Overland Track
* Introduzione o Clima o Attrezzatura o Attrezzatura fotografica o Note alimentari * Il nostro giro o Conclusioni Introduzione Durante l’alta stagione, i ranger locali hanno deciso di limitare ad un massimo di 35 persone al giorno, il numero di “bushwalker” che iniziano il cammino. La prenotazione è obbligatoria e il percorso si può effettuare solo da nord a sud. Durante la bassa stagione, da aprile a novembre, non ci sono vincoli, ma il clima non è esattamente invitante. Per accedere ai parchi della Tasmania si deve acquistare un pass all’ingresso di un qualsiasi parco, valido per una singola entrata oppure per 8 settimane e per tutti i parchi. Da novembre ad aprile, è inoltre necessario pagare una quota specifica per questo percorso in concomitanza con la prenotazione.
Il percorso non è semplice, ma neppure particolarmente impegnativo, a condizione di avere uno zaino leggero e un minimo di allenamento. Noi siamo partiti nelle condizioni peggiori e abbiamo incontrato delle difficoltà, quindi speriamo che queste informazioni possano essere d’aiuto per altri interessati all’esperienza. Purtroppo abbiamo scoperto che pochi italiani camminano lungo l’overland track.
Clima Il clima è molto variabile. Le brochure dicono che si possono incontrare il vento leggero, quello forte, la neve, la pioggia, il sole cocente in un solo giorno. È tutto vero. Durante i primi tre giorni del nostro cammino ci hanno accompagnato pioggia e parecchia umidità, mentre nei tre successivi un clima caldo e secco.
Durante i giorni di pioggia, all’interno dei ripari (hut) lungo il percorso, la temperatura notturna è scesa a 10°C; mentre nelle giornate di sole abbiamo usato la crema solare protettiva per evitare le ustioni.
Attrezzatura Lungo il percorso ci sono dei rifugi che possono ospitare circa 24 persone, salvo New Pelion Hut che è molto grande e può accoglierne ben 60 e Windy Hut e Narcissus Hut che sono più piccole e ne contengono soltanto 16. Ogni rifugio offre dei tavoli sui quali mangiare e una stufa a gas o a legna. Quelle a gas hanno un timer che le spegne dopo 45 minuti. Fuori da ogni rifugio ci sono un bagno chimico e alcuni contenitori di acqua piovana potabile.
Ci si deve portare tutto, salvo l’acqua: vestiti, tenda, cibo, borraccia da 2 litri a persona, fornellino e popote, spazzolino per pulire la popote, coltello, carta igienica (un rotolo a persona), kit di pronto soccorso, pedule, lampada a gas o batterie (abbiamo visto quella a batterie che si appoggia sulla testa, molto utile per non disturbare gli altri), cappello, sacco letto, materassino, coprizaino. In particolare per quanto riguarda l’abbigliamento, si deve essere pronti al sole forte e alla pioggia battente, oltre che al freddo. Noi abbiamo preso i pantaloni da trekking in un tessuto che si asciuga velocemente, provvisti di cerniera per diventare corti. I più comodi sono quelli che hanno anche la zip di lato, in modo da togliere la parte inferiore senza doversi sfilare le pedule. Fa comodo anche avere una calzamaglia da usare come pigiama nei rifugi e scarpe da interno. Il consiglio che diamo è di partire con uno zaino che non pesi più di 10kg.
Il gas del fornellino si può comprare al “Visitor Center” di Cradle Mountain, dove i ranger descrivono il percorso e controllano che tutti dispongano dell’attrezzatura necessaria. Sono disponibili bombole della camping-gaz e altre marche, sia quelle a valvola che senza. Il gas non può essere portato in aereo e quindi va comprato lì. Noi abbiamo dormito in un ostello a Launceston prima di iniziare il percorso e alla reception ci hanno donato una bombola semiusata che altri viaggiatori hanno lasciato prima di abbandonare la Tasmania in aereo. Pare sia usanza diffusa.
I ranger consigliano di portare anche bussola, paletta per scavare un gabinetto di emergenza, eventuale telefono satellitare, mappa (che si compra all’ingresso del parco e che si trova anche in ogni rifugio), guanti.
In ciascun rifugio e nei “visitor center” alle due estremità del percorso, c’è un “guest book” sul quale ogni persona o gruppo dovrebbe annotare la data del proprio passaggio e le intenzioni per la tappa successiva. Lo scopo di queste annotazioni è quello di poter identificare l’ultima posizione conosciuta, nel caso in cui qualcuno si perda o incontri difficoltà.
Attrezzatura fotografica Ci potrebbe essere parecchia umidità e poca luce. Durante i giorni bui è necessario utilizzare pellicole da 400-800 ASA per il giorno e 3200-6400 per la notte e gli interni dei rifugi; nei giorni luminosi si può anche usare qualche pellicola a 100-200 ASA, ma solo all’aperto, mentre nella foresta ci vorrà sempre almeno un 400 ASA. Consiglio finale: 2 pellicole da 36 a 800 ASA e una da 24 a 3200 ASA per ogni giorno di viaggio. Noi avevamo anche un cavalletto leggero che è stato indispensabile per le foto al tramonto e alle cascate (esposizione di oltre 5 secondi.) Abbiamo usato la Nikon F100 con un obiettivo 28-105, ma sarebbe stato necessario avere anche un teleobiettivo o uno zoom che arrivasse a 300mm. Alcuni avevano obiettivi fino a 200mm, ma dopo averli provati sono convinto che un 200mm non sia sufficiente.
Da non dimenticare le batterie di scorta! Note alimentari Il nostro cibo: un chilo di riso basmati, una scatolina di curry, due pacchi di pane in cassetta, un barattolo di crema tipo nutella, tre bustine di cibo indiano precotto, una confezione di fichi secchi, una scatolina di mandorle secche, una scatola con delle buste di the, una con del sale fino, una con lo zucchero integrale, una pagnotta lunga e piatta di pane turco, una scatola di tonno, una boccettina d’olio di oliva, una confezione di anacardi, 5 cubetti di dado di pollo.
Gli altri viaggiatori avevano più cibo di noi, soprattuto tanta pasta, verdura per condire la pasta (cipolla, carota, zucchina), muesli e altre “porcherie” da colazione, mele, latte in polvere, pasta precotta in scatola, frutta sciroppata. Un ragazzo neozelandese aveva addirittura un piccolo dolce al cioccolato per festeggiare il compleanno della sua ragazza.
Il cibo che abbiamo portato non ci è bastato. Sarebbe stato meglio organizzare colazioni più abbondanti e portare qualche altra busta di cibo precotto o disidratato e magari un po’ di pasta.
Il nostro giro Primo giorno: dalla partenza a Waterfall hut Siamo partiti l’undici febbraio sotto una pioggerellina leggera con l’intento di completare il percorso in 6 giorni, senza dedicare spazio alle diramazioni, ma rimanendo sul solo tracciato principale perché nei nostri zaini avevamo anche tutto l’occorrente per il resto della vacanza in Australia, quindi ci muovevamo con uno zaino da circa 22kg, l’altro da 14kg oltre ad uno zainetto con il cibo.
Il primo giorno si affronta una delle salite più impegnative (dai 900 ai 1250m), su cui ci siamo arrampicati sotto la pioggia e il vento forte. Il clima e la salita ci hanno un po’ scoraggiati, anche perché dalla cima non abbiamo potuto godere del meritato panorama a causa delle nuvole. E non è neppure facile riuscire a fare una pausa pranzo sotto la pioggia senza ripari. In realtà sul percorso c’è una piccola capannina chiamata Kitchen hut che però abbiamo raggiunto piuttosto tardi e che in ogni caso era piena di gente e c’era anche un ”quoll“ che la intratteneva. Durante il pomeriggio la camminata avviene più o meno alla stessa quota e poi c’è la discesa finale per arrivare a Waterfall hut. Questa seconda parte ci è parsa interminabile, ma abbiamo avuto modo vedere i primi animali: due wallaby e, successivamente, un wombat che attraversavano il nostro percorso.
Il primo giorno si cammina accanto a “Cradle Mountain” e si passa vicino a “Burn Bluff.” Si tratta di belle montagne che però non abbiamo potuto ammirare bene a causa del maltempo. La prima è molto grande e frastagliata, il secondo è invece un cucuzzolo pietroso.
Alla fine del primo giorno c’è la discesa a Waterfall hut, che però non si vede fino a quando non ci si è praticamente arrivati. Una volta lì, abbiamo trovato due ranger che ci hanno spiegato come comportarsi nei rifugi, dandoci le indicazioni sull’uso dell’acqua, del bagno e della casetta. Ci hanno anche controllato il pass, ma è stata l’unica volta che qualcuno l’abbia fatto.
Secondo giorno: da Waterfall hut a Windermere hut Questo tratto è breve, difatti siamo arrivati al nuovo rifugio prima dell’ora di pranzo. La giornata è stata molto nuvolosa e il passaggio nei punti più interessanti, detti “lookout” per la possibilità di ammirare il paesaggio circostante, non è stato gratificante. Il rifugio però si trova molto vicino a un lago, che durante le giornate di sole è probabilmente più interessante.
Altri camminatori, arrivati alla nostra stessa ora, hanno deciso di proseguire fino al rifugio successivo nonostante la tappa non fosse corta, sperando che il tempo non peggiorasse. Ogni volta che si incontrano i ranger, gli si chiede quali siano le previsioni del tempo, ma ovviamente queste sono sempre sbagliate perché il tempo è veramente variabile. I ranger di Waterfall hut avevano detto che oggi avremmo avuto ancora un clima decente, mentre per il giorno successivo era prevista parecchia pioggia. Per questo alcuni hanno deciso di proseguire e di percorrere la tappa un po’ più lunga nel giorno “bello”.
In questo rifugio abbiamo conosciuto un signore italiano, Maurizio Villa, di 61 anni che era decisamente più allenato di noi. Stava facendo il giro della Tasmania in bici e aveva parcheggiato la sua a “Cradle Mountain.” Pare che i ranger siano rimasti stupiti nel vedere degli italiani, soprattutto tre in un solo giorno 🙂 Una nota su questo personaggio. Maurizio Villa ha fatto il giro del mondo in bicicletta e ha pubblicato un libro, quasi un diario di viaggio, dal titolo What’s your country?, ed. Lindau (o Età dell’acquario.) Ci ha raccontato che lui si è fatto spedire dal “visitor center” la mappa del percorso e l’ha data in pasto al suo GPS dopo averla digitalizzata. In questo modo ogni volta che fa una foto con la macchina digitale, può risalire al punto esatto nel quale l’ha scattata guardando sul GPS dove si trovava al momento dello scatto.
Nel pomeriggio il tempo non è migliorato, anzi la pioggia è scesa copiosa. Alcuni di quelli che erano andati avanti hanno fatto parecchi chilometri sotto la pioggia e li abbiamo ripresi il giorno dopo, perché sono rimasti fermi un giorno per asciugare tutta l’attrezzatura.
Di fianco a questo rifugio c’era un wallaby, che se ne stava sotto la pioggia, vicino alla tettoia della capanna. Al tramonto ne abbiamo visti altri che camminavano sulle passerelle costruite dai ranger perché le persone non calpestino il “bush”.
Nella notte c’è stato un po’ di rumore perché una signora con figlia sono state vittime dell’attacco di alcuni “opossum” che hanno bucato la loro tenda cercando del cibo e rendendola inservibile durante la pioggia. Le due si sono quindi sistemate per la notte sul pavimento del rifugio e non hanno più potuto usare la tenda fino a fine percorso.
Terzo giorno: da Windermere hut a New Pelion hut Siamo partiti molto presto, facendo colazione alle 5:30 di mattina. A quell’ora nel rifugio c’erano 10°C.
Questa parte del percorso è molto verde perché per la prima volta si attraversano le foreste. Nei giorni precedenti si camminava nel “bush”, cioè tra i cespugli, oppure sulla roccia, ma questa volta siamo sotto gli alberi. Ci sono alberi piccoli e giganteschi: quelli che si vedevano in lontananza erano alberi della gomma (eucalipti, spesso grigi e scricchiolanti quando piegati dal vento), ma questi sono invece pini di vario tipo, molto verdi.
Anche questa tappa pare non finire più. Si passa attraverso una valle chiamata “Frog Flat” che è veramente umida e non c’è un posto comodo per fermarsi a mangiare. Alla fine si arriva ad un rifugio gigantesco, che ha varie camerate per dormire e offre circa 60 posti letto.
Di fronte al rifugio c’è una bella montagna, ma è sempre coperta dalle nuvole. Per fare una foto decente, mi sono appoggiato alla balconata del rifugio e sono stato abbordato da una sanguisuga che si è rifocillata sulla mia mano finché non me ne sono accorto e l’ho assiderata andando a lavare la mani sotto l’acqua gelida.
Nonostante fossimo partiti molto prima degli altri, siamo arrivati più o meno assieme perché eravamo i più lenti. In questo rifugio abbiamo trovato chi si era fermato ad asciugare il proprio equipaggiamento e abbiamo notato che tutte le ragazze e alcuni ragazzi cominciavano a dare i primi segni di stanchezza: controllo dello stato dei piedi, zoppicamenti, raddoppio dei calzini nelle pedule, … . Non eravamo i soli 🙂 Quarto giorno: da New Pelion hut a Kia Ora hut Da qui siamo partiti non troppo presto e ci siamo subito fermati ad ammirare una piccola cascata del torrente, proprio dietro la capanna dei ranger in prossimità del nostro rifugio. Ci avevano avvisati che il posto brulicasse di sanguisughe, consigliandoci di non fermarci mai e di camminare anche da fermi per non farle salire sugli scarponi. Abbiamo seguito le istruzioni, ma una volta tornati sul sentiero abbiamo impiegato almeno quindici minuti a staccare le sanguisughe dalle scarpe e dai pantaloni.
La giornata è stata finalmente limpida e calda e ci siamo fermati sulla sella Pelion Gap, tra il monte Ossa e il monte Pelion East, dove c’è una grossa piattaforma ideale per una meritata pausa. Molte persone hanno lasciato lì gli zaini e hanno fatto la risalita del monte Ossa o di quello di fronte, mentre noi ne abbiamo approfittato per fare una pausa e mangiare qualcosa. Durante questo intervallo un’echidna è passato da quelle parti, scatenando la curiosità delle persone che stavano mangiando e di tutte quelle dotate di macchina fotografica.
Il sole iniziava a picchiare per cui siamo ricorsi alla crema solare durante la discesa e nel resto del percorso fino a Kia Ora. Per la prima volta abbiamo riposato al sole e mangiato la sera all’aperto, su una piazzola del campeggio. Qui il rifugio, forse anche per le condizioni climatiche, è parso molto diverso rispetto ai precedenti: niente più umidità, molte mosche attaccate alle zanzariere, la stufa a legna spenta.
L’aria era quella delle vacanze. La gente era contenta del sole e chiacchierava all’aperto. Imma, audacemente, ha immerso i piedi gonfi nel torrente gelido vicino al rifugio: parola d’ordine vasocostrizione. La foto che la ritrae in quel momento parla da sola 🙂 Durante la notte siamo andati al bagno e, grazie alla luna piena, abbiamo notato lungo la passerella che dal rifugio porta al gabinetto, un opossum che ci ha scortati fino al bagno. Purtroppo ne abbiamo visto solo il profilo, simile a quello di un gatto, molto peloso, con le orecchie ritte e la coda lunga e dal pelo folto.
Dopo una cena più abbondante del solito, abbiamo preso la decisione di chiudere il giro facendo due tappe in un solo giorno. Il tragitto sarebbe stato lungo, ma per il secondo tratto in discesa; d’altronde il cibo scarseggiava e avevamo voglia di arrivare.
Quinto giorno: da Kia Ora hut a Narcissus hut Partenza subito dopo l’alba e camminata nella foresta. Lungo il tragitto si dipartono delle deviazioni verso alcune cascate, forse le più grandi del percorso, ma non ci siamo andati, preferendo arrivare vivi fino al lago. Queste escursioni, assieme a quella del monte Ossa, sono forse le più interessanti del percorso e ci è un po’ dispiaciuto non riuscire a compierle.
Siamo arrivati al rifugio successivo, Windy Hut, dove abbiamo pranzato. Il rifugio è pieno di mosche e si trova completamente nascosto dagli alberi al contrario degli altri che bene o male sono posti in piccole valli. Qui abbiamo incontrato una signora che, illegalmente, percorreva in senso contrario l’Overland track. Ci ha raccontato che avrebbe dovuto farlo con delle amiche, ma che all’ultimo momento era stata male e quindi non le aveva seguite, ma andava loro incontro per fare assieme l’ultima tappa.
Da qui il percorso è simile a quello delle nostre montagne: roccioso, con sentieri che si snodano tra pochi alberi. Ci sono però dei tratti popolati da parecchi uccelli. Difatti nel rifugio Windy hut era presente un cartello con la fauna e flora locale, che dedicava ampio spazio agli uccelli.
Il pomeriggio è stato molto faticoso perché eravamo già stanchi per la camminata della mattina, nonostante avessimo pranzato per riprendere un po’ le forze. Durante il percorso abbiamo incrociato un piccolo serpente e parecchie salamandre. C’è anche una diramazione che, ci hanno detto, porta abbastanza in alto da poter ammirare panorami che lasciano a bocca aperta. La ragazza che ce ne ha parlato dice di aver incontrato un serpente parecchio lungo, forse un metro e mezzo. Per darne la misura ha allargato le braccia come fanno i pescatori, ma non sappiamo se esagerasse come fanno certi pescatori :-).
Narcissus Hut è il rifugio all’inizio del lago di St. Clair. Qui c’è una radio con la quale è possibile chiamare il visitor center dalla parte opposta del lago, per prenotare il ferry che viene a prendere chi non vuole camminare lungo gli ultimi 20km sulle sponde del lago. Noi ovviamente abbiamo chiamato e abbiamo prenotato il ferry delle 9:30 per la mattina seguente.
In questo rifugio, come in tutti gli altri, c’era un pannello sul quale chi si sveglia per primo dovrebbe annotare il numero di persone che hanno passato la notte nel rifugio e il numero delle tende montate nelle piazzole. Sul pannello di questo rifugio molti si lamentavano dei numerosi topi (censendoli tra quelli che hanno dormito lì). Per questo abbiamo optato per montare la tenda e siamo andati nella piazzola, dove abbiamo visto anche la tenda di un coreano, Mon Soon Joe. Il posto era proprio a ridosso del lago e difatti la notte è stata parecchio umida, ma la mattina siamo riusciti ad asciugare tenda e vestiti per poterli richiudere nello zaino.
La signora incontrata a Windy hut ci aveva detto di aver visto alcuni ornitorinchi nel fiume che sfocia nel lago, ma noi non siamo stati così fortunati da vederne. Diceva che li aveva visti nuotare e che aveva capito che fossero ornitorinchi perché non erano pesci e non nuotavano a zigzag come i serpenti.
Invece, andando a prendere l’acqua per cucinare, abbiamo visto un quoll. Si tratta di un animale poco più grosso di un gattino, di colore nero con dei pallini bianchi su tutto il corpo. Tornato con la macchina fotografica non è stato possibile rivederlo.
La sera abbiamo sentito gli animali che scorrazzavano attorno a noi. Si sentivano i salti dei wallaby e temevamo che uno di questi ci finisse per sbaglio sulla tenda. Per fortuna non è successo nulla di tutto ciò.
Sesto giorno: da Narcissus hut a “Lake St.Clair Visitor Center” La mattina abbiamo atteso sul molo il ferry. Joe è venuto con noi, ma non è stato di molte parole, perché non si sentiva molto sicuro del suo inglese: difatti stava satudiando la lingua a Brisbane, sulla costa est dell’Australia, e si era preso questa vacanza dagli studi.
Sul ferry c’erano anche delle persone che facevano il giro turistico del lago, con una piccola tappa a Narcissus hut. Abbiamo atteso che tornassero dalla visita e siamo partiti. Tra loro abbiamo conosciuto una coppia di italiani che ormai vive in Australia da trent’anni.
Il guidatore del ferry non ha voluto che pagassimo il biglietto, ma ci ha detto che all’arrivo avremmo dovuto cercare la biglietteria e pagare lì. La cosa ci ha stupito molto e abbiamo pensato che in Italia probabilmente solo pochi andrebbero a pagare.
Arrivati al “visitor center”, siamo andati a firmare il “log book” sul quale però non c’era spazio per commenti. Poi, finalmente, un pasto alla tavola calda. Nel pomeriggio abbiamo aspettato il pullman che ci avrebbe portato a Hobart, la capitale. Nell’attesa abbiamo visto arrivare alcune persone che avevano preferito camminare anche lungo il lago e altre che invece avevano passato la notte a Windy hut e poi avevano preso il ferry del pomeriggio.
Conclusioni I luoghi incantevoli, le persone incontrate davvero piacevoli, gli animali pacifici. Si è praticamente immersi nella natura. A volte ci si sente quasi persi, altre volte spossati, altre ancora appagati e in pace col mondo, e poi mille altre sensazioni che sarebbe troppo lungo e difficile descrivere. Quello che ci ha colpito è stata la gentilezza delle persone, che ti sorridono e ti chiedono: “come va?”. E sembrano davvero interessate a saperlo! Articolo originale: