IL RAJASTHAN di val bene una messa? – 2° Parte

4° GIORNO: JAIPUR – AMBER Mi alzo distrutto e la lunga giornata piena di sorprese che ho davanti, stavolta non riesce ad entusiasmarmi come al solito. A colazione veniamo a sapere che altri compagni di viaggio hanno avuto gli stessi problemi e che una coppia di giovani fratelli ha passato la notte insonne per un altro inconveniente,...
Scritto da: LucMen
il rajasthan di val bene una messa? - 2° parte
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4° GIORNO: JAIPUR – AMBER Mi alzo distrutto e la lunga giornata piena di sorprese che ho davanti, stavolta non riesce ad entusiasmarmi come al solito.

A colazione veniamo a sapere che altri compagni di viaggio hanno avuto gli stessi problemi e che una coppia di giovani fratelli ha passato la notte insonne per un altro inconveniente, decisamente più curioso, la loro stanza ha subito una invasione di formiche. Sembra che ve ne fossero a migliaia, tanto che il personale dell’hotel ha dovuto toglierle via con la pala! La prima tappa di questa mattina è la visita alla maestosa fortezza di Amber, situata a qualche chilometro dalla città, che raggiungiamo in pullman. L’ingresso al forte avviene a piedi attraverso un lungo e tortuoso sentiero, o a dorso di elefante. Questa seconda opzione, ovviamente a pagamento, è molto “acchiappa turisi” … Ma chi se ne frega! Quando mi ricapita più di fare una seppur breve passeggiata a dorso di pachiderma! Ci mettiamo quindi in fila per l’imbarco. Il termine imbarco non è casuale, in quanto il sistema ricorda molto la salita a bordo di una imbarcazione. Una scaletta ci porta su un’alta pensilina e gli elefanti, con la proboscide dipinta a colori sgargianti, si accostano ad essa in fila indiana (ancora!), facendoci salire a due a due su una specie di baldacchino assicurato al dorso degli animali. Veniamo poi a sapere che fino ad un paio di anni fa erano quattro le persone che potevano accomodarsi sul baldacchino, ma dopo un non meglio precisato incidente, si è deciso di ridurre la portata massima.

Così, caracollando penosamente, la lunga colonna di pachidermi sale la ripida pista, bersagliata lungo il tragitto da strani fotografi che lasciano presagire un imminente assalto di venditori di foto.

Lo sbatacchiamento non è molto salutare per il mio già scombussolato stomaco, anche perché il nostro improvvisato sedile, che segue la schiena in pendenza dell’animale, tende a far scivolare Miriam verso di me, schiacciandomi contro la balaustra in ferro del baldacchino.

Il forte, piuttosto severo, è degno di nota soprattutto per lo stupendo panorama della gola sottostante e delle montagne tutt’attorno. E per il fatto che qui mi accorgo di un particolare che mi era finora sfuggito. Mentre vago tra le sale della fortezza, sono attorniato dalla solita varia umanità: turisti in bermuda, donne in sari appariscenti e uomini indiani in canottiera. Ma gli uomini camminano tutti mano nella mano. Esclusa da subito l’ipotesi che davanti a me ci sia una inusuale concentrazione di gay, consulto la guida a riguardo e scopro che qui in India, mentre è fortemente sconveniente, per non dire scandaloso, che un uomo ed una donna anche soltanto si sfiorino in pubblico, è abitudine comune che gli uomini camminino mano nella mano. Bah ! Durante la discesa al piazzale dei pullman, abbiamo modo di attraversare il garage degli elefanti. Io, perlomeno, lo chiamo così perché si tratta di un grande capannone sotto il quale trovano riparo gli elefanti al termine del servizio di traghettamento. Qui vengono rifocillati e possono fare con comodo i loro mastodontici bisogni. Passare a pochi centimetri da questa moltitudine di bestioni fa una certa impressione e … La puzza, neanche a dirlo, è tremenda. Raggiunto il pullman, ci accorgiamo di avere un nuovo ospite. Il Boss ce lo presenta come un gioielliere che vive gran parte dell’anno in Italia e nel pomeriggio sarà lieto di mostraci il suo negozio in centro. Prima però ci attende un’altra sosta ‘commerciale’. Andiamo a visitare una fabbrica di tessuti tradizionali.

E’ la classica visita ‘a provvigione’ durante la quale veniamo edotti sulle tecniche di stampa dei tessuti e poi portati in un grande atelier dove le donne del gruppo iniziano una lunga e penosa contrattazione per l’acquisto di ogni genere di articoli. Tovaglie, sciarpe, camice, sari dai colori sgargianti. I prezzi non sembrano così in linea con quelli che abbiamo trovato finora e comincio ad avere il sospetto che gli articoli di qualità anche qui abbiano il loro bel costo, mentre le cose pressoché regalate per strada siano soltanto scarti per turisti. Tale sospetto verrà confermato al mio ritorno in Italia, quando vedrò gli stessi identici articoli, venduti nelle bancarelle dei nostrani mercatini, dagli stessi identici indiani, agli stessi identici prezzi.

Terminata l’estenuante sosta commerciale, il programma prevederebbe la visita al negozio di gioielleria. Io non ne posso più di acquisti, così assieme ad alcuni compagni, mi defilo ed inizio una perlustrazione privata delle principali attrattive della città. Jaipur, conosciuta come la città rossa, è costruita in arenaria rossa (appunto) ed è una caotica città che rispecchia gli standard del Rajastan. Nei suoi tempi migliori doveva risultare sicuramente affascinante, anche se oggi la sua maggior attrattiva risiede, per assurdo, nel proprio aspetto decadente. I bei palazzi coloniali, celebrati nelle cronache ottocentesche come una vera meraviglia, sono per lo più fatiscenti e mal tenuti.

Dopo aver pranzato con delle ottime banane acquistate nel solito carrettino sulla strada, ci dirigiamo al City Palace, tuttora residenza del Maharaja di Jaipur, uno stupendo ed immenso palazzo finemente decorato, con numerosi cortili ed una magnifica sala da ballo a pian terreno, aperta sui quattro lati, illuminata da giganteschi lampadari di cristallo. C’è anche un interessante e tremendamente caldo museo che visitiamo con gran velocità per non rischiare di stramazzare a terra svenuti.

Passiamo davanti all’Hawa Mahal, il celebre Palazzo dei Venti, la cui facciata è costellata da centinaia di finestre e nichhie, tutte finemente lavorate, dalle quali le donne di corte potevano affacciarsi per osservare, non viste, la vita della città sottostante (immagino il divertimento!). Quindi, ci dirigiamo verso una di quelle mete che prima di partire avevo considerato imprescindibili: il Jantar Mantar, l’osservatorio astronomico fatto costruire dal Maharaja Sawai Jai Singh II nel XVIII secolo. Ne avevo visto alcune fotografie in una rivista qualche anno prima e mi aveva particolarmente colpito. La visita non farà altro che confermare le mie aspettative.

All’ingresso veniamo accolti da un acquazzone torrenziale e, quando riusciamo finalmente ad entrare, un distinto signore ci si avvicina presentandosi come un professore universitario esperto di astrologia che per qualche rupia sarebbe stato lieto di farci da guida. A giudicare dal numero di professori (o presunti tali) che finora ci si sono proposti come guide, gli universitari qui in India non se la devono passare proprio bene. Comunque, accettiamo e veniamo subito investiti da un fiume di parole sulle prime incomprensibili. Ad un più attento esame, capiamo che il tizio parla uno strano miscuglio di inglese, spagnolo e indiano, condito da qualche spruzzata di italiano quà e la. Una specie di personale Esperanto al quale dopo qualche minuto facciamo l’abitudine riuscendo anche a capirlo con discreta precisione.

L’osservatorio è un grandioso complesso di strumenti astronomici monumentali di grande precisione, costruiti in pietra e cemento. Tra tutti svetta il Samrat Yantra, una gigantesca meridiana disegnata dallo stesso Jai Singh, sulla quale si può leggere l’ora solare con un errore massimo di mezzo secondo ! Altri strumenti misurano la posizione della Luna, dei pianeti, delle costellazioni ecc.

Il sito è di grande suggestione e ci aggiriamo rapiti in questa foresta di costruzioni dalle più svariate forme geometriche, senza accorgerci del passare del tempo.

Invece, il tempo passa. Eccome se passa. All’improvviso ci rendiamo conto di essere in ritardo. Abbiamo appuntamento con gli altri in albergo.

Dopo un pomeriggio di giri in centro, mi sento ormai padrone della città e convinco Miriam a tornare in albergo a piedi. Dalla piantina non sembra un lungo percorso, ma una volta entrati nel dedalo di vicoli e viuzze della città vecchia, perdo immediatamente l’orientamento. Più ci addentriamo e più i quartieri diventano fatiscenti. Le strade, invase dall’acqua per la recente pioggia, sono un vero pantano e pian piano di turisti non se ne vede più neanche l’ombra. Provo a chiedere informazioni ai passanti, ma veniamo indirizzati verso direzioni sempre diverse. Sembra, infatti, che in India sia considerato scortese rispondere “Non lo so” a chi ti chiede una informazione, così vieni comunque gratificato da una risposta, anche se totalmente inventata. Intanto cominciano a calare le prime ombre della notte e mia moglie inizia a manifestare un certo nervosismo. Per la precisione mi maledice ad ogni passo, con epiteti tanto fantasiosi quanto irripetibili, per la mia decisione avventata. Nonostante in nessun momento ci sentiamo minacciati o in pericolo, anch’io preferirei non essere costretto ad aggirarmi nella totale oscurità, in zone sconosciute e decisamente poco battute.

Nessuno però riesce a leggere la piantina ed il nome dell’albergo sembra del tutto sconosciuto. Quando ormai cominciamo a disperare, finalmente appare un rickshaw a motore il cui guidatore, prontamente bloccato, dice di conoscere l’albergo. Una lauta mancia lo convince a caricarci, sebbene dica di essere fuori servizio e, durante il tragitto, ci rendiamo conto di quanto eravamo finiti fuori zona. Quando arriviamo in hotel, i nostri compagni sono già tutti sul pullman ad attenderci.

Il ristorante verso il quale ci dirigiamo è stato, come sempre, scovato dal Boss. E’ da un pò che lo tengo d’occhio ed ho scoperto che dispone di un blocco misterioso, dal quale trae informazioni di ogni genere, tra cui, il nome dei ristoranti dove consumiamo i nostri pasti serali. Più avanti ci spiegherà che si tratta dei resoconti di viaggio dei capigruppo che l’hanno preceduta, nei quali si trovano utili consigli basati sulle esperienze precedenti.

Sarà per questo che nel ristorante dove ceniamo, abbiamo il primo di una lunga serie di incontri con un altro gruppo di Avventure nel Mondo che sta facendo un giro parallelo al nostro. Le loro facce non ci sembrano particolarmente divertite e lo soprannominiamo subito il ‘gruppo ombra’. Stefania, dopo aver parlato con il loro capogruppo, ci rivela che ci sono stati dei litigi all’interno dellla comitiva. Da questo punto di vista ci sentiamo fortunati. Finora l’armonia ha regnato sovrana nel nostro gruppo. Personalmente non sarei disposto ad aggiungere ai disagi dell’India anche quelli di compagni litigiosi.

5° GIORNO: JAIPUR – PUSKAR Oggi è una brutta giornata per me. Durante la notte ho avuto una ricaduta e questa mattina mi sento veramente a pezzi.

La prima tappa, quindi, la salto a piè pari. Si tratta di Sanganer, dove è situata la più importante fabbrica di carta della regione.

Mentre Miriam segue il gruppo, rimango sul pullman con un compagno di sventura che è in condizioni ben peggiori delle mie.

Per fortuna è presto ed il caldo non è ancora esploso. Devo però affrontare due sciami che non mi lasciano tregua. Uno di mosche ed un altro, ben più temibile, di bambini che, appena scendo gli scalini dell’automezzo, mi assaltano costringendomi a battere immediatamente in ritirata. Per una tacita, ma sacra intesa, infatti, i bambini sanno di non poter salire sugli autobus dei turisti e stazionano davanti agli sportelli aperti, urlando a squarciagola per attirare l’attenzione.

Mi metto così a guardare sconsolato fuori dal finestrino, dove osservo il passaggio di animali di ogni genere. Dromedari che trainano carretti, maiali (che in realtà assomigliano più ai nostri cinghiali) che grufolano tra i rifiuti sparsi in abbondanza ai lati della strada, le solite mucche e qualche cane derelitto, emaciato da far spavento.

Immagino il finestrino come fosse lo schermo di un televisore che proietta filmati di altre epoche.

Al suo ritorno, Miriam mi illustra la visita con l’ausilio delle foto scattate. Ha anche acquistato alcuni manufatti di grande bellezza. Mi riferisce che gli operai della fabbrica, sono ritenuti dei fortunati, perché oltre che disporre di un lavoro sicuro, godono anche di buoni stipendi e di qualche trattamento sindacale. Ma guadagnano comunque il corrispondente della paghetta mensile di mio nipotino di dieci anni. E questo è triste per gente che lavora come bestie per dodici ore al giorno.

Poiché vi sono alcuni infermi sul pullman, decidiamo di non accendere l’aria condizionata, così, con l’aumentare della temperatura esterna, aumenta anche la mia temperatura interna. In attesa dell’effetto dell’antibiotico, decido di saltare anche la seconda tappa. Ha anche iniziato a piovere a dirotto e quello che mi manca è proprio una bella inzuppata.

Nella cittadella musulmana di Ajmer sono proibite le foto, quindi non ne vedrò mai nulla per il resto della mia vita. Non che la cosa mi angosci, anche perché, durante l’attesa, mi fermo a guardare un gruppo di ragazzini intenti in un’acceso incontro di cricket. Questo incomprensibile gioco britannico, è uno sport popolare quanto il calcio da noi. Per capirci, durante un telegiornale, ho sentito che i giocatori della nazionale di cricket indiana erano rimasti imprigionati per due giorni dentro il proprio albergo, assediato dai tifosi inferociti per la loro esclusione da un importante torneo internazionale.

Tutti lo praticano, comunque e dovunque e si può dire che sia l’unica attività che si avvicini più o meno vagamente ad una attività sportiva, che vedrete fare da un indiano maschio adulto. Da quando siamo partiti da Delhi, continuiamo a percorrere autostrade lunghe e rettilinee, per lo più malandate e piene di buche, ma è quasi costante la presenza al loro fianco di un cantiere che, a quanto pare, starebbe lavorando per l’allargamento della carreggiata. Uso la forma condizionale in quanto il cantiere lo vediamo sempre, ma gli operai quasi mai, e le poche volte che li incontriamo, non danno l’impressione di affannarsi molto. Scalzi e vestiti del solito pannolone di tessuto, senza nessun tipo di attrezzatura tecnica che non sia una zappetta ed un cestino di vimini, sembrano più contadini che lavoratori edili. In piena sintonia con quanto abbiamo visto finora, tutto viene fatto senza fretta e con quell’aria di rassegnazione tipica qui in India.

Il perché, poi, si debbano lavorare contemporaneamente centinaia di chilometri di strada con tempi verosimilmente lunghissimi, invece di realizzarne un pezzo alla volta ed aprirli volta per volta al traffico, appare davvero incomprensibile. Il resto del viaggio non riserva particolari emozioni, se non la sosta in un “autogrill” sull’autostrada. A digiuno da due giorni, cerco disperatamente qualcosa di commestibile che non faccia esplodere la mia pancia, ma oltre ai soliti crakers scaduti da alcuni mesi e molli come gomma americana, non trovo altro. I miei compagni ancora in salute, coraggiosamente si sistemano su dei tavolini traballanti, davanti ad una cucina ricoperta da un dito di sporcizia e ordinano specialità locali. Il caldo è soffocante, anche perché ci troviamo sotto una tettoia aperta, la cui unica refrigerazione è data da una vecchio ventilatore a pale che smuove turbini di aria bollente.

Mentre gli altri mangiano, faccio un giro attorno alla struttura nel tentativo di trovare qualcosa di simile ad un bagno e, quando vengo attorniato da un nugolo impressionante di mosche, sono certo di averlo trovato. Si tratta di un semplice gabbiotto di lamiera che emana una puzza terribile. Gli effluvi sono così nauseabondi che neanche gli indigeni riescono ad avvicinarvisi, limitandosi ad espletare i propri bisogni sui muri circostanti. Mi adeguo alle usanze locali e, rinfrancato, torno nel pullman.

Mentre guardo dal finestrino, noto un certo viavai nei dintorni di un bidone di latta posto all’esterno della struttura, anch’esso attorniato da milioni di mosche, che sulle prime avevo scambiato per un raccoglitore di acque di scolo. Ad un più attento esame, mi accorgo invece che si tratta di una sorta di distributore automatico di acqua. Gli avventori che intendono dissetarsi, immergono una ciotola di metallo in quest’acqua stagnante e la bevono assieme ai milione di germi di ogni genere che vi si annidano. Se una parte del liquido rimane nella ciotola (l’unica disponibile), viene ributtata nel secchio con grande naturalezza.

Mi volto dall’altra parte, contento che la mia gastroenterite non si sia ancora trasformata in colera (tifo). A sera inoltrata arriviamo a Puskar, dove ci sistemiamo in un bell’albergo immerso in un parco verdissimo.

Sul portone d’ingresso, veniamo accolti da un pittoresco personaggio in tunica bianca e turbante arancione, con il volto incorniciato da una lunga barba bianca, il quale, dopo averci omaggiati di un plateale saluto militare, ci stampiglia un “terzo occhio” arancione sulla fronte e ci cinge il collo con una profumata collana di fiori fucsia. Io, preso possesso della camera, riesco a malapena a consegnare la biancheria sporca al servizio lavanderia e crollo sul letto distrutto.

6° GIORNO: PUSKAR Fortunatamente il sonno è particolarmente ristoratore e l’indomani mattina ho ripreso parte delle mie forze.

Ci dedichiamo quindi all’esplorazione della cittadina.

La guida turistica la descrive come l’ultimo avamposto del movimento hippie degli anni ’70 e non fatico a capire perché. Dappertutto si respira un’aria di misticismo. Nel grande tempio dedicato a Brahma (l’unico dell’India), sempre frequentatissimo ad ogni ora del giorno e della notte, nei suggestivi ghat in riva al lago, persino nelle affollate strade. E’ davvero un posto gradevole, che giriamo volentieri adeguandoci per una volta ai lenti ritmi locali. Non che le condizioni igieniche siano migliori, anzi, la massiccia presenza di bovini in strada ed il caldo notevole ne fanno una vera e propria bomba batteriologica, ma, sarà perché comincio ad ad abituarmi, non ci faccio quasi più caso. Per dare un assaggio della “filosofia igienica” degli indiani, racconterò un piccolo, ma significativo, aneddoto. Mia moglie, per abitudine quasi inconscia, gira da metà mattinata con un sacchetto in mano, pieno di bucce di banana e rifiuti vari. Una volta colmato, decide di disfarsene e, non trovando cassonetti di alcun genere, chiede ad un commerciante con il quale stava trattando l’acquisto di un bell’album fotografico in carta fatta a mano, dove avrebbe potuto buttare l’involucro. Questi, con grande gentilezza, le risponde con dei gesti che vogliono lasciar intendere che se ne sarebbe occupato lui. Miriam allora gli consegna il sacchetto ed il nostro uomo, sporgendosi dal bancone, lo butta in mezzo alla strada con un gesto così naturale che mi appare quasi ovvio. Una signora, con uno splendido sari arancione indosso, che sta passando in quel momento, si sposta con gran semplicità per evitare di essere colpita dall’involucro e continua a camminare come se nulla fosse, quindi, una mucca che si trova nelle vicinanze, si avvicina al sacchetto e, nella ricerca di qualcosa di commestibile, sparge tutti i rifiuti in strada e se ne va tranquilla, non prima di aver emesso un violento spruzzo di urina che per poco non investe un giovane turista con zaino in spalla.

That’s all ! come direbbero gli inglesi. Semplice. Ci sarebbero un paio di templi da visitare, ma io e Miriam preferiamo proseguire nel nostro lento girovagare tra stradine circondate da stupende case colorate e negozietti di ogni genere. Dovunque colori colpiscono lo sguardo, nei tessuti esposti, nei cibi, nelle spezie, negli abiti delle donne. Colori così intensi che abbagliano nel sole mattutino. A proposito di sole, nel tentativo di sfuggire al caldo sempre più insistente, mi rifugio all’interno di un negozietto nel quale Miriam sta visionando delle camicette di seta. Appena entrato, però, mi accorgo di essere passato dalla padella alla brace (mai metafora fu più indicata). Il negozio, in realtà, è un loculo di due metri per due, stracolmo di merce e senza nessuna finestra. La temperatura all’interno è così elevata che sembra di entrare in una sauna e mia moglie, che non ha mai emesso una goccia di sudore in vita sua, non riesce ad infilare le camice a causa dell’umidità che l’ha inzuppata.

Paghiamo in tutta fretta tre camicette a caso tra quelle mostrate (che una volta esaminate in albergo, risulteranno tutte fallate) e ritorniamo in strada a respirare i sani effluvi di una piccola discarica di fianco al negozio.

Verso le due, quando la temperatura non è più sopportabile, rientriamo in hotel e ci rilassiamo per qualche ora nella splendida, e deserta, piscina, oasi di pace e tranquillità. Ci ritroviamo con gli altri verso il tramonto in riva al lago, dove una gran quantità di turisti si è riunita per osservare le cerimonie serali. Man mano che il sole scende, l’atmosfera rasserenante che abbiamo sperimentato durante il giorno, diviene addirittura magica.

Tutti i ghat posti attorno allo specchio d’acqua si animano all’improvviso e le luci di mille fiaccole cominciano a punteggiarne le rive, accompagnate dal suono di litanie lente e suggestive. Rimango seduto in silenzio, preso dalla bellezza del posto, fino a quando il mio stomaco, ormai fin troppo a digiuno, non comincia a reclamare insistentemente del cibo.

Io sono un vero onnivoro e, durante i miei viaggi amo assaporare le cucine locali delle quali, quasi sempre rimango entusiasta. Dell’arte culinaria indiana avevo sempre sentito dire un gran bene ed ero davvero ansioso di immergermi alla scoperta di questa cucina esotica.

Dopo svariati assaggi, però non mi sento di dire di essermene innamorato.

La varietà di piatti è di una monotonia sconfortante e la moltitudine di spezie che ricopre letteralmente qualsiasi portata ne rende i sapori uniformi. All’uscita dal ristorante, seguiamo una moltitudine di gente che si sposta verso una direzione comune e giungiamo davanti al tempio di Brahma. I fedeli che ne varcano il grande portone di ingresso cantando litanie, le centinaia di luci colorate che ne illuminano la facciata, ed i vapori delle bancarelle che cuociono cibi di ogni genere, ne fanno una visione quasi mistica. Il ritorno in albergo, invece, assume toni più materialistici, dato che bisogna affrontare un lungo percorso nel buio più totale su una strada colma di “sorpresine” di ogni genere.

Mi ricordo che, prima di partire, avevo messo la torcia elettrica (una delle attrezzature che il foglio informazioni metteva tra quelle indispensabili per il viaggio) dentro lo zainetto, dove era rimasta, inutilizzata, finora. Così la estraggo orgoglioso e mi propongo come condottiero della truppa intimorita. Disposti in fila indiana (la solita) i miei compagni, illumino la strada avvertendo con urla e fischi ogni volta che si presenta un ostacolo davanti ai miei piedi. In questo modo giungiamo incolumi nel nostro confortevole albergo, dove mi accingo ad affrontare la solita notte di patemi.

7° GIORNO: PUSKAR – CHITTORGARH – UDAIPUR Chittorgarh è una antica fortezza Rajput, cavalieri di leggendario coraggio e spirito romantico che, ogni volta che venivano sconfitti in battaglia, preferivano farsi sterminare piuttosto che cadere prigionieri. La qual cosa doveva avvenire frequentemente, in quanto della loro grande fortezza non è che sia rimasto molto. Il sito si estende per chilometri ed è oggi regno incontrastato delle scimmie. Per visitarlo, data la sua estensione, dobbiamo utilizzare degli sfiatati rickshaw a motore, che (forse è giunto il momento di spiegarlo) sono delle specie di “apecar” riconvertite, note anche come tuc-tuc, che da subito iniziano una specie di competizione fra loro per chi riesce a superare i propri compagni con manovre ardite ed al limite dell’incoscenza. Questi folkloristici mezzi, accompagnano la vita degli indiani (e dei turisti), praticamente dovunque in India. Hanno tutti un colore di fondo nero, ma vengono addobbati, secondo la fantasia del proprietario, con una miriade di simboli, disegni, fotografie, scritte che spaziano dal sacro al profano in modo sconcertante. L’onnipresente dio Ganesh è quasi sempre affiancato dall’ultima diva Bolliwoodiana. Ma non è un controsenso, perché qui gli attori cinematografici sono venerati come veri dei. Il fenomeno Bollywood, da noi appena conosciuto, in India assume i contorni di vera mania. Il cinema infatti rappresenta lo svago principe, se non l’unico, degli indiani. Ma non il cinema come lo intendiamo noi. Nel nostro primo giorno a Delhi, avevamo già notato, in diversi punti della città, delle lunghe file di persone che giravano attorno a degli isolati interi. Interrogato a riguardo, Raghu, ci aveva spiegato che si trattava di gente in attesa per entrare al cinema. “Tutta questa gente solo per vedere un film?” era stato il nostro commento incredulo.

“Non un film – ci aveva risposto piccato il fido Raghu – un film di Bollywood!” In India, se chiedete chi siano Brad Pitt o Angelina Jolie, non sanno neanche rispondervi, ma se nominate Aishwarya Rai o Amitabh Bachchan, andranno in brodo di giuggiole. I film girati a Bombay, mecca del cinema indiano, soprannominata Bollywood, appunto, sono essenzialmente delle sceneggiate napoletane condite da musica e balletti scenografici. Le trame, pressoché inesistenti, sono sempre le stesse: lui, lei, l’altro che insidia lei. Punto.

La partecipazione del pubblico per questi polpettoni è tale, che spesso gli attori che impersonano i cattivi, sono fatti oggetto di gravi minacce. Nelle sale si commenta, si urla, si piange, si ride, come nella vita reale. Non è difficile credere che i divi del cinema, sempre giovani e belli, siano adorati e le canzoni tratte dai film di maggior successo, vendano milioni di copie. La gara fra tuc-tuc termina per pura fortuna senza incidenti. Il sito non è altro che un susseguirsi di templi e palazzi in rovina, sparsi qua elà. Finchè si giunge davanti alla Torre della Vittoria, una bella torre a nove piani eretta alla metà del 1400.

Sto riprendendo lentamente le forze e non sarebbero consigliati colpi di testa, ma quando mi trova davanti all’alta costruzione, non riesco a resistere. Forse perchè soffro di vertigini e sono istintivamente attratto dal vuoto, ma sento un impulso incontrollabile a scalare torri, campanili e qualunque cosa si elevi verso l’alto. Già dopo i primi due piani, comincio a pentirmi della mia decisione. La rampa è strettissima e l’umidità all’interno rende l’aria asfissiante. Inoltre i gradini sono molto alti e, come se non bastasse, il ragazzo che si trova dietro di me ha una paura smodata dei pipistrelli e le volte sopra la scalinata sono … Piene di pipistrelli. Decide quindi di procedere ad occhi chiusi reggendosi alle mie spalle per non cadere. Arrivo in cima completamente stremato. Sudato fradicio e con le spalle che mi fanno male per la stretta continua del mio giovane compagno. Quando finalmente torno a terra ho le gambe che mi tremano per lo sforzo che, sicuramente, non ha giovato alla mia minata salute.

Giungiamo ad Udaipur nel pomeriggio, in tempo per fare qualche acquisto sotto il solito diluvio giornaliero e trovare un ristorante per la cena. Ci infiliamo in un portone la cui insegna parla di un locale con terrazza panoramica ed iniziamo una lunga salita per una scala senza balaustra che ad ogni piano si interseca con ballatoi, porte ed altre scale. Se non fosse per le frecce che ci indicano il percorso, rischieremmo di perderci definitivamente in questo labirinto. Il ristorante sulla cima è molto più che spartano, ma la terrazza è fantastica. Dopo una non memorabile cena, rimaniamo a goderci la serata con una birra davanti, fino a che il padrone del locale non ci avverte che lo spettacolo sta per iniziare.

“Spettacolo?” l’interrogativo si legge negli occhi di tutti noi.

Non sapevamo di avere uno spettacolo incluso, così ci voltiamo davvero incuriositi. Dietro di noi c’è un vecchio televisore collegato ad un ancor più vecchio videoregistratore. Il gestore ci fa il segno dell’ok con una mano, poi si avvicina all’apparecchio televisivo ed accende il videoregistratore. Comincia così la proiezione del film “Agente 007 – Octopussy”.

“Ma che accidenti ci stanno facendo vedere?” sussurro a Miriam. Scopriremo poi che si tratta di una strana tradizione, iniziata alcuni anni orsono da un ristoratore, per tenere occupati i clienti nelle sere piovose. Poiché il film presenta alcune scene girate ad Udajpur, la cosa ha riscosso successo ed è stata imitata da parecchi altri ristoranti e guesthouse. La situazione è talmente assurda che molti di noi, benchè il film sia in inglese, rimangono a vedere divertiti.

8° GIORNO: UDAIPUR La prima visita della mattina è per il tempio di “non mi ricordo come si chiama” dove un’assordante campana chiama incessantemente a raccolta i fedeli. E’ uno dei più suggestivi finora visitati, non tanto per la sua struttura, molto simile agli altri, quanto per la posizione, all’interno di una stretta piazzetta che fa da crocevia a diverse strade molto animate. Dalla cima della sua alta scalinata d’ingresso si ha una bella visuale del caotico intrico di case. Davanti stazionano eleganti donne che preparano collane di fiori e shadu in cerca di elemosina che si coprono infastiditi quando tento di fotografarli.

Attraversando stretti vicoli, arriviamo all’imponente City Palace, l’abituale fortezza che domina l’abitato cittadino. E’ la più vasta del Rajasthan e si affaccia direttamente sulle acque del lago Pichola, offrendo un affascinante panorama. In tutta sincerità comincio ad averne abbastanza di fortezze e palazzi reali, tutti un pò simili fra loro. Preferisco immergermi nella vita quotidiana perdendomi nelle strade cittadine.

Ma prima decidiamo di vedere la città anche da un’altra angolazione, quindi ci imbarchiamo su un battello per fare il giro del lago.

Il City Palace, da qui offre senza dubbio la sua prospettiva migliore, ma tutto il contesto non è privo di fascino. Splendidi palazzi da un lato, montagne dall’altro e, nel mezzo, il lago punteggiato da isolette sulle quali sono sorte nei secoli splendide residenze. Una in particolare attira la nostra attenzione. Ricordiamo di averlo visto in una scena del film di ieri sera. Si tratta del Jag Niwas, un gigantesco palazzo in marmo bianco, anticamente reidenza estiva del Maharana Jagat Singh II, ora albergo di lusso.

Svolto il nostro compito, otteniamo l’ora d’aria e finalmente iniziamo a vagare per il centro. Ora che siamo nell’ora di punta, quello che prima avevo definito un trafficato crocevia, si è trasformato in un inestricabile ingorgo di automobili, tuc-tuc e vecchi taxi Ambassador. In India, il servizio taxi è appannaggio quasi esclusivo di queste vecchie automobili gialle e nere, spesso scassate, prodotte in India su licenza inglese fin dagli anni 50. Le Ambassador, qui soprannominate Amby, con la loro linea pesante e molto retrò sono tuttoggi uno dei simboli nazionali. Ma mia moglie non pare ugualmente interessata alla storia automobilistica indiana. Convintasi di aver finora acquistato solo chili e chili di sciarpe di scarsa qualità, si è infatti lanciata alla ricerca di una vera pashmina. Dopo lungo girovagare, finalmente, in un negozio dall’apparenza più affidabile degli altri, riesce ad ottenere qualche interessante informazione.

Il titolare, infatti, afferma che quanto da loro venduto a prezzi stracciati è in effetti di qualità non eccelsa, spesso mista ad altri tipi di lane, ma che, casualmente, suo cognato ha un negozio poco lontano che possiede pashmine originali di grande qualità. Miriam vuole assolutamente andarci, ma quando vengo a sapere che il posto non è proprio vicinissimo e il negoziante vuole accompagnarcela con la sua moto, mi oppongo fermamente. “Tu da sola in moto con questo soggetto? Ma siamo pazzi?” Faccio per andarmene, quando il tipo mi fa cenno di aspettare, prende il cellulare e fa una chiamata. Dopo poco arriva davanti al negozio un suo amico in motocicletta che dovrà accompagnare anche me.

Non sono per nulla convinto, ma Miriam è già salita in sella e non posso fare altro che accomodarmi sull’altro mezzo.

La corsa che ne segue rimarrà scolpita a lungo nella mia memoria. Passiamo attraverso vicoli infinitamente stretti e ricolmi di gente. Slalomiamo tra cesti di frutta e bancarelle, il tutto sfiorando con le gambe muri ed automobili. In alcuni passaggi chiudo gli occhi per non vedere. Sono così teso per la corsa da non domandarmi nemmeno dove ci stanno portando. Per quello che ne so, potremmo anche essere vittime del rapimento più stupido concepito sulla faccia della terra.

Ma fortunatamente la nostra meta è davvero un negozio (non so se proprio di suo cognato, ma pur sempre un negozio), ed arriviamo anche sani ! Qui assistiamo ad una lezione accademica sulle varie qualità della pashmina e, dopo aver creato la giusta suspence, il negoziante arriva portando fra le mani, come fosse un prezioso trofeo, una sciarpa marroncina che a me pare esattamente identica a tutte le altre. Quindi comincia a decantare le miracolose proprietà del manufatto, piegandolo, stropicciandolo, accartocciandolo per poi riportarlo alla dimensione originaria.

Miriam pare impressionata, ma io, un pò più pragmatico, vorrei sapere quanto costa. Il tizio, però, ad ogni mia richiesta, continua a ripetere che non è un problema e che ci saremmo sicuramente messi daccordo. Dopo mezz’ora di questa tiritera, finalmente spara la cifra: 6.000 rupie (circa 90 euro). Non sarebbe neanche tanto se potessimo avere la certezza che si tratta di una vera pashmina, ma dobbiamo fidarci solo di quanto afferma il negoziante che, detto fra noi, non ispira neanche tanta fiducia. Miriam quindi tenta il tutto per tutto e replica con una controfferta di 3.500 rupie.

Ne nasce una vera e propria colluttazione verbale che si prospetta infinita e dalla quale ci sottraiamo alzandoci bruscamente ed uscendo dal negozio. Ora siamo costretti anche a prendere un mezzo per tornare in centro.

Insoddisfatta per il mancato acquisto, Miriam decide che deve comprare assolutamente qualcosa, così mette mano al piano che sta segretamente covando fin dal giorno della nostra partenza. Leggendo qua e là notizie varie sull’India prima della partenza, pare abbia scoperto che qui si possono comprare scarpe sportive di grandi marche a prezzi bassissimi. Questo comporta però il doversi spingere nella parte nuova della città alla ricerca di un negozio di articoli sportivi (che finora non ho mai visto da nessuna parte). Le concedo un giro lungo quella che viene indicata dalle guide come la principale via commerciale, che raggiungiamo in tuc-tuc. L’autista ci fornisce una dritta su un negozio di scarpe che ha anche modelli sportivi (e che forse è anche suo parente), ma nonostante il mio scetticismo, Miriam trova un bel paio di Nike made in India alla metà del prezzo europeo. Quando torniamo nella città vecchia è quasi il tramonto. L’ora in cui mia suocera effettua la sua giornaliera telefonata per conoscere le condizioni di sua figlia. Queste telefonate alle volte assumono dei risvolti paradossali. Sei lì che parli con una persona dall’altra parte del globo e ti trovi la strada sbarrata da un elefante di passaggio, cosa normalissima qui, ma certamente meno in Italia, quindi avverti il tuo interlocutore di attendere un attimo perché ti devi spostare per far passare un elefante.

“Un cosa?” è l’immancabile incredula risposta dall’altra parte della cornetta. Io non amo molto le conversazioni telefoniche, quindi mi limito ad inviare dei resoconti periodici via sms a mia sorella, la quale provvede a leggerli ai miei genitori la mattina successiva, quando si incontrano al mare. Quanto riferisco sembra che stia suscitando l’interesse di tutti i vicini d’ombrellone che, all’arrivo di mia sorella, si riuniscono per ascoltare il comunicato e commentarlo divertiti fra loro.

Tutto ciò lo verrò a scoprire al mio ritorno, quindi, continuo inconsapevole a rendere edotta tutta la spiaggia dei miei guai intestinali.

Manca un’ora all’appuntamento per la cena e facciamo gli ultimi acquisti girando a caso fra le stradine affollate, quindi ci dirigiamo sul lungolago dove ci attende un incantevole ristorante all’aperto. Abbiamo appena raggiunto i nostri compagni, quando, lungo la strada, ci si affianca un ragazzo che sbracciandosi, si dirige verso di me. Non sono assolutamente fisionomista (in alcuni momenti avrei difficoltà anche a riconoscere mia madre), quindi sulle prime sono un pò allarmato dal fare concitato del tizo, ma mia moglie mi viene in aiuto rammentandomi che si tratta del negoziante che nel pomeriggio voleva venderci la pashmina. Tirandoci per un braccio, dice che suo cognato accetta le 3.500 rupie che avevamo offerto e ci ha portato la pashmina. Dobbiamo quindi seguirlo per ritirarla. Io e Miriam ci guardiamo increduli.

“Ma come ha fatto a rintracciarci?” chiedo.

La mia domanda, ovviamente, rimane senza risposta, ma il risultato finale è che al termine della serata mia moglie, oltre alle fiammanti Nike indiane, ha anche la sua pashmina (forse) originale. Oltre al romantico panorama di tutta la città illuminata che si gode dai tavoli del ristorante, la cena verrà ricordata soprattutto per l’errore fatale commesso dalla nostra compagna Mariella. Errore che comprometterà il resto della sua vacanza: l’ordinazione di un piatto di pesce fritto!

9° GIORNO: UDAIPUR – KUMBALGARH Finalmente mi sento meglio. Il peggio sembra passato e tendo a non espellere più in vario modo quanto ingerito. Meno male, perché la giornata che andiamo ad affrontare si preannuncia tostissima.

Purtroppo non si può dire la stessa cosa di Mariella. Ricordate il pesce fritto? Beh, è diventato una intossicazione alimentare memorabile e la poveretta è costretta sul pullman con la febbre a quaranta.

Le siamo tutti vicini, ma la legge di Avventure nel Mondo è spietata e “the show must go on”. Solo i più forti arriveranno alla meta.

La prima tappa è Nagda, con una serie di tempietti che scorrono nella mia mente senza apportare nulla di nuovo al viaggio, mentre la seconda, decisamente più interessante, è a Eklingji. Si tratta di un complesso religioso composto da più di cento templi tra cui, il più importante è quello dedicato a Shiva, meta di pellegrinaggi continui. Il tempio non è ancora aperto e centinaia di persone vi stazionano davanti, ristorati da venditori ambulanti di qualsiasi genere di cibo. Nel frattempo di ci fermiamo a dare un’occhiata ai ghat poco distanti. Alcune donne sono intente a lavare i loro splendidi tessuti nelle acque del laghetto, compiendo dei gesti che riportano ai racconti delle nostre nonne. I lunghi teli di stoffa colorata stesi ad asciugare creano un magnifico effetto cromatico che tutti i fotografi del gruppo si adoperano ad immortalare nelle più svariate posizioni. Mi fermo a guardare quattro ragazze ferme in cima alle gradinate del ghat. Sono anche loro delle pellegrine, probabilmente povere come la gran parte della gente che affolla il sito, ma, cinte dai loro abiti tradizionali, appaiono di una eleganza che va al di là del concetto nostrano di moda. La leggendaria bellezza delle donne indiane, secondo me, trascende la reale bellezza fisica (comunque innegabile) per approdare ad un più globale concetto di eleganza della figura. Le fotografo e saranno la più bella foto del viaggio. Giunta l’ora di apertura del tempio, una moltitudine vociante si affretta per poter entrare e stavolta ritengo più interessante rimanere fuori a guardare la gente. Mentre facciamo una passeggiata tra le stradine attorno al tempio, mia moglie si accorge di alcune persone intente a costruire quello che sembra un ampliamento alla loro casa. Si tratta di un’abitazione a due piani a cui stanno aggiungendo, a piano terra, una specie di veranda in mattoni. Miriam, che di professione fa l’architetto, si ferma interessata a studiare le tecniche costruttive. Ma l’interesse, dopo alcuni minuti si tramuta in sbigottimento, fino a divenire vero e proprio orrore. “Ma quel muro non si reggerà mai !” è il suo primo commento, quando riesce a ritrovare la parola. In effetti, il muro a calce che stanno tirando su, non ha alcuna fondamenta e poggia direttamente sul nudo terreno. A tal punto, che quando gli operai tentano di appoggiarvi sopra un’architrave in legno, la struttura comincia ad ondeggiare pericolosamente. Per maggior sicurezza decido di spostarmi un po’ più indietro. Sistemata alla bell’e meglio la lunga tavola di legno, hanno il problema di vedere se è perfettamente orizzontale. Miriam cerca con lo sguardo una livella, ma non la trova da nessuna parte.

“Come faranno?” mi chiede, nonostante io non ne capisca assolutamente nulla.

Ma ecco che i due tirano fuori una trovata geniale. Prendono un tubo di gomma e lo riempiono d’acqua, poi ne alzano le estremità ed il liquido, per il principio dei vasi comunicanti (questo me lo ricordavo dal liceo), si posiziona alla stessa altezza nei due capi del tubo, creando così una perfetta livella artigianale.

Soddisfatti, riprendiamo la marcia verso la cittadina di Nathdwara. La nostra meta è il tempio dedicato a Krishna, che contiene una statua in marmo nero del dio, molto venerata. La qual cosa ci appare del tutto evidente al nostro arrivo. La moltitudine di gente, infatti, è veramente esagerata.

Per camminare dobbiamo spintonarci in mezzo a stradine ricolme fino all’inverosimile di bancarelle e negozietti vari. Gli odori sono fortissimi. Cibo fritto, spezie, fiori, sudore, oltre all’immancabile olezzo di fogna e spazzatura.

Davanti al tempio stazionano centinaia di pellegrini in attesa di entrare. Sembrano tutti poverissimi ed è incessante l’andirivieni di addetti che distribuiscono cibo da grandi casseruole metalliche. La ressa per entrare è davvero impressionante, ma ancora più impressionante è la pila di calzature che si è formata davanti al portone d’ingresso. Poiché nei templi bisogna entrare scalzi, di solito al di fuori di essi vi sono delle apposite rastrelliere dove vengono sistemate le scarpe di coloro che entrano, ma qui tutte le calzature sono letteralmente buttate alla rinfusa una sopra l’altra e ci chiediamo come è possibile riuscire a ritrovarle all’uscita. Mia moglie soffre di claustrofofia, quindi io e lei ci offriamo volontari per rimanere fuori a fare la guardia alle scarpe dei nostri compagni. Alla loro uscita, Miriam è davvero felice di non essere entrata, in quanto i racconti che apprende dalla viva voce dei nostri amici, sono davvero impressionanti. La calca era tale che si veniva letteralmente spinti in avanti senza neanche camminare. Il tutto ad una temperatura infernale, tra urla e scene di isterismo.

Ci rimettiamo subito in viaggio, perché i chilometri da fare sono ancora molti ed dobbiamo portare a termine l’impegnativa visita alla fortezza montana di Kumbalghar. In realtà questa tappa la stiamo attendendo con ansia, non tanto per l’esplorazione al castello, quanto per la notte che dovremo passare nel Ghanerao Royal Castle, pubblicizzato fin dall’inizio del viaggio come uno dei più begli alberghi che visiteremo in India.

Dopo tanti giorni di paesaggio piatto e monotono, la natura comincia a mutare man mano che la strada inizia a salire. Le curve aumentano, la carreggiata si fa sempre più stretta e gli incroci con gli altri automezzi sempre più pericolosi, fino a divenire folli quando incrociamo camion e pullman. In quest’ultimo caso ci sarebbe da aprire una piccola parentesi. I pullman delle linee interne, oltre ad essere dei ferri vecchi in stato di rottamazione, sono sempre stracarichi fino all’iverosimile, tanto che i passeggeri viaggiano anche sopra il tetto. Questa, che da principio pensavamo fosse un’anomalia, in realtà è la regola, per di più codificata. Per il tetto, infatti, si paga un biglietto a parte. E’ una abitudine pericolosissima (basti pensare alla pressoché inesistente presenza di sostegni e allo stato delle strade), che diventa davvero criminale nelle strade di montagna. Non so quanti passeggeri finiscano sbalzati fuori ad ogni viaggio, ma appare impossibile che sul fondo dei burroni non ci siano pile di cadaveri.

Per fortuna in questa salita siamo nel lato interno della strada, anche se gli spuntoni di rocce che passano a pochi centimetri dai finestrini ci fanno sudare freddo. A metà pomeriggio giungiamo a Kumbalghar e il nostro fidato Papi, superata la prima porta delle mura a valle, si ferma e, senza dire nulla, spegne il motore. Interpellato sulle motivazioni, ci fa sapere che l’automezzo non è in grado di proseguire in quanto le porte successive sono troppo strette. E’ una caratteristica del nostro autista che abbiamo ormai imparato a conoscere. Non ama avvertirci preventivamente degli intoppi che lui conosce, ma ce ne informa solo nel momento esatto in cui si verificano. E solo se richiesto. Lasciamo quindi il pullman, per incamminarci lungo una ripida salita. Nel momento esatto in cui inizia il solito acquazzone quotidiano! Attraversiamo boschetti e piccole pozze d’acqua con bufale al pascolo, finché non vediamo in lontananza le imponenti mura della fortezza. La nebbiolina che le avvolge, ne rende la visione altamente suggestiva.

Un cartellone all’ingresso ci rende edotti sulla vastità del complesso, ma stoicamente decidiamo di proseguire, anche se la pioggia sta aumentando di intensità. Tanto, questa sera potremo rilassarci nel nostro lussuoso albergo! Durante la salita, diamo fondo a tutti gli ausili possibili per cercare di protteggerci. Mantelline, piccoli ombrelli, cappellini e persino t-shirt avvolte sulla testa, ma è tutto inutile. Giungiamo in cima bagnati fradici. Quanto si pone davanti ai nostri occhi è però fantastico. La fortezza è così vasta che non se ne vede la fine e se non fosse per la nebbia, la vista potrebbe spaziare per chilometri. La drammaticità del paesaggio, poi, contribuisce ad affascinare ed ormai insensibili all’acqua, restiamo affacciati dalle mura per lungo tempo. Raggiungiamo il pullman giusto in tempo per constatare la fine del diluvio, ma il sorriso che ci dipinge la faccia, si spegne appena saliti a bordo. Con una mossa degna di Papi, il Boss ci informa che il nostro hotel da mille e una notte non c’è più. Il litigioso ‘gruppo ombra’ ci ha fregati prendendosi gli ultimi posti disponibili e dovremo dirottare verso un alberghetto reperito all’ultimo minuto, non riportato neanche nelle guide della Lonely Planet (il che non depone affatto bene).

Non sono particolarmente soddisfatto, ma vedo i più esperti compagni fare buon viso a cattivo gioco e mi torna in mente il decalogo di Avventure nel Mondo. Così abbozzo anch’io e, per la seconda volta nel viaggio, inizio a rimpiangere la mancanza del sacco-lenzuolo.



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