In incognito
Per accompagnare i turisti stranieri fuori città occorre un lasciapassare, un’autorizzazione di viaggio. E Mohamed ovviamente…Non ce l’ha! E’ un free-lance lui, non avrebbe diritto a lavorare come guida, né tanto meno a scarrozzare donne occidentali sole in giro per il paese. Certo ai numerosissimi posti di blocco che incontriamo, potrebbe far credere che io sia sua moglie. Ma il mio look lo tradirebbe, oppure lui non sfuggirebbe alle critiche e al biasimo generale per questo suo atteggiamento permissivo nei confronti della moglie libertina…E allora ne ha pensata una migliore. Ha contattato una sua amica francese gestrice di un’agenzia di viaggi ben nota, Agorà Tours, e le ha chiesto il permesso di fare il suo nome ad ogni posto di blocco. La scena si ripete N volte. Mohamed arresta la sua Mercedes bianca vecchio modello al cospetto di un trasandato soldato con kalashnikov di traverso, divisa logora e rattoppata e un atteggiamento troppo stanco per incutere la benché minima paura. Alla domanda di rito dell’agente che suppongo essere “E quella chi è?”, Mohamed sfodera le parole d’ordine: “Italia, Agorà Tours”. Il soldato stancamente mi guarda, lo guarda, ripete meccanicamente “Italia, Agorà Tours?”, Mohamed annuisce e il milite annota le tre paroline magiche su un pezzo di carta sfuso. Senza neanche aspettare un cenno di via-libera, Mohamed riparte, sicuro di sé e della sua perizia nel gabbare i controlli locali. Non c’è che dire, con Mohamed sono decisamente in buone mani.
Sfreccia Mohamed sulle strade trafficate di Sanaa e sulle vie tortuose delle montagne yemenite. Si infila tra canali strettissimi, sorpassa a destra, frena ad un centimetro dalla macchina antistante. Continuo a ripetermi che non ho nulla da temere, che con lui sono in buone mani, ma non posso fare a meno di gettare la mano destra a tentoni, alla ricerca della cintura di sicurezza. Invano. E’ coperta da uno strato di polvere atavica e il gancio per incastrarla è sepolto sotto un tappetino in finto pelo di montone. Non credo che mai nessuno abbia avvertito questa “bizzarra” esigenza di protezione in 15 anni di vita e di frequentazione della sua Mercedes…Rassegnata, tengo gli occhi ben aperti e mi abbandono all’ebbrezza di sentirmi pilota di un videogioco di macchine da corsa. Cerco di rassicurarmi affogando le mie apprensioni nelle mie origini partenopee. Ma non mi pare che funzioni. Lo so che sembra impossibile ma ho come l’impressione che Mohamed e i suoi compatrioti superino di gran lunga l’arte della guida anarchica e eufemisticamente sportiva dei miei compaesani. Ogni tanto, perciò, mi scappa un sussulto di fronte a quello che mi appare come uno scontro frontale assicurato o un tamponamento garantito. Ma Mohamed ogni volta riesce a gestire la situazione, volge a suo favore quell’ultimissima frazione di secondo rimasta ed evita il peggio. Di fronte al mio stress, cerca di tranquillizzarmi. “Non ti preoccupare, io guido da quando avevo 10 anni, so come cavarmela”. “Ma Mohamed – rispondo io ingenuamente – come facevi a guidare a 10 anni se non avevi la patente?”. “Che c’entra? – replica scaltro il mio accompagnatore – se è per questo neanche adesso ho la patente, non l’ho mai presa”. Ah, bene, benissimo, mi dico. Mi sto solo facendo scarrozzare da una finta guida senza patente in un paese di predoni…Simulando un notevole self-control, senza batter ciglio, gli pongo l’ennesima stupida domanda: “E come fai a gestire i controlli di polizia?” Certo, avrei potuto immaginare la risposta, notando che ai numerosi posti di blocco già superati mai una volta Mohamed aveva dovuto esibire un qualche documento…“In genere non controllano, ma se proprio capita, pago qualcosa sottobanco e tutto si risolve”. Certo, come no, sarei potuta arrivarci. Anche in questo caso, mi dico, gli yemeniti fanno un baffo ai napoletani … Mentre guidiamo diretti a Manaka, meta turistica e suo paese d’origine, Mohamed ad un certo punto sussurra disinvoltamente che il villaggio che stiamo attraversando è “free”, ci si può acquistare liberamente alcool e marijuana. “Perché? a Sanaa non si trovano?” chiedo. “No, si trovano, ma costano molto di più”. Paga di questa informazione di costume e società, mi rimetto a seguire il filo dei miei pensieri mentre vedo sfrecciarmi davanti agli occhi immagini di quel paesaggio così ruvidamente diverso da quello tropicale a cui mi sono assuefatta alle Comore. Ma dopo qualche istante, Mohamed riprende il discorso. “Tu bevi?” domanda. “Sì, non sono un’alcolizzata, mi piace bere solo in compagnia, quando capita” rispondo. “Dai, vuoi che ci fermiamo a comprare qualcosa? Che preferisci birra o whisky?” chiede ammiccante. “No, certamente non whisky, ma comunque anche per quanto riguarda la birra, penso di poterne fare a meno, non muoio se non ne bevo”. “No, ma guarda che stasera, in albergo, ci saranno tanti turisti e vedrai che tutti quanti avranno la loro birra da sorseggiare. Se non la prendiamo ora, potresti pentirtene poi” replica Mohamed. Continuo a ripetere che non mi interessa, che non lo vedo un acquisto indispensabile, che anzi credo proprio che voglia di birra non me ne verrà, ma purtroppo non ho molte armi di difesa contro l’insistenza mediorientale. Ci fermiamo, senza scendere dalla macchina chiede con fare guardingo 4 birre all’oste volante, e paga un euro e mezzo a lattina. Mi sento in dovere di rimborsarlo, in fondo, mi dico, è una spesa che fa per me, per compiacermi, probabilmente mosso dalla convinzione che tutti gli occidentali siano delle specie di alcolisti a piede libero che in viaggio in terre astemie per definizione e virtuose per eccellenza potrebbero andare in crisi di astinenza in qualunque momento. Ma Mohamed non vuole che gli dia i soldi, dice che è lui ad invitarmi. Solo il giorno dopo capisco il perché di tanta insistenza e generosità. Rimettendoci in viaggio da Manaka, mi propone una birra. Io sono già in preda a un principio di mal di pancia e la birra è l’ultima cosa al mondo che mi va di ingerire. In più è mezzogiorno, sono a stomaco vuoto e non ho niente da sgranocchiare in accompagnamento; insomma non c’è niente che giustifichi una birra secondo le mie abitudini. Deluso, Mohamed insiste. Mi devo imporre strenuamente perché non mi stappi la lattina e mi tracanni il contenuto giù per la gola. A quel punto, di fronte alla mia saldezza, non gli resta che uscire allo scoperto. Prende una birra e comincia a sorseggiarla mentre guida. Confessa che è un piacere che a Sanaa non si può concedere, quindi approfitta di queste occasioni. Io guardo il sacchetto e vedo che rimane solo una lattina. Non oso immaginare quando si sia scolato le altre due, spero non prima di mettersi al volante… Nonostante tutto posso star tranquilla. Non credo ci sia il rischio che oltre a ripetere “Italia, Agorà Tours”, il soldato di turno chieda anche a Mohamed di fare una prova del palloncino. E se pure fosse, sono sicura che il mio accompagnatore saprebbe trovare la soluzione giusta 😉 E non penso, in ogni caso, che la guida in stato d’ebbrezza o sotto effetto di stupefacenti sia un’infrazione punibile secondo il codice della strada yemenita. Anche perché, se così fosse, nessuno avrebbe più il diritto di circolare. Sì, perché, Mohamed, come del resto la maggior parte dei suoi concittadini, usa guidare, a partire dall’una del pomeriggio in poi, masticando foglie di qat, la droga leggera di produzione locale, vero emblema dell’identità nazionale. Prima di partire per la nostra gita, ancora a Sanaa, Mohamed si è avvicinato a degli uomini acquattati per terra su un lenzuolo bianco e ha contrattato per un sacchetto di foglie. Una volta in macchina se l’è messo accanto al freno a mano e ogni tanto attinge. Stacca le foglie con i denti o con le mani, getta dal finestrino il rametto e lentamente comincia a masticare. Non ingoia mai, le foglie sminuzzate si incollano all’interno della guancia destra e formano un palloncino destinato a crescere man mano che nuove foglie saranno ingurgitate. Si vede che è soddisfatto. Certo, è sempre più gradevole “qatteggiare” in compagnia, magari dopo pranzo, mollemente adagiati nelle comode poltrone basse del mafraj . Ma in mancanza di meglio, Mohamed cerca di fare di me la sua compagna di qat. Sempre guidando, mi porge un rametto. Mi tiro indietro, so cosa sia ma ne ignoro gli effetti, non vorrei ritrovarmi stordita e svampita tra le braccia di un ruvido predone yemenita. Per quanto sappia di essere in buone mani con Mohamed, mi dico che è meglio mantenere alto il livello di guardia. Rifiuto educatamente. Ma Mohamed insiste. Continuo a rifiutare, anche perché non ci tengo particolarmente ad ottenere l’abilitazione da ruminante. Ma lui continua a insistere. Alla fine, per esaurimento e, lo confesso, anche per un briciolo di curiosità, accetto… Bleah!!! Le foglie sono amarissime! E poi proprio non capisco come facciano gli yemeniti a forgiarsi il loro palloncino interno, a me sono bastate poche masticazioni e già le foglie sono ridotte ad una poltiglia da inghiottire…Ripeto l’esperimento più volte, Mohamed dice che a lungo andare il gusto amaro svanisce e vuole che perseveri finché quella ruminazione non mi appaia gradevole. Ma io prendo qualche foglia solo ogni tanto, giusto per farlo contento, ma continuo ad essere disgustata e…Per fortuna vigile… …Stiamo arrivando a destinazione a Manaka, quando Mohamed mi prospetta l’albergo in cui dovremo pernottare. Si tratta del Manaka Tourist Hotel, il miglior funduk del villaggio, tipico ostello ricavato in una vecchia torre dalle finestre in vetro colorato. “Sai in questo tipo di alloggio non ci sono stanze singole, solo camerate con materassi a terra” mi annuncia. Beh, certo, mi dico, data la mia precedente notte trascorsa a inseguire il sonno sui poco accoglienti sedili di un aeroporto prima e di un aereo poi, mi sarebbe piaciuto dormire in un vero letto in una stanza tutta per me. Ma non batto ciglio, posso adattarmi anche a questo. “Comunque noi possiamo prendere una stanza solo per noi” afferma Mohamed. ALT! A QUESTO NON POSSO ADATTARMI ! Con tutta la buona volontà, con la massima apertura mentale e con la massima fiducia nell’integrità morale di Mohamed, non sono comunque disposta a dividere da sola la camera con un uomo che non conosco. Non metto in dubbio di essere in buone mani con Mohamed, ma come è che si suol dire? Fidarsi è bene, non fidarsi è meglio…Non vorrei, per evitare il beduino rapitore, essere finita tra le braccia di un insospettabile maniaco o di un ordinario musulmano machista. Mi vengono infatti in mente anche idee molto politically scorrect: forse questi uomini musulmani pensano davvero che le donne occidentali siano tutte un po’ put…, che basta ritrovarsi in un ambiente e in una situazione congeniale per ottenere ciò che vogliono…Ma non serve abbandonarsi in considerazioni socio-antropologiche, urge piuttosto trovare una risposta negativa ma non offensiva per Mohamed, in fin dei conti non posso sapere quale sia la vera origine di questa sua sortita. Farfuglio qualcosa che ha a che fare con il fatto che essere in una camerata con tanta gente potrebbe essere più simpatico, che io preferirei far conoscenza con qualcuno, ecc. Non sono troppo convincente e Mohamed si insospettisce “Perché? hai paura di me?” chiede. “Certo che no, è solo che preferisco le compagnie numerose. Ma vediamo cosa ci propongono in albergo” Prendo tempo. Stratagemma riuscito, grazie a un leggero colpo di fortuna. Contemporaneamente a noi, arriva infatti al funduk un gruppo di turisti italiani che avevamo incrociato per strada e con i quali avevo già fatto conoscenza. Non ci penso due volte e chiedo ospitalità nelle loro camerate, raccontando immediatamente da quale minaccia stia cercando di scappare. Comprensivi e solidali, mi accolgono prontamente e mi destinano alla camerata femminile. Uff, sono salva, anche per questa volta sono in buone mani…Anche se non in quelle di Mohamed… All’ombra dei riflettori Passando di una buona mano a un’altra, non rischio di certo di passare agli onori della cronaca nera yemenita e internazionale. Eppure tutto lascia intendere che io abbia buone possibilità di finire sotto l’ombra dei riflettori. Non ho fatto nulla, sono solo capitata in Yemen al momento sbagliato…O giusto, secondo i punti di vista. Sono sbarcata in Yemen da un paio d’ore, ho appena fatto il mio ingresso nella città vecchia di Sanaa, non ho ancora fatto in tempo ad immergermi nei profumi, colori e suoni mediorientali del suq, che già ritrovo qualcuno dalle fattezze familiari. Una donna, in abiti chiaramente occidentali, dirige freneticamente un cameraman. Non ci metto molto a capire di che e di chi si tratta. Deve essere una giornalista italiana venuta a relazionare sul rapimento dei nostri sfortunati connazionali. Il simbolo del TG1 sulla telecamera mi conferma i sospetti, così come mi pare di distinguere chiaramente i tratti di un volto noto del piccolo schermo italiano: la giornalista deve essere Tiziana Ferrario. Sono a pochi metri da loro e mi godo la scena, soprattutto considerando che non ho mai assistito dal vivo a delle riprese, né tanto meno ho mai provato l’emozione di trovarmi sul set di una notizia. Avrei quasi la tentazione di spacciarmi per un Paolini in versione yemenita, o di produrmi in un banale ma appagante “ciao mamma” davanti alla telecamera. Ma poi mi ricordo. Non sia mai, devo tenermi ben lontana da quella telecamera, la mamma non va salutata, perché la mamma non sa… La mattina dopo mi destreggio per farmi strada, al fianco di Mohamed, tra l’indisciplinata e assordante folla di mercanti in fiera nel suq di Manaka. Ad un tratto vedo un gruppo di bianchi con una telecamera. Guardo meglio e mi rendo conto che si tratta di ancora connazionali. TG2 questa volta. Passo davanti alla cricca e saluto in italiano. “Sei italiana?” mi chiede uno dei giornalisti senza perdere un secondo. “Sì” rispondo. “Viaggi da sola?” “Sì, ma sono in transito”. “In transito da dove?” “Dalle Comore”. Non so quanto abbia capito di quello che ho detto, penso che gli sia bastato sentir odor di donzella in viaggio da sola in Yemen per azionare il suo istinto professionale. “Facciamo una battuta!” si rivolge sicuro al suo operatore. Mi ci vuole una frazione di secondo per tradurre in italiano corrente questo gergo da cronisti e per realizzare quello che sta accadendo. Vogliono intervistarmi! Il senso di lusinga nel sentirmi soggetto da notizia e l’incredulità di essere incappata proprio in qualcuno che potrebbe fare di me un volto pubblico sono rapidamente scalzati dalla disilludente consapevolezza che quell’intervista “non s’adda fare”…”No, non posso, mi dispiace” reagisco. “No, ma non c’è niente di sconvolgente, giusto una battuta…” cerca di convincermi il cronista. Ma io sono ferma, so di doverlo essere a tutti i costi: “No, non posso, vi ho detto. Viaggio in incognito. Mia madre mi crede in Madagascar!” “Eh ma che vuoi che tua madre faccia la differenza tra Yemen e Madagascar?” chiede il giornalista tra il canzonatorio e l’insistente. “Certo che la fa!”, rispondo io con un sorriso che vorrebbe dire “voi non sapete chi è mia madre…”. Quindi saluto e vado via, annullandomi in questo alone di mistero che io stessa ho creato con le mie frasi spezzate. Chissà, mi chiedo, se ho suscitato un minimo di curiosità in questo giornalista di passaggio, confondendo Yemen, Comore e Madagascar, parlando di transiti e viaggi in incognito, illudendolo prima con il mio saluto espansivo per lasciarlo poi a bocca, anzi a videocamera, asciutta con una scusa così terribilmente banale come quella della mamma da gabbare… Non ci posso credere. E’ la prima volta che viaggio in incognito e la prima volta che gli eventi tramano perché questo mio viaggio diventi addirittura pubblico! Dopo aver alimentato la curiosità e il bisogno di seguirmi di mia madre con informazioni il più veritiere e plausibili possibile, ora mi tocca perfino dribblare l’interessamento e le profferte della televisione italiana, evidentemente a corto di soggetti di vera rilevanza. Spero solo che mia madre non abbia ancora tirato fuori dall’armadio il suo vestito da Signora in giallo e che il mio universo parallelo sia ancora credibile ai suoi occhi. Altrimenti a nulla sarebbe valso questo sacrificio che già mi pesa. Il sacrificio dei miei cinque possibili minuti di celebrità… Carramba, che sorpresa In realtà ho fatto qualcosa che potrebbe tradirmi. Ho dato ai miei il numero dell’albergo in Madagascar ma poi li ho chiamati dallo Yemen, pur sapendo che i loro telefoni mostrano sul display il numero in chiamata. Quanto ci metterà la Miss Marple di famiglia a scoprire che il prefisso internazionale da cui chiamo non è quello del Madagascar? Telefonando, so benissimo di correre questo rischio ma non posso fare altrimenti: l’ansia di mia madre impone che io chiami per informare che va tutto bene e d’altronde non posso che telefonare da una cabina, il cellulare italiano non prende…Chiamo perciò sabato mattina, all’arrivo a Sanà o Tanà, a seconda di quale realtà si consideri…E chiamo anche l’indomani mattina, domenica. “Sì, qui tutto bene, mi sono incontrata con Giorgio, ora siamo in giro per Tanà, non mi chiamate in albergo perché non c’è il telefono in camera, domani partiamo per un giro verso est, vi chiamerò martedì”, mentre invece sono sotto scorta di Mohamed in un centro telefonico nel bel mezzo del mercato di Manaka, tra urla di venditori agguerriti, squilla di clacson di automobilisti prepotenti e belati di capre e montoni da portare al macello in vista della gran festa dell’Aid Al-Kabir… Dell’ultima chiamata di domenica mattina non ho riscontri. Non posso sapere se mia madre ha scoperto tutto nel frattempo. Ma io vado comunque avanti per la mia strada, secondo il piano prestabilito. E così, dopo un’ultima giornata trascorsa a fare spese nei mercati di Sanaa, saluto Mohamed, mi imbarco alle 3 del mattino del martedì alla volta di Roma e ricevo a Fiumicino alle 7 del mattino una sana accoglienza da profuga da parte di due mie amiche debitamente convocate per offrirmi cappotto, sciarpa e cappello e per tradurmi alla stazione. Superati diversi ostacoli logistici, arrivo a Napoli, prendo la circumvesuviana e alle 14 approdo finalmente a Castellammare. Sempre secondo i piani, mi rifugio dalla mia amica Ornella, che mi offre riparo e rifocillamento, mentre progettiamo il culmine della sorpresa. Per settimane mi sono tormentata: presentarmi addirittura alla porta di casa o annunciarmi con una telefonata preventiva in modo da scongiurare un attacco cardiaco? “La seconda che hai detto” mi consiglia Ornella. Mi faccio coraggio e chiamo. “Mamma, sono io”, “Ehi! Ma come fai a chiamare dal numero locale?”, “Mamma, SORPRESA! sono a Castellammare, a casa di Ornella, ma non ti preoccupare, va tutto bene”, “Chiara, ma che stai dicendo? Come è possibile? Non eri in Madagascar?”, “No, mamma, è stata tutta una farsa, sono venuta a casa”, “No, non ci credo…Mi sento male”, “No, per carità, era quello che temevo, stai tranquilla, va tutto bene”, “Ma che è successo, stai male?”, “No, mamma, sto bene, ho solo deciso di tornare a casa per le vacanze e di farti una sorpresa”, “Mamma mia! Non ci credo! E come sei venuta?”, “Eh, è una lunga storia, posso venire a casa?”, “Certo che puoi venire, vieni con Ornella”.
Sull’uscio di casa mi accoglie agitando la mano “Sei pazza, sei pazza, sei completamente pazza!!!”. Ma è felice, commossa, sorridente. Mai, in vita sua si sarebbe aspettata di replicare su scala familiare un set alla Raffaella Carrà… Pochi passi in casa e mi accorgo che sta leggendo “In viaggio con Mohamed. Nello Yemen e nel Mar Rosso” di Eric Hansen. Ehhh, sussurro tra me “spero proprio che questo Eric sia stato in buone mani con il suo Mohamed…