Cuba, tour fai da te con sorpresa
L’impatto iniziale non è felice. Appena scesi, ci sistemano in un grande salone sotterraneo, illuminato da neon. Talvolta salta la corrente e per qualche minuto finiamo in un buio irreale. Fuori sono le 17 del pomeriggio… Alla spicciolata, arrivano passeggeri di altri velivoli che, insieme a noi, compongono file disordinate davanti ai baracchini dove militari, tutt’altro che frettolosi, controllano i visti d‘ingresso e lanciano occhiatacce teatrali. Senza fretta. Velocemente, invece, l’aria condizionata del viaggio, diventa miraggio, sudori di cinque continenti si mischiano e nascono alleanze turistiche per consentire alle famiglie con bimbi piccoli di guadagnare qualche posizione in coda. Dopo un’ora abbondante, riusciamo ad uscire, recuperiamo i bagagli e cerchiamo il nostro corrispondente in loco. Si presenta un ragazzo sulla trentina, abbastanza scocciato dal fatto che ci aspetta da due ore. Consegna i voucher per gli alberghi, ci porta all’ufficio del noleggio auto e chiede se abbiamo già delle stanze prenotate. La domanda ci coglie impreparati. Il tour operator avrebbe dovuto, dall’Italia, prenotare gli alberghi che avevamo richiesto, lungo un itinerario concordato mesi prima. Il nostro corrispondete replica di non saperne nulla e consiglia caldamente di prenotare perché è la settimana di Pasqua e c’è il tutto esaurito. Non solo, aggiunge di non dire che abbiamo i voucher del tour Manejando Cuba. Gli albergatori, preferiscono pagamenti cash… Al momento di prendere la macchina, l’ultima sorpresa: per oscure ragioni, dobbiamo pagare altri duecento euro, mentre nel pacchetto (a questo punto pacco) acquistato in Italia, doveva essere tutto compreso.
Usciamo dall’aeroporto Josè Martì alle otto di sera, senza sapere dove andare a dormire, con il morale sotto i tacchi, scarse conoscenze di spagnolo e duecento euro in meno. La macchina è una Hyunday Accent rossa, anzianotta, con radio, climatizzatore e parabrezza fissato ai montati con rivetti… Avanziamo verso l’Avana. I chilometri non sono molti, i cartelli stradali ancor meno, così, mentre la sera incombe, ci perdiamo un paio di volte prima di trovare il Malecon, il lungomare che, insieme alla Routard, consente l’orientamento.
Sono le nove, ora locale, in Italia molto più tardi. Mentre perlustriamo il quartiere del Vedado alla ricerca dell’hotel omonimo, cominciamo a patire il fuso orario. Nella hall ci dicono che c’è posto. Tiriamo un respiro di sollievo e i bagagli in camera. L’hotel non è granché (5,5), ci sono molte famiglie cubane e tanti ragazzini che, giustamente, giocano e schiamazzano per i corridoi. La camera, una doppia, ha letti sfondati, pulizia approssimativa, bagno piccolo con coton-fioc usati per terra e una grande televisione collegata via satellite a tutto il mondo.
Vale dorme, io ci provo, ma la rabbia e la delusione alimentano agitazione, adrenalina e mi sveglio di continuo. Mastico la guida come un pazzo. Penso a itinerari alternativi e più semplici rispetto a quello programmato in Italia. Avevo trascorso mesi a disegnare sulla mappa di Cuba “il viaggio”, un percorso di quindici giorni calibrato per scoprire il paese. Da l’Habana, Cayo Lavisa, Vinales, Pinar del Rio, Playa Larga, Cinefuegos, Santa clara. Invece sono qui che temo. C’è una ragazza che si è affidata a me, un paese che non conosco, una lingua che non capisco e le certezze “logistiche” così come gli appoggi organizzativi sono spariti. Dal Vedado a Vinales passando da lovely Cayo Lavisa Vale si sveglia, sono le sei, mi vede al pezzo, sudato e nervoso e mi dice di proseguire come se gli alberghi fossero prenotati. “Vedrai che andrà bene”. Sarà per l’ora, le sette di mattina, sarà per il giorno, la domenica, fatto sta che l’Avana è quasi deserta. Facciamo colazione alla Patisserie Francese (5), che secondo la guida dovrebbe essere il paradiso dei golosi, e dove, invece, ci aspettano un mendicante insistente sulla porta e due dolcetti dal sapore insolito, tra cattivo e curioso. Partiamo in direzione ovest, imbracciamo il Malecon, attraversato da rare macchine e qualche podista della domenica come in una Miami qualunque, e poi, cominciamo per la prima volta a scoprire Cuba: i palazzoni intorno all’ambasciata americana, il quartiere elegante di Miramar, le ville delle ambasciate. La città si dilata per diversi chilometri in una periferia di case bianche e sdrucite, prima di lasciare spazio alla campagna. Intorno alla strada pascoli tutt’altro che lussureggianti e mucche stiracchiate brucano vicino al mare. Qualche cow boy controlla, fumando. La strada ti sorprende con buche improvvise, ma non inaspettate, ci sono uomini a cavallo, a piedi, in bicicletta, su trattori ed ogni altra cosa che l’immaginazione umana rende adatta al trasporto. Tra le immagini più belle, un uomo su calesse traina un uomo in bicicletta Rare le auto. Frequenti le incursioni di retorica castrista: “de la fuerza que dan las ideas es que los pueblos se vuelven invencibles” si legge in un cartellone al lato della strada. All’improvviso appiano anche grandi fabbriche, cementifici accompagnati, a pochi metri di distanza, da caseggiati in perfetto stile sovietico, con l’intonaco sbiadito e grandi cassoni di cemento per l’acqua sui tetti. L’aria, vicino alle rare fabbriche, spesso puzza di gomma bruciata. Stiamo percorrendo il lato nord dell’isola, in direzione ovest. Abbiamo trascurato l’autostrada. Quando lasciamo la provincia dell’Avana, il paesaggio cambia ancora. Verso l’interno, si aprono vallette con palme che conducono alla catena dei Mogotes, lato mare, invece, si affacciano con maggior frequenza insenature e paesi. La strada fa lunghi giri per superare golfi come Baia Honda, poi lascia la costa e passa per colline graziose, dove è facile perdersi. Aratri a mano trainati da buoi. Palme. Terra secca, dura da lavorare. Cappelli di paglia a falde larghe. Chiediamo informazioni alla gente che ci risponde con un sorriso. Come in una cartolina. E ci sentiamo un po’ “americani” quando per ringraziarli, regaliamo piccoli saponi e penne per i bambini. Mancano i segnali, come sempre, ma si affacciano con frequenza cartelloni giganteschi che raffigurano Che Guevara, Fidel, slogan celebri “venceremos” o gridi di resistenza agli americani. “Volveran” “siempre estan con nosostros”, leggiamo spesso accanto ai nomi di una decina di cubani fatti prigionieri in Usa per sospetto terrorismo. La retorica della rivoluzione non ha prezzo, mentre le indicazioni stradali sono un lusso inutile in un paese dove la macchina è appannaggio di pochi.
Dopo aver dato un passaggio ad una madre e due figli in attesa dell’autobus, arriviamo all’imbarcadero per Cayo Lavisa, giusto in tempo per salpare alle 11. Per fare meno di duecento chilometri, abbiamo impiegato tre ore. Non male, non male… Cayo Lavisa (9,5) è un’isoletta piccola, poco conosciuta, con un unico hotel composto da una decina di bungalow (dove dovremmo stare due notti per riposarci). Dista un paio miglia dalla riva. Nella traversata, a bordo di un motoscafo veloce, il mare sembra paludoso e l’isola un piccolo e scuro groviglio di mangrovie. Una volta approdati, però, attraversiamo la vegetazione spessa su una passerella di legno e scopriamo il paradiso: il lato dell’isola che si affaccia su barriera corallina, è una rivelazione. Il mare è caldo tra l’azzurro chiaro fino alla trasparenza della riva e il blu cobalto del largo, c’è una misteriosa, nettissima linea di demarcazione. La spiaggia è bianca, qualche palma (immagino piantata ad uso dei turisti) sventola altissima. Sotto una di esse, sistemiamo il telo per goderci la giornata di relax. Ovviamente non c’è alcuna prenotazione a nostro favore né posti liberi. Ci godiamo il mare e la natura, meno il modesto ristorante dell’isola dove i camerieri, gentilissimi, propongono fiori al collo e piatti schifosi. Passeggiamo lungo il litorale, prendiamo il primo sole bollente, filmiamo paguri con la telecamera, inauguriamo la maschera con un lungo bagno. Siamo gli unici italiani sull’isola. Tutto è magia. All’apparenza incontaminato. Le palme, la spiaggia lunghissima, i calameretti che fanno l’amore sulla battigia: ad un occhio immaturo potrebbe sembrare la prova provata che le fobie degli ambientalisti di tutto il mondo sono solo un grido fazioso e partigiano perché il paradiso in terra esiste. Eccome.
A pomeriggio fatto si torna alla macchina, già pieni della nostalgia per un posto magico. In serata contiamo di arrivare a Vinales (8,5). Ci dovrebbero essere almeno tre hotel convenzionati fra cui scegliere. Mancano una sessantina di chilometri, che significa un’oretta. La strada lascia la costa e s’inerpica lentamente, tra flessuose curve che assecondano il profilo delle creste, verso il cuore dei Mogotes. La vegetazione cambia, diventa equatoriale. Le chiome di piante gigantesche creano piazzole naturali sotto cui si riposano donne in attesa di un passaggio qualunque. La terra si fa più scura, le foglie più verdi. Le case, da qualche chilometro, sono assemblate con assi di legno imbiancate per respingere il sole e tetti di foglie di palma. Quasi tutte hanno piccole verande. Sono belle. Mi ricordano l’epoca delle piantagioni di cotone. Ci attraversano la strada galline, bambini e somari. Mancano una trentina di chilometri a Vinales quando vediamo un lembo di terra coltivato a tabacco: sul campo, una specie di graticola di legno e canne per consentire la prima essiccazione. Al limitare, un fienile con il tetto spiovente che arriva a terra e serve a stipare le foglie prima della lavorazione in fabbrica. Ci fermiamo e facciamo foto.
Proseguiamo il nostro viaggio e verso le 18.30 si arriva a Vinales. Cerchiamo ospitalità all’Hotel Los Jazmines (4 per la simpatia). Secondo la guida è il migliore. Nel nostro piano, ormai illusorio, avremmo dovuto soggiornare li una notte. Alla reception, come una sacra famiglia nel natale di Betlemme, veniamo allontanati, senza speranze nell’altrove. Il morale, che nel corso della giornata si era ripreso, crolla un’altra volta. Passano dieci minuti ed arriviamo al La Ermita (7,5). Troviamo, fortunatamente ed alla faccia del gran bastard della reception precedente, una camera. Non è una meraviglia in quanto a pulizia, ma la struttura dell’albergo, coloniale, è molto gradevole, la camera è grande, anche se non matrimoniale, e fuori c’è un bel parco, piscina con bar e tavolinetti conditi da un panorama mozzafiato su Vinales e sulle montagne che la circondano. Prendiamo l’aperitivo. Il primo Mojito cubano è diverso da come lo immaginavo: più leggero quasi insipido. La cornice è stupenda e, sull’entusiasmo del momento, decidiamo di scendere in città per cena. Andiamo a Ristorante Casa De Don Tomas. Il ristorante è molto carino, è l’edificio più vecchio del paese, e si mangia abbastanza male (6-). Ci accomodiamo ed evitiamo di prendere il piatto tipico: è una specie di paella valenciana con aragosta sconsigliata dalla Routard e da alcuni italiani che l’hanno appena assaggiata (“sapore di ammoniaca”, assicurano). Prendiamo così il pollo (piatto nazionale insieme a fagioli neri) un po’ di riso e patatine. Ci servono lentamente, mentre sottofondo, un gruppo in costume tradizionale si esibisce con canzoni tipiche. Trionfalmente, una volta ogni mezz’ora, per il piacere del turista, come un disco rotto, tocca a “E tu querida presentia comandante Che Guevara”. Andiamo a letto intorno a mezzanotte, soddisfatti della giornata, della serata e del fatto che praticamente abbiamo scontato il jet leg. Da Vinales a Pinar del Rio. La tenuta di Alejandro Robinha e notte da paura Al mattino ci aspetta una delle colazioni più belle e abbondanti del viaggio. Chiediamo la possibilità di sostare una notte ancora, ma non c’è niente da fare. Scendiamo in paese, ci attacchiamo ad un paio di cabine telefoniche, dove, con i polpacci arrostiti dal sole di Cayo Lavisa, proviamo a prenotare un hotel per la serata selezionando tra i nominativi convenzionati. Bestemmio senza fortuna… Decidiamo che non è il momento ed andiamo alla Cueva dell’Indios, una caverna sotterranea preceduta da una specie di giardino botanico ad uso e consumo dei turisti. Lo spettacolo è modesto (6,5). Chiediamo ospitalità ad un albergo vicino ricevendo risposta negativa. Alla reception, però, un ragazzo giovane si rende disponibile a telefonare alle altre strutture convenzionate. E’ più fortunato di noi e trova un posto a Pinar del Rio. Tutto sommato, era lungo il tragitto. Si torna a Vinales, passeggiamo per il centro, ci fermiamo in uno spaccio locale, acquistiamo sigarette e sigarilli popolari. Due i tipi di negozi: lo spaccio dove si paga con moneta locale e una tessera annonaria ha un arredamento rustico, scaffali riempiti di farina, fagioli, qualche pentola di fattura obsoleta. Dall’altra parte della strada, invece, nel supermarket dove si paga con i chavitos, sostanzialmente una moneta ad hoc per i turisti, c’è l’aria condizionata, il poliziotto che controlla siano evitati i furti, bottiglie di vino, carne, buste di chips, tutte rigorosamente made in Cina… I colori delle case, le divise degli studenti, sono bellissime, cominciamo a scoprire le auto anni 50, e motorette che nulla hanno da invidiare alla Poderosa del Che. C’è confusione ma, ancora di più, vita. Andiamo a vedere la Casa de La Caridad (7): è una specie di giardino botanico ben curato e ricco di piante esotiche, gestito da due anziane signore mulatte. Ci sono ananas e piante di cacao, fiori sgargianti e immensi baobab…
Facciamo benzina: davanti alla stazione di servizio, una piccola folla si accalca all’entrata di un autobus bianco a strisce verdi. Una ragazza, con l’impermeabile giallo e i capelli lunghi, cerca di domarla e fa entrare le persone che, in base a regole ignote, hanno precedenza.
E’ arrivata l’ora di pranzo e per dribblare il caldo, decidiamo di metterci in viaggio ed approfittare dell’aria condizionata della macchina. Nel tragitto, un’oretta, diamo un passaggio ad una bella ragazzina di ritorno da scuola. Arriviamo a Pinar e subito prendiamo possesso della camera dell’omonimo albergo (4-). Non si sa mai… L’impatto con la struttura non è dei migliori: l’albergo è un palazzone di cinque piani, arredato modestamente, qua e là lavori di ristrutturazione (4). Mi colpisce il fatto che si siano solo cubani. La camera è brutta. Comunque scarichiamo di corsa i bagagli e ci affrettiamo per raggiungere la tenuta di Alejandro Robinha (7,5), l’unico produttore di tabacco che, dall’inizio della rivoluzione, è riuscito a dare il suo nome ad una marca di sigari, nota, peraltro, in tutto il mondo.
Non è semplice trovare la strada. Dopo alcuni giri a vuoto in città, ci imbattiamo in un paio di ragazzi. Uno, casualmente, lavora proprio per Robinha e sarebbe veramente lieto di accompagnarci. Vale è tranquilla, anzi entusiasta per la coincidenza. Io sento puzza… Comunque non faccio a tempo a decidere che si è già seduto dietro. E’ sudato, ha gli occhi rossi, sembra sui 25/27 anni, ed è di corporatura massiccia. Evidentemente beve rum. Insomma, non sono proprio sereno mentre usciamo dalla città, ci sperdiamo in stradine di campagna con lui seduto dietro… Dopo una mezz’ora in cui chiacchieriamo in un misto d’italiano, spagnolo e inglese, ci dice di fermarsi di fronte ad una casetta tra campi di tabacco. Siamo arrivati. Scende, va a trovare un amico che abita li e ci da appuntamento a fine visita. Parcheggiamo e ci uniamo a due ragazze tedesche, una giornalista, per vedere la tenuta. La guida ci spiega come si produce il tabacco, le cautele per evitare che pioggia o animali possano sciupare le foglie migliori, quelle destinate a rivestire il sigaro, i metodi e i magazzini per l’essiccazione: la visita è breve ma istruttiva. Qui sono i trattori a lavorare la terra. Alla fine conosciamo anche Alejandro Robaina, scattiamo una foto con lui. Sembra scongelato dal frigo per l’ocasione. Tornati in Italia, scopriremo, su Google, molti particolari della sua vita straordinaria che la faccia, colma di rughe profonde, svela solo in parte. Torniamo da Pablo e ci accomodiamo nel salotto del suo amico. In casa ci sono anche padre, bimbo e madre delgiovane uomo, oltre ai miei soliti sospetti. Il bimbo è bellissimo, gioca sdraiato su un pavimento, polveroso di terra rossa. La casa in realtà è composta da due soli ambienti: angolo cottura e salotto, con televisione da un lato, una camera da letto dall’altro. Sul fondo un bagnetto. Ci abitano cinque persone… Il caldo è opprimente, ci offrono un caffè, ottimo, e, a seguire, un sigaro ciascuno. Aspiriamo, osserviamo e chiacchieriamo di sigari fino a quando ci dicono che, casualmente, devono consegnare alcuni sigari del Robinha (impossibile acquistarli in fabbrica) ad alcuni canadesi proprio quello stesso giorno. Qualcuno avanzerebbe e se volessimo, potrebbero anche vendercelo. Ci mostrano prezzi e pezzi. Cerco di ricordarmi le cose lette per riconoscere i sigari veri da quelli di foglie di banano, guardo la compattezza, la bellezza della foglia esterna… Alla fine ne compriamo una decina per circa 50 chavitos. Intuisco che non è il miglior prezzo possibile, ma Vale è già entusiasta dell’affare e comunque considero di pagare anche il biglietto per la scenetta in salsa napoletana dei due compari. Dopo quindi giorni scoprirò di averli pagati quanto in Italia. Sulla strada del ritorno, Pablo ci racconta che insieme a sua moglie, insegnante, guadagna meno di duecento euro al mese, ha una figlia di tre anni e odia comunismo e regime perché, secondo lui, impedisce alla sua famiglia di avere tutto ciò di cui hanno bisogno, tutto ciò che per lui è importante. Ha la televisione, conosce tutto il mondo, ma quando vuole andare al mare, la domenica, deve per forza aspettare il passaggio di un trattore, un camion o nella migliore delle ipotesi un autobus puzzolente e sghangherato.
Rientriamo in albergo e scopriamo che la camera è sporca, la finestra che si affaccia sul balconcino esterno si apre solo a calci e c’è rumore. Vale si fa la doccia. Io scendo a curiosare un po’. C’è una piscina, l’acqua è troppo verde, probabilmente le muffe si sono assicurate un posto d’onore sulle piastrelle in mancanza di una vera pulizia. Molte famiglie di cubani giocano e si rilassano. Mi fermo a guardarli. Sono felici. C’è anche qualche coppia giovane. Proviamo ad uscire nel centro di Pinar per cena, ma non troviamo posti aperti. Così decidiamo di mangiare in albergo. Il ristorante, una speice di grande Cueva, è grazioso ma pieno. Siamo gli unici stranieri. Il maitre, una signora sulla cinquantina, ci spiega che c’è da aspettare un attimo, in alternativa può farci apparecchiare un tavolino all’aperto davanti alla piscina. Il trattamento di favore si spiega con il fatto che siamo gli unici a pagare in contanti. Gli altri ospiti della struttura, veniamo a scoprire, sono cubani in viaggio premio con la famiglia per meriti lavorativi o giovani coppie cui lo stato ha regalato il viaggio di nozze nella struttura. Gli altri, quindi, pagano con una specie di buoni pasto: sono contenti, loro, perché possono mangiare a volontà e scegliere oltre a pollo, riso e fagioli (le fondamenta della cucina popolare cubana) anche uova, pancetta, e, ogni tanto addirittura la bistecca. Certo più che la cucina di un ristorante, a noi, sembra quella di una mensa aziendale. Il paragone con la sera precedente è improbabile: a Vinales eravamo in collina, con vista panoramica, leggera brezza, piscina scintillante, seggioline e tavolino in ferro battuto, tenuto a specchio. A Pinar, siamo sull’orlo di una piscina verde, con un tavolino e sedie di plastica, infossati sul fondo valle afoso, circondati dall’odore di fritto e cucinato. Comunque il menù a base di riso e fagioli, bistecchina di maiale e insalata di cavolo, accompagnati da birra Bucanero, ci riempie la pancia con soddisfazione (6,5). Per dolce, un’improbabile fetta di formaggio con marmellata che lasciamo volentieri alle mosche…
Risaliamo contenti. L’esperienza è interessante. Peccato che giunti in camera, scopriamo, con più attenzione che le pareti sono macchiate, le lenzuola bucate, capelli dappertutto, il condizionatore fa un rumore bestiale, in bagno ci sono escrementi di animale e fuori un complesso suona musica afro a tutto volume. Avevamo scelto quella camera perché doveva essere tranquilla. Poco male, aspetteremo il tempo di due balli per dormire. Sul letto, stendiamo i teli da mare e decidiamo di dormire vestiti per limitare il contatto. Chiuse le casse, comincia a diffondersi un rumore sordo, come di turbina, un rumore continuo, penetrante. Scendo alla reception e chiedo spiegazioni su lenzuola, asciugamani e rumore. Un ragazzone nero mi guarda come se parlassi arabo, mentre, nella foga, riesco quasi a esprimermi in spagnolo. Dice che il rumore è del generatore elettrico e si spegnerà a mezzanotte. Per le lenzuola? Mi devo arrangiare. Cerco di costruire tappi per le orecchie con la carta igienica, consolo Valentina e riproviamo a dormire. All’una mi sveglio, con il solito rumore ed una rabbia nera: mando un messaggio a mio fratello in Italia e lo informo che la situazione è pesantissima. La traversata dell’ovest di Cuba: da Pinar Del Rio a Playa Larga. Arriva comunque la mattina, facciamo colazione su piatti ancora unti dalla sera prima, e poi scappiamo alla disperata ricerca di un posto migliore. Alla reception non sono stati, ancora una volta, in grado di prenotarci un albergo per la sera successiva…
Come razzi, prendiamo l’autostrada per lasciare l’ovest di Cuba e tornare a L’Avana. Da li, se tutto va bene, vorremmo attraversare la penisola di Zapata e far rotta a Playa Larga. Abbiamo di fronte un tappone di trasferimento di quasi 400 chilometri… A Cuba. Il fondo autostradale è ben tenuto. Si viaggia speditamente. Ogni tanto sorpassiamo qualche gruppo di ciclisti europei in vacanza, qualche mucca attraversa la strada, qualche auto fa inversione a U. Superiamo anche dei lavoratori vestiti di giallo che con lunghe falci si occupano di tagliare l’erba, nella fascia di terra che separa le due carreggiate e lungo i lati esterni. Immagino si tratti di un lavoro titanico, infinito, roba da certosini o da russi: falciare centinaia di chilometri quadri d’erba con il falcetto… Non esistono guard rail. Ogni tanto, al riparo di soprappassaggi mai ultimati, incontriamo gruppi di persone, che aspettano un passaggio. C’è sempre, insieme a loro, un signore vestito di giallo che ne segna l’ordine di arrivo e quando si ferma una macchina, gestisce le partenze. A Cuba, ci spiegheranno nel corso del viaggio, ci sono tre tipi di auto: quelle per turisti, che non sono vincolati a fermarsi e a dare un passaggio, quelle dello stato, che sono affidate a persone per svolgere incarichi particolari, e hanno la possibilità di caricare le persone in attesa, e quelle che lo stato cede direttamente ai privati (per meriti, per acquisto etc) sono obbligate a fermarsi e caricare persone fin che ce n’è. Passiamo vicino a piantagioni, grandi fattorie e laghetti dove si fa l’itticoltura. Il viaggio procede bene e alle 11.30 siamo a L’Avana. Il problema è che per passare dall’autostrada per l’ovest a quella per l’est, c’è da attraversare un pezzo della città. Basta troppo poco per trovarsi spersi in una strada senza uscita. Evidentemente abbiamo ciccato qualche indicazione. Un ragazzotto ci ferma e chiede se abbiamo bisogno d’aiuto. Gli spieghiamo il problema e, in inglese, spiega che non c’è problema, ci accompagnerà lui e con un cenno, invita altri due ragazzi a salire in macchina. Chiudo gli sportelli in modo da impedirgli di entrare. Ho la telecamera e la macchina fotografica digitali in evidenza, è la mezza di un martedì mattina e mi chiedo che ci facciano tre ragazzi dai venti a trent’anni in giro per strada. Niente di male, ma l’ipotesi di trovarmi derubato di macchina in un vicolo dell’Avana, onestamente, non mi affascina… Per cui, propongo al ragazzo un passaggio per massimo due persone. Se decidessero di darmele, le prenderei lo stesso, ma Vale riuscirebbe a scappare… Così salgono. Dopo l’iniziale tensione, ci guidano nel dedalo delle vie di periferia dell’Avana, e si raccontano: stanno andando nella zona degli impianti sportivi per allenarsi a baseball. Giocano in una squadra di seconda serie dell’Avana. Uno, più giovane, è vestito come un rapper americano, con catena e anelli dorati. Parla molto e volentieri e dice che a Cuba si sta benissimo: “Facciamo sport gratis, ci curano, beviamo rum e ogni sera c’è una festa”. Fra l’altro, ci invita a ballare nottetempo a L’Avana. La loro Cuba sembra uno stereotipo, ma sono sinceri nell’apprezzare comunismo e regime. Esattamente l’opposto del giorno prima. Ci spiegano come funziona il mercato delle auto, l’approvvigionamento della benzina. Alla fine ci salutiamo con pacche sulle spalle e tante grazie. Riprendiamo l’autostrada. Dobbiamo ancora fare circa 200 chilometri. Ci sono diversi pullman nuovissimi e pieni di turisti che ci sorpassano, bellissime auto anni 50 con ventilatori portatili cinesi sul cruscotto, dietro parabrezza parzialmente oscurati per evitare che il sole cuocia gli interni, brutte auto russe degli anni sessanta e settanta. Dopo una sosta ad una stazione di servizio per mangiare il toast con più mosche nella storia del mondo, facciamo rotta verso playa Larga (dove c’è un hotel convenzionato e, magari, con un po’ di culo, un posto). Ai bordi della strada, ci sono piccoli monumenti in ricordo dei volenterosi che nel 1961 respinsero l’attacco alla baia dei Porci. Gli Usa attraverso un goffo manipolo di mercenari allenati in Nicaragua, avevano tentato di rovesciare il giovane regime. Ma la notizia trapelò e i sobillatori trovarono l’esercito spiegato ad accoglierli. Dopo una decina di chilometri, c’è un posto di blocco e una grande porta. E’ l’entrata nel parco nazionale della penisola Zapata. La natura è contaminata solo da rare baracche e frequenti cartelloni che ricostruiscono, in chiave anti-imperialista, l’epica battaglia del 1961. Arriviamo a Playa Larga: è lunga un paio di chilometri, non molto larga, in realtà, e chiude una baia profondissima. L’impatto è straordinario. Entriamo nel parco della Villa Horizontes Playa Larga e incrociamo le dita. Sono le tre del pomeriggio, il viaggio è andato bene, ma il posto è magico e le speranze di trovare un letto, poche. La fortuna ci assiste ed alla reception ci danno le chiavi di un bungalow (8). E’ un prefabbricato di 25 metri quadri con un bel bagno, due letti comodi, materassi finalmente degni di tal nome, lenzuola e asciugamani puliti. Siamo stremati, ci buttiamo sul letto e ci addormentiamo un’oretta, mentre, in sottofondo, il Milan, commentato in spagnolo, si gioca l’accesso alla finale di Champion…
Poco dopo siamo in spiaggia. Il mare è bellissimo, ma c’è molto vento e scegliamo di fare una lunga passeggiata. Dappertutto carcasse di granchi rossi, pochissima gente, nessun italiano. Mentre rientriamo due ragazzotti ci fermano. “Per cena volete mangiare aragosta, coccodrillo, tartaruga e bere cocco? Nostra madre cucina e vi portiamo direttamente il piatto pronto”. Vale, come sempre, è entusiasta. “Ok, ma non la tartaruga” rispondiamo evidenziando il nostro disappunto. Sistemiamo il tavolo in terrazza ed aspettiamo la cena. Alle 8, l’ora dell’appuntamento, avanza l’appetito ma dei ragazzi nessuna traccia. Dopo mezz’ora, su un camioncino d’altri tempi, due signori dell’albergo sparano ddt con una specie di cannone che fa un rumore bestiale. La scena è divertente, l’odore acre. Ogni tanto, l’addetto all’ingresso del bungalow, ci dice che i ragazzi arriveranno così come arrivano alle 9, quando il puzzo è volato via mentre al fame si è radicata. Vorremmo mangiare fuori, ma i due, diversi dai compari del pomeriggio, ci consigliano di stare in casa, perché, beh, forse, anche se lo spagnolo non è il nostro forte, capiamo che il servizio di “catering esterno” è vietato. Il piatto è bellissimo (8): aragosta, coccodrillo (che ha il sapore del capitone e la consistenza del pollo), gamberetti e riso. “Manca da bere!”. I ragazzi staccano con un salto un cocco da una pianta, con un temperino lo aprono da un lato e lo mettono sul tavolo sorridendo. Li paghiamo, escono e mangiamo con soddisfazione e tranquillità. Playa Larga, Guamà e la festa per la vittoria nella baia dei porci a Playa Giron Al mattino ci sveglia un improbabile rumore di camion, dopo colazione, fermiamo il bungalow per un altro giorno (godi popolo) e andiamo in spiaggia. Si sta come ragni. Scopriamo stelle marine vicino a riva ed una serie di buffe torrette militari, alte circa 50 centimetri e distanti duecento metri l’una dall’altra. Faccio il bagno con la maschera, finalmente sereno, scopro pesci di tanti colori, coralli. Dopo un paio d’ore incrocio quel che mi sembra un barracuda e torno in spiaggia. Nel pomeriggio andiamo a Guanà, nell’entroterra. C’è l’albergo omonimo, da un’idea di Fidel, in corrispondenza dell’imboccatura della più grande zona lacustre dell’isola: coccodrilli ammaestrati, ristoranti dove si mangia carne di coccodrillo e poi un approdo per gite in barca ad un isolotto dove è stato ricostruito il villaggio dei Taino, gli antichi abitanti di Cuba, estinti dai conquistadores. Il villaggio è una cagata pazzesca, intorno, però ci sono una serie di bungalow, un bar, un ristorantino e una piscina, tutto su palafitte, molto coreografiche: e’ l’hotel più “etnico” dell’isola (5 per l’americanata, 9 se a uno piace il genere). La cosa più interessante, però, è il paesaggio lacustre (9), una distesa dai colori verde scuro, grigio e cenere, circondata da canneti e flora primordiale. I piloti di motoscafo hanno un po’ stressato per farci prendere la consumazione sull’isola: sgradevole.
Chiaccherando con i tre adolescenti che in costume tipico animano il villaggio, scopriamo che proprio oggi è il giorno del 45° anniversario della battaglia alla baia dei Porci e che in serata, a playa Giron, il luogo dove si era consumata fisicamente la prima battaglia, c’è una grande festa. Torniamo all’hotel, ci cambiamo e partiamo. Lungo la strada le macchine sono pochissime, costeggiamo la lunga baia per 35 chilometri, con il mare sulla destra che assume tutte le tonalità del blu. Playa Giron (7) è un piccolo villaggio sorto lungo la strada. Dista dal mare cinquecento metri. Un fazzoletto di terra coperto da campi incolti ed un centinaio di bungalow squadrati di cemento armato. Proprio lungo la strada che unisce il paese al mare, è stato montato un palco e le attrazioni della festa. L’atmosfera è quella di un film di Fellini. Un ragazzo di colore con muscoli d’acciaio, lineamenti bellissimi e sorriso sdentato, spinge una pesante leva per azionare una vecchia ruota panoramica, alta cinque metri e piena di ruggine. Alcuni giovani in jeans scavano con dita veloci le costole di una porchetta, appoggiata su un tavolino da picnic. Cacciano il contenuto dentro panini che espongono davanti alla bestia e vendono per l’equivalente di 300 lire. Le donne hanno abiti succinti, spesso di colori sgargianti: giallo, azzurro, viola, rosso. Le forme sono sempre belle, solo quando c’è la musica e il movimento. Dall’altro lato della strada, a fianco di un venditore di pop-corn, un uomo sulla quarantina affetta patate a ritmo serrato e con una specie di rudimentale fornello, le frigge. La salatura è a gusto dei clienti che infilano due dita nel mezzo bicchiere di plastica pieno di sale. In molti vogliono la foto, da soli o insieme alle numerose famiglie. Vecchi rimorchi per il trasporto di cavalli, sono stati dipinti di giallo o verde, caricati di batterie e cisterne raffreddate con motori elettrici, per portare e vendere birra chiara. Barman-camionisti ne versano di fresca negli improvvisati boccali dei clienti: bottiglie di plastica tagliate a metà, lattine senza coperchio, vaschette per il gelato. La birra è leggera, quasi annacquata, il prezzo più che popolare: 500 lire mezzo litro… Beviamo, Valentina assaggia anche un hamburger moscato, io solo le patatine. !Viva el 19 de Abril! Passeggiamo fino al mare, dove, seduti sul pontile che spacca in due l’orizzonte, facciamo foto al tramonto. Tornando indietro, la strada comincia ad animarsi, sul palco arrivano i musicisti che provano gli strumenti, mentre gente più o meno sobria balla. Valentina ha i capelli chiari e un bel colorito: nonostante me, attira l’attenzione e un paio di signori sulla cinquantina, già mezzi ubriachi, provano a turno ad attaccar bottone. Come cane da guardia, monitoro l’abbordaggio e scopro nei due “vitelloni”, un’umanità maledetta. Mi offrono la loro birra, bevo, coraggiosamente dal loro bicchiere, e provano a far ballare Valentina. Le gambe e i riflessi, però, sono arrugginiti dall’alcool e dall’età e alla fine si limitano a fare la spiegazione e raccontare aneddoti su Fidel e su Cuba. Già Fidel. In questa notte, magica, è idea frequente che possa apparire d’improvviso per festeggiare con i compagni. Non arriverà, ma la sua presenza serpeggia occulta, segreta. Si fa notte e nonostante Vale voglia restare per il concerto, mi faccio prendere dalla paura del buio e decido che è l’ora di tornare al bungalow. Lungo i venti chilometri di strada che ci separano dall’albergo non incontriamo auto o lampioni. Solo le stelle e i fari della hyundai illuminano la strada. Gruppi di granchi rossi giganteschi, alti dieci centimetri e larghi oltre venti, attraversano la strada nel cammino dal mare li porta alle paludi dell’entroterra dove si riproducono e muoiono. Cerco di schivarli, con alterne fortune. Sono bestie inquietanti ed ho paura che schiacciandoli possano bucare una gomma. M’inquieta l’idea di una sostituzione in notturna. Arriviamo al bungalow, facciamo uno spuntino con del pescado nel ristorante dell’hotel dove i prezzi sono occidentali ed il servizio modesto (6). Ci invitano al bar: c’è musica dal vivo (di buona qualità) e animazione con una coppia di maestri di ballo cubani. Valentina si diletta e provo addirittura anch’io. Prima di andare a dormire facciamo due chiacchere con una coppia italo-inglese che ci presta anche il trasformatore per caricare le batterie della telecamera.
Strade macerate ei flora tropicale: da Playa Larta a Trinidad E’ mattina, Playa Larga è nel nostro cuore, ma dobbiamo, vogliamo partire, rinfrancati e felici, alla volta di Cinefuegos e poi Trinidad. Proviamo come al solito a prenotare telefonicamente una camera al Faro Luna, ma l’esito è sconfortante. Saliamo in macchina e ripercorriamo la strada della sera prima. Di giorno, scorgiamo continue indicazioni per punti per la visita dei fondali. Faccimo sosta a Punta Pedriz (7, ma è uguale alle altre insenature gratuite). Ci sono gechi bellissimi, pesci multicolori che arrivano dal mare tramite cavità sottomarine, un po’ d’incuria e sporco e un odore acre. E’ l’odore dei granchi morti mischiato a quello dell’acqua dei laghetti interni, putrescente e florida.
Nella zona, c’è anche un noleggiatore di maschere e pinne ed insieme ad una comitiva di spagnoli, ci buttiamo in mare per quello che sarà, indubbiamente, uno dei più bei bagni sull’isola. Per tre ore, nuotiamo in mezzo a pesci azzurri, turchesi, gialli, rossi, grandi e piccoli, per nulla spaventati dalla nostra presenza. Ci sono anche coralli, qua e la, che salgono dal fondo roccioso. Insomma, una meraviglia. Verso mezzogiorno, come al solito, risaliamo in macchiana e cerchiamo di sconfiggere l’afa con l’aria condizionata e la tappa di trasferimento. Fino a Playa Giron, dove compriamo un improbabile gelato confezionato Nestlè, la strada è buona. Quindi ci avventuriamo per vie secondarie alla volta di Cienfuegos. Nella cartina sembra tutto semplice, in realtà, dopo una mezz’ora la strada si trasforma in una pista sterrata e piena di buchi alti anche mezzo metro. Ci siamo persi? In direzione opposta, arriva un calesse. Chiediamo al contadino dove siamo e come fare per raggiungere Cienfuegos. Temiamo ci risponda “frittole”. Invece seguendolo, piano piano, arriviamo ad una fattoria. Un paio di cow boy cavalcano pigramente sotto il sole. Indica una strada, ancora con tante buche, ma asfaltata. Ai lati, lunghi tratti di foresta equatoriale, qualche campo, villaggi dal sapore di baraccopoli. Forse i più brutti che abbiamo visto sino ad ora. Di turisti, qui, neanche l’ombra. Ad una media dei cinquanta all’ora, risaliamo verso Covadonga, lasciamo la penisola di Zapata, riprendiamo brevemente la “cosiddetta” autostrada. Cambia il paesaggio ed iniziano grandi coltivazioni di banane, ananas e agrumi. C’è qualche trattore carico come un autobus all’ora di punta che porta i braccianti verso le mense. “Rubiamo” un casco di banane. L’impresa non è difficile, ma i frutti saranno buoni non prima di qualche settimana. Ad una ventina di chilometri dalla meta, facciamo una sosta davanti ad un raro banco che vende frutta. Compriamo due ananas da una ragazza, poco più che adolescente, dagli occhi bellissimi. Il prezzo è irrisorio: l’equivalente di 50 centesimi…
Alle quattro del pomeriggio siamo a Cienfuegos. La struttura della città, tra le più popolose dell’isola, è particolare, appollaiata sull’interno di una baia immensa, tanto chiusa da sembrare un lago. I due estremi dell’anello, separati da poche centinaia di metri, sono caratterizzati da insediamenti antropici dolorosamente di impatto: da una parte, la cupola sferica della mai ultimata centrale nucleare, dall’altra, la sagoma tozza e spigolosa dell’hotel Pasacaballo…
Ci avviamo in direzione della spiaggia Luna e dopo una quindicina di chilometri in mezzo alla campagna, attraversiamo il paesino di Cuba Libre dove acquistiamo banane più mature e arriviamo all’hotel faro Luna (9). C’è posto. Il solito respiro di sollievo. La camera è molto grande, luminosa, pulita, con un bagno bellissimo ed affacciata direttamente sul mare. La struttura è accogliente così come il personale. Questa volta è andata bene. Facciamo un bagno approfittando della spiaggia sottostante (niente di trascendentale) e dopo una doccia rinfrancante decidiamo di andare in città per fare una passeggiata e cenare in uno dei posti indicati nella guida. Il centro di Cienfuegos è uno dei migliori e più begli esempi di stile eclettico. Non immaginate un piccolo ameno borgo. E’ una grande città cubana, centroamericana. Dalle inferriate liberty di una casa colonica, scorgiamo un bellissimo quadro e il suo autore intento a rimirarlo, le strade sono ben tenute e mentre ci sediamo lungo il corso principale a goderci case e cose, un signore distinto, sulla settantina, si siede sulla panchina insieme a noi e comincia a raccontare la sua storia e quella della città. E’ un ingegnere elettrico in pensione, ha lavorato da quando aveva vent’anni in una centrale vicina alla città, ha visto crescere il benessere e ridursi le ingiustizie di un paese dove, quando era nato lui, non esistevano diritti per i più poveri, non esistevano ospedali e scuole per i meno fortunati. Sa bene, sottolinea, che i giovani vorrebbero di più e sa bene che è normale siano diversi i punti di vista a seconda della generazione. Proprio la contraddizione tra questi punti di vista crea dialettica e crescita nel paese. E’ convinto che la maggioranza dei cubani sia ancora favorevole a Fidel perché, pur con tutti i limiti della dittatura, è consapevole della diversità cubana rispetto alle altre realtà che si sono succedute nel centro america. E’ appassionato della cultura Italiana, conosce bene Dante, e i Papi meglio di me. Ha studiato arte. Parla di quella cubana e dei suoi figli. Alle otto di sera le strade si separano. Vorremmo mangiare al ristorante Palacio Del Valle bellissimo, un po’ caro ed affacciato sul mare. E’ un ristornante in un palazzo storico ottimo per aragoste e gamberetti. Purtroppo non accettano la carta di credito e in tasca abbiamo pochi spiccioli.
Ormai siamo padroni delle strade, giriamo la macchina e come missili raggiungiamo l’hotel verso le nove. In tempo per cena… C’è un buffet ricco, con lasagne italiane, che potendo, avremmo evitato volentieri, ma, date le circostanze, assaggiamo restando piacevolmente sorpresi (7). A fine cena, gli altri ospiti della struttura si fermano sul bordo piscina a chiacchierare e bere mojto. Vale è stanca e dopo una breve passeggiata, si va a dormire…
Cienfuegos, Playa Ancon e l’aria di Trinidad Il mattino successivo torniamo per scoprire una Cienfuegos animata di gente, turismo, guitti che fermano gli stranieri con qualunque scusa. Offrono, sigari, rum, una camera dove alloggiare per la notte, un ristorante dove pranzare, un’amica con cui passare un po’ di tempo, incuranti del fatto che siamo una coppia. Un ragazzo mulatto, cicciottello, attacca discorso a più riprese, prima in spagnolo, poi in italiano. Spiega, inventa?, di aver lavorato in Italia, a Milano e Napoli e di essere tornato a Cuba per motivi familiari. Abbiamo bisogno dell’adattatore per le prese elettriche e l’anfitrione si offre di trovarlo per noi, con noi. Il tentativo, inutile, è lodevole e tra i borbottii di Vale, lo salutiamo con un euro preziosissimo di mancia. Parcheggiamo nella piazza (?) del centro storico, un’anziana signora si offre di badare all’auto in cambio di una moneta. Visitiamo il vecchio teatro comunale Tomas Terry. Una struttura bellissima, di grande fascino. I decori liberty dell’androne sono in cattivo stato, l’aria un po’ polverosa, le sedie, di legno, vuote, ma sul palco un gruppo di ballerini sta provando lo spettacolo per la sera. Ci sediamo, non visti, godendoci l’ombra mischiata a spicchi di sole che filtrano da battenti semichiusi. Parte la musica, i ragazzi indossano fuseaux coloratissimi, si agitano, l’atmosfera, piacevole, ricorda “Saranno famosi”. Di nuovo fuori, sotto il sole, passiamo davanti ad una scuola e, mischiati ai genitori, assistiamo ad un saggio. I bimbi si dilettano nelle arti marziali, le ragazze nel ballo. Applaudiamo, filmiamo e sorridiamo. Fa molto caldo e prima di ripartire, approfittiamo, per rinfrescarci con una cerveza ghiacciata sotto i portici del bellissimo Bar Ristorante El Palatino, musica dal vivo, atmosfera coloniale, very well (8). La guardiana si è addormentata su una panchina ombrosa, così riprendiamo l’auto senza salutarla. Nella zona del vecchio molo, distante un paio di chilometri visitiamo il meraviglioso Palacio del Valle, risalente ai primi del novecento, che oggi è un ristorante. E’ un crogiuolo di stili arabeggianti, rinascimentali, neoclassici, dai pavimenti, alle decorazioni marmoree, dalle architetture agli arredamenti lignei. Dall’ultimo piano, mentre ancora è mattina e bar e ristornate sono chiusi, si gode una bella vista di città e golfo. Scendiamo, dispiaciuti per non aver potuto provare il ristorante e percorriamo la piccola penisoletta di Punta Gorda che si staglia in mezzo al golfo. Ci sono bellissime case in legno a due piani dei primi ‘800, fatte dai neri deportati a Cuba per coltivare le piantagioni di canna da zucchero da New Orelans. Davanti ad una di queste, sono parcheggiati mezzi militari. Vox populi attribuisce la dimora a Fidel. Al vertice della penisola c’è un parco, bambini che giocano, fiori. Intorno, sul mare che pare lago, adolescenti si sfidano a canottaggio. Sotto un gazebo, un gruppetto insolito: un ragazzo bresciano, sui trentacinque, abbraccia una ragazza cubana evidentemente giovane e chiacchiera con i suoi genitori. Questi, per la prima volta nell’isla grande, apprezzano le bellezze naturali e sono colpiti dalla povertà. Il ragazzo tenta di difendere l’implicita accusa alla propria ragazza, spiegando che nella povertà, comunque hanno tutto, mentre lei guarda il mare facendo, forse, finta di non capire.
A mezzogiorno si parte alla volta di Trinidad, patrimonio mondiale dell’umanità. Inizialmente la strada segue un percorso buffo verso l’interno: sale e scende da collinette con un tragitto rettilineo, ondulato e nettissimo. Dopo cinquanta chilometri, ecco, di nuovo, il mare. E’ una giornata ventosa, onde schiumanti sbattono sulla riva e sconsigliano una sosta per il bagno. Scorgiamo stabilimenti per l’allevamento di gamberetti a ridosso del mare, foci di fiume verdeggianti che rompono la monotonia di un lungomare scarsamente attrattivo. In un’ora e mezzo siamo a Trinidad, provincia di Sancti Spiritus. Vale ha voglia di riposarsi, così decidiamo di cercare una camera all’Hotel Atlantic che, secondo la guida, dovrebbe essere sulla spiaggia, ad una manciata di chilometri dalla città. La strada che conduce da Trinidad a Playa Ancon, dove c’è l’Hotel, è molto particolare: attraversa prima una brutta periferia, quindi un porto commerciale di piccole dimensioni e poi laghi salati in parte desertificati, disseminati di arbusti e battuti da un vento forte. La penisola Ancon si allunga nel mare come un dito esile per una decina di chilometri. Quasi al vertice, l’albergo. Siamo fortunati anche oggi: c’è una camera libera e, necessariamente, pagando un extra, il servizio di pensione completa, tipo villaggio. E’ un albergone (6,5) in stile sovietico a sette piani che irrompe sul panorama del litorale con una prepotenza ed una bruttezza degna del fu ecomostro di Bari. Ci sono due piscine, diversi bar, tanto all’aperto quanto più riparati, un piccolo molo da cui partono rumorose gite quotidiane alla volta dell’Isla Blanca, sulla barriera corallina, una spiaggia lunga bianca e sabbiosa, con ombrelloni, sdraio, spazio per il beach volley, e una pedana dove fare lezione di ballo. Animatori con altoparlante invitano gli ospiti a cimentarsi nel ballo. La camera è una doppia senza infamia e senza lode, sesto piano fronte mare, pulita e con letti non giovanissimi. In spiaggia, con il braccialetto passepartout per bar e ristornati, prendiamo il sole, beviamo birra, succo di pomodoro, d’ananas, di mela e chiaccheriamo di Berlusconi e della politica italiana con una famiglia di francesi. Il bagno non è memorabile tanto per il fuori, quanto per il tipo di mare, subito fondo, sabbioso con tante alghe e pochi pesci: una razza spunta fuori dal nulla e mi prendo un croccolone. Poi una lunga passeggiata, sul bagnasciuga bianco, con il mare leggermente increspato ed infinito sulla destra. Un paio di ragazzi con maschera, pinne e fucile hanno preso polipi ed altri pesci non meglio identificati: tentano con alterne fortune, di vendere. Arriva la sera e la cena a buffet. Per mimetizzare i soliti cavoli, riso, fagioli, pomodori, carne di pollo e di maiale, un po’ di bistecca preparata in pezzettini microscopici, i cuochi devono fare un gran lavoro di fantasia. Birra a fiumi e anche vino, che non abbiamo coraggio di assaggiare, completano il menù gradito a tedeschi e canadesi, ovvero gli ospiti principali della struttura. La mensa, da duecento posti, è strapiena. Dopo cena, i camerieri si travestono da ballerini e si presentano nel teatrino per un modesto show di cabaret e flamenco (5,5). In compenso, mentre siamo seduti a bere mojto conosciamo Massimo, un ragazzo di Napoli sui quaranta. Si parla di Afganistan, Iraq e Cuba.
Trinidad: patrimonio mondiale dell’umanità Il giorno dopo, di buon mattino andiamo a Trinidad (8). Dal parcheggio in poi, ogni persona dai 5 ai 60 anni ci si avvicina per chiedere elemosine. Le più petulanti sono ragazze giovani, mentre donne di mezza età puliscono le case con cenci luridi e gettano l’acqua sporca direttamente sul selciato della strada. Superata la diffidenza iniziale, ci stupiamo come il fanciullino pascoliano. Le case sono meravigliose. Ognuna ha una storia da raccontare, gli azzurri, i rossi, i gialli, le facciate sbocconcellate e, dentro, quadri meravigliosi, mobilia d’epoca alternata a brutti televisori, poltrone lise e materassi ammonticchiati su reti sfondate. Il centro storico è turisticamente arredato e ben tenuto. Visitiamo il museo di architettura dove una signora gentile ci spiega, in spagnolo, ragioni e tecnica di costruzione delle dimore di Trinidad, leggiamo la storia della città sulla guida, entriamo nel museo di arte Romantica, una splendida casa colonica, arredata con mobilia coerente ed originale. Oltre al biglietto si paga anche per telecamera o macchina fotografica. Giriamo per il mercato: la fanno da padrone pizzi e merletti su tovaglie, centrini, asciugamani e tovaglioli di cotone. Diamo un’occhiata all’Inglesia de La Santissima Trinidad, dalla bella facciata barocca, alle numerose gallerie d’arte che propongono centinaia di quadri per tutti i prezzi e le dimensioni. A parte qualche rara eccezione, cogliamo tre tendenze, meglio mode, nella pittura cubana: una formale, che predilige ritratti, soggetti come vecchie auto o angoli caratteristici, una naif, ed una informale, con i colori vivaci della terra e della bandiera di Cuba, bianco, azzurro, blu e rosso.
Nel Museo civico di Storia o Palacio Canterro (dal nome della famiglia proprietaria della casa), di singolare bellezza, vediamo la storia coloniale e industriale di Cuba e poi saliamo fino al tetto, un ampio terrazzo da cui si gode una vista memorabile su tutta la città, le colline retrostanti e lo spazio di pianura che la separa dal mare, dalla penisola Ancon, dove, nonostante la distanza, fa brutta mostra di se la sagoma del nostro albergo. La visione d’insieme, forse per il sole ed il caldo, ricorda un po’ il “vecchio west”…
All’ora di pranzo torniamo in spiaggia dove mangiamo una sogliola e patatine fritte. Quindi passeggiamo a lungo, insieme a Massimo che ci porta a raccogliere conchiglie bellissime. Lungo la battigia, finite le spiagge dei grandi alberghi, c’è una specie di stabilimento balneare semi abbandonato, alcune auto e sulla spiaggia solo cubani. Un gruppo di uomini, dai trenta ai cinquant’anni, fa il bagno, in tondo. Chiacchierano e si passano la bottiglia di rum. Sono le cinque del pomeriggio di sabato. Ogni tanto uno esce, si asciuga le mani alla maglietta lasciata in spiaggia, tira fuori e accende una sigaretta. Rientra in mare con la cicca in bocca, guarda di non bagnarsi e poi la passa ai compagni di sbronza, servendogliela direttamente sulle labbra salate. Il bagno al rum dura a lungo visto che li incontriamo, a distanza di un’ora sia all’andata che al ritorno. Prima di cena, chiediamo ad un addetto del box office di Cubatour di prenotarci una camera per la sera successiva sull’Isla di santa Maria. Ceniamo in albergo, e dopo, tutti e tre, andiamo a Trinidad. La prima tappa è il Ruinas del teratro Brunet. Un locale molto evocativo, che, come dice il nome, nasce nei resti dei brandelli di un vecchio teatro, un bar. Inizialmente siamo pochissimi. Il locale si riempie piano piano ma lo spettacolo è piuttosto brutto: brutte coreografie, brutto il corpo di ballo (maschi e femmine), calze smagliate e prezzi relativamente cari, occidentali. Usciamo e camminiamo. Di notte sembra una città europea piena di studenti Erasmus: la scalinata a fianco di Plaza Mayor è stracolma di gente. Sotto la casa della musica, decine di persone ballano, fumano e bevono birra. Le ragazze del luogo, di giorno petulanti e malvestite, sono trasformate: vestiti da sera stretti e corti, paillets, curve in evidenza, profumi fortissimi, in apparenza volgari, affascinanti e sensuali. Si, forse per la prima volta, logicamente, intravedo l’epica sensualità delle donne cubane. Prima di rientrare ci fermiamo alla casa della Trova: anche qui musica dal vivo e gente a ballare sotto il porticato di una vecchia casa coloniale. Ci sono meno stranieri e più cubani, sulla cinquantina. A un certo punto, da un tavolino, si alza una coppia. Lui ha la mia età, è cubano, nero, non molto alto, capelli neri lunghi, raccolti in un cappellino tipo baseball, vestito “all’occidentale”, lei è bionda, sui 45, alta, viso elegante, forse svedese. Ballano insieme un poco. Poi lei si accascia su una sedia e beve rum. Ha gli occhi rossi, stanchi. Biascica le parole, si muove come un’ubriaca. Lui resta intorno poi vede noi, vede Valentina che sgambetta da sola e mi chiede se, beh, insomma, la può far ballare. Penso al fatto che “sento” la musica come Ferrara l’esigenza di una dieta e do il via libera. Ballano, lui sudatissimo e molto bravo. Vale si muove con disinvoltura anche senza padronanza dei passi di salsa. Sarà una buona notte…
Trinidad, la valle dei mulini e l’arrivo notturno a Santa Clara passando a Cayo Santa Maria Il mattino, dopo un’abbondante colazione, partiamo verso Sancti Spiritus (7,5), il capoluogo della regione. Attraversiamo la valle dei mulini (7), dove veniva coltivata e macinata la canna da zucchero, cuore pulsante dell’economia cubana ai tempi del colonialismo. Anche nei primi anni del regime, Castro aveva individuato nello zucchero lo strumento per l’emancipazione economica del paese. Strumento che, in realtà, non raggiunse mai l’obiettivo e, con la caduta dell’impero sovietico e degli scambi di beni a prezzi politici, è andato in disgrazia.
Come prima tappa, scegliamo il cucuzzolo panoramico che domina la vallata. Un barretto vende chincaglierie e succo di canna appena spremuto. Purtroppo non c’è il proprietario e ci contentiamo di una visione d’insieme del paesaggio utilizzando un vecchio cannocchiale fisso. Ci sono fattorie e fabbriche sparse qua e là, grandi appezzamenti di terreno. Tutto ha l’aria di essere un po’ abbandonato. Entriamo lentamente nel cuore della valle. Le canne da zucchero sono da tutte le parti, a volte talmente alte da coprire il paesaggio. Sulla destra, superiamo una bellissima casa padronale abbandonata. Qualche chilometro dopo, si apre sulla sinistra una stradina sterrata. Il fondo è buono, la Hunday diventa all terrain. E’ un tuffo nel passato, metro dopo metro, ci addentriamo, prestando la massima attenzione, nella campagna, superiamo un binario, senza passaggio a livello ma con una specie di tettoia sotto cui, alcuni contadini, aspettano il treno. Arriviamo fino ad un paese (8), forse Magua, fatto delle solite case di legno, bianche, con il tetto di paglia, costruite intorno al nucleo di una spagnoleggiante e diroccata magione di campagna. Si vede una facciata della villa, ruderi di fienili, vestigia di una chiesa con le pareti annerite di fumo. Forse un incendio. I contadini lavorano la terra con aratri tirati da buoi, lentamente. Non ci sono negozi. Curiosiamo dentro le case, ma capiamo di non essere i benvenuti. Torniamo sulla strada principale e raggiungiamo un’altra magione meravigliosamente, anche se un po’ turisticamente, ristrutturata: Manacas Iznaga. La vecchia villa è diventata grazioso ristorante (8), ma il pezzo forte è l’alta torre da cui si domina tutta la vallata. Saliamo le scale ripidissime fino ad arrivare al vertice. La torre serviva per controllare il lavoro degli schiavi nei campi circostanti e cadenzare i tempi della giornata. In basso, ora non ci sono schiavi, ma un nucleo di baracche, alcuni ragazzi, liberi cittadini, con una carriola piena di banane verdi appena raccolte e un gruppo nutrito di signore che vende tipici ricami, meno cari rispetto a Avana o Trinidad.
Arriviamo a Sancti e Spiritus che è ora di pranzo. E’ domenica. In giro non c’è un’anima. Il caldo opprime. Un bel gruppo di persone sta nella casa della Trova, bell’edificio coloniale. Bevono, ridono e ascoltano un complessino che suona musica dal vivo, già dalla mezza. Il museo d’Arte coloniale, per cui eravamo arrivati sin qui, è chiuso e possiamo solo immaginare la magnificenza dei padroni. Passeggiamo per il centro: le case sono belle forse quanto quelle di Trinidad, ma meno curate. E’ una città per cubani, non per turisti, si legge nelle facciate spesso rammendate con filo grosso, senza il cesello garantito dai soldi dell’Unesco. C’è un bellissimo ristornate che si affaccia sul fiume. Li, un signore di colore, sulla sessantina fa il bagno a se ed i vestiti con un po’ di sapone di Marsiglia. Esce nudo dall’acqua e si stende sulla riva con i panni bagnati appoggiati sul pube in attesa che il sole faccia il suo lavoro. Beviamo una birra in un locale gestito da un ragazzo che ha nostalgia dell’Italia, dove la sorella ha trovato marito e sogna di tornare. Riprendiamo la macchina e attraversiamo Guayos, Cabaiguan, e Placetas, da dove giriamo per Remedios che raggiungiamo lungo vie secondarie. Stiamo scorrendo l’isola da sud a nord in una sola giornata. Nella zona di Vinales c’erano verdi e rossi scuri, umidi, densi. Nelle valli intorno a Trinidad, i toni del verde erano chiari, secchi, mentre dominava il marrone, in tutte le sue sfumature. Nella zona nord, invece, verso il lato opposto dell’isola, la campagna torna ad assumere colori più neutri. La particolarità, nell’altipiano intorno a Zulueta, sono le rocce chiarissime che spuntano nei campi intorno alla strada, simili a lapidi di cimiteri irlandesi. Lungo strada, in un villaggio che sembra dimenticato da dio e dagli uomini, ci fermiamo a prendere un pezzo di pizza cubana. Da giorni vediamo insegne con scritto pizza, ragazzi con una specie di focaccia alta, ricoperta di formaggio bianco. Brutta e apparentemente cattiva. L’abbiamo sempre evitata per pregiudizio tipicamente italiano. Ma l’appetito vien viaggiando e il paese merita una foto. Scendiamo dall’auto, ci dirigiamo dal venditore che ha il suo fornetto (praticamente quattro lamiere arrugginite montate alla bene e meglio), lungo il bordo della strada polverosa. Sulle scodelle unte si posano decine di mosche. Non abbiamo paura. Facciamo foto. Due ragazzini con la divisa da studenti ci guardano curiosi. Si mettono in posa come attori. A Remedios arriviamo circa alle tre: facciamo un giro per il centro. Quanto basta per filmare, da dietro le inferriate di una lunga finestra aperta, coppie di sessantenni che ballano la samba nella locale casa della musica. Abbiamo fretta di Playa Santa Maria e poco dopo siamo al posto di blocco per accedere alla strada che conduce all’isola. Paghiamo un biglietto un chavitos a persona per entrare, altrettanto dovremo pagare all’uscita. Nonostante l’isola disti una quarantina di chilometri dalla riva, non c’è traghetto. Gli ingegneri di Fidel hanno pensato bene di scavare una collina di tufo bianco situata nelle vicinanze della costa e costruire, con i blocchi da essa ricavati, una strada che taglia a metà il mare per 45 chilometri, una strada a due corsie, sospesa sul niente, o meglio appoggiata sul bianco dei blocchi, sul blu di un mare poco profondo, chiarissimo (9). Spettacolo affascinante: guidare l’auto in mezzo al mare, con la terra lontanissima alle spalle, e solo il mare di fronte. Spettacolo che massacra il paesaggio e la natura. Arriviamo a Cayo Santa Maria: c’è un aeroporto, un distributore lungo strada e solo 4 alberghi: tre superlusso da centinaia di euro a notte, uno, il nostro, villa las Brujas fatto di bungalow, di medio livello. Ci presentiamo alla reception sereni: il giorno innanzi al box office avevano detto di averci prenotato la camera. Invece non c’è alcuna reservation a nostro nome. La struttura è piena. Da settimane e per settimane. Chiamiamo tutto e tutti. Siamo sull’orlo di una crisi di nervi. Sono le cinque e mezzo del pomeriggio, abbiamo percorso 150 chilometri dalla mattina e siamo in mezzo al mare. Nei dintorni non ci sono altri alberghi convenzionati, i ragazzi della reception non sanno assolutamente come aiutarci. Fumo una sigaretta, impreco a raffica. Il sangue si scalda, le vene del collo mi si ingrossano. Sono nero, nero, nero come la pece. Faccio un giro per la struttura, dove ci sono diversi italiani, e mi incazzo ancor di più: il posto è quello che immaginavo, speravo, sognavo.
Guardo i vaucher, prendo la macchina e provo andare negli altri alberghi. Due sono pieni, nel terzo, per fermarsi a dormire una notte, ci vogliono trecento euro… Mesti, ripercorriamo la strada che solo un’ora e mezzo prima ci sembrava portasse alla felicità, incerti sul dove andare. Maciniamo altri lunghissimi chilometri, combattendo contro il sole che se ne scende. Nonostante sia domenica, fatto curioso, nei campi lungo la strada vediamo gente ancora al lavoro: macchine per la mietitura di grosse dimensioni, età avanzata e fattura presumibilmente russa, tagliano e raccolgono frumento. Fortunatamente i cinquanta chilometri per Santa Clara sono dritti e ci riportano nel centro dell’isola per l’ora di cena. Insomma al mattino costa del sud, nel pomeriggio isole oltre la costa del nord, a sera cena nel centro… A Los Canejes (9) c’è posto. Uno stanco respiro di sollievo e l’amara riflessione sul fatto che caro, in termini di chilometri percorsi e fatica, ci costò questo vaucher. D’altra parte in quelle aree, la guida e le cartine non offrivano alternative… L’albergo è forse il più bellino di tutto il viaggio: ci sono tanti bungalow in stile Taino immersi nel verde. La camera è pulitissima, il bagno commovente, nel senso che le piastrelle sono nuove e bianche, l’illuminazione adeguata e i servizi igienici recenti. Il ristorante interno è pieno e nonostante i chilometri fatti in giornata, andiamo in centro a provare uno di quei locali consigliati dalla guida. Scegliamo prima La Bodeguita del Centro. Una casa in stile coloniale. Dietro un bancone, un signore sulla cinquantina serve tre piatti del giorno: uno di pollo, uno di maiale e uno misto. I prezzi sono da cubani, non ci sono turisti. L’arredamento antico, originale, è affascinante, così come le vetrate delle porte. Anche i piatti sembrano appetitosi. Peccato che ogni volta che provo a chiedere qualche cosa, il gestore si giri dall’altra parte e serva gli altri avventori a prescindere dall’ordine di arrivo. Dopo mezz’ora di attesa, si affaccia dalla cucina un altro signore, più giovane e cordiale. Chiedo se si può mangiare. Risponde che deve controllare. Va in cucina. Al ritorno, fa spallucce e risponde che è finito tutto. E intanto il padrone arriva e porta altri due piatti combinati ad una giovane coppia di cubani. Capiamo di non essere i benvenuti… Non so, magari è una cacchiata, ma mi pare che il proprietario, riccilolino, birzzolato, sia un rivoluzionario della prima ora che vede come fumo negli occhi questi turisti che minano le radici della repubblica comunista con pacchi di soldi frutto del sangue degli operai sfruttati in tutto il mondo. Ci dirigiamo nella piazza centrale e nel bar sotto l’hotel Santa Clara Libre, dove sono ancora evidenti le tracce delle pallottole sparate dagli uomini di Batista, ci prendiamo un paio di ottimi hamburger e due birre ghiacce, come l’aria condizionata che ci sparano addosso. Usciamo, c’è un po’ di casino, la piazza è piena di gente, un palco e musica dal vivo. Non è roba latino americana. Sono pezzi roccheggianti. Ragazzini giovani come l’acqua si sfiorano. Fa caldo nella notte. Per noi però, dopo una giornata stremante e decisamente sfigata arriva l’ora di andare a dormire.
Santa Clara, l’impresa del Che, in viaggio per Varadero In mattinata andiamo a vedere il mausoleo del Che. L’interno è chiuso, lo sapevo, infatti avevo programmato di passare da Santa Clara il giorno successivo. Ma l’itinerario è andato in vacca! Si torna in città, visitiamo il museo dell’antiquariato, un’altra bellissima casa colonica arredata con cucine, mobili, posaterie d’epoca. Facciamo una scappata anche dentro la biblioteca municipale, un grande edificio sulla piazza principale. Si entra liberamente, ci sono gruppi di studio, osserviamo i libri. Mi resta in mente uno sull’urbanistica social-comunista. Forse perché l’urbanistica sfugge ai canoni di pensiero dei miei concittadini massesi. Prima di lasciare Santa Clara per Varadero, ci fermiamo a vedere il treno assaltato dal Che in uno dei vari capitoli della saga della rivoluzione. Dentro, ordinati in bacheche, fucili, elmetti, testimonianze e foto di un personaggio mitico, deificato dai comunisti atei di tutto il mondo, discusso dagli storici, carismatico e diventato, credo suo malgrado, il brand di una rivoluzione.
Vale non sta bene, ha mal di testa. Forse è stata la giornata precedente, piuttosto pesante. A questo punto, invertiamo la marcia e torniamo verso l’Havana. Sia li che a Varadero, infatti, gli hotel convenzionati sono tanti e forse non sarà impossibile rilassarsi qualche giorno prima di tornare a casa. Come al solito, malgrado il parere contrario di Vale, partiamo per la St Tropez cubana all’ora di pranzo. Lungo il tragitto, circa duecento chilometri, dapprima diamo un passaggio ad una giovane mamma con neonato al collo e nonna, quarantenne!, al seguito, quindi poco dopo Manacas, ad un poliziotto di colore. Non è molto loquace e fatichiamo ad interagire: il suo spagnolo ed il nostro italiano cozzano un po’. Ma lentamente, tra le spiegazioni sul paesaggio che circodiano e le indicazioni sulle strade da seguire, capiamo la sua incredibile storia. Ha trent’otto anni. Dopo il diploma e la laurea in esperto di macchine per laboratori medici, non ha trovato posto in ospedale e si è messo in coda alle liste di collocamento. Ci spiega che il lavoro è un diritto quindi lo stato ha il dovere di fare delle proposte ai cittadini che lo chiedono. Purtroppo l’attinenza tra offerta e domanda non è dovuta. Così, dopo un po’ di attesa, gli è stato proposto di fare il poliziotto. Ha accettato, ha sostenuto dei corsi ed è stato assunto. Con un piccolo particolare: lui è di Manacas, ma l’unico posto libero è a Varadero, ovvero a centoventi chilometri di distanza. Ha famiglia, genitori ed una casa a Manacas. Invece non ha macchine, ne, a Varadero, un alloggio. Il lavoro è articolato in turni di 18 ore a cui segue un giorno di riposo. Lui, come altri, scende in strada al mattino verso le 9 in attesa di un passaggio di fortuna (camion, trattore, turisti, auto di cubani) che lo porti per le 14 a Varadero. Per fare i 120 chilometri ci può mettere da un’ora e mezzo a quattro ore. Alle due del pomeriggio, comincia il suo turno, si occupa di fare pattugliamento lungo le strade, che dura ininterrottamente fino al mattino successivo quando stacca, torna in caserma per un paio d’ore e poi sulla strada per trovare un passaggio fino a casa. Sta li un giorno e poi riparte. Quando non trova passaggi, resta a casa, oppure a Varadero. Mi racconta che situazioni come la sua sono frequenti: nei paesi della campagna, non c’è un gran bisogno di poliziotti. Lo stato concentra le forze dell’ordine nelle grandi mete turistiche in modo da garantire il buon funzionamento di quella che vuol diventare, come in effetti sta diventando, la più importante risorsa economica del paese. Nonostante tutto, sembra tranquillo. Il viaggio procede bene. Arriviamo a Varadero e cerchiamo l’hotel Pulman (7), dove, inutile dirlo, avremo dovuto avere una prenotazione che non c’è, ma dove c’è posto. Peccato che, una volta esibiti i vaucher per il pagamento, invece della bella camera al secondo piano del palazzotto liberty, promessa inizialmente, ci venga assegnata una micro stanza di 16 mq, sul retro dell’edificio, con un bagno dove non ho abbastanza spazio per sedermi sul cesso. Andiamo in spiaggia. C’è molto, moltissimo vento. Padre e figlio giocano a baseball con la palla che sembra impazzita. Il mare è talmente bello, che, nonostante sia mosso, è trasparente come una piscina. Faccio un bagno rigenerante. L’acqua è calda e meravigliosa. Vale non ha voglia per il vento. Camminiamo lungo la spiaggia, ci sono decine e decine di hotel, alcuni meravigliosi, altri discreti, qualcuno sinceramente brutto. La spiaggia sembra non finire mai. Si sente spesso parlare italiano, molto più spesso di quanto non sia accaduto in tutto il resto del viaggio. La spiaggia è attrezzata come quelle europee. Rientrando, decidiamo di cenare con aragosta. Sembra che sia il piatto tipico… Scegliamo un locale indicato nella solita Routard: Casa del Chef. Il risultato è soddisfacente (7,5). Da Varadero all’Avana. I sorprendenti fondali di Playa Jibacoa Al mattino successivo, torniamo in spiaggia. Non c’è vento. Facciamo un bagno lunghissimo, che ci riconcilia con il mondo. Però, forse, non siamo le persone giuste per Varadero: non ci interessano corsi di immersione, gite in barca fuori porta, pesca d’altura, notti in discoteca, serate nei locali. Considerando che l’hotel Pulman è pieno per la sera, decidiamo così di chiedere all’agenzia locale di Cubatour se può prenotarci, cortesemente, almeno il soggiorno per gli ultimi quattro giorni. A questo punto vorremmo andare a Jibacoa un paio di giorni e poi finire all’Avana. Purtroppo la signora Jasmine dell’ufficio Cubatour non parla inglese, non ha i numeri di telefono degli alberghi convenzionati dove vorremmo andare e, per farla breve, è un vero disastro. Sconsolati, tornando alla macchina per partire di nuovo all’avventura, scorgiamo un ufficio direzionale dell’agenzia, troviamo una bella ragazza, sui trentacinque, responsabile del servizio, che ci dice che l’ufficio non è aperto al pubblico, ma solo per i box office sparsi per Varadero. Ovviamente, me ne fotto e, convinto di aver trovato il responsabile di tutti i miei dolori, mi attacco all’avversaria come una cozza allo scoglio. Tanto dico e tanto faccio che alla fine, la giovane donna perde la sua altera sicurezza, diventa gentile, chiama al telefono e cazzia la signora di mezza età (poveretta, era la persona sbagliata nel momento sbagliato), le da i numeri e mi dice di tornare da lei. La gita è infruttuosa perché la signora, di fronte a noi, chiama i diversi alberghi convenzionati sulla via dell’Havana trovandoli o pieni o non trovando nessuno alla reception. Insomma la solita lercia storia. Salutiamo Varadero e puntiamo sull’Avana. La strada è molto bella, Matanzas sulla sinistra, ci pare graziosa. Compriamo pane ed acqua in un negozietto, perché non si sa mai. Per qualche chilometro perdiamo di vista il mare e saliamo in un paesaggio brullo ma curioso, con colline che salgono alte sul mare. Entriamo nella provincia dell’Avana, ci fermiamo lungo strada e prendiamo un pezzo di formaggio, una specie di groviera giallino e senza buchi. Cerchiamo un posto letto a Playa Jibacoa, ma è tutto esaurito. Così ci contentiamo di fermarci in una spiaggia isolata per prendere un po’ di sole, mangiare qualcosa, fare un bagno. Incontriamo un paesaggio diverso da tutti quelli visti fino ad ora: ci sono piccole baie, circondate da scogli, con alle spalle un po’ di verde e poi subito ripide colline. Alla spiaggia sulla riva, fa eco un fondale ricco di pietre. L’acqua non è più azzurra o turchese. Diventa blu, con riflessi verdastri. Mi immergo e il fondale riserva meravigliose sorprese: coralli sparsi qua e là, pesci bellissimi e di molti colori. La spiaggia dove ci fermiamo è frequentata prevalentemente dai cubani che alloggiano nel villaggio, vicino, riservato a loro e costituito da brutti box in cemento armato. C’è pochissima gente: una famiglia sta facendo una specie di pic nic sulla spiaggia, mentre distante qualche centinaia di metri c’è un ragazzo europeo, giunto su una Wolksvagen presa a noleggio, in compagnia di una bella giovane mulatta. Prendono il sole, si sfiorano. Il bagnasciuga, così come il fondale, sono però sfregiati da chili di spazzatura: piatti di plastica e lattine di birra per lo più. Un brutto spettacolo, in contrasto con l’iconografia ufficiale di posti come Varadero o Playa Larga, dove tutto appare se non perfetto quantomeno in ordine, pulito. Probabilmente, la rivoluzione culturale non si è ancora radicata nella sua accezione ambientalista. Faccio una lunga nuotata, fino a quando non sono stanco, fino a quando il cielo non cambia di colore, il mare scurisce e paure ancestrali fanno capolino dietro la maschera. Torno a riva e insieme a Valentina, giochiamo con un bambino cubano sotto l’occhio vigile di sua madre. Alle quattro ripartiamo in direzione l’Avana. Ci sono almeno tre hotel convenzionati e speriamo in un posto libero per la notte in zona Santa Maria del Mar o Playa del este. Purtroppo è tutto pieno. Addirittura un hotel, sconsigliato per altro dalle guide, nella zona della periferia balneare dell’Avana è chiuso. Sono le sette, siamo alle porte della capitale e non abbiamo idea di dove dormire. Nel mio fantomatico programma, all’Avana sarei dovuto arrivare solo due giorni dopo ed avrei dovuto dormire all’hotel Koly, zona Vedado. Come sempre, beccandomi le prese in giro, ma anche la solidarietà, di Valentina, studio la guida, gli hotel convenzionati, il commento. Alla fine mi faccio una lista di posti dove provare a cercare alloggio. Al Lido tutto pieno, idem al Lincoln, affascinante e fatiscente (assonanze e somiglianze…). Ci dicono di provare al Deuville, un palazzone anni ’50, di 11 piani affacciato sul Malecon, nella zona del centro Habana, di improbabile color arancio e giallo. Manca poco alle 8, il sole se ne sta andando, entro nella hall, al bancone della reception un ragazzone di colore dalla faccia simpatica e i modi decisamente professionali, mi dice che, si, una camera c’è, vista mare anche. Posso pagare con i vaucher, certo. Per quante notti? Una, dico, per non sbilanciarmi. Sono stanco di brutte sorprese e fregature e vorrei fare come san Tommaso. Ci accompagnano in camera. Mi sembra bellissimo: la stanza è grande, imbiancata di fresco, c’è un bel letto matrimoniale, l’aria condizionata che funziona, una televisione recente, un bagno decente e, soprattutto, una vista pazzesca di tutto il litorale, finestre e un balcone che percorre tutto il lato della stanza e si affaccia sul mare. Esco, mi sgranchisco le braccia, accendo una sigaretta e appoggiato sul passamano, assaporo il tabacco e il panorama che spazia dai castelli dell’Avana vecchia ai casinò del Vedado e all’ambasciata americana.
Mentre Vale si riposa, scendo alla reception e consegno tutti i vaucher all’amico colored e fermo la stanza per tutti e gli ultimi quattro giorni!!! Chissenefrega delle dimore storiche, dell’arredamento un po’ così, della mancanza di parcheggio sotto. Basta, abbiamo bisogno di chiudere con una tregua, con tranquillità. Usciamo verso le nove, stanchi per la giornata, andiamo a cena al Cabana in Calle Cuba, lungo il canale che porta alla Bahia dell’Avana. E’ un posto pulito, la cucina è gradevole ed il prezzo onesto, anche se un po’ anonima (6,5). Poi, breve passeggiata fino alla Boteguida del Medio, bevuta d’ordinanza e nanna.
L’Avana Vecchia Il giorno dopo, ci mettiamo un po’ di Avana vecchia sulle gambe. Partiamo alle 9, dopo un’abbondante colazione, risaliamo Avenida Italia o Galiano: la farmacia del dr Pinar ha oltre un secolo di storia, il pavimento a mosaico, e gli scaffali di legno vuoti. Anche l’insegna del cinema America ha perso smalto e un paio di vocali. Quasi all’incrocio con via San Rafael, una baracca in lamiera, fissata su pali di legno, accoglie una macelleria senza frigo e con molto pollo. All’ingresso del grande supermarket multipiano, uno dei rarissimi a Cuba, poco prima, una lunga fila di persone in attesa dell’apertura, guardano motivate scarpe da ginnastica ed altri capi d’abbigliamento europeo esposti in vetrina. Ai cubani è vietato entrare con la borsa… Visitiamo il Campidoglio, sede del parlamento nei pochi anni di “democrazia” di facciata nella storia di Cuba, post coloniale. E’ la copia di quello di Washington. Gli interni invece, spaziano dal neoclassico allo stile impero: sfoggiano ricchi decori, la biblioteca con migliaia di libri, scaffali e scale di cedro, i marmi, i legni pregiati, le dorature. C’è molto, apprezzabile mestiere, ma scarsa arte in questa opera di padre italiano. La passeggiata prosegue nel park Central, all’angolo il maestoso hotel Iglaterra, caro a Hemingwey, meno al nostro amico Massimo che li ha dormito trovando la camera scomoda ed il bagno orribile. Nel centro della piazza capannelli di cubani sessantenni discutono animatamente, un ragazzo ci abborda: vorrebbe venderci i biglietti per una festa nel quartiere cinese. Tiriamo di lungo. In caye Obipso centinaia di turisti, gallerie e laboratori d’arte di un certo pregio, bimbi in fila e maestre un po‘ morbide con il sedere, spropositato, sporgente. Molte le banche, leggenda vuole che questa sia storicamente la Wall Street cubana, una farmacia bruciata. Casino? Si casino. Arriviamo nella Plaza des Armas, visitiamo il municipio. La nostra guida è una ragazza incinta che ci spiega rapidamente arredi e decorazioni nel piano nobile, poi il parco mezzi composto da carrozze e calessi nelle stalle. In piazza, un vecchietto dorme su una panchina, proteggendosi dalla calura perennemente estiva con il fresco degli alberi. Si prosegue tra negozi di quadri, nacchere ed altre baggianate per turisti verso piazza Duomo. La chiesa è stata restaurata con i soldi dell’Unesco. La facciata è molto bella (8), l’interno dimenticabile. Mangiamo al ristorante El Patio (9), affacciato sulla piazza. Il tavolino è su un terrazzino al secondo piano. Entrando, cortile interno immerso nel verde, poi, in un angolo, ben visibile, un musicista di colore suona su un piano a mezza coda musica d’altri tempi. E’ un ristornate elegante, fastoso, mangiamo molto bene, con una colonna sonora, un panorama ed un servizio eccellenti, spendendo cifre europee. Sembra così lontano il ricordo della periferia e dei monumenti in cemento armato realizzati negli ultimi quaranta anni. Tornando all’albergo, c’imbattiamo in un baracchino dove un paio di ragazzi sbucciano limoni e ananas unico rimedio per sconfiggere il caldo. Sono le 16, siamo in camera, ci riposiamo. Mi affaccio dal balcone e fumo una sigaretta. Sul lato destro il malecon, più trafficato, e poi mare e sogni e speranze finché la linea dell’orizzonte non cela il nemico, la speranza chiamata Usa.
Scendo da basso, faccio una telefonata. Chiamo a casa di una ragazza cubana. Da quando sono partito conservo nella tasca superiore del trolley una lettera di invito in Italia per una giovane donna dell’Avana. Un po’ postino, un po’ ruffiano. Fatico a farmi capire: non parla inglese il signore dall’altra parte della cornetta, mentre il mio spagnolo fatto di coraggiose parole con la S non trova comprensione. Comunque dopo un’ora arriva la promessa sposa: è bruttina, come il ragazzo che in Italia l’aspetta. Era venuto, in vacanza due anni fa. Si erano conosciuti. E’ tornato un paio di volte. Ora l’invito in Italia, che, giunto furtivamente, supererà i controlli della polizia postale. L’invito che significa, per lei, la possibilità di lasciarsi alle spalle una vita avara di lussi, un matrimonio. Per lui, la possibilità di avere finalmente una compagna che lo scaldi nelle fredde notti di inverno novarese. Poco importa, ora, se le statistiche dimostrano che nel 90% dei casi i matrimoni “tra paesi” finiscono entro tre anni, che molte di queste ragazze cercano solo di maturare il diritto al mantenimento in modo da tornare a casa e vivere poi da signore. Adesso è il momento delle trepidanti attesi, di nascondere i dubbi che nascono lavandosi i denti ogni mattina davanti allo specchio de bagno. Abbiamo ancora voglia di strada, chilometri, verità. Così percorriamo il Malecon in direzione di Miramar. Superiamo Milton Morales impegnato con una troupe a immortalare l’imminente tramonto oceanico all’Avana. Sulla strada passa il cammello, una sorta di camion con pullman a rimorchio. E’ il mezzo più economico per i cubani. Stipato all’inverosimile. Tra i molti, sul lungomare, a mirare il sole che va a dormire, una coppia mista: lui europeo bianco trentenne, bottiglia di rum in mano, sguardo sull’orizzonte. Lei, sul suo petto, creola e morbida, rilassata e occhi socchiusi. Arriviamo sino all’ambasciata americana. Dietro una provocatoria copia dell’Empire State Building. Intorno, poliziotti armati di tutto punto e poi grandi poster con frasi a effetto (tutti quelli che difendo un terrorista sono terroristi e l’immagine di Bush insieme ad un bandito del centro america). Di fronte, un palco con una grande immagine del Ché, uno stuolo di bandiere e la scritta a carattere cubitali Venceremos.
Tornando indietro, vediamo una scolaresca “volante” impegnata ad esercitarsi nella capoeira.
Alcuni palazzi versano in condizioni disastrate, all’interno maioliche spagnoleggianti e vasche di cemento armato per contenere l’acqua piovana. Per cena raggiungiamo Massimo all’Hanoi (7,5), un ristorante vicino al park central, dove mangiamo piatto unico a base di aragosta, beviamo Bucanero, spendendo l’equivalente di 10 euro, mentre, di sottofondo, si esibisce un gruppo locale. Usciamo, una breve passeggiata e finiamo al Floridita a berci un eccellente daiquiri con la discreta forse un po’ angosciante statua in bronzo di Hemingway di fianco. Tra Boteguita e Floridita, onestamente, preferiamo la seconda che per classe e qualità è veramente un notevole.
Le spiagge dell’Est: quella sporca Bucaranao. Santa Maria del Mar e dell’amor…
Al mattino ci alziamo con calma. I chilometri a piedi del giorno avanti un po’ pesano. Decidiamo di prendere la macchina, attraversare il tunel de la Bahia per andare alle spiagge dell’est. Lungo la strada, nei quartieri nuovi dietro il Castillo de Agua, ci ferma una pattuglia di polizia. Un ragazzo giovane chiede i documenti. Con reciproca sorpresa scopriamo di avere solo la fotocopia della carta d’identità. Un brivido freddo corre lungo la schiena. Il ragazzo ci guarda, perplesso. Gli spieghiamo che per precauzione abbiamo lasciato i documenti nelle valigie e che le valigie sono in albergo. Lui è un attimo pensieroso. Sembra fare il punto della situazione, valutare i pro ed i contro di un fermo. Poi, forse capendo che il fermo farebbe “troppo” male, forse vedendo i nostri visi stralunati, decide di lasciarci andare con l’avvertenza di recuperare i documenti. E così torniamo di corsa in albergo, e poi, come se fosse rewind, rifacciamo la solita strada. Ci fermiamo dapprima a Bucaranao. C’è un sacco di casino, il mare è sporco come se da poco ci fosse stata una mareggiata. Intorno a noi solo cubani, lattine e odoracci di escrementi. Così facciamo come quelli che dopo un paio d’ore se ne vanno. Ottima idea, visto che finiamo a Santa Maria del Mar, dove c’è un mare fantastico, tipo Varadero, una spiaggia magnifica. Il bagno è magnifico. Accanto a noi, un ragazzone di colore entra in mare con una birra in una mano e l’amica nell’altra. Al ritmo delle onde cominciano ad abbracciarsi e pomiciare, forse altro. Indifferente, continua a bere, tenere in braccio la ragazza, muovere il bacino per parecchio, visto che quando torniamo dal pranzo al chioschetto dietro la spiaggia è ancora in mare. Noto però che la ragazza adesso è in piedi e guarda. Lui ha lasciato la birra e messo la maschera. Nuota in una piccola zona, sott’acqua, scrutando il fondale. Prendiamo il sole ancora per un po’. Passate le cinque torniamo al parcheggio, dove il bagnino ci chiede un passaggio. E’ un signore cinquantino, nero, longilineo, con i capelli neri riccioli e brizzolati. Porta gli occhiali. Come sempre, lo accogliamo volentieri. Prima di partire si ferma a chiaccherare con due ragazzi. Ridono. Gli chiedo perché e in uno spagnolo forzatamente scandito lento, mi spiega che il ragazzo nero, mentre era a fare le sue cose in mare ha smarrito le chiavi della Mercedes, che, bianca, vedo parcheggiata fuori. E non ha chiavi di ricambio. Ecco così spiegato il nuotare a sogliola sul fondale e rido mentre penso a questa specie di contrappasso terreno… Paul è felice della vita che fa, consapevole dei limiti del regime ne apprezza le opportunità, la qualità della sua vita, spesa prima come operaio in fabbrica e negli ultimi anni come guardaspiaggia, la casa, la salute, il rum, l’uguaglianza. Lo lasciamo nel brutto quartiere primi anni ‘70 alle porte dell’Avana. Di giorno è molto movimentato. Ci fermiamo poco più avangti, sulla colline dal castillo de Agua. Una bella fortezza spagnola che domina sul porto. Passeggiamo sui bastioni, tra le piazze d’armi e le cannoniere. Ci sono passaggi sotterranei aperti. Ci intrufoliamo dentro e li scopriamo purtroppo pieno di bottiglie vuote, puzzo di urina e odore di bestia. Sesso? Una nave cargo esce dal canale e pigramente guadagna metri sull’orizzonte. Torniamo in città, saliamo in camera mentre fuori il cielo lascia partire un’ondata di pioggia caraibica: mezz’ora per bagnare le strade e la gente fino al midollo. Poi, d’un lampo, di nuovo trentacinque gradi e umidità al 90%. Dal terrazzo all’undicesimo piano, utilizzo la telecamera per riprendere la piscina dell’hotel, che fa bella mostra di se al quinto piano, i palazzi intorno ed i tetti della città in direzione di plaza della Revolution. Sembra Bagdad dopo la guerra: le case sono rabberciate, le facciate portano con sofferenza gli sfregi del tempo, assi di legno, qua e la, sostituiscono le finestre. Dal basso, salgono fascino, caldo equatoriale, odore di vissuto e di vita di confine: povertà, dignità, benessere sfiorato, rubato al regime e ai turisti. Una città sbocconcellata che si poggia su muri sbeccati, stinti, cadenti.
Proviamo a cenare al paladar La Guarida dove è stato girato Fragola e Cioccolato, Orso d’oro a Berlino negli anni ‘80. La pellicola rispecchia una Cuba che non è già più visto che oggi l’omosessualità, se non altro, è tollerata. Il palazzo è bellissimo: una costruzione del ‘700 con interni in marmo, ampi saloni, statue, e due ragazzini, lei vestita da ballerina, stesi come tappeti sulle scale in pose un po’ troppo lascive a chiedere l’elemosina. C’è il tutto esaurito così per tutta la settimana. Si mangia in due stanze. In mezzo la cucina a vista. Molte immagini alle pareti. Riprendiamo l’auto e ci avventuriamo nel Vedado By Night alla ricerca di un paladar segnalato dalla Routard. Il posto è delizioso: una villetta liberty a due piani. Il paladar Amor (8) è all’ultimo. Ampie vetrate danno sul giardino e Calle Amor. L’interno è curato: mobilia antica, stoviglie, posate d’argento e tovaglie d’epoca, un pianoforte a coda e un salotto fine ‘800. Dentro una grande vetrina completi da tennis e da mare degli anni ‘40. Disturba, ma solo un pochino, il volume di una televisione accesa vicino la cucina. Ci sono pochi tavoli, in tutto una quindicina di coperti. Questa sera noi ed una famiglia cubana. Mi sembra di capire che sia un’intima festa di fidanzamento. Mangiamo minestra, pescado, verdura e dolci in abbondanza. Il prezzo è interessante. Usciamo soddisfatti.
Avana. Musei, maioliche, mercati, maestri d’arte e Santeria.
E’ il penultimo giorno. Domani si parte. Ci resta da vedere la parte “museale”. Ripercorriamo il centro storico, questa volta partendo dalla zona del Duomo. Visitiamo il museo di Arte Cubana che non ci ammalia. La cosa più bella forse, è la struttura molto razionale e luminosa. Giriamo poi verso La zona dove c’è il palazzo Bacardi. E’ uno splendido, opulento esempio di architettura modera: i marmi rossi e bianchi del pavimento, una guardia all’ingresso dei piani alti e una ragazza con i capelli castani che, seria seria, legge la guida. Poco prima, in una strada avevamo incontrato quattro ragazzi neri intenti ad aggiustare una cadillac altrettanto nera, lucida, bollente, di sei metri, con le gomme lise e il cofano aperto in segno di resa. Le macchine, qui come altrove a Cuba, anzi qui più che altrove, sono bellissime. Uno schiaffo al consumismo ed alle comodità. Pratiche, con il ventilatore sul cruscotto, sedili in pelle consumati, parabrezza oscurati a strisce verdi. Ognuna diversa dall’altra perché 50 anni di proprietari diversi, di incidenti, guasti, ammaccature e uragani non passano senza traccia sulla pelle di lamiera di questi monumenti a quattro ruote… E i belli di paese, così come l’esercito, viaggia speso su Lada Niva nuove fiammanti! Le strade sono piene di noi, europei, cinesi, canadesi, con pelli diverse ma colori e modi e immagini omologate: tutti un po’ giapponesi con le mani piene di digitale, cellulare, portafogli gonfi, lattine di bevande fredde e gasate… Parrucchieri e pedicure in mezzo al traffico ricavano improbabili spazi di vita e commercio. Compriamo pane e birra in un bar per cubani, giusto dietro il campidoglio. Spendiamo pochi centesimi. Acquistiamo un ananas da una signora affacciata alla finestra di casa. Mercato nero? Completiamo la spesa in un mercato generale in zona Centro Habana. E’ un grande cortile dove ci sono una ventina di banchi di frutta e verdura: qualche pomodoro, cavoli, insalata, cetrioli, ananas molto riso, lime e fagioli. La varietà è scarsa. Si sta facendo sera e decidiamo di visitare le strade decorate da Salvador Escalona, un artista, poeta e stregone, cittadino di Cuba e del mondo, famoso soprattutto per i suoi murales, le sue statue e le sue surreali istallazioni. E’ partito da una via in una zona a confine tra Vedado e Centro Habana, che ha dipinto palmo palmo, dalle fondamenta ai tetti, dai giardini ai cortili, con facce, scritte, storie, vasche da bagno volanti, immagini sacre della Santeria. Incontriamo un signore nero che sembra un regista Usa impegnato e offre la sua birra, beve la nostra, ci vende un cd, lascia il numero di telefono e predice il futuro con una figlia che nascerà tra un anno. Per l’ultima cena scegliamo il paladar Nerei (6,5), questa volta nel cuore del Vedado. Non è un posto malvagio, ma i prezzi europei (soprattutto dei cocktail), il cibo abbastanza banale (pollo) e l’ambiente un po’ anonimo ci fanno pentire della scelta. Dopo cena andiamo verso Miramar per cercare locali da ballo ma lungo la strada ci coglie la stanchezza e così ci limitiamo a fare un giro nel Ristornante 1830 (statale, che spettacolo!!!, 8) e ad una bevuta sul Malecon. Avana Adios Il giorno dopo l’ultimo giro per la città. Nel centro storico, antiche palle di cannone fungono da spartitraffico. Ci fermiamo nel mercatino vicino al canale e a Plaza des Armos. Acquistiamo un ricordo per tutti, quadri per noi. Poi il pranzo al ristorante dell’ordine degli architetti (ottimo), vicino al palazzo Bacardi. Quindi via, una mezz’ora per raggiungere l’aeroporto, le attese ai ceck in, qualche affare e foto dell’ultima ora prima dell’addio!