La città dell’alba
La Ambassador nera che avevamo affittato a Madras procedeva zigzagando tra le buche della strada a tratti coperta dall’acqua che fuoriusciva dai fossati, riempiti dalle abbondanti razioni di pioggia monsonica che le gonfie nuvole scure che riempivano il cielo ci rovesciavano addosso con gusto. Ramsigh guidava con attenzione quel pomeriggio, insolitamente silenzioso. Avevamo mangiato qualche paratha infuocato e una magra coscia di pollo tandoori a Pondicherry e mentre l’arancione della spezia ci cuoceva ancora il palato, avevamo manifestato l’interesse a vedere Auroville, la città dell’alba, la vicina comunità fondata da Aurobindo il celebre mistico indiano morto nel 1950 , dove i seguaci del guru e la Mère, la francese che aveva dato seguito all’eredità spirituale del maestro, avevano creato un’ oasi di pace aperta a tutti coloro che credevano nell’ amore universale secondo le direttive del santo. Avevamo letto di un piccolo paradiso dove uomini e donne di tutto il mondo vivevano di amore e tolleranza reciproca. Il nostro Ramsigh che, di solito, visto il nostro interesse per la cultura indiana, si profondeva in lunghe spiegazioni cercando di chiarire le nostre curiosità in ogni dettaglio, stranamente non parlò molto, mostrandosi più interessato alla guida. Arrivammo all’ ashram verso le tre e colpiti dal senso di pace che pervadeva il luogo, cominciammo a girare liberamente nel villaggio che circondava il grande tempio della pace interreligiosa in costruzione. Una sfera gigantesca creata su uno dei chackra della terra che irradia amore universale e tolleranza verso gli uomini di ogni credo. Biondi europei, vestiti con sobrie tuniche o bianchi salwar kamiz all’indiana, si aggiravano con aria serena mentre bambini giocavano a piedi nudi nella granda piazza antistante al tempio, incuranti degli esasperanti concetti igienici che ci turbano la mente quando percorriamo le strade dell’Oriente. Girammo ancora un po’, sempre accolti da sorrisi. Mentre siedevamo nel grande giardino, cercavamo di capire cosa c’è di così profondo che pervade ogni cosa in quei luoghi, che avvolge in un velo sottile la realtà ed i contrasti. E’ facile lasciarsi andare, essere coinvolti da un messaggio che spinge con forza chi lo vuole percepire, ma a questo punto diventa difficilissimo strappare il velo di Maya delle apparenze, andare al di là della superficie, considerare quanto il nostro genetico desiderio di trascendente ci oscura o semplicemente minimizza. Guardare oltre, considerare che tra tutti quelli che ci circondavano, quelli biondi, puliti e con sguardo sereno erano tutti occidentali, mentre quelli con il badile in mano che sudavano sotto i 40 °C del luglio indiano erano tutti indigeni, anzi più era grande e pesante il fardello di mattoni che si portavano sulla tela di iuta che copriva loro il capo e più il colore della loro pelle era scuro. Il loro sguardo era un po’ meno sereno degli altri, come quello del vecchio con una bimba in braccio, che ci seguì a lungo mentre la nostra Ambassador nera si allontanava, a sera, verso il tramonto di altre illusioni. Ramsigh guidava allegro, sogghignando.
Enrico