Turkmenistan: Cocoons 2

Credit cards, una bolla speculativa In America qualcuno dice che il disastro è cominciato quando con un rettangolo di pastica, tutti si sono sentiti autorizzati a comprare quello che non si potevano permettere e questo mi ha ricordato la chiosa che mancava nell'avventura turkmena del fallito impianto dei bachi da seta . Riprendo dunque dal...
Scritto da: Enrico Bo
turkmenistan: cocoons 2
Viaggiatori: fino a 6
Spesa: 1000 €
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Credit cards, una bolla speculativa In America qualcuno dice che il disastro è cominciato quando con un rettangolo di pastica, tutti si sono sentiti autorizzati a comprare quello che non si potevano permettere e questo mi ha ricordato la chiosa che mancava nell’avventura turkmena del fallito impianto dei bachi da seta . Riprendo dunque dal punto in cui lasciammo Bulik ed Andrej sulla porta della Banca Nazionale Turkmena. Sfogata la rabbia contro i nostri accompagnatori, cercammo prima di mettere qualcosa sotto i denti e finimmo in una squallida stalovaija indicataci dall’albergatore, dove in un puzzo da ospedale psichiatrico dell’ottocento, ci trincerammo dietro ad un tavolaccio coperto alla meglio da una tovaglia, dove le parti non chiazzate da unti diversi per qualità ed epoche, erano poco evidenti. Preceduta da un grato effluvio di cavolo bollito, un rubicondo e cospicuo donnone arrivò direttamente con due scodelle sbrecciate di chorba bollente, ricca a sufficienza di peperoncino per anestetizzarci completamente il cavo orale, così da impedirci di contestare i sapori di un secondo costituito da cavoli e altri materiali proteici nerastri di difficile identificazione. Stefania aveva tentato, pronunciando interrogativamente la parola menu, di renderci partecipi alle decisioni del mastro di mensa, ma una specie di ghigno senza parole le avevano subito tolto ogni velleità. Lasciammo sulla tovaglia marezzata i couponi che ci eravamo procurati all’ingresso con i tenghé rimasti e subito ci dirigemmo decisi per risolvere il problema più importante: trovare i biglietti aerei che ci avrebbero permesso di abbandonare per sempre Asghabad, la perla del deserto del Turkestan. Questa dei biglietti è una cosa curiosa, ma assai normale nel periodo sovietico. Bisognava subito lasciare da parte idee strane e ridicole, come recarsi alla biglietteria e comprarli. Era d’obbligo invece, avere qualche conoscenza o amicizia che sapesse indicare una struttura dove, in qualche meandro segreto si trovava un ufficio in cui, a volte, si trovavano i biglietti cercati. Il bancario, che ci aveva visto abbacchiati e poichè sembravamo persone serie, si era fatto carico, tramite un amico, di indicarci il palazzo giusto. Come in una caccia al tesoro, Stefania risolse alfine il bandolo della matassa che ci permise, chiedendo qua e là, di accedere ad un sotterraneo dove, in fondo ad un corridoio c’era un ufficio con una grata di sbarre lucenti. L’addetta, alla vista di due stranieri spaesati ma decisi, si risvegliò dal torpore postprandiale e cercò di esibire quello che riteneva essere un sorriso. Scoprì quindi due arcate dentali, completamente ricoperte di acciaio inox, che seppure inquietanti, non ci furono d’ostacolo, anzi i biglietti per il pomeriggio furono staccati senza ulteriori problemi. Al momento di pagare, esibimmo la mia carta di credito Visa. Squalo (ormai l’avevamo battezzata così) rigirò tra le mani il rettangolo di plastica con aria interrogativa, che non mutò anche alla successiva presentazione di carta American Express, chiedendo cosa dovesse fare di di quei curiosi oggetti. Alle spiegazioni di Stefania illustranti l’utilizzo della carta di credito, scoppiò in un riso irrefrenabile, chiamando a sè i suoi sodali, una biondotta slavata che si stava coprendo di rossetto consistenti porzioni di epidermide ed uno scurissimo figuro con un unico sopracciglio cesposo che gli incorniciava entrambe le arcate. Vollero ancora farsi spiegare più volte l’utilizzo del mezzo, senza voler credere che dei matti volessero comprare biglietti mostrando dei pezzi di plastica. Con i dollari che avevo come di consueto nascosto nella tasca da mutanda, risolvemmo il problema e lasciammo il luogo seguiti dai lazzi dei tre che ci davano degli italiani burloni. Attraversammo la città scalcagnata come la Zhigulì che ci portava all’aeroporto nuovo di zecca, inaugurato da pochi giorni, tutto marmi italiani, telecamere, scale mobili e porte scorrevoli automatiche. Il gabelliere mi succhiò ulteriori 50 dollari adducendo imprecisioni nelle papke di espatrio, quindi uscimmo verso la porta che ci avrebbe consegnato al tunnel dell’aereo, alla libertà. Purtroppo la porta automatica non si aprì, non funzionava, come la quasi totalità dell’aeroporto. Quando giunse un omino per sbloccare il meccanismo ed aprire le ante, corremmo verso la salvezza. La puzza di gatto morto ci seguì fino a Mosca.

Enrico Bo



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