La città dei Templi
Stiamo per uscire nelle strade, in cuor mio ho la grande speranza che tra le vie di questa cittadina nascosta tra le montagne laotiane, e densa di storia, si riescano ancora ad aprire le narici e, facendo un grande respiro, si possa sentire l’odore di quella vecchia Asia che ha fatto sognare intere generazioni di viaggiatori. Le molteplici guest-house, e l’ordinato mercatino che si snoda tra le vie del centro, mi fanno temere però che l’inquinamento turistico abbia contaminato irreparabilmente anche questo luogo. Quello di cui sono assolutamente certo, ripercorrendo a ritroso con la mente il tragitto che ci ha condotto qui, è che molta di quella magia che abbiamo provato si sarebbe di certo persa se fossimo giunti alla meta a bordo di un aeroplano. In appena un’ora e trenta minuti, dalla caotica, sporca, e viziosa Bangkok, saremmo stati proiettati nella tranquilla, provinciale, e mistica Louang Prabang; cosa avremmo provato o capito di tutto ciò, senza attraversare quello stato fisico e mentale che invece ci ha preparato all’atteso incontro? Credo che se non ci fossimo immersi totalmente nella trasformazione, passando attraverso le luci della periferia a Bangkok, tra le campagne della Thailandia contadina, e infine sulla lenta via fluviale che ci ha condotto alla trepidante attesa di poter scorgere la silouette delle pagode comparire al tramonto, sono sicuro che sarebbe stato certamente un incontro più freddo e incolore.
La città sembra assopita e immersa in un’atmosfera di cordiale tranquillità e rispetto. Le vie del centro accolgono un coloratissimo e animato mercatino dove artigiani laotiani, per lo più di etnia Hmong, espongo prodotti locali, mentre l’arteria principale è invece costellata di locali e di piccole agenzie che organizzano gite ed escursioni nei dintorni. Consumiamo un pasto “variegato”, e ci rendiamo conto che il pericolo di non essere accettati in alcuni ristoranti dopo le nove di sera è più che reale. Al di là delle abitudini infatti in Laos vige un vero e proprio coprifuoco che impone la chiusura dei locali allo scadere della mezzanotte, eccezion fatta per alcune discoteche che in casi particolari hanno la proroga fino all’una. 7.
Una delle attrazioni principali che si svolgono in città è la questua mattutina dei monaci. Il grande successo dell’evento è dovuto in buona parte all’alto numero di templi e di giovani monaci della zona che, con i primi bagliori dell’alba, calcano i marciapiedi della città a piedi scalzi colorando le strade con le loro tuniche color arancio.
Louang Prabang – Laos – 18 gennaio 2008 “Oggi abbiamo deciso di prendercela comoda e di perderci l’evento. Quando apriamo gli occhi sono quasi le nove passate e l’aria che penetra dalla finestra, attraversando la zanzariera, è fresca e frizzante. Usciamo, la città e il grande fiume sono avvolti da una sottile nebbiolina che contribuisce a creare un’atmosfera misteriosa e fiabesca. Bar e ristoranti collocati sul lungofiume offrono ai clienti tavolini posizionati in piccole terrazze ricavate dal grande argine. E’ in questa atmosfera di pace che consumiamo la prima colazione ed iniziamo ad entrare in simbiosi con Louang Prabang.” (Tratto dal taccuino di viaggio)
Il sole lentamente dissolve la nebbia, ma la città sembra non volerne proprio sapere di uscire dallo stato di letargo che la pervade. Noi ci incamminiamo alla scoperta dei numerosi templi della città. Nonostante il regime comunista, ormai più che trentennale, la religione buddista, a differenza dei vicini Myanmar e Cambogia, non ha mai subito grosse repressioni, per questo il numero di monaci e la cultura diffusa dal Buddha sono estremamente radicati nel Paese. Louang Prabang, più di tutte, è la città dove la densità di templi e di monaci raggiunge livelli altissimi; sembra che qui ogni famiglia ha, o abbia avuto, almeno un monaco tra i suoi membri. Tanti sono i templi che basterebbe percorrere le strade della città senza meta per incontrarne uno ad ogni angolo, e con i loro tetti a più falde che scendono fino a sfiorare il terreno sono di certo tra i più caratteristici dell’intera regione. Chiamati Wat, nella lingua locale, svolgono tutt’oggi un’importante funzione nella vita sociale di città e villaggi, e all’interno delle loro mura e dei loro cortili si svolgono le numerose celebrazioni che caratterizzano l’anno religioso. In realtà con il nome di Wat si deve considerare tutto l’insieme di templi racchiusi all’interno di un cortile, infatti solitamente a fianco del santuario principale (chiamato Vihan o Sim), si ergono gli stupa votivi o funerari (chiamati That). Il complesso del tempio è poi spesso completato da cappelle, altari per le offerte, biblioteche e celle per i monaci.
La vita dei monaci che incontriamo sembra estremamente tranquilla, per la maggior parte si tratta di giovani studenti desiderosi di avere contatti con il mondo al di fuori del loro Paese. In questi fugaci contatti o apparizioni ci è però difficile stabilire quanto la scuola buddista Thravada (degli “Anziani”), sia qui in Laos interpretata come religione, filosofia, o semplice ritualità tramandata da generazioni.
Per ultima ci teniamo la visita al Wat Xieng Thong, considerato tra i più belli ed importanti della città, nel cui edifico principale è ospitata ogni capodanno la statua del Buddha Sacro. All’interno dell’edificio principale è appesa una grossa grondaia in legno che raccoglie l’acqua lustrale, e serve a bagnare il grande Buddha che vi viene esposto. Sulla destra invece, accanto all’entrata, è rappresentato il paradiso. Tra i numerosi affreschi, esterni ed interni, spicca però su tutti quello che viene definito “L’albero dell’illuminazione”; anche se alcuni preferiscono definirlo del “risvegliato”, in quanto Gutama Siddharta stesso si definì in questo modo. Le parole che seguono a rievocare la scena sono una breve estrapolazione dei testi sacri della scuola theravedica: «Il bramino Dona vide il Buddha seduto sotto un albero e fu tanto colpito dall’aura consapevole e serena che emanava, nonché dallo splendore del suo aspetto, che gli chiese: – Sei per caso un dio? – No, brāhmana, non sono un dio.
– Allora sei un angelo? – No davvero, brāhmana.
– Allora sei uno spirito? – No, non sono uno spirito.
– E allora, che cosa sei? – Io sono sveglio.» (Tratto dall’ Anguttara Nikāya)
Le bellezze del Wat tuttavia non si fermano qui. Costruito intorno al 1560 d.C. Ha subito anche di recente variazioni ed arricchimenti. Nel cinquantasette del novecento infatti, per festeggiare i duemila-cinquecento anni dalla nascita del Buddha, la “Cappella Rossa”, che si trova vicina al perimetro esterno sul lato del Mekong, è stata decorata con vetri ricoperti da mosaici in stile giapponese e da affreschi in foglia dorata realizzati dall’accademia delle belle arti di Louang Prabang. Dietro la pagoda infine, una cappella conserva il grosso carro funebre reale, con tanto di teste di drago, che fu costruito ed utilizzato in onore del Re Sisavang Vong morto nel 1959.
È già passato mezzogiorno ed il sole che si è fatto alto in cielo arroventa l’aria. Decidiamo di aggregarci ad una gita semi organizzata che parte dalla via principale e porta alle cascate di Tad Kouang Si. Le cascate distano circa una trentina di chilometri dalla città in direzione sud-ovest, e per raggiungerle si impiega circa un’ora. Sul cassone del piccolo tuk-tuk siamo in otto. Tra di noi c’è una coppia di tedeschi che racconta di essere in viaggio da quasi sei mesi, dopo aver attraversato nell’ordine: Argentina, Bolivia, Perù, Brasile, e Australia, e sta ora percorrendo l’Indocina prima di fare ritorno a casa…E pensare che a volte mi sento dare del pazzo per il modo che ho di viaggiare e di scegliere le mete dei miei viaggi! Il tragitto verso le cascate è relativamente interessante. Lungo il percorso attraversiamo pendii ricoperti da fitte foreste pluviali, sparute risaie a terrazza completamente secche, e piccoli villaggi di case in legno a palafitta; mi chiedo se quella delle palafitte sia un’esigenza dovuta alla stagione monsonica, oppure ad evitare il contatto con animali pericolosi. Giunti in una grande piazzola circondata da negozianti e ristoratori posti a semicerchio, capiamo di essere arrivati.
Louang Prabang – Laos – 18 gennaio 2008 “Il sentiero si snoda nella foresta umida e ricca d’insetti, e costeggiando piccoli salti d’acqua giunge fino ai piedi della grande cascata che cade nel vuoto da un’altezza ragguardevole. Sulla destra della cascata un piccolo e ripido sentiero risale fino alla cima attraversando la foresta; qui lo scroscio dell’acqua si mescola al canto degli uccelli e al rumore dei passi pesanti che ci lasciamo alle spalle risalendo a fatica i gradini scavati nella nuda terra. Il caldo e l’umidità sono notevoli nonostante si tratti della stagione secca, la fronte è perlata di sudore, e giù in fondo tra gli alberi risuonano le voci di chi non è salito fin quassù.” (Tratto dal taccuino di viaggio) Il complesso del parco ospita, tra le altre cose, un ricovero per animali che sono stati strappati al commercio illegale. In grandi gabbie vengono allevati in cattività alcuni esemplari di orso e una tigre, che strappati appena nati dalle mani dei contrabbandieri, ora per vivere dipendono totalmente dall’aiuto dell’uomo.
Il tragitto di ritorno è un viaggio mistico tra il paesaggio che scivola via e i racconti dei tedeschi giramondo. Giungiamo a Louang Prabang quando il sole è basso all’orizzonte e sta colorando le montagne con i colori della sera. Sono le sei del pomeriggio e la città si è già trasformata in un animato mercato all’aperto, ma noi però decidiamo di salire al Monte Phousi. La piccola collina di circa ottanta metri d’altezza è posizionata tra la via Sisavang Vong e via Poushi, circa all’inizio della penisola formata dall’incontro tra il Mekong e il Nam Khan. Un tempo questa collina era interamente ricoperta da templi, ora ne restano soltanto cinque; un numero comunque decisamente alto rispetto alle sue dimensioni. Saliamo faticosamente i trecentoventotto gradini che conducono alla vetta, sulla quale ci attendono un tempio e un grande stupa sormontato da una freccia dorata che dominano la città. Durante la nostra risalita incrociamo un mare di persone che discende la scalinata, e la mia speranza che quello del tramonto sul Phousi fosse un momento magico e mistico si scontra con la realtà del fiume umano che scende a valle. Qualcuno ride e ci farfuglia in inglese che siamo in ritardo, il sole infatti è già scomparso dietro ai colli, ma in realtà a noi non dispiace per niente che questo mare di persone se ne stia andando da un’altra parte. Giunti in vetta la vista è magnifica e la maggior parte dei turisti si accalca ad ovest, per fotografare le ultime sfumature di arancio e indaco che colorano un cielo limpido e senza nubi. Mi giro a trecentosessanta gradi in cerca di qualcosa che meriti più di altro di essere osservato o fotografato, e soprattutto per uscire dalla morsa delle ancora numerose persone; ad est, la valle del Nam Khan si apre rigogliosa e verde tra la sottile foschia, dove un grande tempio dorato risplende in lontananza e il fiume dalle acque chiare percorre gli ultimi metri della sua vita prima di confluire con le acque limacciose del Mekong. Volgendo lo sguardo ad ovest invece, le irte e buie montagne in penombra frenano la corsa del fiume marrone che scorre stretto tra le sue sponde; purtroppo c’è solo l’alta cima di qualche albero ad impedirci, volgendo lo sguardo a nord, di scorgere il momento della fusione tra le due anime dei fiumi.
Rendiamo omaggio, con fiori e incenso, alle statue del Buddha che dall’alto scrutano e proteggono la città. Per quanto in molti casi abbia assunto una vera propria forma di adorazione religiosa, in realtà il rituale dell’ingresso a piedi scalzi nei templi, del dono floreale, e dell’incenso, trova significato esclusivamente nella preparazione all’atto meditatorio. La statua del Buddha serve infatti a ricordare colui che ha indicato la via, e da alcuni grandi maestri l’immagine fu addirittura sostituita da un filo d’erba che rappresentava in sè stesso la perfezione dell’universo. Il fiore fresco ha invece il compito di omaggiare l’impegno, la pratica meditativa, e la vita. L’incenso infine è la parte spirituale di noi, il nostro contatto mentale con l’universo e simbolo della mente risvegliata.
Usciti dalla pace del piccolo tempio discendiamo la collina dall’altra via, quella che viene anche chiamata “La vie delle orme di Buddha”. Su questo lato si trovano tre dei cinque templi rimasti, una piccola grotta dove si dice il Buddha rimase in meditazione, e alcune impronte nella roccia che vengono attribuite a lui stesso. Le scalinate su questo lato sono per lo più deserte e l’atmosfera emana un’aura estremamente diversa da quella delle chiassose scalinate dalle quali siamo saliti. Louang Prabang – Laos – 18 gennaio 2008 “Scendendo le scale, su di una piccola terrazza, ho la visione d’insieme del buddismo più completa e pacifica che potessi desiderare. L’obbiettivo della mia macchina fotografica cattura quello che per me rappresenta l’istante eterno della quiete: un monaco bambino avvolto nella sua Kesa arancio, e mascherato dalla penombra della sera, scruta dall’alto del Monte Phousi l’orizzonte; un orizzonte fatto da verdi vallate cesellate di templi e dalla lingua di un fiume argentato. C’è un universo intero in quell’immagine del fiume giunto alla fine del suo percorso e del bambino all’inizio della via del risveglio che si scrutano muti mentre cala la sera.” (Tratto dal taccuino di viaggio) L’ultima lunga e diritta rampa di scale ci getta di nuovo nella chiassosa e animata Sisavang Vong. Evitando i locali che espongono soltanto prezzi in dollari ceniamo in uno dei tanti ristoranti sulla riva del Mekong che, silenzioso e rischiarato dalla luce di qualche barca, scorre lento sotto di noi. Se devo essere sincero per quello che ho visto fino ad ora questo Paese non mi sembra per nulla comunista, per lo meno non rappresenta l’immagine che ho della Cina di Mao, oppure che ho avuto della Cuba castrista. Nonostante le nostre giornate corrano via veloci, il Laos sta avendo la proprietà di aiutarci a rallentare i ritmi, in fondo è solo una settimana che abbiamo lasciato il nostro mondo occidentale e metabolizzare l’oriente, che fino ad ora ci era totalmente sconosciuto, non è ancora così facile come potrebbe sembrare.
8.
Ci risvegliamo quando fuori è ancora notte inoltrata per assistere alla scena struggente della questua mattutina. Nella filosofia del Buddismo Theravada il momento dell’elemosina mattutina assume il ruolo di un vero e proprio rito, e non solo quindi di mezzo di sostentamento per monaci e aspiranti monaci. Ogni mattina all’alba avvolti nelle loro tuniche arancio, ocra o zafferano, i religiosi percorrono silenziosi le vie adiacenti i loro templi in cerca di cibo, che dovranno poi consumare prima che il sole raggiunga lo Zenith; quello sarà il loro unico pasto della giornata. Non sono nemmeno le sei del mattino e la via principale è gremita di persone che, a seconda del proprio credo, partecipa alla cerimonia oppure rimane in disparte ad assistere silenziosa. Quello che in realtà disturba l’atmosfera, infastidendo più di ogni altra cosa, non è la presenza o l’elevato numero di turisti pronti ad immortalare l’attimo con flash e macchine fotografiche, è piuttosto la fastidiosa persecuzione a cui numerose donne laotiane danno vita con il mercato del cibo da donare ai monaci.
Louang Prabang – Laos – 19 gennaio 2008 “Appena la luce rischiara il cielo, ad est, in lontananza appaiono lunghe file di monaci scalzi e silenziosi, che con la ciotola per la questua appesa al collo e lo sguardo mite, procedono in ordinata fila indiana sul marciapiede.” (Tratto dal taccuino di viaggio) La scena prosegue ad intermittenza per una buona mezz’ora. La città ingrigita dalla nebbia e dalla tenue luce dell’alba è resa vivace dalle tuniche arancio e ocra; noto come i monaci siano per la maggior parte di giovane età. Tra le numerose persone che partecipano al rito invece posso distinguere con sicurezza che per una grossa parte si tratti di turisti cinesi, giunti appositamente qui con grossi autobus. La luce in cielo aumenta di intensità e i monaci vanno diminuendo progressivamente di numero. Noi abbiamo già avuto la nostra dose di fotografie e lasciamo la postazione e il rito al suo definitivo compimento. Prima di proseguire la giornata non possiamo rinunciare alla colazione in riva al fiume, con la nebbia che trasforma il profilo dei templi e del Monte Phousi in eteree presenze misteriose; dimenticheremo a fatica questi inizi di giornata con il fiume color cioccolata, le verdi coltivazioni sull’altra riva, e i motori delle colorate imbarcazioni che gracchiano risalendo la corrente.
La foschia come ogni giorno si dissolve, lasciando il cielo libero e azzurro. Via Sisavang Vong ha ripreso la sua normale vita e del rito che si è svolto qui qualche ora fa non vi è più la benché minima traccia; noi ci lasciamo abbordare da un guidatore di tuk-tuk dai modi gentili e un inglese discreto. Non abbiamo ancora deciso che direzione prendere, vorremmo visitare la tomba di Henry Mouhot lo scienziato-viaggiatore francese morto di malaria all’età di trentacinque anni, e famoso per aver ridato alla luce le rovine di Angkor. Il nostro interlocutore ci spiega che la strada è in pessime condizioni e decisamente fuori mano, chiedendoci per il tragitto la stessa cifra necessaria a raggiungere le grotte di Pak Ou lontane tre volte tanto. Anche se a malincuore decidiamo per la seconda opzione, e quindi non ci rimane altro che tenere nella memoria l’immagine che T. Terzani dà di questo luogo in uno dei suoi libri: “La tomba è lì dove Mouhot morì, in un anfratto della collina, a una trentina di metri dal greto del Nam Khan, come se i suoi compagni l’avessero posto in alto per impedire che la corrente se lo portasse via: un tumulo di cemento con dietro, come guardiano, un grande albero e a sinistra, come uno stendardo, un altissimo, gioioso, verdissimo ciuffo di bambù.” (Un indovino mi disse – Tiziano Terzani – ed. Tea) Immagineremo così la bianca lapide di colui che ha scoperto le meraviglie di Angkor dopo secoli di abbandono, riposare in riva al Nam Khan, nella tranquillità di quell’oriente che dopo avergli tolto la vita lo ha reso immortale.
Il tuk-tuk parte in direzione delle grotte alle dieci e trenta del mattino, l’aria è ancora fresca e la strada, usciti dalla città, si snoda subito tra colline ricche di vita: motorini, carretti, abitazioni e attività varie, ci mostrano un volto del Laos che dalla barca avevamo potuto solo immaginare. Circa a metà del percorso, dopo aver attraversato un paio di fiumi, svoltiamo a sinistra su di una strada in terra battuta piena di grosse buche e la marcia si fa ora più lenta e difficoltosa. Costeggiamo il Mekong per una decina di chilometri tra i colori di quello che qui possiamo considerare l’inverno: qualche albero a foglia caduca spoglio, mescolato ai sempreverdi e alle risaie color caffèlatte. Attraversato un piccolo villaggio Hmong mettiamo finalmente piede sulla riva del Mekong. Qui piccole imbarcazioni traghettano i temerari che giungono via terra dall’altra parte del corso d’acqua, dove una ripida scalinata porta all’ingresso delle grotte. Vista dal letto del fiume la grotta inferiore di Pak Ou appare come una grossa apertura nella roccia, protetta da una bianca muratura merlata; a lato invece una lunga scala sale serpeggiando alla caverna superiore. La grotta inferiore raccoglie tutt’ora migliaia di statue del Buddha depositate qui dai fedeli, e si narra che alla fine della guerra fossero addirittura più di settemila; ora in gran parte vendute da antiquari senza scrupoli. I turisti sono numerosi, la maggior parte arrivati con le barche che fanno la spola dal molo di Louang Prabang. Tuttavia il luogo conserva ancora un misticismo da luogo sacro, e all’ingresso è ancora possibile farsi predire il futuro pescando a caso un biglietto sul quale è scritta in laotiano una specie di formula magica da cui dedurre il proprio destino. La scalinata sale poi verso la grotta superiore che racchiude una grossa statua del Buddha, raffigurato qui con una grossa pancia. Si narra che lo scultore di questa statua fosse un uomo di bell’aspetto che vista la sua avvenenza era preda di numerose donne, e non riuscendo a liberarsi dai piaceri della carne, pregò Dio di farlo diventare brutto; fu accontentato prendendo queste sembianze. I gradini che salgono alla grotta superiore sono disseminati di bambini che cercano di vendere ai turisti gabbiette in cui sono rinchiusi piccoli e graziosi uccellini; nella cultura buddista è infatti profondamente radicato il fondamento per il quale compiendo un sufficiente numero di buone azioni in questa vita si guadagni la possibilità di reincarnarsi monaco nella prossima, procedendo così verso il cammino della liberazione dalla materia.
Durante il viaggio di ritorno, lasciamo il polveroso sterrato e volgendomi indietro, verso il sottile nastro d’asfalto che si allontana alle nostre spalle tra le montagne, penso a quanto sarebbe bello ed emozionante percorrere l’intero viaggio in una maniera così rustica ed “on the road”. Arrivati in città, verso le due del pomeriggio, prima di congedarci dal nostro autista mi faccio tradurre in inglese il piccolo biglietto della fortuna preso nella grotta: “Avrai sempre buona fortuna, da ora in poi anche quelli che non ti appoggiavano e ti erano ostili diventeranno tuoi sostenitori, hai un buon lavoro e i tuoi studi sono interessanti.”. Sinceramente come primo incontro con la cultura della preveggenza asiatica mi aspettavo qualcosa di più mistico, ma viste le belle parole poteva andare di certo peggio! Messo qualcosa sotto i denti passeggiamo lungo la strada che costeggia il Nam Khan, le acque verdi e nervose lambiscono verdi orti e alte rive poi, compiendo l’ultima curva a sinistra, si gettano nel limaccioso Mekong. Per qualche decina di metri possiamo notare come i due fiumi rimangano ben divisi, di due colori, poi le grandi acque inglobano in sè il piccolo affluente che scompare definitivamente. Louang Prabang – Laos – 19 gennaio 2008 “Passeggiamo nell’aria arroventata dal sole, la zona è ricca di nuove case in costruzione e tra queste immagini di mondo nuovo e antico allo stesso modo, mi chiedo per quanto ancora Luang Prabang conserverà il suo fascino di città senza tempo. Forse però la domanda da porsi è in verità un’altra: per quanto i laotiani sapranno ancora difendere e conservare quel loro stato d’animo che li contraddistingue, e fa in modo che viaggiare attraverso il loro Paese dia l’impressione di attraversare uno stato dell’anima piuttosto che della materia?” (Tratto dal taccuino di viaggio) Questa sera facciamo nostri i ritmi del Laos e quando usciamo dalla nostra camera il sole deve ancora scomparire tra le montagne. Ci godiamo l’istante eterno del tramonto sul lungofiume: le barche sono tutte in fila lungo la riva e il sole scende rapido sulla cresta dei rilievi colorando di ambra e porpora il cielo. Il tramonto, come l’alba, è uno di quei momenti che mi piace pensare rimangano fuori dal tempo, istanti in cui la notte e il giorno si fondono e in cui per qualche istante non apparteniamo nè ad uno nè all’altro, come se fossimo sospesi magica-mente in un limbo.
Vinta la naturale diffidenza, nonché gelosia di Linda, entriamo in una sala massaggio sul lungo fiume. Anche se in Laos la prostituzione è ufficialmente punita e bandita, come in tutto l’oriente non è sempre semplice distinguere tra le sale massaggio reali e quelle dietro cui si nasconde un bordello; in molti casi infatti la differenza è praticamente nulla in quanto le ragazze così abili a rimettere in sesto il vostro corpo sono poi spesso disponibili, con un piccolo extra, a calmare anche i bollenti spiriti. Entriamo togliendoci le scarpe poi, dopo esserci vestiti dei leggeri abiti in cotone appositi, veniamo fatti salire al piano superiore di una bella casa costruita interamente in legno di teak. Il Massaggio, per tipologia, non si discosta molto da quello che abbiamo fatto a Bangkok, quello che rende l’esperienza laotiana speciale e indimenticabile e però l’atmosfera che si crea intorno al “rito” della manipolazione. Mentre la finestra spalancata lascia entrare la luce del crepuscolo, e l’aria bollente è mossa da una grossa pala al centro del soffitto, ci fanno stendere sui sottili materassi che poggiano sullo scuro e nudo legno del pavimento. La ragazza più giovane, e all’apparenza più carina, si prende cura delle articolazioni di Linda; su di me si china per la manipolazione la proprietaria, una donna che ha apparentemente superato i trentacinque anni, dai vestiti larghi e trasandati. Mi lascio andare rilassandomi tra l’alternanza di dolore e piacere provocate dal massaggio, di tanto in tanto scruto il volto della mia massaggiatrice, il suo respiro lascia trasparire un leggero affanno, mentre il viso e la fronte si fanno perlati leggermente di sudore. Le goccioline brillano alla flebile luce della finestra, dalla quale entrano anche i rumori soffocati della strada e delle persone che passano. I suoi lunghi capelli corvini in parte raccolti, scendono lungo il viso, e il suo sguardo profondo ed enigmatico, racchiuso nei suoi neri occhi orientali, incontra il mio che segue a sua volta come ipnotizzato i lineamenti dolci del volto. Mi accorgo di quanta bellezza si possa nascondere dietro ai modi e alle gesta di una donna, che ad un primo banale sguardo ne è apparentemente priva, e ho l’impressione di comprendere per un breve istante il motivo per cui innumerevoli uomini perdono la testa per il fascino orientale. Il massaggio si conclude, e prima di andarcene ci viene offerto un purificante tè verde. Salutiamo tra inchini di rito e profondi ed immancabili sorrisi e usciamo nel buio che nel frattempo ha avvolto il mondo esterno.
È l’ultima cena a Louang Prabang e ci concediamo una grossa bistecca servita su di un piatto rovente, mentre per concludere assaggiamo il dolce tipico: riso glutinoso al cocco e gelato.
Domani ci aspetta una giornata intensa durante la quale attraverseremo il Paese via terra, lasceremo le rive del Mekong che ci hanno accompagnato fino ad ora, per ritrovarle giungendo nell’attuale capitale del paese, Vientiane.
Brano tratto dal mio libro: “Orme – sui sentieri del mondo” http://immaginapensierieparole.Blogspot.Com http://ormelibere.Blogspot.Com