Appunti pilipini
Sorvoliamo il mar Adriatico, il mar Nero, il monte Elbrus, ma da prima del Caspio in poi non vedo più niente perché mi addormento perdutamente e quando mi sveglio è già buio. Il breve volo da Hong Kong a Manila mi viene addirittura anticipato e lo trascorro in quel sonno profondo tipico dell’alta quota da cui mi sveglia la mia vicina che, all’apparire dei primi lembi delle sue isole natìe, inizia a piangere dalla commozione. Io vorrei farla sedere al mio posto-finestrino ma non si può perché è già accesa la cintura di sicurezza luminosa che segnala la fase di atterraggio, così lei mi racconta che quando si è trasferita in Italia ha dovuto abbandonare la sua figlioletta di soli tre mesi con il marito e oggi fa ritorno a casa dopo ben cinque anni di assenza. Entrambi dovrebbero essere là ad accoglierla, come cerca di accertarsi digitando qualcosa sul cellulare, anche se io penso che, secondo le più elementari norme di sicurezza, in volo dovrebbe tenerlo spento.
Giunta all’aeroporto internazionale di Manila, esco fuori a fumarmi una sigaretta nell’aria satura di umidità e mi metto a conversare con un tassista della differenza tra taxi metered (che costa meno perché lo dividi con altri passeggeri) e taxi normale. Poi lui mi interrompe delicatamente per informarmi che se non esco dall’aeroporto il mio moroso non potrò in alcun modo incontrarlo e mi spiega che devo uscire seguendo le indicazioni dell’iniziale del cognome. In effetti noto che le uscite sono due, come in certi corsi universitari: A-L da un lato ed M-Z dall’altro. Seguendo ligiamente l’incanalamento contrassegnato dalle lettere M-Z mi rendo conto che in strada esistono presumibili 26 spazi simili a quei box auto presenti al piano interrato degli ipermercati, con i pilastrini di cemento pieni di segni di carrozzerie di auto che hanno sbagliato manovra, dove i passeggeri appena sbarcati si sistemano in attesa di essere riconosciuti dai loro parenti venuti a prenderli. Ho pensato poi che molti non tornano a casa da molti anni e magari sono cambiati d’aspetto e infatti ho visto alcuni parenti che si chiedevano se il passeggero posizionato dentro il box con la lettera R fosse davvero il loro parente appena arrivato. Dopo essere rimasta alcuni minuti impalata ad osservare questi movimenti, tra sgommate, clacson e continui quanto inutili fischi dei vigili, decido di lasciarmi alle spalle questo inusuale mercato dei parenti pensando che a noi tutta sta storia dei cognomi non ci può essere di nessuna utilità poiché il mio moroso è più alto di minimo venti centimetri rispetto a tutti gli altri parenti e inoltre noi non ci vediamo da sole tre settimane e non credo di essere cambiata tantissimo. E infatti dopo pochi minuti lo vedo che sovrasta di tutta la testa la folla che lo circonda, come se fosse Biancaneve nel paese dei sette nani. Lui invece non si accorge proprio di me, in quanto sono pilippina-size (come mi definirà un simpatico signore di nome Fernando qualche giorno dopo).
Mentre tutti i passeggeri insieme ai loro relativi parenti vanno a festeggiare la santa festività a casa propria, noi andiamo a mangiare in un ristorante indiano, che tanto a loro del Natale non interessa un tubo. Manila City, una delle città più caotiche e congestionate del pianeta, oggi è assurdamente tranquilla e silenziosa, così passeggiamo negli ampi viali deserti e poi ci rinfreschiamo dal gran caldo umido bevendo una coca in un baretto, dove ho modo di conoscere un gruppo di personaggi che stazionano in un bugigattolo adornato di poster dell’Ultima cena di Leonardo in chiave hippy e vari altri soprammobili di tematica religiosa. Sono molto allegri mentre ascoltano diverse canzoni molto romantiche, non so se per elevato consumo alcolico o di natura, e per la sera ci invitano alla cena nella quale festeggeranno la nascita di Gesù Cristo e infatti a fianco hanno allestito un sontuoso presepe gigante di cartapesta.
Queste Filippine sono un arcipelago di circa settemila isole – di cui solo duemila abitate – che spunta fuori dall’Oceano Pacifico proprio sotto la Cina. In questo mio breve viaggio, che mi ha visto razzolare nella regione delle Central Visayas, ne ho calpestate soltanto sette: quattro delle maggiori (Luzon, Cebu, Bohol e Negros), tre piccine (Panglao, Siquijor e Mactan) e purtroppo nessuna disabitata. La prima è la più facile: a Luzon sorge Manila con il suo aeroporto dedicato a Ninoy Aquin, il capo dell’opposizione a Marcos ucciso in un attentato voluto dal regime. La seconda, Cebu, la sto per raggiungere con un volo pomeridiano acquistato su Internet.
In attesa dell’imbarco entro nel pulitissimo bagno dell’aeroporto dove mi confronto con queste curatissime filippine che non fanno altro che spazzolarsi i capelli lisci e lucidi e specchiarsi con molta attenzione per verificare se tutti gli abiti e gli accessori sono perfetti, mentre io sono proprio un cesso dopo un autunno lavorativo tristissimo e un volo intercontinentale nel quale, a causa dello sfasamento di orario, non ho dormito a sufficienza. D’altra parte, anche i maschi, nonostante il loro fisico non sia propriamente da macho, ci tengono molto al loro aspetto e ad esempio molti di loro hanno le unghie smaltate.
Giungiamo a Cebu Airport che è già buio (il sole cala prima delle 18) e chiediamo informazioni sulle accomodation alla signora del desk apposito, la quale ci fa capire che l’isola di Mactan, su cui fisicamente l’aeroporto è situato, non fa assolutamente al caso nostro, in quanto è un covo di prestigiosi resort, lussuosi centri diving e spa da sogno molto poco filippini. Così prendiamo una stanza in una losca pensione di Cebu City, la seconda città più grande del Paese, nota per i suoi sofisticati night e bar dove volendo puoi conoscere una sfaccendata ragazza filippina e proporle di passare una settimana di vacanza al mare con te, che è una cosa che fanno numerosissimi turisti maschi.
A tutti quelli che durante il viaggio ci chiedevano che piani avessimo, noi rispondevamo che non ne avevamo, perché in effetti non avevamo mai fatto programmi. Così al mattino ci facciamo condurre al porto con l’intenzione di raggiungere una qualche isola dotata di spiagge bianche e palme diagonali. Secondo il tabulato degli orari e il parere personale di alcuni personaggi interpellati sul posto (tra cui una coppia di missionari francescani di lingua spagnola), la meta più indicata era l’isola di Bohol, e in particolare la località di Panglao, anch’essa una piccola isola, collegata da due ponti alla città dove il traghetto sarebbe approdato. In realtà c’erano altri turisti bianchi che attendevano di imbarcarsi per recarsi nella stessa isoletta, anche se loro avevano la Lonely Planet e avevano già sottolineato gli eventuali hotel dove alloggiare, mentre noi la guida non ce l’avevamo. Questi turisti francesi, inglesi, tedeschi, neozelandesi, sicuramente sono riusciti prima di noi ad accaparrarsi un posto per dormire, mentre noi mangiavamo spiedini di pollo alla brace, poi passeggiavamo guardandoci intorno e scherzando con i ragazzini, poi davamo un’occhiata al mercato, poi ci facevamo trasportare da un guidatore di triciclo poco operativo in una spiaggia che nemmeno noi conoscevamo. Fino a che, quando ormai stavano per calare le tenebre, ci ha dato un passaggio non richiesto un filippino sovrappeso americanizzato che aveva affittato un pulmino privato e che ci ha offerto con molta prodigalità qualcosa di fresco da bere dal loro frigo bar portatile, mentre si sbaciucchiava con la sua fidanzata. Il finto californiano ci ha risolto il problema di dove andare perché ci ha fatto scendere nei pressi di Alona Beach, la spiaggia più rinomata. L’atmosfera era molto vacanziera e spensierata mentre partecipavamo all’happy hour di questo locale sulla spiaggia con le lucine e le cameriere sorridenti. Il contesto era molto invitante, considerata anche la presenza di un arpista molto bravo che suonava i pezzi dei Bonjovi, ma purtroppo dovevamo andare a cercare una camera, cosa che poi è risultata abbastanza agevole una volta allontanatici dalla spiaggia, perché abbiamo trovato un bellissimo cottage situato in un ampio giardino. Per la cena sulla spiaggia erano allestiti buffet di pesce ancora crudo che su ordinazione veniva grigliato. A dire il vero il pesce non era molto economico e i giorni successivi ho avuto la conferma che, nonostante l’insularità dei posti, i prodotti del mare non sono molto usati nella cucina filippina e al massimo si trovano (non a buon mercato) nei locali turistici. Lì ad Alona Beach però lo abbiamo mangiato il pesce, scegliendo il posto meno tiroso, gestito da una specie di attrice di film di Tarantino un po’ sfiorita e dall’espressione vagamente allusiva. Anche dopo le dieci era possibile proseguire la serata in un paio di bar che proponevano musica dal vivo, anche se, ascoltando bene, ci si rendeva conto che il chitarrista e il cantante si sovrapponevano ad una base tipo karaoke di noti pezzi come Hotel California, Losing my religion, Carrie degli Europe e molti dei Guns’n’Roses, che sono molto in auge tra i filippini nonostante il fatto che essi non possiedano nemmeno un briciolo della grinta giusta per eseguirli. Grazie a queste canzoni molto passionali, i due fidanzati francesi che da Cebu City praticamente non si rivolgevano la parola potevano fare pace, ed anche la tedesca mastodontica con i capelli corti poteva trovare un partner, che si capiva era il suo obiettivo principale (e infatti lo aveva trovato subito).
A Panglao siamo rimasti tre notti, abbiamo mangiato più di una volta nel ristorante della finta attrice di Tarantino, che faceva degli ottimi noodles alle verdure, e abbiamo frequentato la spiaggia contigua, quasi vuota perché tutti erano in giro a fare diving, hopping, snorkeling ed altre attività che finiscono in -ing. Mi sono fatta fare un fantastico massaggio sulla sabbia e ho anche guardato i fondali con la maschera, che erano ricchi di stelle marine blu elettrico oppure rosa con chiazze marroni. Purtroppo il secondo giorno non ha fatto altro che piovere e questo era davvero troppo dopo che mi ero sciroppata più di tredici ore di volo. Allora il pomeriggio alle cinque ci siamo seduti al tavolo di questo minimarket-bar e abbiamo bevuto vino rosso fino a sera insieme a vari europei ed americani definitivamente trasferitisi qui nelle Filippine e poi ci siamo spostati nel ristorante locale di fronte, dove abbiamo mangiato varie parti di pollo e maiale al barbecue spalmate con una salsa dolciastra accompagnate da riso scondito e abbiamo conosciuto vari gruppi di turisti cinesi e svizzeri e anche di filippini con i loro bambini molto teneri.
Il giorno dopo abbiamo deciso di andare nell’interno dell’isola di Bohol, dove sono presenti queste famosissime Chocolate Hills, che volendo puoi votare su internet per farle entrare tra le dieci meraviglie del mondo. Certi turisti stanziali a Panglao pagano circa 30 euro per andarci con un pulmino (di cui non riesco a immaginare la portata stratosferica di aria condizionata) in una gita organizzata che comprende anche la navigazione sul fiume di Loboc e la visita ad una scimmietta minuscola con gli occhi a palla di nome tarsier, che è l’attrazione faunistica del luogo. Noi invece prima di tutto saliamo su un jeepney, che sarebbe un pulmino pubblico ricavato dalle jeep americane allungate con dei pezzi di lamiera e decorate con disegni coloratissimi un po’ lisergici e scritte inquietanti come ad esempio “God bless you”. Per scendere è previsto un raffinato sistema di pugni sulla carrozzeria, seguiti a ruota da suoni codificati emessi dal bigliettaio, il quale viaggia attaccato sul predellino posteriore con le banconote dei passeggeri infilate tra le dita nel senso della lunghezza. Di norma tutti tendono a sedersi verso l’uscita per poter saltare giù al volo, così chi entra deve superare tutti i filippini seduti, che comunque non occupano tanto spazio. Le abitudini locali contemplano inoltre che le donne portino pressato sul viso un fazzoletto che le preservi dalla polvere e dallo smog, mentre gli uomini abbiano sempre a portata di mano un più rustico straccio che serve a molteplici scopi, tra i quali asciugarsi il sudore.
Giunti a Tagbilaran saliamo su uno di quei pullman a lunga percorrenza, gialli e con tutte le finestre spalancate, dotati di sedili lillipuziani, tipici di questo paese lillipuziano dove i divani in vendita sono minuscoli, i letti degli hotel di bassa categoria sono corti, persino i tovagliolini di carta sono grandi la metà, se non un quarto, dei nostri. Anche su questo pullman il bigliettaio provvede a passare da tutti i passeggeri, districandosi nell’ammasso di corpi, per chiedergli la destinazione e dargli il biglietto; dopo un po’ fa da capo il giro per farsi pagare e infila le banconote tra le dita. Inoltre, dà manforte ai passeggeri che bussano sulla carrozzeria, con l’ausilio di un fischietto oppure urlando “Para!”, per dire fermati, e “Sige!”, per dire prosegui, praticamente in spagnolo, che è la lingua che a quanto pare più è rimasta nei loro dialetti. Su questo bus, oltre al festone natalizio dorato che augura buon Natale e buon anno nuovo, c’è un sofisticato sistema per cui quando il conducente tiene premuto il freno, si accende una scritta luminosa rossa che recita, a nome di tutti noi, “Pray for us”. Negli autobus, come d’altra parte nei bar, nei ristoranti, nei negozi, nei taxi, nei traghetti, c’è sempre la musica ad un volume altissimo e, dove è fisicamente possibile, anche un televisore che trasmette i video di MTV o chi per lui. Dopo aver attraversato una meravigliosa fittissima foresta pluviale, nei pressi delle prestigiose colline di cioccolato il bigliettaio ci fa scendere e subito siamo presi in carico da un motociclista stanziale che ci propone di accompagnarci al complex. Sugli autobus sono tutti fin troppo gentili con noi, ci riservano i posti migliori e ci danno consigli; e questo fino a un punto che rasenta il servilismo e il senso di inferiorità nei confronti degli uomini occidentali, che non è una cosa bella.
Il complex è una rotonda di cemento sormontata da una tettoia, circondata da venditrici di gelato, massaggiatori ciechi, e centro informazioni abbellito dai manifesti della scimmietta dagli occhi a palla, e accanto vi è una articolata scalinata composta di 214 gradini che porta al punto panoramico, dal quale puoi vedere tutte queste centinaia di tette senza capezzolo che sono verdi nella stagione umida e marroni al termine di quella secca. Per questo motivo sono definite Chocolate Hills e nei manifesti pubblicitari che infestano il Paese le mostrano metà verdi e metà marroni, con un ben riuscito ritocco fotografico. Al termine di questa visita, che ci ha visto entrare in acerrima competizione fotografica con i giapponesi e i coreani, una venditrice di gelati ci ha risolto il problema di abbandonare la location, dove stazionavano soltanto pulmini privati dotati di arie condizionate potentissime e schermi televisivi, mettendosi in comunicazione telefonica con un giovane parente dotato di motocicletta. Questi è venuto a prenderci, subito dopo abbiamo forato, è riuscito a procurarsi un altro scooter funzionante e ci ha depositati a Carmen, vicino ai venditori di botti di capodanno.
Per prima cosa ci facciamo un caffè con soffice torta alle banane in un gabbiotto dentro all’area del mercato, dove attacchiamo bottone con un signore di una certa età molto ansioso di scambiare pareri con noi. Saputo che cercavamo un alloggio in città, ci ha comunicato che non esistono pensioni ma che potevamo chiedere a una coppia di suoi amici se potevano affittarci una stanza. Giunti in questa villa poco distante, abbiamo fatto conoscenza con i padroni di casa, stravaccati nel patio come due cani malati: lui posizionato su una specie di lettino ginecologico di legno, lei semisdraiata su una panchetta. La vecchia, appreso che non siamo una coppia sposata, si è categoricamente rifiutata di accoglierci nella sua puritana magione e si è subito chiusa in un silenzio ricco di significato. A quanto pare le Filippine hanno preso molto seriamente i discutibili regolamenti interni della Chiesa cattolica e non possono vivere insieme se non sposati, oltre a non poter divorziare né abortire. Il nostro uomo si è dispiaciuto tantissimo per non aver potuto combinare l’affare; noi invece non ci siamo minimamente preoccupati, poiché il motociclista di prima ci aveva consigliato un lodge a pochissimi chilometri dove ci siamo fatti accompagnare da un triciclo.
Qui sembrava di stare a casa, con la sciura tale e quale alla mamma del moroso che ci ha spadellato un ricco piatto di noodles alle verdure e cucinato un paio di uova fritte per secondo. Nel lodge è in corso una movimentata festa delle medie che termina verso le dieci dopo numerosi tuffi in piscina e primi approcci sentimentali. Nella stanza accanto alla nostra invece alloggiano quattro ragazze, di cui due evidentemente lesbiche, che trascorrono l’intero pomeriggio e sera sul terrazzo a bere birra, fumare sigarette, mangiare, inviare sms dal cellulare e (le due etero) cambiarsi continuamente d’abito.
Al mercato di Carmen siamo l’attrazione del giorno, tutti si immobilizzano a guardarci con le braccia incrociate; mentre compriamo le scarpe accorrono anche dai banchi lontani a guardare lo spettacolo. Inoltre acquistiamo dei dvd che contengono tipo 10 o 15 film l’uno e pascoliamo nella zona del pesce secco, delle noci di cocco (svuotate da una specie di spremiagrumi elettrico gigante che trasforma il contenuto in farina), della frutta e verdura. Le persone sono molto accoglienti, vogliono sapere di dove siamo e tutti sono felici di sapere che siamo italiani e alcuni conoscono qualcuno che è andato a vivere in Italia.
Al ritorno sul bus per Tagbilaran siamo tentati di scendere nella zona del fiume Loboc e dell’orrenda scimmietta minuscola, come tutti in coro ci avevano consigliato prima della partenza del bus, ma la pioggia incessante ce lo sconsiglia. Giunti in città, dove annoto che i segnali stradali e le insegne dei negozi sono tutti in lingua inglese, facciamo un giro nel mall, dotato come al solito di aria condizionata impressionante, pieno di gente che mangia allietata dalle note stucchevoli delle canzoni di Natale. Noi ovviamente mangiamo altrove: pollo al barbecue con riso e chupsey, un misto molto appetitoso di verdure in salsa.
Partiamo per Siquijor. Dopo essere stati letteralmente divorati dalle zanzare nell’umida sala d’attesa, nel traghetto l’aria condizionata raggiunge temperature polari e i film trasmessi e da tutti seguiti con molta partecipazione, sono le solite americanate per cui il popolo filippino, del tutto succube degli americani, impazzisce. Non c’è da sorprendersi che la sera il moroso soccombe ad una febbre con nevralgia tipica da “aircon”, da cui nemmeno io qualche giorno dopo resterò immune. A Siquijor si arriva molto tardi e i tricicli attendono gli ultimi passeggeri sbarcati. Essendo il 30 dicembre dovevamo aspettarci che i resort fossero tutti “pulibuk” (come questo popolo incapace di pronunciare la F e la V usa dire che gli hotel sono occupati e insomma non c’è posto). L’obiettivo del guidatore di triciclo comunque come al solito è quello di portarci a nanna e in casi come questo guida anche per un’ora, per un compenso di scarsi 4 euro, tirando fuori tutte le sue risorse relazionali e le sue conoscenze. Questa volta non possiamo allontanarci troppo perché è buio pesto, dunque dobbiamo accontentarci di una Guest Haus di proprietà tedesca, economica ma di qualità, situata accanto all’ospedale, dove tutti già dormono e non possiamo nemmeno comprare dell’acqua per prendere l’aspirina.
Al mattino decidiamo di andare a collocarci in un hotel sulla spiaggia, per trascorrere in un posto più ameno il capodanno. Un ragazzo mi accompagna in moto, basta che gli pago la benzina (che vendono dentro alle bottiglie di coca-cola). In questo giro perlustrativo noto che l’isola è rigogliosa, piena di palme e gente che aggiusta tricicli o ripara le reti o fa volare aquiloni. Il primo resort è situato sulla spiaggia e dotato di un ottimo rapporto qualità-prezzo. Peccato che i vicini sono dei tagliatori di alberi di cocco, nemmeno troppo esperti con la motosega, e questo frastuono non è proprio l’ideale per ristabilirsi da un’influenza, nonostante la spiaggia bianca ricoperta di gusci di noci di cocco a pochi passi. Allora raggiungiamo la località di San Juan con un triciclo e lì passeggiamo sulla spiaggia incontrando, nell’ordine: filippino americanizzato in compagnia di maiali e fidanzata, che ci propone di prendere un affitto una palafitta a due metri dal mare circondata da numerosi, preoccupanti galli; una signora filippina, sposata con un tedesco, che ci propone di prendere in affitto una stanza su un albero; un australiano dalle movenze topolinesche che ha terminato le camere ma che ci affitta uno scooter. A questo punto, provvisti di un mezzo privato, schivando i cadaveri di rane morte sulla strada, raggiungiamo un resort sulla spiaggia in cui ci sistemano in un cottage enorme a due piani molto lussuoso e ci invitano al buffet di capodanno previsto per le otto. In effetti due giovani stanno arrostendo due maialini da latte allo spiedo lì fuori, e questa attività proseguirà per le due ore successive sotto una pioggia incessante da cui si riparano con delle enormi foglie di banano.
Il buffet è molto appetitoso, se togliamo il tipico piatto di pasta scotta condita con maionese e ananas e il misto di interiora di maiale piccante. Gli invitati sono i numerosi parenti della moglie del boss (un giovane europeo occhialuto sempre sorridente) e Sudoku, il nostro vicino di cottage, un bianco sui settant’anni, inseparabile dal suo zainetto, la cui unica occupazione quotidiana era risolvere appassionanti rompicapo sul suo giornaletto. Gli altri due cottage sono occupati da due coppie di puttaniere con filippina e non partecipano al buffet. A mezzanotte, quando i parenti maschi erano ciucchi di rum, è iniziata la gara di botti e fuochi d’artificio che abbiamo ammirato sulla spiaggia. Uscendo in strada invece la tentazione era di mettersi a strisciare sui gomiti, in quanto il fumo, gli scoppi, il buio e la vegetazione tropicale creavano un molto verosimile effetto Vietnam nelle scene di Apocalipse Now.
Il primo dell’anno facciamo un giro dell’isola in moto, constatando che tutti i negozi sono chiusi e i filippini festeggiano giocando a biliardo, o partecipando ai combattimenti di galli, che è uno dei loro passatempi preferiti, e infatti in tanti portano in braccio la loro amata bestiola, lucida e ben alimentata con mangimi energizzanti. Noi invece attraversiamo il centro dell’isola, più montagnoso, e poi sbuchiamo dall’altra parte dove ci fermiamo sulla spiaggia di Salagdoong, vicino la cittadina di Maria, frequentata da filippini che bevono birra, lanciano sassi nel mare, fanno pic-nic e mi guardano. Scopro infatti che le donne filippine fanno il bagno completamente vestite, e anzi la maggioranza non lo fa proprio il bagno. Proseguiamo a costeggiare l’isola fino ad arrivare a Lazi, dove un uomo lava un lunghissimo intestino di maiale nel mare, assistito da un ragazzo ritardato che blatera continuamente. Nei paraggi ci sono una chiesa e un convento spagnoli dell’Ottocento, a cui hanno sostituito il tetto con una orrenda lamiera bordeaux.
L’aperitivo lo facciamo da un tedesco, anche lui sposato con una filippina (anche perché se non hai un socio indigeno è vietato aprire attività). Questi è un mastodontico uomo alto più di due metri che fa una certa impressione perché mezzo polpaccio gli è stato mangiato da uno squalo, in Australia.
Per la cena torniamo dall’australiano John, sperando che non si accorga che il casco ci è rotolato giù dalla moto e si è tutto scheggiato. Qui i nostri commensali sono Alvaro Vitali (che John ci spiffera sia italiano) e signorina filippina molto molto annoiata, e poco dopo una coppia finalmente alternativa: in questo caso è lei l’europea e lui il filippino. Questo tipo di coppie sono più rare in quanto secondo me il filippino medio non è proprio il prototipo della virilità e dunque poco appetibile per le donne europee. Mentre attendiamo che ci griglino il pesce, assistiamo al video-karaoke sulla spiaggia, che è un’attività tra le più amate nel Paese: le canzoni prescelte sono sempre molto passionali e romantiche, i video che le accompagnano invece come tematiche hanno paesaggi marini pieni di palme e tramonti, culi e tette, appassionanti partite di basket.
Il 2 gennaio i traghetti riprendono il loro quotidiano andirivieni dopo la pausa festiva, e noi decidiamo di lasciare l’isola. Purtroppo il mare non è una tavola, diciamo così. I tre quarti d’ora del viaggio fino a Dumaguete sono difficili da dimenticare: intanto non c’è l’aria condizionata e siamo tutti stipati al chiuso con la porta ermeticamente chiusa, sudando copiosamente. La tragicità della situazione viene sottolineata dai primi rosari che compaiono nelle mani delle filippine in preghiera. E poi viene punteggiata da frequenti conati di vomito nelle retrovie. Io cerco di non sentire tappandomi le orecchie, di non vedere la portata delle onde dal finestrino e di non muovermi per sudare meno. Scesi finalmente sulla terraferma, tutto continua a ballare intorno a noi. Conosciamo dei toscani che ci convincono, nel rimbambimento del momento, a seguirli a Moalboal, che si trova su un’altra isola ancora raggiungibile con un traghetto di soli 20 minuti, raccontandoci che hanno saputo da fonte attendibile che da quella parte è bel tempo. Per una questione di attimi, non riusciamo a comprare il biglietto per il primo traghetto, così i toscani, più tempestivi di noi, si imbarcano credendo di vederci dopo poche ore a Moalboal. Invece accade che il traghetto successivo non riesce nemmeno ad attraccare tanto le onde sono alte e il moroso tira un sospiro di sollievo perché era di cattivo umore tutto il tempo dell’attesa, mentre io chiacchieravo con un poliziotto buffo e intraprendente che è vero che ci stava provando ma io me ne fregavo, approfittando dell’occasione per conoscere un po’ di cose del Paese. Ad esempio che lui guadagna scarsi 300 euro al mese, mentre lo stipendio medio di un insegnante assunto dallo Stato ammonta a meno di 200 euro al mese, una cifra che gli impedisce ad esempio di acquistare un’auto e ovviamente di guidarla, visto che la benzina costa mezzo euro al litro. Il poliziotto non riesce a capire la nostra preoccupazione per il mare grosso, dato che secondo lui non arriverà nessun tifone. A questo punto ci facciamo rimborsare il biglietto e mandiamo a quel paese Moalboal, la compagnia di navigazione, i poliziotti e naturalmente i toscani.
Dalla stazione dei bus partiamo per il nord dell’isola di Negros, percorrendo una strada costiera parallela alla dirimpettaia isola di Cebu, che raggiungeremo in traghetto quando le acque si saranno calmate. La scelta della località dove scendere dipende dall’orario in ci si arriva e anche, in piccola parte, dal nome. Scartato Vallehermoso, non per motivi toponomastici ma per dimensioni apparenti sulla cartina, scendiamo a La Libertad, che non è male come premessa. Scendiamo nel buio più totale e percorriamo la piazza dove volti e attività in corso sono poco visibili e dunque, con tutta probabilità, loschi. Abituata a viaggiare nei Paesi latini o, peggio, arabi, sono sempre sospettosa nei confronti dei posti nuovi e soprattutto delle persone che ti si avvicinano. Soprattutto nei Paesi del cosiddetto terzo mondo è quasi ovvio che tutti si ingegnino a colmare almeno provvisoriamente quella evidente disparità economica tendendoti dei piccoli tranelli e insomma aguzzando l’ingegno per ottenere qualcosa da te. Bene, questa cultura del sospetto nelle Filippine puoi tranquillamente metterla da parte, perché questo popolo proprio non è capace di fregarti, non ha la furbizia e il savoir-faire necessario, il massimo dell’originalità per spillarti soldi è dire che non hanno il resto! In pratica loro veramente vogliono solo aiutarti e conoscerti. Ed è ciò che accade anche qui: si avvicina un ragazzo, ci chiede cosa cerchiamo, noi di primo acchito rispondiamo seccati, ma subito cambiamo atteggiamento ricordandoci che siamo nelle Filippine e insomma il tale ci accompagna in un resort distante pochi chilometri insieme ad un amico che guida un triciclo e ad altri due o tre amici sfaccendati che si appollaiano sul mezzo. E al momento di pagarli, ci dicono: Fate voi. Ci portano in questo lodge enorme con i cottage di legno e la musica da discoteca e la piscina nella quale un ragazzo butta il cloro a mani nude. Il vento inclina le palme e alcuni poliziotti armati fino ai denti bevono birra e ridono. Si scopre che in questo resort spesso alloggiano i rappresentanti dell’ambasciata americana e per questo è richiesta la massima sicurezza. Per cena riusciamo a rimediare soltanto una coscia di pollo e del riso scondito, con un calcolo delle porzioni assolutamente filippino. Al mattino fervono i preparativi per il ricevimento di matrimonio che avrà luogo di lì ad alcune ore. La signora dell’internet cafè è curiosa di sapere tutti i pettegolezzi mentre attende con noi il bus per San Carlos e ci racconta a sua volta dei suoi figli laureati e di suo marito che vive in Florida ed ha una società, e di quella volta che andò a San Carlos per imbarcarsi per l’isola di Cebu, ma i traghetti non partirono e fu costretta a dormire in una pensione pulitissima e confortevole nella piazza principale.
Facciamo sosta a Kanlaon, località interna e più in montagna, raggiungibile attraversando una valle piena di risaie terrazzate; il panorama è molto gradevole. Beviamo il caffè più buono del viaggio insieme ai valligiani. Purtroppo non ci sono bancomat in zona dunque dobbiamo ritornare sulla costa e fermarci a dormire a San Carlos, che appare quando terminano le piantagioni di canna da zucchero lungo la strada. Questa city è molto tranquilla e la gente, come mi racconta la padrona dell’hotel, è più innocente, va a dormire presto e insomma si fa i cazzi suoi. Converso a lungo con la donna dopo cena, davanti a un tè, e lei mi racconta di questo marito australiano morto due anni fa, che è stata la più grande fortuna della sua vita: e ci credo, lui possedeva delle miniere d’oro in Papua Nuova Guinea. Poi hanno deciso di investire nella città di origine di lei, dove i suoi genitori si sono spezzati la schiena tutta una vita nelle piantagioni di canna da zucchero, e così lei si ritrova proprietaria di questo hotel, anche se le due figlie abitano a Brisbane e lei è costretta a fare avanti e dietro con l’Australia. Del resto, non è l’unica volta durante il viaggio che la titolare filippina di qualche esercizio commerciale ci svela che aveva oppure ha un marito occidentale, che ha messo il capitale. La signora ci informa che durante la giornata i traghetti per Cebu Island non hanno effettuato servizio a causa delle solite big waves che implacabili impazzavano lungo le coste di quell’isola e dunque ecco spiegato il motivo per cui le pensioni cittadine erano tutte pulibuk! Al mattino dobbiamo muoverci molto presto per non rischiare di perdere il traghetto. La notte avevo la febbre ed è stato un delirio di galli, uccelli, zoccoli di legno, stereo e sgommate. La mattina per fortuna c’era il sole che scottava mentre eravamo in coda presso la compagnia dei traghetti. Siamo riusciti a comprare un biglietto per il primo pomeriggio e intanto abbiamo ammazzato il tempo di questa domenica mattina al mall dove abbiamo fatto qualche acquisto filippino, che è un’operazione molto difficile perché c’è poco da comprare, tranne le onnipresenti infradito.
Questa traversata è perfetta, senza onde e senza vomito, a Toledo saliamo subito sul bus per Cebu City e ci stipiamo sui sedili filippini ascoltando i Bee Gees ad altissimo volume, mangiando una pannocchia bollita, che è uno dei cibi che vengono venduti sui bus insieme alle pallottole di riso bollito incartate nel cellofan e alle arachidi all’aglio. All’appressarsi della città il traffico diventa ingestibile visto che è l’ora di punta. Fuori dal terminal saliamo sul taxi scelto per noi da una signorina che in cambio si becca una moneta dal tassista. Questi è un rimbambito totale che con una lentezza esasperante ci accompagna all’isola di Mactan.
In effetti Mactan è sempre quel covo di resort poco filippini che sapevamo ma ha l’indubbia comodità che sopra ci sorge l’aeroporto e poi, penso, le vacanze di Natale sono finite (e anche le mie stanno per scadere). E infatti trovare una sistemazione non prestigiosa non è affatto facile, finché non incontriamo il Lapu Lapu cottage e il tedesco che lo gestisce. Questi ci manda dalla sua vicina che ci affitta un appartamento intero e ci racconta di suo marito (il finanziatore dell’attività, per così dire), uno scozzese morto due anni prima per un brutto male. Lapu Lapu invece sarebbe quell’eroe che ebbe ad ammazzare Magellano, il quale come tutti sanno trovò la morte nelle Filippine mentre il suo equipaggio riuscì a tornare in Europa compiendo la prima circumnavigazione del globo della storia. Il navigatore spagnolo fu ucciso proprio qui nella famosa battaglia di Mactan, come mi ha spiegato un navigatore di internet un po’ paranoico, che guardava con grande entusiasmo dei video cruenti dei terroristi islamici. In onore dell’eroe nazionale, il capoluogo dell’isola e un pesce molto prelibato sono stati chiamati Lapu Lapu.
Presso il tedesco possiamo cenare, in compagnia di diverse coppie composte da un tedesco maschio e una filippina femmina. I maschi bevono molta birra e ridono in maniera molto scenografica per far vedere che sono in vacanza e si divertono e dimostrare a tutti la sicurezza di sè che in realtà gli manca totalmente e la capacità di seduzione che hanno avuto nel conquistare quella ragazza, la quale si annoia platealmente e si vede lontano un miglio che preferirebbe di gran lunga essere altrove. L’ultima giornata prima del volo si riaprono le scuole e noi esploriamo un po’ l’isola. Anche qui i turisti sono tutti intenti a svolgere attività che terminano in -ing e le spiagge sono tutte private. È pieno di giapponesi e coreani, i quali hanno anche costruito degli orrendi alberghi di cemento sul mare, oltre a riempire l’isola di loro ristoranti, così i loro connazionali non devono sforzarsi di mangiare riso scondito e spezzatini filippini. Per fortuna conosciamo un filippino sfaccendato e anche molto esuberante e allegro, che ci fa entrare gratis in una spiaggia privata, dove vengo punta immediatamente da un riccio (che mi verrà estratto dopo diversi giorni in Italia dal mio istruttore di Acquagym), per cui mi rifiuto categoricamente di rientrare in acqua per guardare il fondale con la maschera. Infine al pomeriggio abbandoniamo la spiaggia per andare a farci un massaggio. Nel primo centro molto lussuoso scopro che lo stesso massaggio può costare 27 dollari se sei un turista occidentale e 4 se invece sei uno normale. Nel secondo centro invece i prezzi sono filippini e il massaggio molto energico.
E venne l’ultimo giorno, in cui ebbi la malaugurata idea di lavarmi i capelli di mattina, senza pensare che dovevo prendere un aereo, e che nelle sale d’attesa ci sarebbe stata un’aria condizionata spaventosa e che mi sarebbe venuta una nevralgia tremenda accompagnata da febbre alta. Tra volo interno e voli di ritorno e arrivo definitivo a casa mia mi attendevano 36 ore interminabili di dolore e bestemmie contro questa incomprensibile usanza di erogare aria condizionata assassina anche in località dove la temperatura esterna non supera i 28 gradi e addirittura 17, com’è il caso di Hong Kong.
Nel volo di ritorno in Italia, invece di viaggiare in compagnia di centinaia di filippini pimpanti, mi ritrovo con molti cachemire indossati da italiani borghesi di ritorno da località esotiche, che non fanno altro che criticare le scelte del tour operator che, ad esempio, poteva inserire il pranzo in ristorante quel giorno a Saigon. E infatti applaudono all’atterraggio.