi la gran seccatura di essere continuamente infastidita.

Molti cercano di farmi occhietti e cenni, due cercano addirittura di avvicinarsi. Questa loro attitudine mi ha davvero seccato per cui decidiamo di uscire.

Di giorno gruppi di donne ammantate alla maniera berbera, qualche volta non si scorgono nemmeno gli occhi, anche quelli velati, di sera solo uomini in giro.

E poi anche qui i soliti ragazzi con i capelli po’ lunghi, segno qui di trasgressione, i quali offrono compagnia, erba, informazioni, etc., vorrebbero essere utili in qualche modo per rimediare un po’ di denaro, indecisi tra tradizione e progressismo, l’uomo anziano dell’hotel ci ha detto che bevono alcol, non credono più in Dio, vorrebbero andarsene.

Cominciamo ad essere stanchi di dover ogni volta continuamente rifiutare i loro servigi. Non si riesce a fare un passo senza avere il codazzo degli aspiranti cavalier serventi. Solita cantilena: Good People Italian, di sicuro in Marocco gli italiani sono più apprezzati dei francesi. Laszlo che un gran curioso fa loro domande e così uno di questi ragazzi Hasseim racconta che in Marocco non è possibile fare l’amore con una donna senza pagare e chiede se in Italia succede lo stesso, Laszlo ride: “Certo che no.” Risponde.

Hasseim allora vuole capire come questo possa succedere e continua con le sue questioni. Lascio i due alla loro conversazione e torno all’hotel. Più tardi Laszlo mi racconta che Hasseim sta imparando l’olandese perché il suo sogno è di riuscire ad arrivare in Olanda e lì insegnare ai bimbi figli di immigrati. Questa è l’altra faccia dell’Islam, testimoniata anche dal romanzo che sto leggendo: La mémoire tatouée di Khatibi, acquistato a Parigi prima di partire. Vorremmo solo fare con calma qualche foto girando per la città, ma se si prendono vicoli troppo privati la gente si volta, è infastidita da quella che a ragione sentono come una violazione della loro privacy. Immancabile la distribuzione di monete ai bambini e ai mendicanti che si fanno intorno in modo da impedire il passaggio e dunque occorre pagare pedaggio, lo fanno gentilmente Bonjour madame, Missier une monnaie s’il vous plait.Un diram, un diram, un diram. La cantilena continua sino a quando non sono stati accontentati.

In bus da Essauira a Casà Giornata caldissima, luce talmente bianca che il cielo appare di un celeste grigio, il bus dovrebbe partire alle undici, ci siamo svegliati tardi per cui facciamo colazione di corsa in una piccola pasticceria un po’ nascosta che fa dolci squisiti, nel piccolo giardinetto intorno cespugli di calle splendide e due gatti rossi che fanno le fusa tra i miei piedi.

Per fortuna si è alzato un po’ di vento dal mare che da sollievo dall’afa.

Alla stazione dei bus c’è anche Hasseim venuto a salutarci, mentre Laszlo carica i bagagli lui ne approfitta per spingermi in un angolo con il tentativo di pomiciare, lo allontano con fermezza mentre capisco che siccome Laszlo gli ha dato un po’ di confidenza, lui ha tradotto che può trasferirla verso di me. Troppo lontane le nostre mentalità. Il bus parte con solo una mezz’ora di ritardo, ma dopo un breve giro intorno alle mura, l’autista sembra arrabbiatissimo, posteggia parlando in modo concitato e tutto rosso in viso.

Altri uomini con rozzi djellabah e copricapi bianchi lavorati all’uncinetto salgono rumorosamente caricando bagagli ingombranti. Entrano numerosi mendicanti, qualcuno accompagnato da un bimbo, raccontano come in una litania la loro storia, anche un gobbo che alza il suo bastone come a maledire l’autista che li invita a scendere. Si riparte. Nelle campagne che sfilano per un primo tratto lavorano giovani, uomini e donne, vestiti all’occidentale, forse cooperanti, che stanno piantando giovani alberi per chilometri e colline ricche di campi verdissimi di grano alto, quasi biondo.

La tempesta di sabbia Stiamo allontanandoci dalla costa, il vento caldo comincia ad essere talmente carico di sabbia e polvere da costringere il bus a fermarsi per chiudere tutti i finestrini. Intanto il cielo ha i colori della tempesta, grigio plumbeo, come si fosse alzata una fitta nebbia. Il bus riparte ma la sabbia riesce ad entrare all’interno nonostante i vetri chiusi, dentro l’afa è ancora più insopportabile senza circolazione d’aria. Sembra essersi scatenato l’inferno, venti furiosi che creano mulinelli di polvere che si alzano nel grigio del cielo ormai invisibile. Adesso capisco l’utilità del cappuccio che qui tutti i djellabah hanno, vedo come lo calano sin sulla fronte per ripararsi dalla furia tremenda della tempesta di sabbia. Lungo la strada attraversiamo qualche minuscolo villaggio, qui qualche vecchio tenta, servendosi di un bastone appuntito, di ributtare lontano cartacce e sacchetti di plastica che si sono attaccati ai suoi due alberi e ai cespugli di margherite fiorite. La polvere grigia ha coperto tutto dando al paesaggio un aspetto spettrale.

Il bus si ferma e sosta in un grosso villaggio, Safi, in attesa che il vento scemi un poco. Quando si apre la porta entrano folate di sabbia che rendono irrespirabile l’aria, sabbia dappertutto, dentro le orecchie, negli occhi irritati, nella bocca impastata e nel naso secco. C’è un olandese dalla testa ricciuta che scuote il capo per liberarsi un poco dalla sabbia accumulata. Tutti si scuotono, i marocchini con i cappucci calati hanno anche messo bande di cotone sul viso, noi tentiamo con dei foulard, ma per me il risultato è scarso perché il mio è di seta e dunque scivoloso. Quando riusciamo a scendere e a raggiungere di corsa la porta di un ristoro non si riescono a vedere distintamente nemmeno le linee delle case e della strada. Sui pali della luce della piazzetta le immagini del re sono sbattute dal vento. Unica altra insegna della piazza l’immagine della Coca-Cola.

Finalmente dopo due ore il vento inizia a scemare e il bus riparte, ma il cielo bigio ci accompagna sino a Casà. Di nuovo sosta all’Hotel Venise, camera stile liberty, bel letto con testata in ferro battuto, tutto ordinato, quasi Europa.

Aeroporto di Casà in attesa del volo per Parigi Quasi tutti francesi al ritorno dalle vacanze in attesa di imbarco, ma noi siamo arrivati in ritardo, troppo, così dobbiamo rimandare la partenza al pomeriggio.

Alle nove e un quarto, dopo aver fatto una buona colazione, ci dirigiamo verso quello che il parco vicino all’aeroporto, solo alberi disposti disordinatamente come raro boschetto da un lato e dall’altro invece una fila ordinata, al suolo niente erba solo sassi, cardi e cespugli bassi e selvaggi. Due panchine.

Il sonno è troppo forte: ci addormentiamo distesi io sul mio cappotto e Laszlo su una ampia giacca di lana. Dormiamo come bimbi un sonno profondo e ristoratore sino all’una e passa quando un tipo di passaggio ci informa sull’ora. C’è ancora tempo, ancora mezzi morti di stanchezza restiamo distesi mentre il marocchino al volante di qualche auto e furgone che attraversano il passaggio sterrato o la strada asfaltata che scorre accanto accenna con la testa, gli occhi e il sorriso, i soliti apprezzamenti complimentosi nei miei riguardi.

Sono le tre quando raggiungiamo l’interno dell’aeroporto, dopo aver mangiato un boccone al bar e ingoiato altri bombons .

Una bella ragazza francese che sembra un’italiana abbraccia e bacia passionalmente il suo amore marocchino, lui la stringe tutta con evidente orgoglio di fronte ai poliziotti che guardano e ridono.



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