la costa del sorriso
Quest’anno io e la mia amica Lilly, sfruttando la settimana di stop didattico a Febbraio, partiamo per le ferie invernali, destinazione.. Gambia! Perché proprio la Gambia (lo stato è femmina, il fiume da cui prende il nome maschio..Certo che ci vien difficile pronunciarla al femminile..)? Beh, perché volendo “sunbathe” il più possibile...
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Quest’anno io e la mia amica Lilly, sfruttando la settimana di stop didattico a Febbraio, partiamo per le ferie invernali, destinazione.. Gambia! Perché proprio la Gambia (lo stato è femmina, il fiume da cui prende il nome maschio..Certo che ci vien difficile pronunciarla al femminile..)? Beh, perché volendo “sunbathe” il più possibile dietro l’angolo (l’anno scorso Sharm el Sheik, stesso periodo. Bocciato.) e nel modo più “cheap” possibile, la ricerca sui siti di viaggi mi apre questa nuova prospettiva, più o meno allettante: un piccolo staterello incuneato nel Senegal, lungo quanto il fiume che lo attraversa e largo quanto lo stesso fiume, compresa la sua foce. Fatta la ricerca e controllati i vari forum sui siti dei viaggiatori (“per caso”, of course!) per aver qualche link in più, scopro essere la Gambia una ex colonia britannica (quindi l’inglese è la lingua ufficiale), indipendente dal 1965, ora sotto dittatura militare a seguito di un colpo di stato negli anni ‘90, ma tutto sommato tranquillo (“en Gambia no se pasa nada” rassicurano loro!), lontano dagli echi delle guerre civili che si stanno consumando in molti stati africani (e nel confinante Senegal); abitato da un popolo in perfetta sintonia con le proprie “radici” (come l’omonimo romanzo dell’afro-americano Axley sulla schiavitù e le peripezie del piccolo Kunta Kinte) e nel contempo entusiasta nell’accogliere il turista, non solo per semplice ritorno economico, ma anche per cercare un confronto, per raccontargli la sua vita, quella della sua (poverissima) famiglia, e per abbracciarlo sorridendo a tutto campo (da qui la denominazione più battuta sui siti e sbandierata dagli stessi abitanti nel promuovere il proprio paese “la costa del sorriso”). Per quel che riguarda il clima, dalle foto e dalle varie recensioni mi accontento di apprendere che il mare “forse” non è quello delle Maldive..Ma che la temperatura è di tutto rispetto (30° la massima a Febbraio) e che, essendo stagione secca, non si rischiano secchiate d’acqua improvvise dal cielo, e soprattutto l’attacco delle famigerate zanzare malariche (non è obbligatoria e sconsiglio vivamente la profilassi anti-malarica, una mazzata al fegato totalmente inutile. Di zanzare, per lo meno sul mare e in stagione secca, non ce n’è l’ombra!). Il turista italiano è pressoché inesistente, o per lo meno lo è stato finché qualche tour operator (tipo i Viaggi di Atlantide) non ha deciso di stracciare le tariffe per promuovere anche in questa zona il turismo tricolore, sinora abituato a crogiolarsi esclusivamente sotto il sole del Mar Rosso e a far shopping per le vie di Naama Bay, ormai dependance italiana in terra musulmana… In (o meglio nella) Gambia il turista tipo è inglese, sia nelle vesti dell’allegra famigliola in formato standard ,“padre-madre e due/tre marmocchietti”, sia in quelle dell’ attempatella “British Lady”, rigorosamente sola o con amica a seguito, alla ricerca di un po’ di sollazzo “post-menopausa” chè le caldane, come gli esami, non finiscono mai.. Si parte da Milano Malpensa, si affrontano circa sei ore di viaggio, compreso lo scalo per scaricare i turisti che hanno scelto come meta le coste senegalesi, e infine si arriva all’aeroporto di Banjul, capitale della Gambia. L’impatto, per chi di Africa è a digiuno, a parte le ormai inflazionate immagini in TV o le foto torcistomaco sui giornali, è piuttosto traumatico. Non si tratta insomma di una piccola oasi felice, non c’è “civiltà” come la intendiamo noi, non c’è scenario metropolitano o suburbano, non c’è traffico di mezzi strombazzanti (a parte quelli che trasportano i turisti), non c’è coltre di smog ; ma non c’è nemmeno natura disciplinata, villette a schiera o stradine accoglienti che appagano l’occhio saturo del turista schiavo del cementificio cittadino. C’è natura selvaggia ovunque. E poi c’è un’unica strada asfaltata che sfila in mezzo ad un brulicare di formichine nere che guardano il nostro pullmino, quello dell’opulenza e della tracotanza. Sembra di essere sul baraccone del circo.. Miriadi di bambini ci corrono dietro a piedi nudi , urlano divertiti e disperati insieme, quasi con la consapevolezza che lo spettacolo a cui avrebbero voluto partecipare si sta consumando in un lampo sotto i loro occhi, senza possibilità di repliche. Alcuni adulti invece restano immobili, seduti a bordo strada su sedie a tre gambe, su avanzi di mobilio, o per terra sulla sabbia rossa; altri ancora, soprattutto le donne, nei loro abiti coloratissimi (che belle che sono le donne africane, che dignità e integrità che ispirano), coi loro cesti in testa e il loro fagottino sulla schiena (l’ultimo nato della nidiata..), si muovono lente come le immagini della moviola, trasportando il loro sostentamento senza fretta di arrivare da qualche parte, chissà dove poi..Chissà la vita che conducono..Chissà che progetti hanno per domani.. Il nostro albergo è il Djarma Beach, scelto non da noi ma dal nostro tour operator, che prima di fallire giocava coi suoi clienti scombinandogli le cose il più possibile..Ma lasciamo stare.. Oltre a noi due ci sono due coppie di turisti italiani, anche loro dirottati nella stessa struttura (di tutto rispetto per altro). La compagnia si forma quasi subito, soprattutto quando intuiamo che dovremo sopire un po’ il desiderio di rammollirsi sotto il sole cocente africano e ammollarsi nell’acqua cristallina per cercar refrigerio dalla canicola. Già il giorno successivo infatti ci rendiamo conto che il tanto sbandierato caldo della Gambia è un concetto un po’ da interpretare a seconda della nostra sensibilità culturale e climatica. Per noi, che non siamo inglesi e quindi difficilmente ci accaloriamo sotto i raggi tiepiducci e incerti delle estati nordiche, i 30 gradi delle guide, il sole stentoreo e la brezza avvolgente dell’oceano si sono tradotti in: mattinate gelide dopo notti spazzate dal fischio di un vento inquietante che placa la sua furia di giorno ma che mai smette di martellare la spiaggia, increspare il mare e suonare la sua tromba imperterrito addosso al povero bagnante, impedendogli di godersi il più scontato tuffetto in mare, nonché il suo sacrosanto diritto di abbrustolirsi sul lettino in spiaggia (la nostra era quella di Kololi)! Quindi, morale della favola: poche ore di sole autentico, dato che al mattino si alza in cielo con una lentezza esasperante, è affrontabile solo alle undici circa e alle cinque del pomeriggio inizia la sua inesorabile ascesa negli abissi dell’Oceano; in compenso tante ora di lotta col vento, come Don Chisciotte, ma senza armatura, solo col nostro costumino, imbarellate a bordo piscina (dove si poteva resistere un po’ di più al vento), cercando di immedesimarci il più possibile nella calorosa vita vacanziera per evitare di sembrare tacchini irrigiditi e spiumati. E tutto ciò mentre le mozzarelline inglesi si crogiolavano belle fiere sotto questa pantomima estiva mentre i bambini si tuffavano a tutte le ore nei 20° della piscina a loro agio come se fossero in un centro termale! Capita l’antifona, anche se ci assicurano che in genere il clima è molto più mite a Febbraio, decidiamo di dedicarci alle escursioni chè almeno ci tengono occupate le giornate senza grossi traumi climatici sul nostro povero fisico.. Quelle offerte dal tour operator si pagano in euro e a prezzi europei..Quindi direi poco in sintonia con il “minimalismo” africano. Molto meglio rivolgersi ai “beach boys”, ossia ragazzi locali che si improvvisano guide per racimolare qualche soldo europeo, manna che scende dal cielo per gente che vive con 50 euro al mese (i pochi fortunati che ricevono uno stipendio!). Basta fare un giro lungo la spiaggia e si incontra qua e là un baracchino traballante e pericolosamente esposto al vento, dietro esso sbuca un ragazzotto seduto su uno sgabello che scatta in piedi appena riconosce il terno al lotto della sua puntata diurna sulla ruota non sempre fortunata..Ti accoglie con un bicchiere di limonata e ti illustra il pacchetto completo della sua “agenzia”. Formato il gruppo di sei, perfetto assetto per la jeep di Osman (il nome del nostro beach boy), iniziamo la nostra settimana a caccia di avventure all’interno, dato che il mare ormai ci ha profondamente delusi. Il primo giorno decidiamo per la visita al villaggio dei pescatori. Affittiamo un cammello a coppia -esperienza che si poteva evitare (l’avevamo già fatta e poi il cammello non è esemplare molto tipico dell’Africa tropicale!)..Ma a noi costava poco, mentre per il ragazzo era questione di sostentamento quindi, da buone turiste “responsabili”, ci lasciamo guidare a bordo del quadrupede dinoccolato fino ad una lunga spiaggia zeppa di gente; un impatto davvero mozzafiato, a metà tra la paura di essere assaliti, noi, sei turisti bianchi e benestanti a bordo della portantina in mezzo alla marea indistinta dei plebei, e l’emozione della visione, la puzza di pesce marcio, la gente che ti guarda e non capisci bene con quale stato d’animo, uomini che spingono a riva barche coloratissime e gonfie di pescato fresco, donne ancora più colorate delle barche che sventrano i il pescato destinandolo agli essiccatoi e di lì alla cooperativa che lo spedisce ai mercati; e poi i bambini che ti inseguono, che vogliono toccarti, che pretendono un regalo in cambio della loro ospitalità (il mio pacchetto di chewingum e il berretto della mia amica..Quel che avevamo per le mani..); quando scendiamo per visitare il piccolo villaggio, il nugolo di marmocchi si gonfia, diventa un piccolo corteo che incornicia la nostra visita e ci fa sentire ancora più “mostri” lì in mezzo, come se la bestia del circo fosse scappata e tutti accorressero per vederla e godersela mentre si aggira fuori dalla sua gabbia, timorosa e guardinga, in un ambiente del tutto estraneo. Per ovviare un poco al nostro imbarazzo, scattiamo foto insieme a loro che poi si sganasciano rivedendosi nelle immagini, e cerchiamo di esaudire qualche piccolo desiderio (naturalmente hanno imparato l’arte dell’arrangiarsi e sfruttare le risorse del turista di turno); quindi ci lasciamo convincere e compriamo due palloni da calcio in un piccolo bazar improvvisato, dietro insistente richiesta di alcuni di loro. Purtroppo invece della riconoscenza da parte dei grandi, ci becchiamo pure la tirata d’orecchie: il calcio è deleterio per i bambini perché, appena si impossessano di un pallone, corrono nel primo spazio adibito a campetto e ci corrono dietro tutta la giornata, inseguendo il sogno di emulare con gesto atletico il loro beniamino (naturalmente tutti giocatori di squadre italiane..)ma dimenticando quale sia il loro dovere primario: andare a scuola! Poveri però, mi dico: non basterebbe spedirli a scuola al mattino, confiscandogli l’oggetto del desiderio e restituirglielo a dovere svolto, proprio come farebbe mamma col cellulare del figlio dimentico del suo obbligo scolastico??Valli a capire gli africani… Dedichiamo le giornate successive a visitare parchi naturali (in particolare va ricordato l’Abuko natural reserve dove si assiste, passando in canoa, alla raccolta delle ostriche!), piccole riserve di fauna locale, ad esempio il Kachikaly Crocodile Pool, infestato da una allegra colonia di alligatori…Liberi di scorrazzare tra i visitatori…, o il Bijolo Forest Park, dove le scimmie ti salgono in testa e, se riescono arraffano e scappano…(così è sparito il mio panino!). Il terzo giorno partiamo all’avventura verso un piccolo safari nel vicino Senegal. Viaggio nel viaggio ma anche esperienza nell’esperienza. Partenza all’alba per poter prendere il traghetto che ci porta sulla riva opposta del fiume. Lo spettacolo è di nuovo strano ed eccitante per noi, estranei e stranieri: attendere il traghetto tra gli autoctoni, coi loro bagagli stracolmi, i loro vestiti di fortuna, le loro tasche vuote e i loro piedi di pelle indurita come la suola più resistente.. E poi, lo sbarco dei passeggeri sulla banchisa…Una fiumana di gente e di odore di vita al limite che ti riempie gli occhi e le narici troppo sofisticate; alcuni, i più fortunati, sbarcano su macchine derelitte e sommerse da pacchi d’ogni genere, altri, appiedati si accingono a intraprendere il loro cammino giornaliero, passo dopo passo, laddove gli ispira la fortuna, laddove c’è odore di sopravvivenza. Ci sono molti venditori naturalmente, che, appena si accorgono della nostra presenza ci assalgono pronti a venderci la loro inutile chincaglieria. Noi, ubriachi di questa ventata improvvisa, ci lasciamo risucchiare dal vortice delirante dello spandersi di gente e del loro vociare, della venditrice di collane che ci rapisce e ipnotizza sventolandoci davanti le sue file di perle scadenti, del lustrascarpe che a tradimento ci lucida una scarpa, delle macchine che ci strombazzano da dietro, della frenesia di catturare più immagini possibili per illuderci di poter imprimere l’emozione su un foglio patinato. Ma è impossibile. Sono esperienze che vanno vissute e assaporate nell’attimo stesso, trattenendo il più possibile col cuore più che con uno scatto fotografico. Il resto dell’escursione si riassume in un giro a bordo della jeep all’interno di un parco safari molto povero di fauna, l’avvistamento di qualche pachiderma (rinoceronti, giraffe e antilopi giganti) che sembrava messo lì a posta, imbalsamato, pronto a far “cheese” allo scatto maniacale dell’avventuriero di giornata.. Il ritorno dall’escursione è stato un nuovo assaporare la genuinità dolorosa della realtà di vita africana. Il traghetto è stracolmo e i mezzi non entrano più, dobbiamo aspettare il prossimo, due ora d’attesa. Due ora a contatto con questa gente, in particolare con i bambini che, gattini incuriositi si avvicinano e pian piano prendono confidenza. E così diventi loro “amico”.Il doversi confrontare con i loro occhi gialli, il loro naso gocciolante e incrostato, i loro capelli impolverati, i loro piedi nudi. Non è più emozionante come al mattino. E’ frustrante, è sensazione di impotenza, di un confronto inutile e che non lascerà traccia benefica. Così -dopo aver elargito penne, matite quaderni e tutto ciò che il “buon” turista a spasso per l’Africa deve portarsi appresso per abitudine buona e giusta (e totalmente inutile…)e per non deludere il pulcino con la bocca sempre aperta che aspetta di essere imboccato al passaggio delle jeep verdi..Scendiamo a terra, ci circondiamo dei soliti marmocchietti e, dopo aver loro regalato quel che troviamo nelle tasche,scendiamo e partiamo alla ricerca di..Scarpe! A differenza del villaggio dei pescatori di qualche giorno prima, dove la vita scorreva disciplinata dal ritmo del mare e dei suoi prodotti , questo sembra più che altro una discarica ricoperta dagli scarti del traghetto, manca ordine, tutto è sporco e confuso, è un brulicare scomposto di gente, nessuna di esse con un ruolo, nessuna gerarchia sociale. I bambini che incontriamo son figli di questa umanità troppo scomposta e senza lamentarsi hanno imparato a giocare di rimessa e ad arraffare un po’ a vanvera quel che gli capita sotto tiro. Poi c’è un pulcino più piccolo e bagnato degli altri, una bimba di sei o sette anni, non parla ma ci guarda, non ci assale come gli altri chiedendo insistentemente. Se ne sta lì con gli occhi sbarrati e indagatori, posati sulle nostre facce troppo pulite (nonostante il polverone del parco safari), lei che quel vestito ce l’ha da chissà quanto tempo e che lo butterà senza averlo mai lavato. Però le mancano le scarpe. Come a tanti. E, attirata la nostra attenzione con quegli occhioni gialli e il suo fare timoroso e diffidente, conquista la nostra simpatia. Le regaliamo un fazzoletto per pulirsi il naso tutto incrostato e che tampona continuamente con due dita -una per narice. Lo guarda e davvero non sa che farsene. Allora mimiamo il gesto di soffiare e capisce. Poi le regaliamo anche un burro di cacao in stick. Ci gioca un po’ e poi stufa lo passa alle amiche che smaniano di spalmarselo ovunque. Finalmente dice qualcosa. Capirla è cosa ardua (il loro inglese è biascicato e corrotto dall’inclinazione dialettale) e ci facciamo ripetere due o tre volte la parola: “shoes”! Anche le amiche insistono che lei vorrebbe tanto un paio di “shoes”per andare a scuola, chè a scuola senza scarpe non si può andare. Naturalmente ci facciamo impietosire e ci facciamo guidare in un piccolo negozietto pieno di cianfrusaglie. Compriamo scarpe a lei e poi, per par condicio, naturalmente anche ad altri due pulcini che volevano essere imboccati dello stesso vermicello… Ma la sensazione è che l’indomani quelle scarpe, tanto desiderate, si sarebbero perse in quel disordine di gente e cose, lasciate in un cantuccio in attesa del primo giorno di scuola… e speriamo arrivi prima o poi quel giorno! La terza esperienza vissuta in questa settimana non proprio “sole-mare” come l’avevamo progettata è la festa nazionale dell’indipendenza per le vie della capitale Banjul. Ci accoglie una lunga serie di parate di vestiti dai colori diversi a seconda delle tribù d’appartenenza (i Mandinga son la tribù più numerosa). Canti popolari di donnone solari e infervorate che ti rapiscono per farti partecipare alla loro festa, al loro momento spensierato, perché per una volta all’anno sono lontane da quella strada asfaltata che non le porta da nessuna parte. Bambine, tutte con le scarpe e la divisa, che ballano davanti al capo di stato, flaccido, assonnato e sudatissimo… Genti mascherate che improvvisano spettacoli per noi senza senso. Davvero un altro momento di condivisione con questo popolo che mi affascina sempre di più, con quest’Africa pulsante di vita che non si abbatte e che anzi trova la forza nella disperazione e la esterna con gioia pura e semplice. Una lezione per noi figli dell’insoddisfazione dei vizi e del benessere. Terminiamo il giro di escursioni con il giro dei mercati di Banjul e di Serekunda (la città più popolosa della Gambia). Mercati talmente affollati che si passa in mezzo ai banchi respirando aria spessa e strusciando contro altri, percependo gli odori più forti, trovandosi faccia a faccia con la realtà nuda e cruda della loro quotidianità. Ma ormai non ci tiriamo più indietro, ormai ci sentiamo anche noi a nostro agio tra la folla affaccendata e incurante di chi le passa accanto. Ho superato l’impatto quel giorno in cui ho preso il traghetto, ora l’emozione è diversa, è voglia di immedesimazione, di fermarsi, curiosare, scambiare due parole, contrattare per quel bracciale di corna di mucca o quella maschera tribale da appendere sopra il camino. Dimentico anche di far foto, quasi inconsciamente per non rompere l’incantesimo con un gesto che mi riporterebbe alla mia veste di turista distaccato e borioso. Tra i tanti incontri fatti, le scarpe regalate, i braccialetti comprati e le maree di pennarelli inutili lanciati dalla jeep, Osman, la nostra guida per una settimana, è stato l’unico locale ad aver beneficiato del nostro passaggio in terra gambese. E’ poco, lo sappiamo, però è una piccola soddisfazione sapere che il nostro contributo, seppur modestissimo, lo abbiamo dato. Gli abbiamo lasciato la sicurezza di poter mantenere i suoi quattro fratelli e i genitori malati per almeno un mese, grazie al nostro contributo economico e a 10 chili di riso che gli abbiamo regalato come “mancia” per la sua disponibilità e il suo servizio impeccabile. Ci ha invitato a “casa” sua, un piccolo rudere, tre stanze, un cortile per cucinare e lavarsi tra la polvere e l’immondizia. Ci ha presentato la sua famiglia, sua madre ha anche voluto offrirci pranzo ma non ce la siamo sentiti: era un bel piattone di riso con una salsa arancione sopra(si chiama Yassa, da provare!), era la loro razione quotidiana, il pranzo e la cena dei quattro figli; Osman invece mangia solo una volta al giorno. Ha 33 anni ma non può sposarsi, per ora deve continuare a procacciarsi turisti sulle spiagge. Con i loro soldi vuol mandare tutti i fratelli a scuola (due per volta, di più non può permetterselo), vuole provare a scommettere sul loro futuro. E’ la grande lezione che ci trasmette. L’ultima scatola di matite e gli ultimi pennarelli li regaliamo a lui. Mi sento anche un po’ triste a pensare che mentre ci vedeva lanciarli per strada si addolorava immaginando quanto sarebbero stati utili ai suoi fratelli. Ma non ci ha chiesto niente, umilmente ha fatto il suo lavoro. Se vi capita di andare in Gambia o in altri paesi africani dove vi offrono escursioni a 50 euro un consiglio: rifiutatele e correte sulla spiaggia di fronte al vostro hotel sapendo che là ci sarà di sicuro un “Osman”, onesto e disponibile, che vi farà far il giro più autentico che abbiate mai fatto.