Alla scoperta di Troia
Buone le strade ,asfaltate e scorrevoli,solo qualche dosso rallenta un pò l’andatura,specie se davanti c’è qualche camion dalla data di revisione un pò incerta,dai limiti di carico sicuramente abbondantemente sforati,che in questi cambi di pendenza sparisce in una nuvola di fumo fra il blu ed il nero. Ma in questi casi succede ciò che in Italia sarebbe un incredibile miracolo:l’autista mette la freccia a destra,rallenta,ed una mano sporge dal finestrino autorizzando con ampi cenni un sorpasso “sulla fiducia”,che sarebbe altrimenti impossibile.
Passato il confine turco poco prima di Ipsala (confine “vero”,con controlli severi in entrambe le direzioni,e militari armati che si guardano in cagnesco:come faranno Grecia e Turchia ad andare a braccetto prossimamemnte in Europa,proprio non si sa),si procede per una trentina di chilometri,poi si lascia la strada per Istanbul e si scende verso sud.
Sono un centinaio di chilometri da percorrere fra colline basse e sassose,coperte di olivi,sempre pervase dal salso odore del mare,poi,ad Eceabat,si lascia la terraferma. Si sale su un traghetto traballante,dove ci si sporca solo a guardare le strutture metalliche del medesimo,ma il passaggio del mar di Marmara è abbastanza veloce e,come dice il poeta, “…All’Asia dolce giungemmo per mare…”.
L’approdo a Canakkale non merita più di una frettolosa occhiata,solo una breve pausa in una bettola vicino al mare,dove,per poche (e svalutatissime) lire turche si riesce ad abbuffarsi di borek (involtini fritti con formaggio di capra ed erbette più o meno sconosciute),irrorati da un vino colorato e scintillante come l’oro,su una tovaglia sulla quale devono essersi fermati tutti,ma proprio tutti,negli ultimi decenni,sulla quale,purtuttavia,un premuroso ragazzino si impegnava a far sparire periodicamente le briciole di pane.
Lasciata una munifica mancia di circa un milione (niente paura,al cambio era meno di un euro:ma vuoi mettere la soddisfazione!),si provvede a nutrire anche l’auto (benzina buona,anche se con qualche ottano in meno) con una certa facilità,al contrario di qualche anno fa,quando era necessario portare con sè una tanica di scorta,perchè era più facile trovare distributori di biada che non di carburante,poi si tenta di procedere.
Si tenta,perchè verso sera la gente sparisce in una specie di coprifuoco e la segnaletica è mimetizzata in mezzo a mille altri segnali. La segnaletica satellitare non è stata ancora inventata,quindi non resta che tornare all’archeologia:l’Orsa Minore è là,la stellina annessa indica il nord,noi dobbiamo andare a sud,quindi…
Il traguardo della giornata è una trentina di chilometri a sud,appunto:è Troia.
Riusciamo a dormire in una stamberga che avrebbe fatto inorridire qualsiasi acheo di passaggio,ma l’unica alternativa era fra lo stare in piedi per tutta la notte oppure bivaccare sotto un ponte,litigando magari con qualche capra.
Di primo mattino,quando “…Figlia di luce,spuntò l’Aurora dalle dita rosate…”,si arriva finalmente alla collina di Hissarlik.
Qui,un secolo fa,un tedesco avventuroso,tale Schliemann,era arrivato alla convinzione,leggendo solo l’Iliade e l’Odissea,di aver trovato le prove dell’esistenza della più famosa guerra della nostra infanzia,quella fra l’iroso Achille ed il galantuomo Ettore,fra l’autoritario Agamennone ed il pio Enea.
Aveva tempo,aveva soldi,aveva solo una vaga idea di come si conduceva uno scavo archeologico “serio”,aveva anche una sufficiente spregiudicatezza per “integrare” quello che trovava in loco con quello che proveniva da altri posti (parecchi oggetti del cosiddetto “tesoro di Priamo” vengono da fruttuose ricerche nel mercato antiquario di Istanbul,ormai è certo),et voilà,ecco trovata la città che cercava! L’impatto con Troia è soprattutto mistico. Non bisogna farsi scoraggiare da una specie di cocchio (in plastica) comprensivo di lancia (in legno) e di scudo (in cartone) che viene offerto all’incauto turista,meglio se con gli occhi a mandorla,perchè possa farsi fotografare vestito come il prode Achille (o come un buffone,dipende dalle opinioni),il tutto magari avendo sullo sfondo Lui,il mitico cavallo di legno. Con una spesa poi di poche altre lire turche,si può anche provare il brivido di entrare nel suo ventre,ed uscendo di là (per vie naturali?),dare l’assalto alla mitica rocca di Priamo.
Peccato,la città non meriterebbe queste americanate:era,già nel Bronzo Antico,la capitale dell’Anatolia Occidentale e costituiva il punto di incrocio delle grandi vie di commercio dall’Asia all’Europa e viceversa.
Già la mitologia aveva suggerito che quella avesse ad essere una zona nevralgica: prima che da est ad ovest,passassero le navi russe che portavano i missili a Cuba,da ovest ad est erano transitati gli Argonauti che cercavano un improbabile Vello d’Oro sul lato opposto del mar Nero.
Di conseguenza la città ebbe a subire meticolose distruzioni e testarde ricostruzioni: la stessa epopea omerica,con l’infedele Elena rapita da quello sciupafemmine di Paride,l’ira funesta di Brad Pitt,pardon di Achille,non è altro che un patetico (e propagandistico: Fede e Santoro non hanno inventato nulla) tentativo di ingentilire una spedizione punitiva bella e buona,dettata da bassi interessi economici (vero,Bush?).
Gli archeologi “veri”,nella loro infinita pazienza,hanno identificato almeno nove strati abitativi (meglio dire così,piuttosto che un imbarazzante “nove troie”,come è recentemente scappato di dire ad un imperturbabile oratore dalle mie parti ),ben prima e ben dopo la guerra omerica,avvenuta se è vera,sul sesto strato.
La più antica occupazione risale al 3000 a.C.,ed era probabilmente un insediamento fortificato di pastori. La seconda città (metà III° millennio) si arricchisce esigendo tasse dai mercanti in transito sui Dardanelli: è dotata di un palazzo reale e protetta da una solida muraglia in pietre squadrate.
E’ il periodo cui appartengono probabilmente i gioielli rinvenuti da Schliemann,il quale,in piena fibrillazione omerica,li attribuì sbrigativamente a Priamo ed alla sua corte.
Con il successivo arrivo delle popolazioni indo-europee,la città andò in rovina,fino ad essere abitata da gruppi sparuti ed innocui di agricoltori e di pescatori.
Ma le cose cambiano di nuovo nel XIII° secolo a.C.: la città (Troia VI°) è di nuovo ricca,c’è un palazzo,ci sono abitazioni sontuose,ci sono soprattutto nuove fortificazioni costituite da muraglie di pietra tirate su a secco con andamento obliquo per poter resistere all’assalto di eventuali macchine da guerra. E’ ragionevole ipotizzare che,se l’assedio omerico ha mai avuto luogo,per aver ragione di simili difese dieci anni non bastavano e bisognava proprio ricorrere a qualche perfido inganno.
La datazione di questa mitica guerra (1275 a.C.) è tutt’altro che pacifica: ultimamente,a semplificare o a complicare le cose,ci si sono messi anche gli archivi di Hattusas,capitale ittita,che parlano di divergenze di opinioni con la città occidentale di Wilusa (Ilio?). Se questa notizia venisse confermata,sarebbe il tanto atteso “riscontro” che promuoverebbe un fatto finora solo mitologico in un fatto storico.
Dopo la distruzione ad opera di umani e forse anche di un terremoto,si sussegue una quantità di alti e bassi: installazione di popolazioni balcaniche,di Eoli e di Persiani. Vi si ferma anche,in preghiera sulla tomba di Achille,Alessandro Magno,in pianto perchè non aveva ancora combinato nulla di glorioso (ma il Granico,prima grande vittoria della sua spedizione persiana,era ormai a poche decine di chilometri di distanza).
Per non essere da meno,ci si fermò pure Caio Giulio Cesare,che aveva appena inviato a Roma il più sintetico ed efficace discorso della storia (” veni,vidi,vici”): si vantava di discendere da Venere,tramite Enea,e fece,archeologicamente parlando,più danni di Schliemann. Infatti fece spianare la parte superiore dell’acropoli e rinforzare i terrazzamenti per costruirvi sopra un tempio dedicato ad Athena.
Con l’ascesa della non lontana Costantinopoli,Troia non ebbe più ragion d’essere,ed il luogo,complice un progressivo impaludamento,fu definitivamente abbandonato.
Mentre sto meditando su tutta questa overdose di storia vera e leggendaria sulla cima di un bastione,mi si avvicina un indigeno che,in un inglese un pò stentato,giura che in certi giorni è possibile sentire venir su dalla pianura circostante il nitrito dei cavalli,il cozzare delle spade el’urlo dei guerrieri. Ascolto con signorile comprensione (in effetti,d’agosto,qui il sole picchia forte),ma in lontananza si sta effettivamente alzando un ploverone,e non posso fare a meno di aguzzare la vista e lasciare sfogo alla mia ormai scalpitante fantasia. Dalla mia posizione,forse,Elena indicava a Priamo gli eroi del campo acheo: ecco il potente Agamennone,là c’è Achille dal piede rapido,in fondo Diomede forte nel grido e,un pò mimetizzata,Odisseo che ha parole “leggere come fiocchi di neve d’inverno…” Svanito il polverone,restano le suggestioni ed il dubbio: in fondo i miti sono “cose che non furono mai,ma che saranno sempre”,quindi…