Pamir – Piccolo racconto di un grande viaggio

MERCOLEDI 20 AGOSTO – Confine Uzbekistan-Tajikistan / Lago Iskanderkul Arrivati al confine, le operazioni doganali non sono così drammatiche come ci si aspettava, i doganieri uzbeki aprono un solo bagaglio, ma l’impressione è che lo facciano giusto per giustificare la loro presenza e fare un po’ di scena, e poi a piedi ci avviamo verso il...
Scritto da: ukki
Partenza il: 20/08/2008
Ritorno il: 27/08/2008
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MERCOLEDI 20 AGOSTO – Confine Uzbekistan-Tajikistan / Lago Iskanderkul Arrivati al confine, le operazioni doganali non sono così drammatiche come ci si aspettava, i doganieri uzbeki aprono un solo bagaglio, ma l’impressione è che lo facciano giusto per giustificare la loro presenza e fare un po’ di scena, e poi a piedi ci avviamo verso il Tajikistan. Qui operazioni semplicissime, il primo incontro è con un doganiere enorme dalla dentatura dorata che sorridendo mi chiede per scherzo il numero del passaporto a memoria, stampandomi poi una bella risata quando gli rispondo prontamente; le lungaggini burocratiche in Uzbekistan mi avranno sicuramente aiutato nel processo di memorizzazione..

passiamo poi al timbro sul passaporto in uno sgangherato gabbiotto dove ci sono dei ragazzini in divisa, che avranno sì e no diciotto anni, con mimetiche chiaramente di recupero, alcune di esse hanno addirittura ancora in evidenza gli emblemi dell’Armata Rossa, e siamo ufficialmente in Tajikistan.

Ancora qualche passo su questa dritta strada che solca le campagne ed ecco fare capolino i nostri mezzi, un enorme camion UAZ turchese, un simpatico cubo con sei ruote e delle magnifiche tendine ai finestrini, e una Lada vecchissimo modello con delle balestre da battaglia alle ruote, entrambi molto vissuti e che lasciano presagire in che condizioni si trovano le strade che percorreremo.

Si parte per Penjikent, la prima cittadina dopo il confine, qui mi colpisce l’immagine composita di una statua equestre di un qualche eroe nazionale, un condottiero del passato remoto, con alle spalle, un edificio decadente dall’aria inequivocabilmente sovietica.

Fedeli alle nostre abitudini, durante la sosta non possiamo fare a meno di tuffarci nel bazar, forse meno vivace e colorato di quelli uzbeki, ma comunque interessante per la sua carica di umanità; anche qui la gente è sorridente, i saluti gioiosi e gli sguardi curiosi.

Ed è un attimo perdersi in questo mercato, nella sua anima colonnata e circolare ravvivata dai colori dei banchi ricolmi di mercanzie, dei cestoni e dei sacchi ordinati e straripanti di frutta fresca e secca, nei gabbiotti e bancarelle tutto intorno, dove si vende veramente di tutto e si cambia denaro; ad attirare la mia attenzione, oltre ai banchetti di succulenti samsa, è la gestualità di un’anziana donna che, brandendo una specie di pentolino pieno di erbe fumanti, si aggira tra i banchi per togliere il malocchio alle verdure, ricevendone in cambio piccoli assaggi. Ripartiti dopo la sosta, la prima riflessione è che si avverte chiaramente che al di qua della barriera, lasciato l’Uzbekistan, la situazione economica è decisamente più disastrata.

Lungo la strada facciamo sosta per il pranzo in un fresco ristoro, piuttosto spartano, sotto un gazebo e attorno ad una tavola piena di frutta.

Dopo la città si inizia pian piano a salire, e comincia la spettacolare carrellata di paesaggi, tra una valle pietrosa e montagne di roccia che ricordano i “camini di fata” della Cappadocia, strapiombi e fiumi melmosi; come dei bambini meravigliati guardiamo chi silenzioso, chi tra esclamazioni entusiastiche, le cartoline che si susseguono al di fuori del finestrino, come primo approccio al nuovo paese direi che non è niente male.

Dopo un po’ ci troviamo fermi, la strada è bloccata, c’è un ponte chiuso a causa dei lavori di ammodernamento, o meglio ricostruzione totale, portati avanti da schiere di operai cinesi, con camion cinesi, segno evidente dei forti interessi economici che la nuova superpotenza nutre nella zona.

L’unica è aspettare, ci fermiamo ad osservare l’allungarsi della fila di automezzi inermi, a condividere la speranza che prima o poi ci faranno passare con gruppi di lavoratori e famiglie numerose tagike, un paio di gruppi di turisti europei per nulla scomposti dal passare del tempo, quasi quanto noi, che bivacchiamo davanti ad un baretto lasciando che la prima birra tagika ci assista nell’attesa.

Dopo un bel po’ di tempo, siamo quasi all’imbrunire, il serpentone di mezzi riparte, si incammina per attraversare il ponte finalmente riaperto e imboccare i chilometri di strada stretta, pietrosa, tutta curve e salita che ci aspetta dall’altra parte del fiume.

Arriviamo infine, che ormai è buio pesto, alla nostra destinazione, una turbaza, un ex campo estivo sovietico composto da una serie di casupolette sulle rive di un lago che sicuramente avranno visto tempi migliori, ma comunque un posto tranquillo dove passare la notte.

GIOVEDI 21 AGOSTO – Lago Iskanderkul / Dushanbe Non sto bene. La sveglia sul lago, che è veramente bello di giorno, l’incantevole immagine delle acque azzurre in cui si specchiano le enormi montagne che le circondano comunque mi danno la carica per affrontare la giornata.

La strada fatta ieri sera al buio è strepitosa. Prima gole rossastre a strapiombo sul fiume azzurro, poi la valle si apre, regalando scorci su un territorio vergine ed immenso, su vallate che sembrano non avere né fine né principio.

La condizioni del fondo stradale sono invece pessime; ci sono lavori in corso ovunque, mucchi di pietre per battere la strada costeggiano gli strapiombi per chilometri, serie interminabili di terrapieni ci accompagnano per tutto il tragitto, dobbiamo zig-zagare tra i numerosi parafrane ancora incompiuti. In questo itinerario delirante, il passaggio attraverso una galleria in costruzione è un’esperienza unica. E’ un tunnel interminabile, sembra di non uscire più dalla montagna, il fondo è acquitrinoso e più di una volta si scorgono, alla luce fioca delle lampade che tentano di illuminare questo antro infernale, gruppetti di operai che vagano.

Che lavoro bestiale deve essere, cerco di immaginare la vita che conducono quegli uomini che vedo passare, la fatica che fanno e il pericolo che devono affrontare, e soprattutto a quale prezzo.

Usciti alla luce del sole, questo senso di desolazione non mi abbandona, si vedono sparsi qua e là relitti di vecchie cave, arrugginiti paesaggi post-industriali montani, decadenza.

Man mano la strada scende, l’avvicinamento a Dushanbe si avverte, anche perché la strada si fa asfaltata, e compare prima l’enorme e chiccosissima dacia del presidente e poi una serie di lussuose villette con piscina a lato del fiume che stride con tutto quello visto fin ora in questo pezzetto di paese.

E poi finalmente la città, la vedo poco, giusto di sera, dopo cena, voglio riprendermi bene e quindi mi faccio una sana dormitina prima di cena, non credo di perdermi un granché, di bello osservo la cupola azzurrina della moschea ed il suo minareto dal balcone della camera.

Anche qui non riusciamo a sentire il muezzin, l’impressione è che le moschee siano tollerate ma non volute, la fede non è sentita, praticata, settant’anni di dominazione russa si fanno sentire anche in questo.

Mi concedo poi una passeggiata lungo il vialone centrale, in perfetto stile sovietico, con il palazzo presidenziale, il curioso (ma non troppo vista la situazione politico-economica del paese) ministero per la corruzione, gli smisurati giardini.

Qui più di ogni altro posto si avverte la presenza della mafia della droga e della mafia governativa, grossi SUV sfrecciano e bruciano i semafori rossi sulla Rudaki, la via principale, tra la miseria delle vie laterali e l’indifferenza della polizia.

VENERDI 22 AGOSTO – Dushanbe / Kalaikhum Stamattina la novità è il cambio di mezzo, perché il camion è troppo lento e ci sono troppe montagne da attraversare, in sostituzione arrivano la mitica furgonetta otto posti Uaz ed uno splendido Land Cruiser a supporto, due universi a confronto, due tecnologie, due filosofie.

Io finisco sul Patrol, una sana via di mezzo, che da ieri ci accompagna al posto della Lada che chissà che fine avrà fatto, probabilmente avrà esalato il suo ultimo respiro a bordo lago.

Partiamo e subito mi attrae, alla periferia di Dushanbe, il rito delle ragazzine che, chine, lavano i tappeti a bordo strada, con spazzole, sapone e secchi d’acqua, una visione che lascia intuire il nuovo allontanamento dalla vita di città.

Ed è nuovamente uno spettacolo dietro l’altro.

Ampie vallate e fiumi melmosi, che erodono le montagne terrazzandole; dopo chilometri e chilometri di terra brulla la valle diventa verde, improvvisamente, e si scorgono diversi insediamenti umani, sbuca, tra i campi coltivati e le case, una particolarissima moschea, un edificio basso, lungo, dalle tondeggianti guglie grigiastre appoggiate su torrette in mattoni Dopo una breve sosta in un minuscolo bazar, dove gli autisti ne approfittano per risistemare tutto il bagaglio che era stato fortunosamente fissato sul tettuccio dei due fuoristrada e che aveva girovagato durante tutto il tragitto, l’inizio della salita mette subito a nudo lo stato piuttosto malconcio degli automezzi a nostra disposizione; il Patrol si deve fermare regolarmente per raffreddarsi, cofano all’aria, e anche la furgonetta non sta tanto meglio, anzi pare essere la più malandata. Quando la salita si fa dura, infatti, la nostra Uaz avanza penosamente, a stento, fatica, circondata da cupe e vertiginose montagne e dal fiume; ad ogni curva sembra sfruttare le ultime energie e pare rendere l’anima. E’ un’odissea, ma malgrado tutto il Patrol e la Uaz sopravvivono, ci si ferma una dozzina di volte ai ruscelli per fare rifornimento di acqua per i radiatori allo stremo.

Sempre più in alto, sempre emozioni più forti, incrociamo un relitto di carro armato in prossimità di un piccolo ponte, ricostruito dopo che quello vecchio era stato fatto saltare insieme al malcapitato blindato che ora giace pancia all’aria sotto di noi. Passiamo una serie di piccoli guadi, sostiamo ad un piccolo ma affollato ed operoso villaggetto di alta quota, qui tra tende e baracche giace un altro carro armato, svuotato di ogni sua parte, e transitano polverose greggi di capre in cerca di pascoli. Sempre più in alto, riprendendo la strada mi pare di intravedere delle macchine della “Fondation Suisse de Deminage”, ulteriore testimonianza del triste recente passato del paese; questi volontari sono qui a sminare metro a metro i confini con Uzbekistan e Afghanistan, con l’appoggio di ragazzi tagiki, nella speranza di bonificare il più possibile queste terre dal pericolo mine e soprattutto di coinvolgere la popolazione locale in progetti di sviluppo economico e sociale, di ricostruzione e riconversione post-bellica del proprio paese. Sempre più in alto, sempre emozioni più forti, fino al culmine.

E’ quasi l’imbrunire, dopo l’ennesima sosta, la furgonetta si ferma, definitivamente, c’è ancora un bel pezzo da fare, e il gruppo si scompone.

Io ed altri due cediamo il nostro posto sulle Jeep funzionanti e partiamo, con altri due occupanti della furgonetta, a piedi, per arrivare al passo, i due mezzi superstiti s’incamminano per portare gli altri a destinazione, guida ed autista rimangono a cercare di riparare il mezzo, noi a piedi fiduciosi che qualcuno ci porterà alla meta.

Nel frattempo una passeggiata al tramonto sulle vallate rosse che non dimenticherò mai.

Le luci del tramonto che ci accompagnano nell’ultimo tratto di salita, incendiano le montagne che a perdita d’occhio si stendono sotto di noi, fino a che, man mano, spariscono tra le tenebre. Il vento è secco e pungente, il silenzio è puro.

Ne vale la giornata La furgonetta ci raggiunge arrancando, ci carica, ma fatte poche centinaia di metri inizia a bollire ancora, il radiatore butta vapore bollente all’interno dell’abitacolo, c’è paura per la guida che in tutti i modi cerca di tamponare quel getto con acqua fredda, ma poi stremato e paonazzo si fionda fuori dall’abitacolo, rischiando di finire nel dirupo.. Fortunatamente tutto finisce bene, la Uaz è per l’ennesima volta ferma ma questo è ormai del tutto irrilevante.

Altro pezzo a piedi, siamo ad oltre 3.000 metri e l’aria un po’ rarefatta comincia a portare i suoi effetti, il fiato inizia a farsi un po’ corto, ma felicemente veniamo di nuovo raggiunti dall’ostinata furgonetta che non ne vuole sapere di abbandonarci là, insieme guadagniamo il passo, e ci tuffiamo poi in discesa, sereni, almeno qui non ci saranno più problemi di surriscaldamento.

Incontriamo poi le due jeep che ci venivano incontro per riprenderci, ma non ci vedono, e continuano nella salita, noi ci fermiamo, nella speranza che si riesca a contattarli per farli tornare sui loro passi.

Nel frattempo, la sosta, ci regala altri momenti impagabili: alziamo gli occhi al cielo e su di noi campeggia una splendida stellata incorniciata dalle sontuose montagne che sovrastano la gola nella quale ci troviamo.

Si vede la via lattea, un milione di stelle, c’è una bellissima luna, rimarrei qui in eterno, naso all’insù, ma alla fine saliamo sulle jeep e raggiungiamo gli altri nel villaggetto di Kalaikum, dove siamo ospiti di una accogliente guest house dalle coloratissime camerette e dal bel cortiletto pergolato dove ceniamo e riviviamo tutti insieme l’entusiasmante giornata.

SABATO 23 AGOSTO – Kalaikhum / Khorog Si parte abbastanza presto, non prima di essere transitati nel paesino ed esserci fatti augurare buon viaggio dalla statua di Lenin, a quanto pare una delle poche superstiti da queste parti. Poche curve al di fuori del paese e subito vediamo il lato afgano del fiume, la prima immagine che ci offre è un’ospedale, enorme, e via via che costeggiamo il fiume ci rendiamo sempre più conto del contrasto tra le due sponde; su quella in cui ci troviamo abbiamo elettricità e strada asfaltata, anche se visto da qui sappiamo benissimo che si tratta solo di efficienza di facciata, da contrapporre al rivale sull’altra sponda, dove i villaggi sembrano appartenere ad un’altra epoca, col fumo che esce dai camini, ad un’altro mondo di ocra e terra di siena, di rosso e di grigie ombre, di campi coltivati a mano. E’ impressionante il sentiero che costeggia il fiume e unisce i diversi villaggi, a volte è scavato nella montagna a picco sul fiume, a volte ci sono gradini di legno piantati nella roccia, gli sparuti gruppi di persone lo percorrono a piedi o a dorso di mulo. Seguiamo a percorrere questa vallata, che per lunghi tratti è una gola affossata tra montagne immense ed inumane, scavata dalle violente acque del fiume, che offrono un’improbabile gamma di colori tra il grigio ed il marrone.

Per circa 200 km l’Afghanistan è sempre presente al di là delle acque impetuosamente terrose del fiume e anche qui i segni del passato tumultuoso di guerre, civili e non, sono presenti ed indelebili: a bordo strada si leggono diversi cartelli che segnalano la presenza di campi minati, per terra è facile trovare munizioni e bossoli, in alcuni tratti la riva è costeggiata da filo spinato.

Anche il presente si avverte non tranquillo, qui siamo in uno dei peggiori crocevia della droga, e ovunque il fiume rallenti la sua corsa ci sono check point e guardie bambino armate, soldati di leva che facilmente vorrebbero essere da tutt’altra parte ma che invece con spirito di sacrificio son qui ad imbracciare il fucile contro un nemico invisibile.

Dopo un po’ il contesto si rasserena, durante l’ultimo tratto di strada costeggiamo l’ampia e mite discesa del fiume, sostiamo sulla riva per toccarlo, finalmente dopo tanta presenza; riprendiamo senza affanno la marcia, fino ad un’altra piacevole sosta durante la quale possiamo godere di una splendida veduta sulle montagne, presso un ponte, in prossimità dell’ingresso nella cittadina di Khorog.

Qui abbiamo subito le prove tangibili di quanto il Pamir stia sopravvivendo grazie all’Aga Khan Foundation, che qui investe in particolar modo a favore della salute e dello sviluppo rurale, in infrastrutture, oltre che fornire aiuti umanitari per soddisfare le esigenze più elementari della popolazione; l’Aga Khan dicono sia percepito qui quasi come una divinità, onestamente non capita di imbatterci in ritratti ed immaginette “sacre” con l’effigie di quello che non è altro che l’Imam, il capo spirituale dei musulmani ismaeliti, in ogni modo i segni del suo operato sono più che evidenti.

Vedo il Serena Inn, un lussuoso albergo, a testimoniare lo sforzo di far diventare il paese una meta più facile per i viaggiatori, che si sta lanciando nello sviluppo economico e miglioramento della sussistenza.

Vedo l’Aga Khan Lycée, che dovrebbe ospitare circa un migliaio di studenti di ogni ordine e grado ai quali garantisce l’accesso alla formazione professionale e offre formazione in tre lingue come tagiko, russo e inglese.

Vedo l’University Central Asia campus, struttura universitaria che, come traspare dal nome, ambiziosamente punta a ritagliarsi un ruolo importante nella formazione della nuova generazione non solo tagika, ma dell’intera area geografica.

Vedo tante opere non astratte, tangibili, Il resto della giornata scorre tranquillo, tra un tardo pomeriggio passato nel paesino ad osservare là dove il fiume, nostro inseparabile compagno della giornata si biforca, là dove si perde il confine, che si fa meno nitido, là dove ci sono montagne perpendicolari tutto intorno, un’ottima cena in una fresca tavolata all’aperto ed una piacevole partita a backgammon prima di andare a letto soddisfatto di questa ennesima bella giornata.

DOMENICA 24 AGOSTO – Khorog / Lago Bulunkul Oggi è domenica, ed il bazar è quasi inesistente. Ci addentriamo lo stesso tra i miseri banchetti alla ricerca di un po’ di provviste da portarci dietro, probabile che per qualche giorno non troveremo più cittadine di queste dimensioni. Una volta partiti, ci immettiamo ufficialmente nella M41, strada costruita negli anni trenta dai sovietici, miracolo dell’ingegneria dell’epoca che fende le montagne e gli altipiani, e che ci condurrà fino ad Osh, in Kyrghizstan.

Ci apprestiamo quindi a salire sul “tetto del mondo”, così come viene definito il Pamir in lingua locale; all’imbocco della strada noto un curioso monumento consistente in una vecchia automobile, a quanto pare la prima a solcare il tragitto da Osh a qui, piazzata su di un enorme piedistallo.

Questa M41 è chiamata “Pamir Highway”, autostrada, ma nulla ha di un’autostrada, anche se ovviamente, per il fascino del viaggio, è meglio così! Il bitume, demolito e screpolato dal clima e dal passare del tempo, spesso scompare, per lasciare spazio al terreno sconnesso ed alle pietre.

Il primo ghiacciaio fa capolino, alla nostra destra, tra due montagne, mentre noi continuiamo a salire; una statua raffigurante la leggendaria pecora di Marco Polo, un tipo di pecora le cui lunghe corna la fanno assomigliare ad uno stambecco che prossima all’estinzione resiste a vivere ancora da queste parti, ci introduce nella parte più montagnosa.

Ci immergiamo in belle montagne ondulate, vette innevate, ampie vallate dai colori sgargianti, il verde dell’erba, il rosso della terra ed il blu del fiume ci accompagnano per chilometri, poi quasi inaspettatamente la vegetazione scompare, saliamo sempre di più, la nostra è ormai una lunga scalata fino al culmine della vallata, è una serie di passi e di alti e bassi, è un duro sali scendi. Arrivati in cima al valico più alto della giornata, c’è un sole magnifico, un cielo terso e una quiete quasi irreale, ne approfitto e mi stendo su un’enorme pietra a bordo strada, in completo relax, a godere della gradita sosta nel bel mezzo di quest’universo intatto e sconfinato, dove il primo pensiero è quanto paradossalmente possa essere meravigliosa l’inospitalità di certi luoghi, nei quali la grandezza della natura porta a ridimensionare l’uomo e la sua opera.

Qui più che in altri momenti le immensità del Pamir seducono ed intimoriscono.

A più riprese ho pensato alle carovane di esploratori e viaggiatori del passato, ai momenti cruciali di quando si trovavano in queste zone, chissà quante non sono riuscite a superare questi spazi, chissà quanta gente ha inghiottito questa terra aspra e desolata, sferzata dal vento.

La spianata laddove prosegue la nostra strada ci offre un paesaggio quasi lunare, morto ed incontaminato, l’impressione è che non scenderemo mai, che continueremo a veleggiare dolcemente tra queste enormi dune mosse, in realtà ci abbassiamo, planiamo, lo facciamo dolcemente, fino al villaggetto ai bordi del lago Bulunkul. In vista del lago la piccola colonna compatta dei nostri mezzi si stacca dalla strada per imboccare una pista sabbiosa che dà la viva sensazione di correre sui resti di un lago in ritirata e punta dritto al piccolo agglomerato di case.

Tra di esse si trova anche una yurta, la tipica tenda delle popolazioni nomadi locali, dove ci sistemiamo per la notte.

Entrati dentro, l’ambiente è molto accogliente, tappeti variopinti fanno da pavimento e da seduta, drappi colorati alle pareti aggiungono ancora allegria a tutto l’insieme, mi piace! Al centro fa bella mostra di se una stufa con un tubo che esce dalla sommità, brucia sterco animale, su di essa sapientemente bolle un pentolone d’acqua che umidifica l’aria all’interno.

Ceniamo tutti insieme attorno alla stufa, zuppa, carne e patate in abbondanza, un ottimo pasto corroborante dopo una giornata intensa, c’è un’atmosfera calda e serena, sarà anche il contrasto con la rigidità del clima fuori, ma si sta proprio bene.

E anche per la notte la sistemazione si rivela molto confortevole, dopo una rapida occhiata alle meravigliose stelle sopra di noi, si dorme per terra su tappeti e soffici coperte, non si sente il vento che soffia all’esterno, al riparo dalle spesse pareti di feltro che avvolgono la struttura portante in legno.

LUNEDI 25 AGOSTO – Lago Bulunkul / Murgab Sveglia al mattino prestissimo, e ne approfitto per fare un piccolo giro nel paesino, riesco ad osservare il gesto quotidiano delle donne e dei bambini che portano fuori il bestiame dalle stalle, e chissà quanta strada faranno insieme oggi, tra i sentieri qui attorno.

Una volta ricompattato tutto il gruppo, partiamo per una passeggiata al lago Yashil-kul, scopriamo questa meraviglia incastonata tra le montagne che ci circondavano stanotte, ci sparpagliamo tra i vari sentieri che conducono ad esso; conquistata la sua riva, mi fermo ad osservare le onde spinte dalla brezza, respiro profondamente, sto bene qui, provo un grande senso di pace e tranquillità, alla vista del lago che si perde di fronte a me.

Riprendiamo quindi la marcia serrata attraverso la Pamir Highway, che subito, appena reimboccata, ci dedica un’ampia veduta sui laghi salati sottostanti, i colori sono tenui ed amalgamati, attorno agli specchi d’acqua grigiastra ciuffi di erba si mescolano al bianco dei depositi salini.

Terminata la discesa, la strada s’infila dritta nella spianata, incontriamo alcuni agglomerati di case basse, disposte ordinatamente al lato della strada, un paesino minuscolo che però sembra avere tutto il necessario per vivere autonomamente, dalla scuola alla struttura sanitaria. Poco al di fuori, alcune yurte, e poco più in là, uno yak.

E’ il primo incontro con questo strano e mastodontico animale, la curiosità è tanta e ci si ferma ad osservarlo, ad avvicinarlo anche se con timore reverenziale, sembra placido tutto immerso nel suo pelo ma in realtà dovesse mai irritarsi meglio essergli a debita distanza..

Approfittiamo della sosta per avvicinarci ad una yurta dove veniamo accolti dalla curiosità della famiglia, impegnata nelle proprie faccende quotidiane; sono molto cordiali e ci invitano a vedere una delle loro figlie che al telaio sta sapientemente tessendo una di quelle coloratissime stole di stoffa che tappezzano e decorano gli interni delle yurte.

Ci mostrano poi, orgogliosi, l’interno della loro tenda, il rudimentale ma funzionale lavandino che si trova all’esterno, cercano di interagire con noi anche se le barriere linguistiche sono ahimè insormontabili. Riprendiamo nuovamente il nostro dritto cammino, e proseguiamo per un po’, sino a quando non inforchiamo una deviazione che ci porta, lambendo un laghetto e gruppetti di yak in libertà, ad una yurta dove, seduti in tondo, consumiamo un semplice e appetitoso pranzo a base di pesce fritto, ottimo e abbondante, e soprattutto di un’accoppiata deliziosa di yogurt e burro di yak, una meravigliosa scoperta, che spalmati sul pane, buonissimo anche quello, han mandato in visibilio stomaco e palato tanto che non riuscivo più a smettere di tuffare il cucchiaio nelle ciotoline. E così, soddisfatti, si riparte, dritto per dritto, sempre sull’altopiano, fino a quando non precipitiamo nella verde vallata che si apre alla nostra sinistra tra le montagne rocciose, che ci accompagneranno fino al posto di blocco dove attendiamo diverso tempo, con Murgab, la nostra meta odierna, alla portata della nostra vista.

Finalmente riusciamo a sbrigare le solite lungaggini burocratiche e guadagniamo la nostra semplice ma ospitale guest house; giusto il tempo di scaricare i bagagli e siamo subito a spasso, in perlustrazione.

Sembra un paesino anonimo, quasi deserto, ma pare come sempre molto sicuro e tranquillo, le persone che si incontrano sono molto gentili e socievoli, come le ragazzine dalle gote rosse, bruciate dal vento e dal sole, che tirando acqua dai pozzi per le strade ridono e parlano fra loro, o come il gruppetto riunito attorno ad uno sgangherato autobus fermo nella zona nei pressi del bazar, un bazar a dir poco surreale. Cittadina strana, che non si dimentica facilmente, appollaiata a più di 3600 metri di altitudine, in un ampio altopiano; camminando per le viuzze di sabbia secca e brecciolino, tra le case di malta d’argilla e di paglia e di lamiera ondulata, tutte sormontate da parabole, perdiamo rapidamente la nozione del tempo, dello spazio e delle stagioni.

E’ una città pressoché fantasma, e il bazar tutto fatto di vecchi container non fa che aumentare questa impressione, così come le alte e brulle montagne attorno ed il fruscio del vento, il latrato dei cani, che sono ovunque, e che spesso litigano ferocemente tra di loro.

Questo ambiente depresso e deprimente ha ovviamente una spiegazione storica, il popolo tagiko, anche se qui la maggioranza della popolazione è di etnia kyrghiza, è uno dei popoli che più hanno risentito del collasso del comunismo e della frantumazione dell’Unione Sovietica, il suo futuro è incerto, pesantemente segnato da un’identità tutta da reinventare, ora che non c’è più una Grande Madre Russia in cui riconoscersi.

Tornati alla guest house ci rinfranchiamo col calore umano delle mura e della bella tavolata imbandita, e col calore, una splendida sorpresa, dell’ampio bagno, dove a lume di candela ci si immerge in una nuvola di caldo vapore per farsi la doccia e rilassarsi ancora un po’ dalle fatiche della giornata; sembra quasi di essere in un bagno turco, ed uscire da lì ed essere sovrastati dall’ennesimo tripudio di stelle porta subito il pensiero a quante forti e piacevoli sensazioni susciti il viaggiare, essere in posti, anche apparentemente assurdi, come questi.

Mi infilo nella stanza straripante di soffici e colorate coperte, mi ci butto sopra e piombo in un sonno profondo.

MARTEDI 26 AGOSTO – Murgab / Karakul La strada abbandona Murgab lungo una vasta pianura invasa da decine, centinaia di marmotte, una pianura che lascia cadere gli occhi sui picchi dei 7000 lontani, sul versante cinese, attraversati dall’altra mitica “autostrada” delle montagne asiatiche, la Karakorum Highway.

Siamo di nuovo su di una striscia di asfalto piatta e dritta, praticamente deserta, gli incontri si possono contare sulla punta delle dita; incrociamo un fuoristrada Uaz e due motociclisti inglesi, ci avviciniamo ad un vecchio camion, fermo, intorno al quale una numerosa famiglia di autoctoni è intenta a caricare una quantità abnorme di rotoli di muschio.

Finisce l’asfalto, si viaggia tra sassi e massi, tornanti su tornanti, si sale in un attimo che però sembra eterno, gli spazi gradualmente si allargano, siamo quasi in cima, fa freddo, per terra spolverate di bianco, pare neve ma invece è sale.

Siamo in vetta, al passo Ak Baital, a 4655m siamo all’apice della maestosità e bellezza di tanti paesaggi visti in questi giorni passati ad alta quota.

Da qui parte l’ennesima, lunga e dolce, discesa.

Ai bordi della strada ci accompagna il confine cinese, tutto segnato per decine e decine di chilometri da un doppio filo spinato, sorvegliato da altissime torrette di guardia che di tanto in tanto fanno capolino tra le montagne. Tutto ciò appare piuttosto inutile viste le altissime montagne che partono subito al di là della linea di frontiera ma la dice lunga su come, sicuramente, in passato i rapporti di vicinato tra i due paesi non fossero molto buoni. Sulla nostra strada, in lontananza, avvistiamo il Lago Karakul, è enorme e la sua vista è impressionante, soprattutto se penso che a formarlo è stata la caduta di un meteorite.

Una volta preso posto nella nostra spartana sistemazione, ci avventuriamo in una prima visita e ci dirigiamo subito verso il bordo lago; è inquietante, ci sono carcasse di animali ovunque e cumuli di immondizia, tutto lasciato molto probabilmente dai bracconieri che sembrano proliferare nella zona.

Il pomeriggio invece è dedicato alla scoperta del paesino, una visita che suscita sentimenti contrastanti tra fascino e inquietudine, il fascino della calma e l’inquietudine dell’abbandono.

Questo piccolo villaggio che si estende ai bordi del lago, dà l’impressione di essere stato colpito da un’esplosione nucleare, in realtà è solo degrado ed avvilimento dopo i “fasti” di un tempo di questo avamposto militare che fronteggia la Cina, rimane a testimonianza la caserma, e le operazioni dei militari che vanno a caricarsi di acqua al pozzo non fanno che aumentare il senso di decadenza. Incontriamo due anziani signori che col loro tradizionale cappello di feltro e i pantaloni a sbuffo, ci sorridono fieramente e ci stringono calorosamente la mano, accompagnando la stretta con un “salam aleykum”.

Anche qui, come a Murgab, la gente è chiaramente di origine kyrghiza, tutto frutto dell’intervento di Stalin, che tracciò i confini delle repubbliche sovietiche centro-asiatiche in maniera apparentemente sciagurata ma realmente molto scientifica, nell’ottica del “dividi et impera” che gli permise, dividendo le prevalenti etnie locali, creando enclaves e spostando popoli, di tenere sotto l’influenza politica ed economica della minoranza russa questa regione che per di più è a maggioranza islamica. Mi toglie un po’ il senso di tristezza e abbandono l’imbattermi, nel mio vagare solitario, in tantissimi bambini, che si fermano volentieri a farsi fotografare e a scherzare, che mi seguono o vogliono portare chissà dove; in una viuzza ne vedo uno tenerissimo, che avrà sì e no due o tre anni, fare capolino dalla porta di casa e avvicinarsi a me, quasi timoroso, con passo ciondolante, e fissarmi con i suoi occhioni sgranati. Sul finire del pomeriggio ripariamo nel nostro rifugio, il vento gelido imperversa fuori e restiamo tutti insieme a bere qualcosa e scambiare impressioni sul nostro viaggio che ormai quasi volge al termine.

La notte è straordinariamente buia, e il cielo, stracarico di stelle, ha una profondità ed un’immensità che vorrei immortalare; non ci riesco con la macchina foto, ma sicuramente con la mente.

MERCOLEDI 27 AGOSTO – Karakul / Frontiera Sveglia di prima mattina, e breve passeggiata a scaldarsi sotto il tepore del sole alla ricerca, all’orizzonte, tra le montagne dietro al lago, del famoso Peak Lenin, la montagna più alta della catena del Pamir, che nascosto dietro alle nuvole che sembrano perenni non si lascia scovare.

La strada, dopo aver costeggiato ancora per un po’ lo sterminato lago, che ci regala altri scorci e altre vedute dei suoi innumerevoli bracci, ci propone l’ultima fatica, il passo Kyzyl-art, che ci porta a quota 4282m, e soprattutto che ci porta al posto di frontiera, la vera frontiera!! Siamo in un posto surreale, sgangherate casupolette in cima al monte, militari sparpagliati disordinatamente, con divise tutte diverse, fuori ordinanza, sguardi tra il torvo e l’incuriosito; il nostro arrivo sicuramente non li lascia indifferenti, al di là del fatto che al momento siamo gli unici presentatisi qui a valicare il confine.

Le guide iniziano a parlamentare con alcuni di loro, sicuramente si sta trattando su quanto lasciare per agevolarci il passaggio, qui è un postaccio, crocevia dei più loschi traffici dell’Asia Centrale, dalla droga alle armi, ed è quasi normale che dopo tutto quello che questi ragazzi vedono e devono sopportare vogliano ripagarsi della loro condizione rivalendosi sul passaggio di qualche turista. La vita non è sicuramente facile qui, anche se questa non vuole essere una giustificazione poiché, come abbiamo avuto modo di notare nel corso del viaggio, non lo è nemmeno in tutto il resto del paese.

Fortuna che tra le guide c’è Marcel, militanza pluriennale nei corpi speciali anti-droga dell’esercito, che sicuramente ne avrà viste di tutti i colori e soprattutto conosce praticamente tutti qui, anche quello che dall’atteggiamento sembra essere il boss, capello rasato, ben piazzato, sigaro in bocca e giubbottone col pelo, niente a che vedere con le divise malridotte dei suoi commilitoni. Il suo intervento sdrammatizza il momento, fa un paio di sgommate con la jeep e si ferma, con la radio a tutto volume, dalla quale escono le note del tormentone “Sex Bomb”, invita a ballare tutte le donne del gruppo.

Il clima si fa decisamente più amichevole, i militari sorridono, alcuni aiutano nel trasbordare i nostri bagagli dai mezzi tajiki a quelli kirghizi che ci sono venuti a prendere quassù. Ripartiamo.

Dietro di noi il Pamir sparisce troppo in fretta, ma ci regala ancora una volta splendidi paesaggi e forti sensazioni.

Davanti a noi, nel Kyrghizstan, tinte pastello ci accolgono bene, verde e rosso su tutte, e ci tuffiamo volentieri in questa “no man’s land” surreale per vivere un’altra pagina entusiasmante di viaggio.

Ho avuto un bombardamento di emozioni, ho visto tanto in pochi giorni, devo riflettere per assimilare tutto e più ci penso più è incredibile quante cose, e tutte diverse, siamo riusciti a vedere. Non mi considero un viaggiatore di quelli con la V maiuscola, ma ogni volta che parto mi considero una persona che ha la fortuna e la voglia di viaggiare molto.

Parto e mi godo il mio essere curioso, vedere altri paesaggi, altre culture, altre tradizioni, senza per forza dover capire, condividere, e soprattutto senza giudicare.

Torno e mi godo i bei ricordi dei paesaggi e della gente, dei profumi e dei sapori, i disagi e le difficoltà spariscono e rimangono solo sensazioni positive.



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