UN VIAGGIO A CUBA – LUGLIO 2005 Cuba resta per me un luogo dell’anima, un posto dove tornare per ricordare il passato e programmare il futuro, una pausa alla convulsa e frenetica vita italiana, un momento di sosta per tirare il fiato. Ho scritto molto su Cuba e ho ambientato tante mie storie tra questa gente che adesso posso dire di capire, pure se sono italiano. Cuba è per me un tuffo nel passato, un punto e a capo, un momento di riflessione, una pausa dovuta, un mojito ghiacciato da sorseggiare con calma come faceva il vecchio Hemingway. Cuba è un panorama di palme, banani e gigantesche ceibas affacciate sul mare che si piegano sotto la forza d’un uragano tropicale. Cuba è anche i suoi problemi irrisolti che appena metto piede sull’isola diventano parte di me, non posso fare a meno di vederli. Non sono un giornalista che passa per le segrete stanze del Comandante en jefe, uno dei pochi luoghi dove va tutto bene e non manca niente, neppure il superfluo. Non sono neppure un esponente dei comunisti italiani che rende visita all’apparato del regime. Per fortuna nessuno mi dice cosa devo riferire una volta tornato in Italia. Non è un vantaggio da poco… Il primo impatto con i problemi di Cuba è all’aeroporto José Martí dell’Avana dove passo ben quattro ore alla dogana per un semplice controllo passaporti. Non ricordavo questa lunga e penosa prassi burocratica e mi sento come un pericoloso imperialista in attesa del giudizio di ammissione nell’ultimo paradiso comunista. I poliziotti della dogana sono ancora più zelanti con i cittadini cubani che tornano in patria e per loro il controllo documenti è così scrupoloso da rasentare il ridicolo. Chi nasce a Cuba non perde mai la cittadinanza di origine, salvo rinuncia esplicita, ma allora i problemi a rientrare aumentano perché Cuba non riconosce un eventuale passaporto straniero. Ne consegue che il cubano deve tenere in regola il passaporto nazionale secondo le leggi vigenti sull’isola che cambiano a ogni variare d’umore di Fidel Castro. Per ogni cubano che si presenta alla dogana si perdono almeno venti minuti tra controlli ossessivi, domande stupide e telefonate a funzionari del Ministero dell’Interno per sapere se i bolli sono in regola e se le ultime disposizioni sono state rispettate. Qualche volta per accelerare la pratica basta una mancia al poliziotto, ma purtroppo ci sono anche funzionari zelanti che credono in quello che fanno (sempre meno) e che pensano di difendere la rivoluzione dagli imperialisti di ritorno e dai vermi traditori della causa. Una cosa folle che vedo praticare nei confronti dei cubani è la selvaggia operazione di apertura del bagaglio con relativa confisca dei beni che non vengono introdotti sull’isola per uso personale. Un cubano che fa visita ai parenti non può portare regali dall’estero e l’unico modo per aggirare tale norma è di pagare alla dogana il controvalore monetario dei regali. Per un italiano la pratica d’ingresso a Cuba è più facile, ma io ho qualche timore dopo che tempo fa il Miami Herald ha pubblicato un articolo sulla mia attività letteraria riguardante Cuba. Fidel Castro non ha simpatia per chi scrive la verità sul regime e per chi gode buona stampa a Miami. In ogni caso tutto si risolve con quattro ore di coda snervante davanti allo sportello doganale. Pure io ho portato un po’ di regali per la mia famiglia cubana, ma nessuno mi apre la valigia. A Cuba la condizione di straniero è un privilegio, a parte la caccia che ti dà la polizia appena commetti un’infrazione al codice della strada. Non so dove certi giornalisti italiani vadano a prendere informazioni sui grandi miglioramenti economici a Cuba. Forse quando vengono sull’isola sono ospiti di riguardo a casa di Fidel Castro o di qualche potente funzionario del regime come Perez Roque. Forse parlano solo con i giornalisti del Granma e con i commentatori di Cubavision, addestrati a suonare la grancassa del regime. A Cuba, come dice Carlos Varela, “tutti vogliono vivere nel telegiornale”, luogo virtuale dove va tutto bene, non manca niente e soprattutto non serve denaro. Non comprendo come molti giornalisti di sinistra possano definire una feroce dittatura come l’ultimo baluardo socialista. Qui il socialismo è solo una facciata, uno specchietto per le allodole dietro cui nascondere troppe cose che non vanno. A Cuba ci sono enormi differenze sociali dettate non dai meriti personali, ma solo dal modo in cui un cubano riesce a inserirsi nei giri più o meno legali del mercato turistico. Tanto per fare un esempio facilmente verificabile, una jinetera (prostituta per turisti) e il suo chulo (protettore) sono due categorie privilegiate, così come accadeva ai tempi di Batista. Il governo ha reso quasi impossibile l’esercizio di ogni attività privata, le imposte sono elevate e devono essere pagate indipendentemente dal giro di clienti che il cubano ha nella sua paladar (ristorante familiare) o nella casa particular (albergo familiare). Oltre all’imposta fissa va pagata una sostanziosa percentuale sugli incassi. Per il cubano l’unica via percorribile resta quella della illegalità e i traffici a margine degli alberghi di Stato sono rigorosamente in nero. Trascorro quindici giorni a Cuba come ospite di due contadini di Cabañas, un paesino vicino al famoso porto di Mariel, teatro delle memorabili fughe del 1980. Mi ospitano due mulatti che vivono in una casa di legno abbastanza grande, condivisa con un buon numero di maiali, galline, mosche e zanzare. Da loro non si sta male, se ci si adatta ai disagi della campagna, c’è pure un bel patio rinfrescato da enormi piante di almendra, avocado e banani. Il padrone di casa è un pensionato che guadagna cinque dollari al mese ma si ingegna trafficando con benzina rubata, sigari trafugati dalla vicina manifattura e rum di contrabbando. Non può fare altro. Per lui l’illegalità è regola di sopravvivenza. La moglie è una mulatta enorme che ricorda Mami di Via col vento, cucina benissimo un’ottima comida criolla a base di pollo, aragoste, maiale e riso con fagioli neri. Lei è l’anima d’una paladar che sforna abbondanti colazioni al prezzo di due dollari e che per sei dollari mette in tavola una cena che prevede aragosta come piatto forte. Tutto in nero, come da regola. In campagna vengono pochi turisti e i due cubani non possono permettersi di versare imposte allo Stato. Per questo il padrone di casa ha scelto di pagare il silenzio della polizia di Cabañas che riceve una generosa mazzetta ricavata dal prezzo del mio soggiorno. “Per un’attività illegale possiamo prendere fino a dieci anni di galera. Ma come possiamo sopravvivere se non rischiamo?” commentano. A Cuba l’attività illegale più praticata è il furto nei confronti dello Stato per poi rivendere ai turisti. Rubare allo Stato – padrone di tutti i beni materiali – non è moralmente riprovevole. Lo Stato non concede niente e paga stipendi ridicoli che vanno da un minimo di cinque a un massimo di trentacinque dollari mensili. Tutti lavorano per conto dello Stato perché chi non lavora viene arrestato come antisociale, ma l’attività svolta alle dipendenze dello Stato non serve per campare in una società basata sul tenore di vita di un turista europeo. L’Avana e Santiago sono le due città più grandi dell’isola e anche le più costose, al punto che per un cubano vivere in posti così è diventato un lusso. Il governo sostiene di aver aumentato i salari, ma lo ha fatto in modo del tutto insufficiente visto che la paga minima è salita da sei a nove dollari mensili. Lo stipendio massimo di trentacinque dollari viene riscosso solo dagli addetti alla sicurezza degli alberghi e delle strutture turistiche. Medici, insegnanti, ingegneri e infermiere non superano i venti dollari, a meno che non siano destinati a progetti speciali all’estero e adesso capita spesso, visto che vanno di gran moda le spedizioni propagandistiche in Venezuela. Per questo rubare allo Stato non può essere considerato reato e adattarsi all’illegalità è regola di sopravvivenza. Un giorno decido di visitare un albergue avanero nel barrio de La Yuca e mi vengono a mente le favelas brasiliane. Il regime riunisce negli albergues tutti coloro che per i motivi più disparati rimangono privi di casa. Può essere stato un tornado ad abbattere un edificio fatiscente, ma non sono rari i casi di sfratto perché la casa può venire requisita per altri scopi. Non è vero che a Cuba non esistono gli sfratti abitativi e che tutti hanno il loro appartamento. Tutto questo è retorica di regime che spesso viene ribadita anche su certa stampa italiana. A Cuba lo Stato è padrone di tutti gli alloggi esistenti e può decidere arbitrariamente a chi assegnarli e come modificare le residenze. L’esigenza suprema è quella della rivoluzione e la libertà individuale di scelta del domicilio non interessa. Il governo non ricostruisce le case che crollano, preferisce la soluzione degli albergues che da provvisoria ben presto diventa definitiva. Il denaro che entra dal turismo viene investito solo in nuovi alberghi, ristoranti e villaggi, edificati senza regola in combutta con le più selvagge multinazionali. Il popolo non conta nell’ultimo “paradiso socialista” e i senza tetto possono vivere negli albergues come La Yuca, una sorta di grande piazzalone recintato con filo di ferro e palizzate, composto da una serie di piccoli appartamenti in cemento o in legno. Le abitazioni sono costruite a schiera, secondo la tecnica del solar, e famiglie composte da cinque o sei persone vivono in meno di venti metri quadrati. Gli albergues non possono essere definiti favelas solo perché il governo è al corrente della loro esistenza e sa chi ci vive. Al tempo stesso non si può affermare che le persone che vivono là dentro siano proprietari di una casa degna. Il governo invece sta pensando di rendere definitiva tale sistemazione e di far pagare un affitto ai residenti. Di costruire case vere e proprie nessuno ne parla, tanto il cubano che sta in un albergue è a tutti gli effetti un nullatenente, un povero emarginato dalla società che ogni giorno deve lottare con i denti per inventare pranzo e la cena. In campagna la situazione non è migliore e il vanto del regime di aver dato una casa dignitosa a tutti è una delle tante menzogne. La maggior parte dei campesinos vive in bohíos umidi e malsani, piccole case di legno con il pavimento di terra e il tetto di guano (foglie di palma) che spesso diventano ricettacolo di insetti d’ogni tipo. Nessuna di queste case possiede un bagno e i contadini si adattano con la tecnica dell’escusado all’aperto, una fossa biologica tra una palizzata di foglie di palma e canne di bambù. Fidel Castro, durante un discorso televisivo durato alcune ore, ha annunciato che con la libreta del razionamento alimentare concederà ai cubani la cioccolata in polvere, una pentola a pressione e la risiera elettrica. Tutta propaganda e demagogia. Soprattutto perché i problemi dei cubani non sono la mancanza di pentole o di cioccolata, ma una situazione economica insostenibile. A Cuba sono tornati gli apagónes (black-out energetici) come dieci anni fa e la situazione elettrica è a livello di guardia. In campagna si resta per ore senza corrente e pure nei quartieri popolari dell’Avana mancano luce, gas e acqua per intere giornate. Provate a vivere ai Tropici nel mese di luglio con quaranta gradi all’ombra e senza corrente elettrica. Congelatori che si fermano e cibo che si deteriora, ventilatori e condizionatori bloccati, caldo soffocante in ogni angolo della casa, mosche e zanzare a sciami. Tanto per complicare la situazione, quando manca l’energia elettrica di solito viene sospesa pure l’erogazione di acqua e gas. I grandi alberghi che ricevono ricchi turisti stranieri non subiscono interruzioni elettriche e neppure le case dei potenti del regime. Paga il popolo per tutti. Negli ultimi anni non è cambiata molto la situazione di televisione e stampa periodica cubana. I canali televisivi sono raddoppiati ma le cose che dicono sono sempre le stesse. Cubavision resta l’emittente principale che parla solo di politica e organizza buffe tavole rotonde che durano diverse ore e quasi sempre vedono Fidel Castro ospite d’onore. Piacerebbero a Silvio Berlusconi le mesas redondas di Cubavision, perché al confronto Porta a porta di Bruno Vespa diventa il massimo dell’informazione pluralista e indipendente. Qui parla solo Fidel, mentre un codazzo di presunti giornalisti annuisce sotto lo sguardo annoiato di un pubblico obbligato ad applaudire. Telerebelde è un’emittente più guardabile perché si occupa di sport, cinema, musica e manda in onda pure ottimi film statunitensi ed europei. I due nuovi canali culturali sono una sorta di università popolare per insegnare in forma semplice lingue straniere, scienze, storia e letteratura. Pure qui c’è tanta propaganda e dividere il grano dalla crusca non è un lavoro facile, visto che la storia della rivoluzione cubana la fa da padrone e il regime cerca il consenso. La politica resta la cosa più assurda di un sistema televisivo a base di tavole rotonde senza dibattito e prive di pluralismo, dove tutti ribadiscono per ore il medesimo concetto. Il tema preferito della mesa redonda è Bush e l’imperialismo nordamericano, ma si parla anche dell’estradizione di Posada Carriles, di Guantanamo e diritti umani violati, della guerra in Iraq e soprattutto dei cinque cubani che vengono trattati come eroi della patria per essere finiti nelle galere statunitensi con l’accusa di spionaggio internazionale. Tutto quello che può servire a nascondere i reali problemi del paese viene affrontato e sviscerato con dovizia di particolari. La stampa è ancora più ridicola. Granma, Juventud Rebelde e Trabajadores sono smilzi giornaletti che da ogni pagina trasudano propaganda. Papel para limpiarse el siete, ironizzano i cubani. E la traduzione non pare necessaria. Un giorno leggo un lungo e condivisibile articolo sulla situazione irachena e sui prigionieri di Guantanamo che vivono nell’assoluto disprezzo dei più elementari diritti umani. Fidel Castro scrive che “la violenza genera solo nuova violenza e che le grandi potenze dovrebbero cooperare per risolvere i problemi degli stati più poveri”. Tutto vero. Ma non può dirlo il capo di uno Stato che nega libertà di parola, di dissenso, di movimento e di circolazione delle idee e delle persone dentro e fuori dall’isola. Non può dirlo Fidel Castro che ha le carceri piene di giornalisti e scrittori, colpevoli solo di essere in disaccordo con la rivoluzione. Non può farsi portavoce di libertà e garantismo chi riempie le galere di prigionieri politici e li tratta senza alcun rispetto per le regole umanitarie. Durante il mio soggiorno cerco di parlare con persone di età ed estrazione sociale diversa, ma da tutti ricevo le stesse risposte sulla situazione economica e sociale. Per i cubani la vita è impossibile, si vive solo per mangiare, se si comprano i prodotti alimentari non resta denaro per vestire, i generi di conforto sono impossibili da ottenere, non c’è futuro per i figli e recuperare il minimo indispensabile per sopravvivere è un’impresa disperata. Riporto alcune opinioni omettendo i nomi per un minimo di sicurezza, che conoscendo i metodi della polizia cubana non pare eccessiva. Un ragazzo di ventitrè anni impiegato nei servizi di sicurezza dice: “Sono un privilegiato perché guadagno trentacinque dollari al mese che comunque servono a poco. Il cibo è molto caro, le bevande pure e il salario non basta neppure per mangiare, di vestire invece non se ne parla proprio, vado avanti con le uniformi che ci passa il ministero. Per fortuna che recupero altri cinquanta dollari al mese rubando dal magazzino le merende confezionate e rivendendole per strada a un dollaro l’una. Se mi beccano rischio dieci anni di galera, ma devo pur vivere e se fossi pagato il giusto non lo farei. Io sono un gran lavoratore, uno che non si risparmia e che è sempre disponibile, però vorrei vedere i frutti del mio lavoro invece di essere costretto a rubare per sopravvivere. Mi accorgo che a soli ventitrè anni ragiono come un vecchio, ma non c’è futuro in questo paese e quando non si ha fiducia nel domani si invecchia presto. Oggi ho avuto un incidente con un auto e ho danneggiato la bicicletta in modo irreparabile. Non so davvero come farò a comprarne una nuova per andare a lavorare”. Un pensionato di sessantacinque anni che vive in un albergue fa un discorso simile. Lui ha vissuto la rivoluzione sin dalla prima ora. “Il problema più grave è il costo della vita, perché ai tempi del blocco socialista si trovavano generi alimentari a basso costo. Adesso invece non esistono più prezzi politici e tutto deve essere comprato in pesos convertibili. Pochi prodotti vengono concessi con la tessera del razionamento, ma con una libbra di riso, quattro uova, un pugno di fagioli e un po’ di caffé non si sopravvive”. Il pensionato parla di pesos convertibili definendoli con il buffo appellativo di chavitos, una finta moneta che i cubani hanno così ribattezzato storpiando il nome del presidente venezuelano Chavez. Il peso convertibile è parificato al dollaro (vale poco più di un euro) ed è entrato in vigore quando sono cominciati gli accordi bilaterali tra Cuba e Venezuela. A Cuba la fantasia popolare non ha limiti. Un contadino di Cabañas confida: “Oggi la situazione è molto dura, forse come ai tempi del primo periodo speciale (1990 – 93, nda). Solo che allora non si trovava roba da mangiare e non c’era denaro, oggi si trova di tutto ma a prezzi altissimi, fuori dalla nostra portata”. Il mio padrone di casa aggiunge: “Io e mia moglie affittiamo una camera per dieci dollari al giorno ai pochi turisti che si spingono in campagna. Abbiamo due camere e quando ci sono gli stranieri dormiamo insieme sopra un divano. Arrotondiamo vendendo benzina, sigari e rum di contrabbando. Con i miei cinque dollari di pensione al mese andrei poco lontano…”.
La moglie si raccomanda: “Quando torni in Italia fai pubblicità alla casa e manda i tuoi amici che saranno accolti bene”. Rispondo di sì ma lo so che non sarà facile convincere un italiano a passare una vacanza a Cabañas, tra maiali vaganti, capre, mucche al pascolo, galline, mosche e zanzare. Vista la situazione mi propongo di lasciare meno denaro possibile allo Stato, vero padrone-ladrone, e di comprare ciò che mi serve direttamente dai cubani. A Cuba per strada trovi di tutto: rum, sigari, benzina, roba da mangiare e la lista potrebbe continuare. Io risparmio parecchi chavitos e loro qualcosa risolvono. Compro una scatola di sigari per appena trenta pesos, pure se lo so che sono rubati e che in Italia questo si chiama contrabbando. A Cuba è un’attività illecita necessaria.
Un trafficante di sigari mi spiega come fa uscire la merce dalla fabbrica. “Io lavoro in una manifattura e ogni giorno indosso un lycra aderente sotto i pantaloni da lavoro. Quello è il mio sacco da riempire. Appena posso infilo qualche sigaro nel pantaloncino e li porto con me, tanto so che i sorveglianti perquisiscono solo tasche e borsa. Non basta rubare i sigari, devo prendere anche il sigillo di Stato, la garanzia e i pezzi di legno o cartone per comporre la cassettina. Si tratta di un lavoro molto rischioso e tutto si semplifica solo se un addetto alla sorveglianza fa parte della banda”. Se questa è la situazione va da sé che mi sento in colpa ogni volta che sono obbligato a comprare un oggetto in un negozio di Stato. Qui la morale si capovolge, perché so che il denaro incassato dallo Stato non ricade neppure in minima percentuale sulla gente e non serve a risolvere i problemi quotidiani. E allora mi presto al gioco del mercato clandestino, una delle poche forme di sopravvivenza. Mangio in paladares illegali, dormo in una casa non registrata, compro sigari e rum di contrabbando, faccio incetta di libri usati per le case dei cubani. Dare una mano al popolo senza aiutare chi li governa diventa un punto d’onore per tutta la durata del mio soggiorno cubano. Il governo cubano, pur dispotico e totalitario, presta grande attenzione alla sicurezza del popolo, anche se non comprendo perché non lo mette in condizioni di risolvere il problema alimentare. Mi trovo a Cuba mentre passa l’uragano Dennis e investe in pieno la più grande delle Antille. Il ciclone entra dalla provincia del Granma, passa da Cienfuegos e prosegue per Matanzas, investendo buona parte della provincia. Fidel si presenta subito in televisione per coordinare in diretta, con il solito paternalismo da caudillo, il sistema di difesa civica. Cuba è preparata ad affrontare gli uragani e le zone a rischio vengono prontamente evacuate, anche se sono inevitabili ingenti danni nella Penisola di Zapata, a Cienfuegos, Matanzas, Varadero e nella provincia di Ciudad Avana. Il mare si solleva per oltre quattro metri e provoca allagamenti nelle zone costiere. All’Avana vengono evacuate intere zone del Malecón e di Playa, quartieri a ridosso dell’oceano, mentre i preziosi turisti sono portati via da Cayo Largo e da Varadero. La macchina di sicurezza pare efficace anche se non può evitare la morte di venti persone. A Cabañas vivo due giorni d’ansia che trascorro chiuso in casa a scrivere appunti e ad attendere un tornado come fosse Godot. Nessuno sa della mia presenza tra mucche, maiali e zanzare e non possono evacuarmi. Il mio visto d’ingresso recita l’enorme bugia che alloggio all’Hotel Riviera dell’Avana. In ogni caso non accade niente, vedo solo tanta pioggia tropicale che inonda le campagne del golfo di Mariel, accompagnata da vento forte e da arbusti che cadono sotto intense raffiche. Il vero disagio lo provoca un apagón elettrico di oltre dodici ore che mi fa passare un’infuocata notte tropicale senza il conforto di un ventilatore, sotto l’assedio di mosche e zanzare. Il risveglio dopo il passaggio dell’uragano ricorda le nostre piovose giornate d’autunno. Cielo grigio coperto da nubi opprimenti, pioggia insistente e vento che scuote altissime palme e indifesi banani. L’almendra del patio mostra enormi foglie bagnate mentre auras maligni allargano le ali al riparo delle fronde. Dennis non ha fatto danni nei campi coltivati di Cabañas, però ha lasciato alle spalle uno strascico di tormenta tropicale e un cielo in tempesta. Il gallo canta al mattino con la stessa intensità di ogni giorno e pare confermare la novella per bambini che a Cuba tutti conoscono. Non è un giorno come gli altri, però. All’Avana si parla di danni ingenti per via della pioggia incessante e delle inondazioni sul Malecón. Si pensa già a ricostruire, come se in questo paese non ci fossero abbastanza problemi. Fidel Castro parla a più riprese dagli schermi televisivi e definisce Dennis un huracán mercenario perché è entrato a Cuba da Playa Giron, luogo del famoso sbarco dei mercenari che volevano arrivare all’Avana. In un impeto di retorica nazionalista il Comandante en jefe dice che l’uragano farà la stessa fine dei mercenari perché “la rivoluzione non si arresta di fronte a niente”. Il giorno dopo leggo sul Granma che il leader maximo ha rifiutato sdegnosamente gli aiuti umanitari offerti da Stati Uniti e Unione Europea. Un cubano che legge il giornale insieme a me commenta: “Tanto mica è lui a soffrire la fame…”. Il Granma del 12 luglio titola in rosso: Mas solida y fuerte la Revolución. Non è una barzelletta. Questa rivoluzione infinita che da tempo ha perduto ogni ragion d’essere è forte solo sulle colonne del Granma e nelle tavole rotonde di Cubavision. E balle simili possono convincere solo giornalisti ciechi che vivono a stretto contatto con il potere invece che in mezzo alla gente. Per strada i cubani raccontano una divertente barzelletta che ironizza sui rapporti Cuba – Venezuela e su due grandi personaggi della storia di questi due popoli, Simon Bolivár e José Martí. “Cosa sta facendo Chávez?” “Bolivarizza il popolo venezuelano!” “E Fidel Castro?” “Martirizza il popolo cubano!” Mercoledì 13 luglio accade un fatto che ritenevo impossibile. All’Avana un centinaio di persone vestite di nero scendono da San Miguel del Padrón in direzione del Malecón brandendo cartelli di protesta. È l’anniversario dell’affondamento di una barca a motore diretta a Miami che portava a bordo molti giovani e alcuni bambini. La manifestazione è organizzata dai familiari delle vittime e dai dissidenti cubani. Il corteo scandisce slogan contro Fidel e contro il regime. La polizia non sa fare di meglio che manganellare ferocemente e i dimostranti rispondono con lanci di pietre. Il regime corre subito ai ripari con le armi della menzogna, organizza un finto corteo di lavoratori obbligato a marciare contro i dimostranti e in difesa della rivoluzione. Televisione e stampa non raccontano l’accaduto, ma il passaparola tra cubani è fortissimo, anche perché la televisione di Miami mostra le immagini della rivolta e diffonde la notizia. A Cuba possedere un’antenna satellitare è un reato ma molti sfidano la legge e la installano, soprattutto chi ha parenti in Florida che finanziano l’acquisto. “Non venire all’Avana” mi dice un amico. “L’Avana è in rivolta” commenta un altro. Pare che alla protesta dei dissidenti si sia unito il malumore popolare per i continui apagónes elettrici e per la mancanza di gas e acqua. A Cuba il malcontento si tocca con mano, è sensazione palpabile a ogni angolo di strada. Compaiono cartelli irridenti che disegnano Fidel con baffetti stile Hitler, un altro raffigura il Comandante con una pentola a mo’ di cappello e un tappo sul sedere. Sotto c’è scritto: “Dov’è la pentola, Fidel? Dov’è la corrente? E il cioccolato?”. Sfatiamo i soliti luoghi comuni che dipingono Cuba come un posto dove sanità e istruzione sono ai massimi livelli. La scuola insegna soprattutto obbedienza al regime e retorica da Stato dittatoriale, mentre i libri sui quali studiano i ragazzi ricordano i testi approvati dal Minculpop di fascista memoria. In campo letterario è il governo che sceglie gli autori da far leggere e guai se un professore cita in classe l’esistenza di scrittori come Reinaldo Arenas, Cabrera Infante e Pedro Juan Gutiérrez. La sanità è ottima solo per gli stranieri come Maradona che si curano al Cira García. Medici valenti vengono esportati in Venezuela e curano delicate malattie in lussuose cliniche internazionali. Ma provate a entrare in un ospedale per la povera gente e vi accorgerete che è sporco, privo di ogni requisito di igiene, le stanze sono caldissime, umide e male arredate. Non solo. Le corsie con i malati sono prive di aria condizionata e se un degente vuole un ventilatore se lo deve portare da casa. Per non parlare delle medicine e delle attrezzature mediche che sono inesistenti. Fidel Castro colpevolizza gli Stati Uniti e il loro criminale embargo per tutte le mancanze di cui soffre Cuba, ma in realtà quella misura odiosa e inaccettabile è forse il suo alleato più forte. L’embargo è la scusa che ogni giorno viene messa davanti al popolo cubano per convincerlo a fare sacrifici, pure se adesso tutti hanno capito che il solo colpevole è il regime e la sua fallimentare politica economica. E poi – embargo o non embargo – dove vanno a finire i miliardi di dollari che ogni anno Cuba incassa dal turismo? Non certo in operazioni sociali. Il popolo cubano è stanco di lottare per una rivoluzione che ha smarrito i suoi obiettivi, una rivoluzione dalla quale mi dissocio definitivamente. Non ho alcuna intenzione di difendere una dittatura totalitaria spacciata per socialismo reale e resto dalla parte dei cubani che sono migliori di chi li governa. Sarebbe ora di cominciare a parlare di una Terza Repubblica Cubana, finalmente libera e democratica. Quel giorno potremo cantare a squarciagola le canzoni di Willy Chirino, un grande autore cubano esule a Miami che in patria non si può ascoltare, e gridare con lui: Cuba libre y soberana! Gordiano Lupi www.Infol.It/lupi