Lontano da Dio, vicino alle stelle di parte II

Oaxaca, Puerto Escondido, Mazunte, Huatulco, Taxco, Guanajuato, Leon, San Miguel de Allende, Città del Messico. CAPITOLO 1 OAXACA MON AMOUR E rieccomi sulla rotta per Mexico City, volo KLM da Amsterdam, questa volta proveniente da Barcellona, due anni e due mesi dopo. Mi tocca fare scalo in Olanda per poter riattraversare l’Oceano e mettere le...
Scritto da: Edson
lontano da dio, vicino alle stelle di parte ii
Partenza il: 03/06/2005
Ritorno il: 26/06/2005
Viaggiatori: da solo
Spesa: 1000 €
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Oaxaca, Puerto Escondido, Mazunte, Huatulco, Taxco, Guanajuato, Leon, San Miguel de Allende, Città del Messico.

CAPITOLO 1 OAXACA MON AMOUR E rieccomi sulla rotta per Mexico City, volo KLM da Amsterdam, questa volta proveniente da Barcellona, due anni e due mesi dopo. Mi tocca fare scalo in Olanda per poter riattraversare l’Oceano e mettere le lancette sette ore indietro al mio arrivo. Il viaggio è interminabile, calcolando che ho lasciato Valencia, proveniente da Alicante, in macchina nel tardo pomeriggio del giorno prima, in direzione aeroporto di Barcellona, per partire in mattinata, e che da Mexico City devo poi prendere il volo per la mia destinazione finale, Oaxaca. Ho dormito poco finora, e scambio appena due battute con il ragazzo inglese seduto affianco: viene da Berlino e va a Oaxaca per un anno ad insegnare la sua lingua in una scuola privata. Non c’è dubbio che come cambio è notevole, gli faccio gli auguri mentre invidio il mestiere che fa.

A Oaxaca c’ero già stato l’altra volta, e ci ero poi ritornato prima di riprendere il volo per l’Italia. L’avevo eletta a mio luogo preferito, tra quelli visitati, e non solo per l’incontro con Liliana. L’altra volta ci ero arrivato in macchina, dopo tre giorni a Mexico City, stavolta ho preferito venirci immediatamente.

C’è una leggera brezza sulla terrazza del bar dove vado con Liliana a bere le prime due birre gelate, ed il cielo è stellato. Ho preso una stanza alla posada Margarita, la stessa dove avevo alloggiato le ultime notti l’altra volta, e subito ricomincio a prendere possesso della via pedonale attigua e della facciata barocca della chiesa di Santo Domingo. E’giovedì notte, anzi è già venerdì. Sono stanco, Liliana mi accompagna e mi saluta sulla porta della posada.

La prima mattina in terra oaxacaqueña mi riserva la prima sorpresa: scendo a fare colazione, mi guardo intorno e, ad un tavolo vicino, saranno una decina di persone, eccola, di spalle, Susana Gonzalez, e c’è pure Oscar, il suo fidanzato. Ero venuto proprio con loro in macchina due anni fa. Lei candidamente mi chiede se per caso non mi sia fermato a vivere lì. Sono lì per il weekend, sono pazzi di Oaxaca, a sei ore d’auto dall’inferno di Città del Messico. La ragione del mio essere lì arriva tempestivamente pochi minuti dopo, Liliana saluta la coppia di miei amici messicani dai quali ci congediamo in fretta, per tuffarci subito nel caldo della città. Mi sembra di non essere stato poi così tanto tempo lontano da qui, tutto mi è così familiare, anche le persone che salutiamo per strada; solo lo Zocalo, la piazza principale, è sottosopra, ci sono i lavori per la pavimentazione, giurano che sarà tutto pronto per la festa della Guelaguetza, tra qualche settimana, stento a cerderci, ma mai mettere il freno alle magie di questa terra. Ritorniamo nei mercati, assaggiamo la cioccolata in una bottega e i chapulines, specialità locale, piccoli insetti fritti e messi sotto sale e peperoncino. A sera poi a ballare fino a tardi in un locale dal vago sapore occidentale, con le amiche e i cugini di Liliana. 6 giugno 2005, lunedì: Esco presto la mattina per raggiungere la chiesa di Santo Domingo dove sta per iniziare la messa. La notte è stata lunghissima, a letto dalle cinque del pomeriggio, in preda al male assorbimento del nuovo fuso orario, a mezzanotte tiro su le coperte e decido che è meglio recuperare le forze. Lili non poteva uscire quella sera e, in fondo, era stata una giornata già soddisfacente, con lei e la sorella a spasso per il mercato di Tlacolula, a bere Tejate, acqua a base di polvere di cacao e a mangiare Tasajo, carne arrostita con cipolla e tortilla, comprata e cotta sul posto sulle griglie sempre ardenti tra gli indios in fila.

Il mercato della domenica a Tlacolula è un po’ come quello di Oaxaca, certamente più provinciale, la vendita di alimenti è divisa per settori al coperto, quello del pane, della frutta, e via via fino al fumoso asadero, quello della carne. Fuori si trova ogni genere di mercanzia che arriva dai villaggi sulle montagne nei dintorni. Compro una camicia bianca ricamata, un sombrero ed un alebrije, gli oggetti in legno ad incastro tipici di Oaxaca, nella fattispecie un cactus con tanto di fiori e uccello annessi. Nella piccola chiesa adiacente il mercato c’è l’immagine di San Nicola di Bari e questo mi fa sentire un po’ più a casa.

Sulla via del ritorno si fa tappa al piccolo villaggio di Santa Maria del Tule, sorto attorno all’albero più antico che io abbia mai visto: cinquantotto metri di circonferenza per quarantadue di altezza, Più di duemila anni, dice la didascalia, ha l’Ahuehuete, gigantesco e maestoso a testimoniare il tempo che passa facendo sentire piccoli tutti gli uomini sotto la sua ombra.

Oggi invece in giro per la città a prendere informazioni sui bus e i pulmini per il mare e al mercato principale a comprare una borsa per il viaggio. I bagagli li lascio da Liliana, passerò al ritorno a riprenderli.

9 giugno 2005, giovedì Arrivo a Mazunte alle 11.00 dopo un’ora sul bus locale da Puerto Escondido. Prendo alloggio nella bettola più scalcinata del luogo, il “Carlos Einstein”, nell’unica stanza, ma chiamarla tale è da ottimisti. Gli altri ospiti, pochi, sono sul terrazzo, dove per pochi pesos si affittano le amache o si può appendere la propria.

Mentre le due donne che curano la locanda cercano di dare un aspetto civile a quella stamberga, faccio il primo tuffo nell’Oceano Pacifico. Le onde sono traditrici e perciò sto attento a non allontanarmi troppo dalla riva, e resto vicino a Ana e Patricia, due splendide sorelle di Madrid. Patricia è un incanto e me ne innamoro subito. Fa la hostess per l’Iberia ed è già la seconda volta che viaggia con sua sorella per il Messico. Le incontrerò più volte nei pochi giorni qui a Mazunte ma Ana è come un cane da guardia e perciò il mio rimarrà solo un amore platonico.

Ho scelto l’ostello di Carlos, un fricchettone di origine tedesca, un po’ perché segnalato sulla guida, un po’ perché mi ci aveva accompagnato Jaime, del D.F., con me a chiedere un passaggio sulla camionetta per Mazunte, qui in vacanza con alcuni amici, salito a metà strada sul bus da Puerto Escondido.

Aspetto il mio “pescado alla veracruzana” e penso che sia valsa la pena arrivare fino a qui, lasciando Puerto Escondido dopo nemmeno ventiquattro ore.

Ieri a Puerto ho tirato fino all’una con difficoltà poi a ritrovare il mio hotel. Ci passavo davanti senza riconoscerlo, e sì che mi ero scolato due tequila sunrise e quasi un litro di vino in compagnia di Mary, ex hostess americana di San Diego in fuga da non si sa bene cosa, sicuramente da se stessa. Cinquant’anni anni portati alla grande, in arrivo da Acapulco dove dava a intendere di aver dato sfogo alle sue voglie più sfrenate; anche lei lì da poche ore in cerca di tranquillità. Eravamo rimasti soli nel ristorante sulla baia e mi aveva invitato a bere il suo vino, poi è stato naturale proseguire la serata in un bar a bere e farci due partite al biliardo. C’era poco altro da fare a Puerto Escondido e la serata avrebbe facilmente avuto il suo epilogo nel letto di Mary, ormai sfacciatamente disponibile, ci salutiamo per strada invece, good luck Mary, io sono già altrove.

10 giugno, venerdì: Stamane ho cambiato posada, sono già sulla terrazza da Ziga, da dove domino la playa di Mazunte, che sorseggio un caffè. Sono arrivato qui su consiglio di Jedd, l’inglese dell’aereo per Oaxaca, incontrato casualmente poi ieri sulla spiaggia, cose che succedono in Messico. L’avevo pure rivisto una volta per strada sulla Macedonio Alcalà, la via pedonale di Oaxaca, questo ragazzo di Hull, nel Kent, e rieccolo qui, già scottato dal sole del Pacifico. Ieri abbiamo cenato assieme nel silenzio interrotto dallo scrosciare delle onde davanti al buio tempestato di stelle, e sono tante viste da qui. Il caffè da Carlos Einstein aveva colore di brodaglia e dunque ho salutato frettolosamente Matia e Marta, la coppia di giovani sloveni con cui avevo chiacchierato, in italiano, la sera precedente, prima di appisolarmi su un’amaca in terrazza.

Conto da quassù non più di una decina di anime sparse per la spiaggia e decido di muovermi, vado alla laguna di Playa Ventanilla.

Ci sono arrivato camminando per qualche centinaio di metri a piedi su una strada sterrata dopo aver preso un passaggio, fuori Mazunte, da alcuni operai che andavano in quella direzione. L’impatto è quantomeno desolante, non c’è nessun altro al mio arrivo ma la visita è in programma dopo una mezzora. Aspetto e intanto arriva una coppia sui quaranta in fuoristrada con giovane accompagnatore indigeno e un ragazzo nordeuropeo dall’aspetto selvaggio. Ci incamminiamo per qualche altra decina di metri fino ad arrivare alla pagoda con la quale il ragazzino che ci fa anche da guida ci accompagna all’interno della laguna tra coccodrilli, decine di iguane e uccelli di ogni specie. Ad un certo punto scendiamo dalla barca per guardare degli enormi coccodrilli immobili in cattività e per dissetarci all’ombra di una baracca, non prima di esserci spalmati bene di crema contro le zanzare, ce ne sono centinaia a ronzarci attorno. Al ritorno sarà la coppia, lui spagnolo di Alicante, lei messicana di Puebla, ad accompagnare me e il giovane tedesco a Mazunte, risparmiandoci la fatica di ulteriori chilometri a piedi sotto il sole cocente.

Resto ad oziare tra la terrazza della posada e la spiaggia fino all’ora della cena con Jedd ed il suo collega di Nottingham appena arrivato da Oaxaca. Jedd s’è storto una caviglia tra le onde e va subito a nanna lasciandomi a bere cerveza e mezcal col suo amico fino a mezzanotte sotto un temporale che ci costringe ad arretrare sempre più sotto il tendone di Ziga.

11 giugno 2005, sabato: Sono in una bettola di Pochutla a mangiare enchiladas e a bere cerveza fria poco prima di prender letteralmente al volo un pullman sgangherato per Huatulco. A bordo, non credo ai miei occhi, c’è Patricia. Purtroppo c’è pure Ana, e il mio sogno romantico si infrange alla loro fermata, scendono dopo alcuni chilometri, vanno a visitare una spiaggia e per un attimo sono tentato a scendere con loro. La saluto invece sperando in un prossimo incontro e proseguo fino alla Crucecita, a Huatulco, dove ci metto un po’ per capire che devo prendere un bus locale per raggiungere una qualche spiaggia. Scelgo Santa Cruz, la più vicina, e mi va bene, perché appena in spiaggia incontro Amandine, ventenne parigina, qui per un weekend fuori dal D.F. Dove fa uno stage in una azienda multinazionale. Facciamo conoscenza e qualche bagno nel mare impestato da piccole meduse e poi mi indica il suo hotel, lì vicino, a soli 200 pesos. Al nostro arrivo non c’è nessuno e così lascio le mie cose nella sua stanza al piano terra. Anche lei è lì da poche ore e così prendiamo prima un taxi per il centro e poi uno per la playa Tangoluda, quella degli hotel di lusso. Così scopriamo assieme che Huatulco è una invenzione per turisti americani, un progetto lasciato a metà nato per fare concorrenza a Cancun e Acapulco. La città quasi non esiste, c’è uno Zocalo anche qui, pochi negozi e ancor meno locali, ma i turisti sono tutti al sicuro nei mega hotel sorti da qualche anno a Playa Tangolunda. Altri ancora forse ne costruiranno, anche il nostro sembra ancora in costruzione, ma proprio a sentire il suo proprietario, chissà se mai si vedranno quaggiù tutti i visitatori attesi, Cancun e Acapulco saranno sempre lontane, viste da qui.

A cena poi in una taqueria e un drink nell’unico bar decente nei pressi dello Zocalo. L’indomani aspetto le 11.00 per andare col catamarano dal porto di Santa Cruz. Non molta gente a bordo, soprattutto famiglie di messicani, musica come al solito ad alto volume e birra e bibite a volontà, il tutto ad una cifra modica per stare oltre cinque ore tra le onde del mare aperto. Il catamarano fa dei salti da paura e solo dopo un’ora si ferma in una spiaggia fino allora deserta per farci fare snorkeling, cosa impossibile a Mazunte e dintorni per le onde che ti risucchiano, chiedere informazioni a Jedd l’inglese e alla sua caviglia gonfia. Altra sosta nella spiaggia che ospita le palapas, i ristoranti col tetto in paglia, dove, già ubriaco di cerveza, scelgo quella più appartata per un pesce ai ferri e micidiale Michelada, la birra ghiacciata con sale e peperoncino.

Intanto attracca un catamarano grande il doppio del nostro pieno zeppo di americani ospiti negli hotel di Tangolunda. Sono già passate le cinque quando rientriamo al porto di Santa Cruz. Ritrovo Amandine rientrata già da un pezzo e usciamo per fare il biglietto per Oaxaca. Mangiamo anche una Tlayuda, la piadina del posto, in una fonda, una specie di snack bar, nel mercato rionale che sta per ormai per chiudere. Facciamo poi un’ultima passeggiata sul mare mentre a casa mia è già il… 13 giugno 2005, lunedì, giorno del mio trentasettesimo compleanno: La nottata sul pullman per Oaxaca è più lunga del previsto. Mi siede appresso Sancho Panza in persona e soltanto fino a Salina Cruz riesco a stare nella fila vuota che c’è affianco. Qui salgono altri passeggeri e così mi tocca dividere la mia poltrona fino all’arrivo con mezza pancia del mio vicino. All’arrivo resto una buona ora in trance nella stazione dei bus prima di scorgere un Internet Bar appena di fronte, qui per fortuna hanno appena lavato il bagno e trovo opportuno approfittarne per rimettermi in sesto. Arrivo poi a piedi a bussare a casa Meixueiro. Lili non risponde, scendo a telefonare, era a fare la doccia. E’ sola in casa, mi apre la porta con ancora i capelli bagnati, bella come la giovinezza. Prendo alla lettera l’invito ‘mi casa es tu casa’ facendo colazione e una doccia rigenerante. E così il giorno del mio compleanno lo passo con Liliana tra l’agenzia turistica a scegliere il villaggio e la meta (deciso per Cancun) e la lavanderia, tra l’università e un piatto di spaghetti al tonno e salsa ‘guacamole’ a casa sua a mezzogiorno, una birra gelata con limone sull’Alameda e la stazione dei bus per i biglietti per la capitale. Sto bene con Lili, sembra felice anche lei e decidiamo di partire con lo stesso bus in nottata per il D.F., arrivo alla stazione sud, la Tasqueña. Da lì andrò a Taxco, Liliana invece raggiungerà i suoi e la sua vacanza sarà più vicina.

Alle cinque e mezza già si intravede la sterminata distesa di luci di quel folle agglomerato che è il D.F.; ben un’ora prima dell’arrivo siamo già incolonnati nel traffico del ‘monstruo’, da cui conviene scappare immediatamente. Liliana, solo quando è ormai in fila per il taxi, mentre io ho già in mano il biglietto per Taxco, un po’ si lascia andare ed il nostro abbraccio diventa quello di chi sa di perdere qualcosa di bello e non sa cosa fare per evitarlo, di chi sa che può essere l’ultimo abbraccio.

CAPITOLO 2 TAXCO, GUANAJUATO, SAN MIGUEL DE ALLENDE Due giorni a Taxco, nel Guerrero, per capire che si può impazzire a guardare le decine di Volkswagen Maggiolino e minibus che si inerpicano come su una giostra per i vicoli tortuosi di questa città aggrovigliata su se stessa. Una città scavata nella roccia dove un tempo si raccoglieva tanto di quell’argento che l’ha resa celebre e che ancora attira visitatori in vena di affari negli innumerevoli negozi e tra i mercati. Qui dove è facile perdersi, per poi sbucare da un’altra parte da cui ripartire, per salire poi fino in cima resto a guardare la giostra impazzita dal balcone della stanza che ho preso all’hotel Casa Grande, nella plazuela San Juan.

Sconfino per una giornata intera nello stato di Morelos, lì dove è nato Emiliano Zapata, e nella capitale Cuernavaca vi trovi alcuni murales di Diego Rivera, che lo ritraggono. Arrivo alle rovine di Xochicalco, dove non c’è quasi nessuno, e sicuramente sono l’unico straniero in questa landa desolata. E’ una giornata fresca e grigia e resto assorto in contemplazione, e quasi sento gli spiriti degli aztechi che qui raggiunsero quello splendore che solo s’era visto prima a Teotihuacan.

16 giugno 2005, giovedì: Sono arrivato a Guanajuato ieri sera, doveva esserci Azul alla stazione dei bus.

Ho atteso venti minuti, poi ho preso un taxi per la città, ho chiesto all’autista di portarmi in centro. Non avevo idea di dove andare a dormire, stavolta meno che mai, doveva pensarci Azul. La stazione è un pò lontana dalla città e perciò non ti rendi esattamente conto della sua stranezza finchè non ne entri letteralmente nelle viscere.

Calvino deve essere passato di qua, ne avrà poi cambiato il nome per una delle sue città invisibili. Prendo alloggio alla Casa Mexicana, e la stanza è un’esplosione di rosso e di blu, riproduzioni di Rivera alle pareti, mobili e fiori intagliati in legno che ne danno un sapore coloniale caldo e accogliente. Guanajuato non ha niente a che vedere con il Messico visto e conosciuto finora, la prima impressione è di una città dove tutto è lindo e ogni cosa è al suo posto. Dopo molti giorni finalmente vedo una città affollata col sapore della fiesta. Ci sono tantissimi giovani americani, per strada e nei bar, molte collegiali schiamazzanti che vengono a imparare qui lo spagnolo senza perdere le alcoliche abitudini per cui magari avrebbero problemi a casa, ci sono i mariachis per la callejonada, la passeggiata a suon di musica per i vicoli, e ci sono suoni e colori piacevoli qui. Le luci sono giuste, e i palazzi e le chiese in splendido stato.

Entro in un locale con i tavoli e le sedie di pelle e bambù e ordino una fajita de pollo e due cervezas che sono un piacere per i sensi e un sollievo per la mia fame.

Poi capito alla Puerta del Sol, un posto dove fanno musica dal vivo, e qui altra birra per un’altra ora almeno, prima di tornare, sempre a piedi, alla mia posada dipinta di rosso e di blu per un sonno intenso e desiderato come non mai.

17 giugno 2005, venerdì: Azul era rimasta senza benzina ieri sulla strada per Guanajuato, me lo spiega al telefono stamattina scusandosi per la ‘gaffe’. Veniva da Leon, che è ad almeno un’ora di distanza, e alla stazione ci era pure arrivata, ma solo mezzora dopo la mia partenza. Vado a zonzo che è un piacere in questa città, scopro che qui è nato Diego Rivera, icona del Messico e artista venerato internazionalmente, e visito la sua casa natale, ormai diventata un museo a tutti gli effetti. Al mercato coperto mangio un panino alla porchetta e nel pomeriggio salgo in funicolare su fino al grandioso monumento a El Pipila, il leggendario eroe minatore della guerra d’indipendenza messicana. Il verde, l’azzurro, il rosso e il giallo degli edifici di Guanajuato è tutto sotto i miei occhi adesso, raccolto in una immagine di città fiabesca, sopra la gruviera è tutta un’esplosione di magnifici colori in questo panorama mozzafiato. Peccato solo che cominci a piovere, e scendo frettolosamente per i ripidi viottoli giù giù fino a rientrare in hotel prima dell’arrivo di Azul, e che stavolta sia puntuale.

Soltanto un’ora di ritardo, siamo pur sempre in Messico, ed eccola, finalmente alle nove, col giovane marito e bebè di pochi giorni, bella come l’avevo conosciuta due anni prima nel nostro fugace incontro a Oaxaca, mentre entrambi eravamo alla fermata dei bus in attesa di partire per destinazioni opposte. Avevamo deciso di passare quelle due ore che ci restavano per una bevuta e dei tacos, scambiandoci il numero di telefono per un improbabile prossimo incontro. Ed eccoci qui invece, due anni dopo, lei mamma di vent’anni e il suo fagotto, con un marito coetaneo che teneramente le tiene d’occhio mentre risaliamo per i vicoli su fino al Gallo Pitagorico, ristorantino italiano niente male, per una cena con ravioli e tiramisù. La bimba dorme per tutto il tempo. I genitori sembrano felici e mi invitano a passare la giornata successiva con loro a Leon.

Ci vedremo domani, io intanto, che non ho ancora voglia di rientrare, in cerca di un locale dove tirar tardi, mi ritrovo fatalmente alla Puerta del Sol.

18 giugno, sabato: Mi sveglio pigramente che saranno le dieci e dopo almeno un’ora esco per un’ultima visita alla città. Visito il Museo del Pueblo e mangio frutta fresca in piazzetta, scatto fotografie e passeggio fino alle due, ho un appuntamento con Azul per la comida.

La aspetto per un’ora, poi decido che è meglio partire subito lasciandole un messaggio alla reception, in questa maniera passerò la serata a San Miguel de Allende, prossima tappa del mio viaggio per le città coloniali.

Arrivo alla stazione dei bus ed il mio è partito da appena tre minuti, per il prossimo bisogna attendere due ore, ed allora mi fermo al bar per uno spuntino. A cambiare i miei programmi arriva di corsa e trafelata Azul, dispiaciuta per il ritardo, che mi prega di non partire. All’inizio tentenno, quando si è in partenza e si è proiettati verso la prossima mèta, ogni ritardo può essere fastidioso come un’interruzione pubblicitaria durante il nostro film preferito, ed io già fantasticavo sulla prossima scena a San Miguel. Ci penso su, ma gli occhioni neri di Azul e Alejandro che fa ampi gesti dall’auto mi convincono che in fondo è giusto restare. Si parte per Leon! A Leon c’è un caldo torrido che mi ricorda le nostre città deserte a Ferragosto, anche perché sembra dormire. E’ l’ora della siesta quando arriviamo sulle sue strade larghe in mezzo ad una piana desertica. La città è davvero brutta a prima vista, sembra essere stata costruita solo per fare posto alle fabbriche di scarpe e stivali di cuoio e ai negozi di cinture e giacche di pelle. Accompagniamo Alejandro a casa dai suoi amici per le prove del gruppo punk-rock dove suona il basso e mi metto alla guida del Dodge con Azul e Azulita sedute dietro per andare in cerca di un qualche posto dove assaggiare l’agnello al vapore di cui tanto mi hanno parlato da quando ci siamo incontrati. Percorriamo tutta Leon fino a raggiungere una bettola coi tavolacci di legno fin quasi sull’asfalto rovente in una zona periferica per poi andare nella Plaza de los Fundadores, in centro, per un caffè freddo e per assistere allo struscio cittadino. Sono passate alcune ore e decidiamo di ritornare da Ale, in una zona residenziale con tanto di guardie all’ingresso e parco alberato. Serata nel ranch di famiglia con genitori, zii, cugini e nipoti di Azul tutti già sotto effetto tequila. Mi adeguo alla circostanza senza tante remore e faccio subito amicizia con papà Guillermo e mamma Ana improvvisando addirittura un ballo con la zia Teresa. Il fratellino ‘gordo’ della mia amica poi mi costringe a salire sulla sua motoretta fuoristrada a quattro ruote per un giro indemoniato sul campetto sportivo limitrofo che avrei dovuto rifiutare forse con più fermezza. Mi fanno visitare tutto il ranch, stalle e stanze da letto comprese e mi invitano a restare, ma c’è sempre San Miguel da raggiungere, e ringraziando, torniamo a Leon dove dormo nella stanza di Mauricio ‘el gordo’, nella casa natale di Azul. Noto una voliera nel giardino interno prospiciente la cucina, hobby della signora Rangel, prima di congedarmi dalla giovane coppia e dare la buonanotte a tutta Leon.

19 giugno, domenica: Alejandro mi accompagna alla stazione di mattina presto, alle otto e mezza è prevista la partenza. Occorrono poco più di due ore per percorrere i quasi cento chilometri per San Miguel de Allende e osservo dai finestrini un Messico più rigoglioso rispetto a quello del Sud, i campi qui sono curati e ben irrigati e anche le strade sono meno accidentate.

Con un autobus sgangherato poi arrivo in centro in compagnia di una ragazza olandese già vista a Guanajuato, lei entra subito in un internet cafè per rintracciare il fidanzato, andato in altra direzione, ed io mi infilo subito nella posada San Sebastian. Qui mi offrono una camera piccola e buia, ne approfitto per fare un giro fuori mentre me ne preparano una più confortevole. C’è la festa de Los Locos intanto per le strade di San Miguel, e la sfilata dei carri passerà proprio qua sotto tra pochi minuti per questo Carnevale fuori stagione, che come tutti gli anni si celebra la domenica successiva alla festa di San Antonio. Passano decine di gruppi in maschera, e tanti sono i bambini e tutti tirano caramelle sulla folla di spettatori assiepati sui marciapiedi. Salgo sul tetto della posada per meglio osservare prima di farmi cullare dalla musica sfrenata che accompagna il corteo nel letto appena pronto per un fragrante riposo.

Passo tutto il pomeriggio alla scoperta dei vicoli di questa città patrimonio dell’umanità, su fino al Mirador, è anche festa del papà in questa domenica di giugno ed è pieno di bambini giù allo Zocalo. Mentre scendo scorgo un’insegna di caffè familiare e ci trovo un baretto gestito da un italiano, un vecchio ragazzo di Venezia che vive qua da oltre dieci anni. Splendida occasione per tornare a parlare la mia lingua dopo due settimane e per un espresso finalmente a cinque stelle. Il ragazzo mi dice che ha moglie e figli in questo lembo di terra così arida, e penso che ci vuole coraggio a fare scelte del genere, specie se pensi a tutta l’acqua tra i ponti e i canali che sicuramente gli tornerà nei sogni.

Per la serata vado al Mama Mia sperando di trovare un po’ di ambiente, c’è un quintetto jazz, niente di particolare…Faccio fatica a tirare fino a mezzanotte, stanco e perduto mi avvio verso l’hotel, in fondo è domenica e come in tutto il mondo la gente si ritira presto a casa. Le strade sono vuote e c’è silenzio, dopo tutto il frastuono della giornata un velo di malinconia sembra coprire la notte di San Miguel.

20 giugno, lunedì: Atotonilco è un punto nel nulla del deserto nel quale mi inoltro, ben oltre la chiesa del piccolo villaggio dove povere donne fanno l’elemosina tra i cactus e la sabbia arida, col caldo da mezzogiorno di fuoco, e ti aspetti che appaia Zorro in persona sul suo cavallo nero all’orizzonte. Fa caldo ma ho voglia di camminare e di stare solo con me stesso dove non c’è anima viva nei paraggi e per qualche minuto provo a parlare anche ad alta voce e faccio discorsi dissennati ispirati dal sole ormai a picco sulla mia testa. Sono arrivato dove sembra non esserci via di ritorno quando passa un pick-up a cui chiedo un passaggio fino alla fermata del bus per Dolores Hidalgo.

Qui faccio un pigro giro tra lo Zocalo e una piccola cantina con le porte da saloon dove ci sono i suonatori di mariachi che sinora avevo visto solo nei film western. Una tequila non è quello che ci vuole dopo aver camminato sotto la calura per ore senza aver mangiato, perciò mi accontento di ascoltare due canzoni e brindare con un sorso d’acqua agli allegri musicanti. Cena a base di pozole, una zuppa piccante che sembra un manifesto della cucina locale, con dentro ogni sorta di ben di dio di questa terra. Il ristorantino è un po’ lontano dalla piazza, dove ritorno per concludere la serata col jazz del Mama Mia e due chiacchiere con la cassiera carina che parla l’italiano.

CAPITOLO 3 SULLA VIA DEL RITORNO 21 giugno, martedì: Lascio molto presto S.M.A. Per Queretaro, ho idea di visitare anche questa città sulla via del ritorno per Città del Messico, ma il bus per il D.F è lì e parte tra soli dieci minuti. Decido di dare la preferenza a quelle due o tre cose che non ero riuscito a vedere la volta scorsa nella capitale e allora salto sul bus e alle due e mezza sono all’aereoporto per lasciarvi i bagagli. In metropolitana mi avvio verso il centro, fermata Zocalo. Da qui direttamente alla Segreteria de Educacion Publica, il Palazzo del Ministero dell’Educazione, per ammirare i più di 200 murales di Diego Rivera. C’è tutta la storia del Messico su tre piani di arte dipinta sulle quattro pareti dal 1923 al 1928 che sono un compendio di sangue e lacrime versati dal popolo messicano dalla Conquista ad allora. Di corsa poi verso il nord della città, finalmente verso la mitica basilica di Guadalupe. Una fila di bancarelle con le riproduzioni della miracolosa madonna apparsa sul mantello dell’indio poi ribattezzato Juan Diego, una storia studiata a pennello dagli spagnoli per convertire gli ‘indigeni infedeli’. Oggi non c’è la ressa che temevo e riesco addirittura a passare e ripassare senza fare la fila sul tapis roulant montato davanti alla sacra reliquia esposta in alto in fondo alla chiesa nuova costruita accanto alla vecchia basilica per ricevere le migliaia di fedeli che tutto l’anno arrivano da ogni dove in pellegrinaggio.

Comincia a cadere una leggera pioggia mentre mi avvio in aereoporto, contento di aver così concluso il mio personale pellegrinaggio. La mia seconda volta in Messico finisce adesso e inconsciamente forse sentivo di ringraziare la Madonna di Guadalupe per esserci riuscito. Pioveva anche due anni fa alla partenza, e le coincidenze non sono sempre un caso. E ripenso con un misto di soddisfazione e di timore alla frase di Malcolm Lowry, letta nel frontespizio di un libro di Pino Cacucci: “chi ha respirato la polvere delle strade del Messico non troverà più pace in nessuna altro paese’’.

Il racconto del mio viaggio in Messico due anni prima: http://www.Turistipercaso.It/viaggi/itinerari/testo.Asp?ID=2162#inizio Per idee, impressioni o scambio di opinioni sul Messico e America Latina: edson.Barents@gmail.Com



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