Tibet e Nepal, un sogno vissuto fra le nuvole

Nepal – Tibet Maggio – Giugno 2007 Itinerario: Kathmandu – Bhaktapur - Lhasa – Gyantse – Shigatse – Lhatse – Everest (Base Camp) – Tashi Dzong – Tingri – Zhangmu – Kathmandu. Mezzi di trasporto e pernottamenti: Toyota 4500 4x4 – Guesthouse e tenda. Durata: 3 settimane. 16 maggio, In cielo…: Ho un sonno bestiale, è...
Scritto da: vagamondi
tibet e nepal, un sogno vissuto fra le nuvole
Partenza il: 16/05/2007
Ritorno il: 06/06/2007
Spesa: 2000 €
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Nepal – Tibet Maggio – Giugno 2007 Itinerario: Kathmandu – Bhaktapur – Lhasa – Gyantse – Shigatse – Lhatse – Everest (Base Camp) – Tashi Dzong – Tingri – Zhangmu – Kathmandu.

Mezzi di trasporto e pernottamenti: Toyota 4500 4×4 – Guesthouse e tenda.

Durata: 3 settimane.

16 maggio, In cielo…: Ho un sonno bestiale, è notte e sono su un volo della Quasar Airways, appena decollato da Doha, con destinazione Kathmandu. E’ cominciata una nuova avventura, un sogno coltivato da anni che va materializzandosi: la Friendship Highway, ovvero la leggendaria strada che, attraversando la catena Himalayana, porta da Lhasa in Tibet finoa Kathmandu in Nepal. Ancora stento a credere che fra qualche giorno sarò ai piedi del tetto del mondo, del monte Everest! Siamo in tre, con me condivideranno questa esperienza due carissimi amici:Graziana, la mia più cara amica, a cui devo molto per la realizzazione di questa impresa, e con cui ho a lungo sognato di condividere nuovamente l’esperienza di un lungo viaggio dopo quello fatto insieme in Namibia, e Michele, amico e collega di vecchia data con cui ho condiviso il mio primo viaggio transoceanico ben 10 anni fa a Cuba. La notte sarà lunga qua in volo, ci hanno appena consegnato i moduli per il visto nepalese, spero di riuscire in un’ altra impresa ora, e cioè quella di dormire un po’…Fra meno di 5 ore sarò in Nepal.

17 maggio, Kathmandu: Namaste Nepal! Ore 6.45 am e finalmente il volo della Quasar Airways atterra all’aereoporto Tribhuvan di Kathmandu. Sono in Nepal! L’avventura ha inizio: cambio subito un po’ di euro in rupie nepalesi, poi la lenta fila per il controllo visto (che non paghiamo in quanto fino a 3 notti di permanenza è gratis, serve comunque una fototessera che ci siamo portati dall’Italia), e, una volta ritirati i bagagli, usciamo dal piccolo aeroporto; ad attenderci ci sono due addetti dell’agenzia tibetana Great Tibet Tours (www.Greattibettours.Com) con la quale abbiamo preso accordi via internet per il mezzo (un toyota 4500 4×4), il percorso che intendiamo fare una volta giunti in Tibet, e ovviamente i permessi vari necessari per entrare, impossibile da procurarsi individualmente. Ci accolgono infatti qua in Nepal in quanto, dopo una lunga trafila burocratica cominciata da Milano, ora hanno bisogno dei nostri passaporti in originale per le varie autorizzazioni da richiedere all’ambasciata cinese. Intanto ci facciamo portare dove abbiamo deciso (sempre tramite Loonely Planet) di passare le prime tre notti: l’Hotel Horizon (www.Hotelhorizon.Com – P.O Box 7060, Thamel, Kathmandu, horizon@hons.Com.Np), piccolo e carino, situato in una posizione appartata e tranquilla, a due passi dal caotico quartiere Thamel, il cuore di Kathmandu. Le due stanze, entrambe a due letti e con bagno, sono spaziose e pulite, per 10$ l’una. Unica pecca lo scarico del water che in una camera non funziona, provo a porvi rimedio ma senza risultato, quindi, secchio d’acqua e via, il problema è risolto. Salutiamo i tizi dell’agenzia che si tengono i nostri passaporti che, spero, ci riporteranno fra un paio di giorni. Nonostante la stanchezza del volo, ci buttiamo subito per gli stretti vicoli del Thamel, la voglia di iniziare questa avventura è più forte del sonno! Thamel è un insieme caotico e colorato di viuzze piene di botteghe che vendono di tutto, dall’abbigliamento, all’attrezzatura per il trekking, all’artigianato locale, ai cd, e a prezzi assolutamente stracciati; qui fare affari è facile, la contrattazione è d’obbligo, si trovano tante cose introvabili in Italia e alcune anche di buona fattura, che da noi costerebbero 10 volte tanto. I commercianti spesso seduti fuori dai loro locali, ti invitano sempre gentilmente ad entrare nella loro bottega, facciamo qualche giro, la merce è tantissima, ma io decido, per questioni di praticità di bagaglio, di fare acquisti alla fine del viaggio, quando ritorneremo proprio qua. Così, dopo una cena veloce in un improbabile ristorante cinese appena fuori al nostro hotel (troppo stanchi per cercare un ristorantino tipico), si va a dormire, ancora un po’ frastornati, ma con la voglia domani di rialzarsi riposati e godersi questa città, che ha già qualcosa di magico nell’aria, lo si capisce dagli odori, dai colori e dalla gente…Prima notte qua in Nepal.

18 maggio, Kathmandu: Finalmente una dormita come si deve! Ci voleva. Fuori piove forte, Michele preferisce riposarsi e aspettare che smetta, io e Graziana invece ci buttiamo, muniti di mantellina, sotto la pioggia, cercando di arrivare a piedi a Durbar Square, il cuore della città vecchia. Piove sempre più forte, e i vicoli spesso non asfaltati, sono pieni di fango, ma non ce ne pentiamo, è divertente anche se complicato, ed è proprio una bella esperienza perché abbiamo i primi contatti con la realtà nepalese di tutti i giorni, fuori dal quartiere turistico di Thamel. Vediamo le prime mucche vagare tranquille per le strade, le donne dai coloratissimi saari, i bambini che giocano tra il fango…I marciapiedi non esistono, ed è un continuo suonare di piccoli taxi (quasi le uniche macchine presenti), sfiorarsi di risciò e pedoni, insomma, un ordinato disordine dove nessuno sembra arrabbiarsi. In tarda mattinata smette di piovere e spunta il sole, rientriamo quindi in camera, sempre a piedi, coi vestiti fradici; camminare sotto l’acqua è stato proprio bello, chissà, magari ci porterà fortuna per il proseguio del viaggio! Insieme a Michele, decidiamo, stavolta muniti di cartina, di dirigerci a Durbar Square: non è molto distante dal nostro hotel, 40 minuti di passeggiata e siamo arrivati. Si paga l’ingresso, 200 rupie, il quartiere è un concentrato di bei templi hindu e qualche tempio buddista, e di belle piazzette: qui in passato venivano incoronati i re, e da qui governavano. Le due piazze principali, Durbar e Basantapur Square, sono frequentatissime da religiosi locali e da viaggiatori di un po’ tutte le provenienze, a volte gente anche bizzarra, l’atmosfera è davvero gradevole. Peccato solo che il Meju Deval (tempio di Shiva) è in ristrutturazione (anche l’impalcatura è alquanto tipica e particolare…Fatta di canne di bamboo!). Comunque qui sono tanti i templi, ricchi di decorazioni, in particolare su legno, da vedere e fotografare, e tantissime le statue che riproducono le divinità induiste, che si mescolano perfettamente in questa atmosfera particolare. Faccio le prime foto ai volti della gente, in particolare ai bambini: ce ne è uno che ci supera trasportando un enorme sacco più grande di lui, gli chiedo se posso fare uno scatto, e glie lo mostro poi dallo schermo della macchina, ringraziandolo con una manciata di caramelle; improvvisamente un sorriso gli illumina il viso, è davvero bello vederlo felice per così poco. Mentre si allontana trasportando il suo sacco, continua a voltarsi indietro per salutarci, ridendo, è un vero spasso! Continuiamo i nostri giri, percorrendo anche quella che un tempo era la via dei freekketoni, Freak Street appunto, e che oggi è una delle tante vie che si confondono qui nel centro di Kathmandu. Arriviamo a sera cotti dal tanto camminare, e troviamo, a Thamel, un bel ristorantino su terrazza, il Curry Kitchen, molto economico (tanto che come prima sera ordiniamo un sacco di roba temendo che dai prezzi le porzioni fossero minuscole, invece…) e soprattutto di ottima qualità, con cucina nepalese, tibetana, indiana e occidentale! E così passo a seconda notte, ad osservare dall’alto della terrazza lo scorrere di vita caotico e disordinato delle strette vie di Thamel.

19 maggio, Kathmandu – Bhaktapur: Io e Gra (Michele non ama fare colazione) ci ributtiamo al Curry Kitchen per una super colazione a base di enormi bomboloni ripieni di crema, pasticcini e thè! Un’abbuffata da maialini per soli 80 centesimi a testa, stento a crederci! Oggi il sole picchia davvero. Cambiamo ancora degli euro in rupie, poi, tutti e tre, in taxi (contrattiamo un prezzo totale di 250 rupie) ci facciamo portare alla non lontana Bhaktapur. La guida del tassista è in perfetta linea con lo standard nepalese: folle: una volta usciti dalla città, corrono come dei pazzi, le precedenze non esistono, e per sorpassare basta attaccarsi al clacson e andare…Non importa se c’è una curva o una salita, tanto spesso il senso di marcia è un optional! Viaggiando spesso ci sono abituato, diventa quasi divertente nel contesto, ma immagino che per Gra e Michele non sia proprio la stessa cosa…Bhaktapur è una cittadina medioevale dove il tempo davvero sembra essersi fermato: in tutto il centro storico non circolano auto, le donne battono ancora le spighe per separare il grano, i bambini si fanno lavare per strada nelle bacinelle insieme a giovani ragazze intente a lavarsi i capelli; tutto mette una pace surreale, considerato il caos di Kathmandu. Ci godiamo un magnifico panorama dalla terrazza di un bar, e passiamo il tempo, lentamente, a chiacchierare seduti poi su un muretto con due bambini che, incuriositi dalla nostra presenza, si fermano a scambiare con noi le poche parole di inglese che conoscono. Il tempo scorre lento e silenzioso. Ci ributtiamo contrattando con un autista privato nelle caotiche strade intorno a Kathmandu: non conto più le volte le volte che ci siamo ritrovati contromano in salita o in curva, a schivare all’ultimo momento auto che sfrecciavano nel senso opposto! Come se la situazione non fosse già abbastanza surreale, vediamo diverse mucche che placidamente si riposano in mezzo alle corsie! E’ un altro mondo! Ci facciamo lasciare nei pressi di un altro luogo sacro a affascinante nei pressi della città, a Pashupatinath. Questo è un luogo sacro per gli hindu non solo nepalesi, ma di tutto il subcontinente indiano. Abbiamo modo di vedere i primi asceti sadhu, dei religiosi votati alla vita consacrata, con i volti pitturati di forti tinte che richiamano la loro scelta di vita. Qui c’è il tempio più importante consacrato a Shiva, dove chi non è di religione hindu non può entrare. Lungo le sponde del fiume sacro Bagnati si svolgono le cremazioni: ce ne è una in corso, ma reggo giusto qualche secondo, l’impatto, per noi che non ci siamo abituati, è troppo forte. Da qui decidiamo di fare a piedi la lunga strada che ci porta ad un altro luogo sacro completamente diverso, Boudhanath, luogo culto dei buddisti. La strada è lunga, pensavo meno, in più fatta sotto un sole cocente, però attraverso vie difficilmente frequentate dai turisti, quindi un altro bel modo di entrare in contatto con la realtà locale. Bodhnath è un luogo molto particolare, è lo stupa più grande del Nepal e uno dei più grandi e fotografati del mondo! Fanno impressione gli enormi occhi che sembrano fissarti da tutte le direzioni; qui centinaia di religiosi buddisti (molti dei quali esuli tibetani), compresi i monaci, compiono ininterrottamente il percorso circolare attorno allo stupa, facendo girare le ruote di preghiera e recitando le loro omelie. Ovunque le colorate bandierine di preghiera che arrivano fino alla cima dello stupa. Il luogo in sè è davvero affascinante e mistico. Nell’aria solo il leggero vociare delle preghiere recitate sottovoce, nonostante il numero di persone che compiono il percorso circolare sia notevole e continuo. Tante volte ho avuto modo di ammirare questo luogo, da molti definito un po’ un ombellico del mondo, attraverso i libri fotografici dei grandi maestri, e ora sono anche io qua, ad ammirarlo e a fotografarlo dal vivo. Ci sediamo in un angolo ai piedi dello stupa cercando un riparo di ombra, siamo affascinati. Io quasi faccio fatica dopo un bel po’ a rialzarmi per andare via. Boudhnath è uno dei quei luoghi in cui vale la pena fermarsi ad osservare a lungo il tempo che scorre…Oggi è stata una giornata piena di luoghi visti e vissuti… 20 maggio, Kathmandu – Lhasa: Di buon ora lasciamo l’ Hotel Horizon e ci facciamo portare dai due “emissari” della Great Tibet Tours (coi nostri passaporti!) all’aereoporto: oggi si vola in Tibet! Abbiamo con noi tutti i permessi necessari almeno per arrivare a Lhasa. Arriviamo presto al piccolo aeroporto, siamo tra i primi al chek-in . Dopo una lunga attesa finalmente si comincia, i bagagli vanno, chiedo i posti dal lato migliore (quello sinistro) dopo poter osservare meglio la catena Himalayana che sorvoleremo. I controlli dei bagagli a mano sono severissimi. Alle 10.40 puntuale, decolla il volo della Air China che in poco più di un’ora ci porterà a Lhasa. Michele è tesissimo per il volo, al decollo ci stringe la mano a tal punto da lasciare i segni a Gra, comunque la traversata è tranquilla, e la vista delle vette innevate che spuntano dalla coltre di nubi bianche è fantastica! Sembrano vicinissime. Atterriamo puntuali , qui il fuso orario è 2h e 15 minuti avanti, + 6 rispetto all’Italia. Sono in Tibet. L’ ho sognato per anni…Ad aspettarci ci sono l’autista e una giovane guida tibetana, Jigme un ragazzo che sa un po’ di inglese, i quali ci accolgono, così com’era successo in Nepal, con una scarpetta di leggera seta bianca, in segno di benvenuto. In Tibet le autorità cinesi, rendono obbligatorio circolare con una guida ahimè, da buon viaggiatore indipendente ho studiato apposta però un programma che ci permetterà al di là degli spostamenti in auto, di essere totalmente indipendenti. Ci fermeremo, oltre ad oggi, altri 3 giorni a Lhasa per conto nostro, il giusto tempo per acclimatarci al meglio prima di partire col nostro Toyota 4×4 lungo la Friendship Highway, in un itinerario, che non prevede tappe lunghe e massacranti, ma che ci permetterà al contrario di vivere al meglio i posti dove ci fermeremo, toccando i punti più belli lungo questa mitica strada che ci riporterà a Kathmandu. La prima cosa che si nota rispetto al Nepal è lo spazio, qui ce ne è tanto, poca gente, poche macchine lungo le strade decisamente più tranquille e ordinate. Autista e guida ci accompagnano fino al JBO Hotel, un moderno hotel cinese nascosto dietro a delle piccole vie sterrate.. Qui si prendono i nostri passaporti per le ulteriori autorizzazioni che ci serviranno lungo il percorso.Ci salutiamo, li rivedremo fra tre giorni. Le camere sono belle e confortevoli, non mi aspettavo tanto lusso qui (c’è da dire che siamo però nella parte cinese della città…) , c’è perfino la doccia con idromassaggio! Ci servirà un po’ di relax in vista di quello che ci aspetta nelle prossime settimane, dove forse avere l’acqua per lavarsi sarà il vero lusso. Sono felice di essere qui in Tibet, qui il colore del cielo è di un blu intenso, con nuvole bianchissime che sembrano finte, a attorno le montagne, siamo oltre i 3600 metri, c’è una luce fortissima. Siamo un po’ cotti e non dobbiamo esagerare con gli sforzi, avremo tempo per visitare la città per bene, quindi oggi ci limitiamo ad una prima, lenta passeggiata a curiosare un po’ tra i negozi. Dovremo bere tanto, almeno tre litri al giorno per facilitare l’acclimatamento, così facciamo subito scorta di acqua! Cambiamo euro in Yuan (10 yuan un euro), poi ci rifugiamo in un ristorante tibetano lungo la strada, siamo gli unici clienti, non si spende tanto ma la scelta non è certo quella del Nepal, ma qualcosa si trova sempre. Viene buio tardissimo da queste parti, sono le 20.30 e c’è ancora una bella luce.

21 maggio, Lhasa: L’altitudine comincia a farsi sentire, ad ogni minimo movimento mi sento come se avessi compiuto chissà quale sforzo, un po’ di testa pesante, ma era preventivato che questi primi giorni saranno così. Ho cercato di fare capire in reception se potevano abbassare l’aria condizionata nelle camere, ma qui nessuno parla inglese, nemmeno quello più elementare! Alla fine si è mobilitato tutto il personale dell’albergo, saranno stati una dozzina in camera, ma nemmeno i mimi sono serviti, ho desistito ringraziando (almeno quello avranno capito?). Nei negozi stessa cosa, e perfino coi tassisti per comprendersi e contrattare è necessario fare vedere i soldi e una mappa possibilmente in caratteri cinesi, oltre al bigliettino da visita dell’ hotel (preziosissimo) per farsi riportare indietro. Ci facciamo appunto portare da un taxi, visto che camminare in questo stato fisico è faticoso, per soli 10Y, nella parte tibetana della città, a Barkhor Square. Improvvisamente lungo la strada (5 minuti) ci appare sulla sinistra, maestoso ed imponente, il Potala. Proseguiamo e arriviamo a Barkhor Square. Facciamo due passi e arriviamo allo Jokhang, l’edificio più sacro e venerato del Tibet. In tutta la piazza l’atmosfera è fortemente spirituale, tanti pellegrini dai volti tristi e segnati compiono il lungo giro di preghiera attorno al Jokhang, ognuno con la sua personale ruota di preghiera, e mischiati a loro, diversi turisti. Di fronte all’ingresso principale, diversi tibetani si prostrano dinnanzi all’edificio. E’ triste pensare alle difficoltà che i tibetani affrontano ormai da decenni in seguito all’occupazione militare cinese. Lo si percepisce a pelle, i volti, in particolare degli anziani, parlano da soli. Imperterriti però continuano da sempre a professare la loro fede, almeno qui dove è loro concesso anche, credo, per questioni di immagine da parte delle autorità. Tutto attorno i tipici edifici tibetani, case basse, di un colore bianco brillante, con le tipiche grandi e colorate finestre a forma trapezoidale, e le immancabili colorate bandierine di preghiera. Compiamo anche noi, mischiandoci ai fedeli, il kora (il giro di preghiera) attorno a Jokhang, fra le tante bancarelle che, a volte insistentemente, cercano di venderti qualsiasi oggetto. Faccio anche un giro all’interno dell’edificio sacro, si pagano 70Y, dentro altri fedeli che pregano e il tempio tristemente vuoto, solo pochi monaci a mantenere vivo il complesso, e dei piccoli gattini che vivono al suo interno e si arrampicano goffamente sulle statue. Dall’alto la vista della piazza con in lontananza il Potala merita davvero! Pranziamo al ristorante Tashi I, un piccolo ritrovo di viaggiatori zaino in spalla, in perfetto e tipico stile tibetano, dall’atmosfera rilassante. Poi continuiamo i nostri vagabondaggi per la piazza, curiosando tra i vari negozi, qui infatti si concentra la vita di Lhasa. La differenza rispetto al quartiere cinese è evidentissima,in tutto, nei tratti somatici della popolazioni, nei modi, nelle case, nei negozi…E i due mondi non si incontrano, sono ben distinti, con l’uno (quello cinese), intento lentamente ad inglobare l’altro. Decidiamo di farci portare verso il Potala provando la corsa in uno dei tanti risciò presenti in zona, così, stretti come muli, mi ritrovo a viaggiare appeso al paletto centrale del mezzo! Non lo visiteremo certo oggi, impossibile fare entrambe le cose con calma in un’unica giornata, però è necessario prenotare i biglietti di ingresso il giorno prima. La vista da sotto è impressionante. Di fronte l’immensa piazza fatta costruire dai cinesi per rendere più difficili le sommosse di rivolta da parte dei tibetani, anche questa un’altra forma di controllo e repressione…Il Potala è proprio come l’immaginavo, mette i brividi. Prenotiamo i nostri ingressi per l’indomani, e, sempre in risciò, ci facciamo riportare in albergo, con l’autista che una volta arrivati cerca di fregarci sul prezzo concordato facendo finta di non avere capito, e pretendendo 10 volte tanto il normale costo! Insistiamo e lui suo malgrado molla la presa. Finalmente non so come, Michele riesce a far capire ad una dell’ hotel il problema dell’aria condizionata, così ci cambiano le camere, e stanotte non dormiremo in ghiacciaia. Per portare su gli zaini sulle scale, mi dimentico di essere in altura, e baldanzoso faccio su e giù carico come un mulo…Inutile dire che la pago cara, rimanendo immobile sul letto a respirare per un bel po’. Cera in un altro ristorante tibetano, e poi il meritato riposo.

22 maggio, Lhasa: La colazione dell’ hotel è alquanto strana, passi per il cibo cinese, ma l’acqua calda da bere proprio non fa per me! Gra prova a mimare la bustina del thè, ma in cambio arriva altra acqua calda! Domani provvederemo da soli. Visto che ci siamo, dopo una mattinata di relax passata a chiacchierare in camera, ci facciamo un pranzo cinese fai da te, con quei contenitori plasticasi dove versando dell’acqua calda, si materializza un piatto ci spaghetti cinesi conditi, che tutto sommato non sono male, anche se Gra e Michele non la pensano proprio così. Nel primo pomeriggio siamo al PotalaCon la nostra prenotazione entriamo, dopo aver pazzeggiato un po’ a guardarlo dalla piazza. I controlli all’ingresso sono allucinanti, coi metaldetector stile aeroporto e perquisizione zaini, la cosa è assurda, stiamo andando a visitare l’antica residenza del Dalai Lama (ora in esilio in India) e dei suoi predecessori, un luogo che non ha nulla di potenzialmente pericoloso, soprattutto ora che i cinesi stessi lo hanno svuotato di qualsiasi significato, religioso e non. Ormai è ridotto ad un museo enorme, pochi monaci, quasi nessun pellegrino, al contrario del frenetico Jokhang. E palpabile soprattutto qui l’occupazione cinese, che a mio avviso poco ha a che fare con motivi religiosi, bensì strategici, un po’ come in Alaska o alle Hawai, al di là quindi di qualsiasi connotazione politica che dall’occidente, per questioni spesso più di comodo che non di solidarietà, si vuole fare credere. Ed è triste, sempre, pensare ad un popolo privato della sua anima. Facciamo le lunghe scalinate che ci portano in cima a tappe, la fatica si fa sentire e anche il sole ci mette del suo. Man mano che saliamo il panorama delle montagne attorno si fa sempre più maestoso, quello dello sviluppo di Lhasa un po’ meno, soprattutto pensando a come doveva essere qui prima dell’invasione, senza quindi tutte queste case nuove e centri commerciali. Visitiamo in silenzio le numerose stanze, vuote di anime, ma ancora piene di statue e dipinti raffiguranti il Buddha in tutte le sue fasi di vita ed espressioni divine. In un cortile all’interno, vediamo un numeroso gruppo di lavoratrici che, tutte in fila, battono il cemento al ritmo di canti tibetani, con una coordinazione tra di loro, che sembra un balletto studiato. Arriviamo fin sul tetto del palazzo rosso, quello centrale. Dopo esserci riposati un po’, riscendiamo lentamente, ammirando le varie prospettive dal basso dei palazzi che costituiscono il Potala. Delle varie stanze buie visitate, quella che mi ha più impressionato è al piano terra, dove c’è la tomba del 5° Dalai Lama, praticamente un enorme Chotren rivestito completamente in oro. Chissà com’era la vita qua qualche decennio fa…La visita ci prende tutto il pomeriggio, così rientriamo in hotel per una doccia. Riprovo l’impresa di comunicare con la reception: chiedo in tutti i modi se hanno un servizio lavanderia, il personale dell’ hotel si sforza, sono cordiali, uno chiama l’altro e l’altro ancora, ma alla fine riesco solo ad ottenere degli omini appendiabiti! Ci rinuncio, mi farò il bucato da me (per l’ilarità di Gra!). E appenderò i miei calzini alle finestre di questo fighissimo hotel dove però nessuno capisce una parola di inglese! Prima di cena passano tre tizi della Great Tibet Tours a riportarci i passaporti: per i permessi tutto ok! Ancora domani e poi si parte! La sera per cena, ci facciamo portare in taxi (tutte le corse, ovunque si vada, alla fine della contrattazione costano sempre 10Y) nella zona tibetana. Abbiamo tutti e tre un po’ lo stomaco sottosopra (uno degli effetti dell’acclimatamento), così scegliamo di cenare al Dunya Restaurant (100 Beijing Dong Lu, Lhasa) che fa anche piatti occidentale soprattutto un’ottima tisana di erbe himalayane dal sapore caramellato. Poi facciamo due passi a piedi in notturna per la città tra il quartiere tibetano e quello cinese, passando dalle piccole botteghe che fanno spesso anche da modeste abitazioni, ai grandi centri commerciali strapieni di oggetti e alimenti di ogni genere: ma chi si comprerà mai enormi sacchi da 10 kg di caramelle? Mah…Riprendiamo il taxi (10Y thò che strano…) per tornare in hotel, grazie al nostro indispensabile biglietto da visita, e nanna.

23 maggio, Lhasa: Mi passerà mai questo senso di affaticamento dovuto all’altura? E dire che ce la stiamo prendendo comoda e stiamo bevendo tanto. Anche Gra e Michele non sono al top, anche se va molto meglio rispetto a due giorni fa. Dopo una tranquilla mattinata passata in camera a raccontarcela su di viaggi passati e futuri, andiamo a cambiare altri soldi e ci facciamo portare in taxi di nuovo a Barkhor Square. Qui passiamo un po’ il tempo, compiendo, mischiati ai pellegrini, il kora circolare attorno allo Jokhang. Mentre Michele sta comprando della frutta, io e Gra passiamo qualche piacevole minuto in compagnia di due piccoli bimbi tibetani: sono molto poveri e sporchi, penso siano fratellino e sorellina, all’inizio sono un po’ incuriositi dalla mia macchina fotografica, comincio a scattare loro qualche foto e a fargliela rivedere, la cosa li diverte e stupisce un sacco! Non posso che ricompensarli con una manciata di caramelle: divertiti e imbarazzati corrono dalle loro mamme, a poca distanza, che a loro volta ci sorridono…Questi sorrisi sono tra i momenti più belli e indimenticabili di ogni viaggio! Facciamo un pasto leggero di nuovo nella rilassante atmosfera del piccolo Tashi I. Gra è un po’ debole, sono un po’ preoccupato, così finito pranzo ce ne torniamo in hotel per rilassarci un po’. Per fortuna già una volta in taxi va molto meglio. Pomeriggio a preparare zaini e a contarcela su, domani si parte lungo la Friendship Highway; Jigme, la nostra guida che ci era venuta a prendere in aeroporto, passa a trovarci in hotel per ricordarci l’appuntamento (e chi se lo può scordare!) e a farci vedere anche il permesso per il Campo Base dell’Everest! Sembra veramente un ragazzo gentile e riservato! Ora cena in quartiere tibetano e poi ultima notte a Lhasa. Cena ancora al Dunya restaurant, dove si unisce al nostro tavolo una donna italiana per scambiare due chiacchere: lei vive da anni in India in un hashram, in un continuo percorso di meditazione e spiritualità. Ci chiede dell’attuale situazione politica in Italia e ci racconta del suo passato di attivista politica prima di partire per il suo lungo viaggio. Una piacevole chiacchierata, per nulla banale, con una persona davvero affascinante… 24 maggio, Lhasa – Gyantse Si parte: puntuali la nostra guida e l’autista ci aspettano fuori dall’ hotel. Carichiamo gli zaini, prima di lasciare Lhasa passiamo in banca per un prelievo, visto che da qua in poi lungo il percorso difficilmente troveremo modo di farlo. Lasciamo Lhasa vedendo un fiume umano di gente che percorre un lungo giro di preghiera attorno al Potala: sono tantissimi, ripensando alle vuote stanze del Potala, direi che questo è un bel modo di salutarci da parte della città, è un segno di speranza…Percorriamo i primi chilometri della Friendship Highway, incrociando, appena fuori Lhasa, due file interminabili di camion militari cinesi, e vedendo da lontano, i primi scorci di vette innevate mentre costeggiamo il fiume Kyi-chu. Poi la prima sosta in uno sperduto posto con poche case tibetane lungo la strada. Pausa pipì, dove abbiamo modo di fare la prima conoscenza con i bagni tibetani: qui potevamo farne a meno e farla all’aperto, sarebbe stato meno traumatico. Facciamo anche un pranzo a base di riso uova e verdure e thè servito in grandi thermos. Farsi capire è un’impresa, ce la caviamo con 10Y a testa (1euro) e riprendiamo il viaggio. Poco oltre veniamo fermati dalla polizia, capiamo dopo un interminabile attesa che era per un eccesso di velocità riscontrato prima dall’autovelox (assurdo, stavamo andando pianissimo…). Dopo questa inutile perdita di tempo, abbandoniamo per un tratto la Friendship Highway per un bel tratto di sterrato e polveroso, dove incrociamo soltanto qualche raggruppamento di casette tibetane qua e là, e gruppi di bambini curiosi che al passaggio dell’auto salutano contenti con la mano: non è cosa frequente il passaggio di stranieri da queste parti. Nel primo pomeriggio arriviamo alla nostra prima destinazione, Gyantse. Pernotteremo al Gyantse County chugu Hotel, e per questa notte avremo ancora il “lusso” di un bagno all’occidentale. Due passi nella via principale, lungo cui si sviluppa la piccola cittadina, che volendo, si gira in un’ora! Rispetto a Lhasa, qui è ancora più tranquillo, e soprattutto in giro si vedono quasi solo tibetani rispetto a cinesi. Inoltre qui sembrano anche più tranquilli e meno timorosi della presenza straniera, tant’è che in molti incrociandoti, ti sorridono e salutano. Vengo anche fermato da un gruppo di bambini appena usciti da scuola, che, orgogliosi mi fanno vedere il loro quaderno dei compiti di inglese e ripetono a caso le parole che hanno imparato. Ci sono molti negozi, ma nessuno vende oggetti tipici, anche qui pochi viaggiatori. Ci fermiamo a cena da Zhuang Yuan, un piccolo ristorante cinese gestito da un simpaticissimo cuoco che ci ha letteralmente trascinato nel suo localino, facendoci leggere un quadernetto pieno di commenti rilasciato da altri viaggiatori: si mangia abbastanza bene, ma rispetto alla media si spende tanto (per carità, in totale parlo di 5euro anziché 1…).

25 maggio, Gyantse – Shigatse: Oggi sto un po’ meglio, finalmente l’altezza comincia ad essere meglio tollerata dal mio corpo, e la testa è decisamente meno pesante! Intanto continuo a bere come un cammello. Dopo una colazione fai da te in camera, ci incamminiamo lungo la strada principale fino ad arrivare al monastero Pelkor Chode: attorno ad esso diversi pellegrini compiono il rituale kora di preghiera, mentre all’interno del tempio, nel buio troneggia una grande statua raffigurante Sakyamuni, affiancata da altre statue del Budda del passato e del futuro. La parte più interessante all’interno del complesso monastico, è il grande Kumbum (chotren) a fianco al tempio, alto 35 metri, disposto su 5 piani circolari, ognuno con le sue piccolissime cappelle, in totale sono 77, ma non ce la facciamo proprio a vederle tutte!. Dall’alto c’è una bella visuale di Gyantse e della valle circostante. Stremati da sole e fatica, ci trasciniamo affamati (sono quasi le 14) verso la solita via attorno alla quale scorre la vita a Gyantse, e ci rifugiamo in un piccolo e carino ristorante dove finalmente sazio la mia fame! Ah, ho provato le vegetable pagoda, delle specie di frittelle di verdure, credo nepalesi e non tibetane, ma molto buone! Nel pomeriggio, come da accordi presi il giorno prima, ripartiamo alla volta di Shigatse, dove ci fermeremo 2 notti. Il tratto di strada non è lungo, sono in tutto 90 km, così, prima di sera, siamo già a destinazione. L’hotel dove pernottiamo è stranissimo:l’ingresso dà sulla via principale, poi dentro c’è uno spiazzo che chiamare discarica è poco! Le camere sono discrete, anche se l’unica finestra dà su un interminabile corridoio stile film dell’orrore; il bagno invece è abbastanza maleodorante, qui si che serve l’arte dell’arrangiarsi! Shigatse è molto più estesa di Gyantse, ed ha due distinte zone, come Lhasa, una cinese piena di insegne e negozi di ogni genere, e una tipica tibetana. Dopo un giro a curiosare in un moderno supermarket, ci facciamo una lunga passeggiata fino ad un ristorante tibetano; da menu non si capisce niente, e il personale stesso non capisce noi! E’ un’impresa ma alla fine qualcosa arriva: siamo gli unici stranieri, tanto che attiriamo la curiosità dei presenti, tutti tibetani. Una signora continua a fissare Michele e se la ride mimandoci dei gesti che non capiamo, ma è divertente; soprattutto pensare che ci hanno dato solo bacchette una forchetta in 3 (perfino da dolce), e alla nostra richiesta mimata di tovaglioli, ci hanno portato un rotolo di carta igienica! E’ uno spasso, alla fine paghiamo in totale soli 4 euro in tre! 26 maggio, Shigatse: Shigatse è davvero più dispersiva di Gyantse. L’intera mattinata la passiamo a visitare il complesso monastico di Tashilunpo (ingresso 55Y a testa); si tratta di una vasta area all’interno della quale sorgono più monasteri, ma la cosa più particolare e affascinante è che qui ci sono tanti monaci che lo rendono vivo e i pellegrini sono migliaia! All’interno dei tepli ci sono le tombe dei Panchen Lama, in particolare nel primo, rimando sbalordito dall’imponenza di una enorme statua d’oro alta 26 metri e raffigurante Jampa (il Budda del futuro)! Lo sguardo del Jampa che ci sovrasta è rasserenante; rimango un po’ ad osservare l’attività continua all’interno della buia cappella: è un continuo entrare di di fedeli, in particolare anziani dai volti segnati, e dagli sguardi devoti. Fanno offerte, in denaro ma anche in piccoli oggetti, o riempiendo di burro di yak, tipo cera, le enormi e onnipresenti vasche candelabro, le uniche luci presenti all’interno. Poi compiono il rituale kora in senso orario attorno alla divinità rappresentata, e noi facciamo lo stesso. Qualcuno si prostra per terra, il senso di devozione è assoluto, e si respira forte il clima di spiritualità. Visitiamo anche le altre cappelle, ognuna con la sua divinità e i tanti monaci che pregano recitando il mantra, e rendendo il tutto più suggestivo ai nostri occhi. Gra mi racconta che la Loonely riporta il perché di tanta attività di monaci qui, rispetto agli altri monasteri visitati nelle altre città: qui i cinesi cercarono di esercitare un controllo diretto sui Panchen Lama (ovvero la seconda autorità religiosa dopo il Dalai Lama), tanto che gli ultimi due hanno passato parte della loro vita a Pechino sotto il controllo cinese…Comunque l’intero complesso merita senz’altro la visita, è bello anche solo girare fra gli stretti vicoli dove ci sono le tipiche abitazioni dei monaci. La mattinata va via così, sotto un sole cocente. A pranzo si fan gli auguri a Michele, oggi è il suo compleanno, fare gli anni in Tibet non è da tutti…Stavolta ordino cibo occidentale, ho voglia di saziarmi per bene ma…Porca miseria mi arriva un pollo da disossare, cosa che odio! Ho fallito! Ovviamente per ritornare all’ hotel ci perdiamo, le vie qui sono tutte indicate in cinese, e la mappa della Loonely stavolta non è proprio affidabile;L comunque in qualche modo, ce la facciamo a rientrare. Sono quasi le 18.30 e sono sul letto che mi studio la mappa e la guida: domani partiremo per Lhatse, lungo la Friendship Highway, e sarà l’ultima tappa prima di entrare nella regione dell’Everest. A pensarci mi vengono i brividi, già in giornata attraverseremo i primi alti valichi sfiorando i 5000 metri…Aspetto che Gra e Michele finiscano di lavarsi la testa con l’acqua calda del thermos, io già ho provveduto grazie all’aiuto di Gra; non ci resta che andare a cercare un posto dove cenare e poi mi concederò lo sfizio di uno degli strani gelati confezionati che vendono qui.

27 maggio, Shigatse – Lhatse: In mattinata si riparte da Shigatse, Gra ha un po’ di raffreddore, e la cosa mi preoccupa un po’, visto che oggi saliremo e tanto. Percorriamo la Friendship Highway e tutto attorno il paesaggio si fa sempre più da cartolina: le montagne che ci circondano assumono dei colori che vanno dal marrone al rosso mattone, ogni tanto qualche sperduto raggruppamento di casette bianche e di greggi di pecore o contadini che ancora lavorano la terra servendosi di yak per l’aratro. Sulla strada solo qualche trattore o camion, in cielo neanche l’ombra di una nuvola. Guardo gli occhi di Gra, capisco che è felice e questa cosa mi fa stare bene. Al km 5014 attraversiamo il passo di Tropu-la: ci fermiamo in cima per una sosta panoramica. Il passo è pieno di migliaia di bandierine di preghiera che, legate fra loro, formano un coloratissimo ponte. Scendiamo piano dalla jeep, siamo a 4950m. E l’altitudine si fa sentire. La vista dalla cima del passo è molto bella, montagne ovunque, anche se non ancora con le vette innevate, vento e freddo. Riprendiamo la strada e in breve siamo a Lhatse; abbiamo compiuto i 152km asfaltati di distanza in meno di 3h (compresa sosta). Lhatse sembra davvero una città fantasma: un’unica via larghissima di neanche 400m contornata da piccoli esercizi commerciali, pochi ristoranti e non più di 3 hotel; noi passeremo la notte al Lazi Hotel, che sembra abbandonato: un lungo corridoio con una moquette mezza rotta e sporca, con una fila di camere molto grandi ma vuote, ognuna con una enorme finestra che dà sulla strada, mobilia mezza rotta, e il catino col secchio dell’acqua per lavarsi. Ho la netta sensazione che siamo gli unici ospiti dell’ hotel, e, chissà, forse dell’intera città. Ma la chicca è il bagno comune: un corridoio porta fuori dall’ hotel fino ad arrivare a due stanze buie, e dentro, in condizioni di abbandono, dei semplici, sporchi e maleodoranti canali di scolo! Ehm…Meglio non scendere nei particolari; nella mia esperienza di viaggiatore, questi sono i peggiori mai incontrati. Ma la scelta in città non è granchè. Scendiamo per il pranzo proprio a fianco all’ hotel, al Tashi I Restaurant (il termine tashi, che è un saluto tibetano, è usatissimo ovunque), dove si mangia bene, anche il posto è carino e tipico. Poi due passi lungo la Friendship, unica via della città: non c’è nulla da vedere, volendo in 15 minuti la si attraversa tutta; la gente del posto ci guarda con curiosità, soprattutto i bambini: quelli più grandicelli appena ci incrociano ci salutano con l’immancabile “hallo” a volte accompagnato da qualche parola a caso in inglese imparate a scuola, per loro è divertente, non passiamo per nulla inosservati, ma la cosa non mi mette per nulla a disagio, anzi, è piacevole, poi l’atmosfera è completamente rilassata in questo posto. Tipica cittadina di passaggio lungo la Friedship Highway. Ci sono anche piccoli bambini sporchi visibilmente poveri, che ci chiedono l’elemosina; è un pugno al cuore vederli ridotti così, li facciamo contenti riempiendoli di caramelle e giocando un po’ con loro con la macchina fotografica. Il pomeriggio ci rintaniamo nelle rispettive camere nel deserto del nostro hotel per un po’ di relax. Cena al Lhatse Restaurant: da fuori, rispetto al resto del paese, ha un aspetto lussuoso, anche dentro in effetti, ed è l’unico che serve anche piatti occidentali, ma la qualità è decisamente scadente e in più ci servono dopo due ore! Meglio il Tashi I. Ora siamo qui tutti e tre che valutiamo come gestire eventuali bisogni fisiologici notturni: abbiamo una sola torcia, il bagno è lontano e andare in quella discarica puzzolente completamente al buio è un’impresa eroica; speriamo di non averne bisogno…Ora a nanna, ci aspetta domani l’impegnativo tratto di strada che ci porterà nella regione dell’Everest, ancora più nel cuore della catena dell’Himalaya. Roba da togliere il sonno…Per questa notte l’Everest, il tetto del mondo, resterà ancora un sogno…Domani… 28 maggio, Lhatse – Everest: Sono le 12.45 del 28 maggio 2007, ci sono, sono qui, a 4980m, e di fronte a me ho l’Everest! E’ un sogno che si realizza! Vado per gradi: la notte a Lhatse non è stata delle più tranquille, prima, intorno all’una, sento bussare ripetutamente alla porta della camera, mi precipito giù dal letto ma era solo uno che aveva sbagliato! Poi per tutta notte un concerto di abbaiare di cani randagi…Vabbè. Dopo l’ennesima colazione fai da te, si parte, dopo pochi km , lasciata Lhatse, già il primo passo da affrontare, Gyatso-la, a 5220m, dove ci fermiamo per qualche foto. Il viaggio prosegue tranquillo fino a Shegar (che oggi chiamano New Tingri): qui lunga sosta, prima facciamo i biglietti che ci servono (oltre alle autorizzazioni di cui già siamo in possesso) per l’ingresso all’area dell’Everest (400Y a testa), poi un thè e due passi per questo che sembra più un piccolo paese di frontiera, che non la porta di accesso alla regione dell’Everest. C’è un tizio che passa il tempo a tirare su una corda ogni qual volta arriva un’auto, per controllare i permessi…Gra, temeraria, prova i bagni vicino all’unico distributore di benzina della zona: quando esce la sua faccia è eloquente…Si riparte, pochi km e siamo al fatidico check point: qui scendiamo e due serissimi militari cinesi ci controllano autorizzazioni e passaporti: è tutto a posto e ce la sbrighiamo in soli 10 minuti, temevo peggio. Lasciamo la Friendship Highway in direzione sud e inizia così il lungo e duro tratto di strada sterrata (quasi 100km) che ci porterà alla meta. Si sale parecchio, la strada è molto tortuosa, ma il nostro autista se la cava bene; il panorama è di quelli da rimanere incantati, nessuno di noi parla, siamo tutti intenti ad ammirare le montagne dall’alto, e in alcuni tratti di salita sembra davvero di poter toccare le nuvole, quelle poche nuvole bianche in un cielo blu intenso, che sembrano essere messe apposta come effetto scenografico. Ancora qualche km di dura salita, e, dietro ad una curva ricoperta di bandierine di preghiera, in cima al passo, ci appare davanti agli occhi uno spettacolo straordinario: un vasto scorcio della catena himalayana, vette innevate oltre gli 8000m: il Makalu (8463m), il Lhotse (8516m), il Cho Oyu (8201m), il Xixiabangma (8012m), e poi lui, il sogno, il Qomolangma, il nome tibetano della vetta più alta del mondo, l’Everest cosi suoi 8848m. E’ uno spettacolo, sono felice ed emozionato, quello che sempre avevo sognato fin da ragazzino, quando sfogliavo gli atlanti, ora è lì davanti a me. Abbraccio forte Gra, è un sogno che si realizza, e lo abbiamo fortemente voluto e realizzato insieme, non servono parole, i nostri sguardi si parlano. Anche Michele è senza parole, 10 anni fa eravamo insieme sul Malecon di L’Havana, oggi qui, non due posti a caso. Rimontiamo in auto, c’è ancora parecchia strada da fare. Riscendiamo di quota, abbiamo fame e decidiamo di fermarci per mangiare nel piccolo paesino di Tashi Dzong, dove, da nostro programma, torneremo fra due giorni sulla via del ritorno in Nepal. Il paesino è piccolissimo e stupendo: poche e tipiche case tibetane, gente curiosa dai volti segnati dal sole e tanti bambini. Il Tibet che immaginavo, senza strade o negozi, senza insegne luminose o auto, senza la contaminazione cinese o occidentale, ma solo terra e gente semplice! Mi sento a casa. Mangiamo qualcosa in una semplice guesthouse arredata in stile tibetano, coloratissima. Credo proprio sia l’unico posto dove poter mangiare o dormire, quindi fra due giorni pernotteremo qui. Proviamo anche il bagno, stavolta molto più dignitoso dei precedenti: una semplice buca ad un piano superiore, che dà su una sorta di latrina molto in basso, e senza pavimento ma solo terra intorno, quindi senza odori o sporcizia varia. Questa sosta mi è proprio piaciuta, si Tashi Dzong è proprio il Tibet che immaginavo e sognavo di vivere. Ancora in auto, stavolta niente salita, lo sterrato però ci mette a dura prova. Attraversiamo la Zambuk Valley, un’ampia vallata pietrosa piena di yak e con sfondo l’Everest. Dopo un’ora siamo a Rongphu, quattro case e un piccolo monastero con uno stupa. Ma tiriamo qualche km oltre fino ad arrivare ad una fila di basse tende rettangolari: su ognuna di esse cartelli bizzarri con scritte a mano come Everest Guesthouse, Rongphu Hotel, perfino Hotel California! In realtà sono grandi tipiche tende tibetane, con dentro panche che fanno che fungono da letto tutto attorno, e al centro la cucina. Jigme sceglie lo Yak and Yeti Hotel: scarichiamo gli zaini, questa sarà la nostra casetta per questi tre giorni. Nella tenda con noi c’è la ragazzina che la gestisce, e che premurosa continua a versarci the caldo nei bicchieri, riempiti ad ogni sorso. Stanotte dormiremo tutti insieme qui, e là fuori, imponente, e mai così vicino, l’Everest!Ci siamo quasi sotto, è straordinario, faccio fatica a togliere lo sguardo da uno spettacolo simile, nonostante il freddo pungente continuo a scattare foto. Purtroppo Michele non sta molto bene, speriamo gli passi in fretta, soffre un po’ il freddo. Ogni tanto incrocio lo sguardo di Gra e i nostri occhi luccicano di gioia, ce l’abbiamo fatta! Chissà che freddo farà stanotte qua dentro, rimarremo ovviamente vestiti, qui accanto alle panche ci sono dei piumoni colorati, ma soprattutto qua fuori c’è uno degli spettacoli più maestosi che abbia mai visto! C’è l’Everest! E domani all’alba, ci faremo portare da un carretto trainato da un cavallo (alle auto non è più consentito il transito) fino al Campo Base. Sarà una fredda, indimenticabile, notte tibetana! 29 maggio, Everest – Base Camp: Notte un po’ insonne qui in tenda: uno yak con tanto di campanellaccio al collo si è agitato tutto il tempo proprio a fianco al lato tenda dove ho dormito io, in più, sommerso da mille coperte ho fatto fatica a respirare, ma mettere la testa fuori da quella mummia pazientemente creataci dalla giovane tibetana che ci ospita, era impossibile per via del gelo! Sveglia all’alba, alle 5, per farci portare al Campo Base, ma ahimè una volta pronti, Jigme ci dice che fuori ai carretti non c’è ancora nessuno; vabbè, poco male, alla fine anziché alle 6 ritardiamo di un’ora. Quando usciamo dalla tenda per i primi bisogni fisiologici della giornata fuori è buio, e in cielo si possono ammirare migliaia di stelle, un firmamento talmente luminoso che la torcia per muoversi non serve, è stupendo, continuo a stare col naso all’insù, e anche a Gra viene subito in mente il primo cielo d’Africa visto insieme. Alle 7 il cielo già si schiarisce, le prime luci riflettono a poco a poco sulla parte del manto nevoso dell’Everest, è una luce debole che ne illumina lentamente la parete occidentale, lo spettacolo è emozionante. Il tragitto fino al Campo Base lo percorriamo su un rudimentale carretto di legno a due posti (ne prendiamo per forza due) trainato da un cavallo (50Y all’anziano proprietario); la strada è tutta a sobbalzi, un pietro-massaggio come lo battezza Gra, non sarà comodo ma divertente si! Fa freddissimo, il sole ancora è nascosto dalle alte vette, tira un vento gelido, siamo coperti in ogni angolo del corpo ma lo si avverte lo stesso, perfino l’anziano conducente del nostro carretto vedendo le nostre facce, da a me e Gra la sua giacca da mettere sulle gambe. Michele, che è sull’altro carretto, si è ricoperto tra maglioni, felpe, kway e pile con almeno 6 strati, sembra l’omino della michelin. In meno di un’ora compiamo i 3km di tragitto, arriviamo al Campo Base, non c’è nessuno, solo una serie di tende stabili, e tanti yak che pascolano. Intorno a noi il silenzio. L’intera area è ancora all’ombra, ma l’Everest, sempre più vicino ed imponente, sembra illuminato ad hoc per creare uno dei più bei spettacoli naturali che la natura stessa possa offrire; con le prime luci del sole è straordinario, sembra quasi svegliarsi. Incurante del freddo gelido e dell’altitudine , salgo a passi veloci la piccola collinetta ricoperta di colorate bandierine di preghiera, e da lì la vista è unica: davanti a me il sogno, è lì, grandioso, e in sottofondo solo il suono del vento gelido. Michele e Gra mi raggiungono, siamo tutti e tre felici, ce l’abbiamo fatta, lo sognavamo da tempo, e ora ci siamo, non possiamo che abbracciarci e immortalare questo momento che mai potremo dimenticare. Ora che la ragione si rimpossessa di me, avverto il freddo gelido, ho le dita congelate (continuo a scattare foto!). Facciamo ancora due passi nella vallata e le immancabili foto alla pietra che indica dove siamo: Qomolangma Campe Base, 5200m .: ci siamo davvero! Ormai non resistiamo più al freddo gelido (tra l’altro non c’è nemmeno la thehouse tend che viene citata sulla Loonely), quindi decidiamo di rientrare, sempre coi carretti che nel frattempo hanno sostato qui. Una volta in tenda subito thè caldo e la gentilissima ragazza ci fa anche un plumcake per colazione. Il tempo qui nella tenda, ma non solo, scorre lento, ripenso alle emozioni che questo viaggio mi sta regalando, e ogni tanto basta mettere il naso fuori , e lui, il gigante degli 8000, è sempre lì a ricordarmi dove sono. Dopo il pranzo (sempre in tenda ovviamente) siamo un po’ tutti cotti, a tal punto che Gra si addormenta tra le mie braccia: ripenso a quando mesi fa, con me che semplicemente fantasticavo parlando di questo viaggio che prima o poi avrei fatto, lei mi chiese se secondo me sarebbe stata in grado anche lei di farlo! “Certo!” le risposi E non mi sono sbagliato. Ora siamo qui, e abbiamo realizzato insieme questa grande cosa, questo sogno che uno senza l’altro non saremmo riusciti a realizzare; poi è arrivato l’sms di Michele che, mentre il sogno era ormai in cantiere per la realizzazione, mi chiese se avevo in mente qualche viaggio…Il resto è attualità, è noi tre in una tenda ai piedi dell’Everest. Nel pomeriggio il tempo peggiora, il cielo diventa bianco e l’Everest praticamente avvolto dalle nubi, scompare alla nostra vista; peccato, ma se ci penso, fossimo arrivati qui un giorno dopo non ci saremmo goduti le vedute di ieri e di questa mattina. Siamo nella tenda a scaldarci, Michele è sdraiato sul letto sotto mille maglioni, Gra legge con la giacca sulle gambe, e in più parlano tra loro delle rispettive origini pugliesi: impossibile non prenderli in giro, ma, meglio lasciar perdere, Gra passa subito alle minacce fisiche! A sera, mentre ceniamo con una di quelle minestre-spaghetti istantanee cinesi, dalla porta aperta della tenda vediamo iniziare a nevicare, L’Himalaya, anche se per poco, ci regala anche questo spettacolo. La ragazza ci prepara i letti, ultima breve uscita per vedere le stelle, e poi pronto per la seconda notte ai piedi dell’Everest! 30 maggio, Everest – Tashi Dzong: Ho dormito con in testa il cappuccio del mio poncho, tutto sommato notte meno gelata di ieri, ma alzarsi dal letto è sempre un trauma. La giovane ragazza tibetana è già in tenda a prepararci thè, e la porta già aperta. Ci prepariamo con il thermos le tisane che ci siamo portati da casa per le colazioni, ed aspettiamo che il sole illumini la stretta vallata per uscire fuori. Nel frattempo nella tenda è entrata un’anziana signora che inizia ad aiutare la ragazza nelle faccende domestiche. Vedendoci un po’ infreddoliti passa poi da Michele e poi da Gra e me a rimboccarci le coperte attorno alle gambe, con una premura e una decisione che è impossibile dirle di no, tanto non capirebbe e lo farebbe lo stesso. In più ad ogni minimo sorso di tisana l’intrepida nonnina è già pronta a prenderci il bicchiere di mano e a riempirlo in continuazione! Aiuto, l’unica soluzione è uscire e fare due passi per la vallata pietrosa, sempre vista Everest, che oggi mi sembra ancora più luminoso di ieri, ma forse è solo il mio entusiasmo nel rivederlo ancora lì, davanti a me. Incontriamo due giovani ragazze che tornano alle tende col loro contenitore carico di acqua sulle spalle: si fermano incuriosite dalla macchina fotografica, quindi faccio loro delle foto e glie le mostro. Sono divertite e le vogliono per loro, impossibile fargli capire il discorso del digitale. Ma ho una soluzione: la macchina Polaroid che già avevo usato in Mongolia, è un regalo di Gra che per questo tipo di viaggi si rivela utilissimo! Faccio loro cenno di seguirci nella tenda, lì faccio loro qualche foto che gli dono, sono eccitatissime, ridono contente! Ne faccio una anche alla signora anziana, che prima si sistema i capelli e si mette in posa: è bellissima! Appena vede apparire lentamente la sua immagine sulla foto, ha dapprima un’ espressione incredula, poi nel suo viso rugoso appare un sorriso che è difficile da dimenticare: probabilmente è la prima foto della sua vita, e subito la ripone gelosa come una bambina, nella tracolla che porta sotto il lungo vestito, tra le sue cose più care. Dono altre foto ad altre ragazzine incredule e ad una mamma col suo piccolo, cercando di non farmi notare troppo da molta gente perché non posso accontentare tutti, le polaroid ahimè non sono illimitate, ma la voce tra le tende si sparge, e, finita la ricarica della polaroid, a fatica e a malincuore dobbiamo a qualcuno fargli capire che non ne abbiamo più. In realtà ho un’ altra ricarica da 10, ma qui ne servirebbero di più, quindi preferisco tenerlo per un altro giorno. E’ quasi ora di andare, prima regalo la mia giacca a vento alla ragazza che con tanta premura si è occupata di noi in questi giorni, pur non riuscendo a comunicare più di tanto se non a gesti. E’ un bel regalo, lei è molto imbarazzata ma contenta, sicuramente servirà più a lei quassù che non a me a Milano, e per questi altri giorni in altura me la caverò con qualche pile in più. Ripartiamo con la jeep ma ci fermiamo quasi subito per una breve sosta alla vicina Ronghpu: anche da qui la visuale dell’Everest, alle spalle dello stupa, è magnifica. Nel piccolo monastero, monaci e qualche abitante, stanno preparando una festa di danze che Jigme ci dice si terrà domani. A proposito di Jigme: è un ragazzo tibetano molto gentile e riservato, con la sua immancabile giacca giallo canarino, sia lui che l’autista (cinese, che non capisce una parola di inglese), sono in nostra compagnia solo durante gli spostamenti in auto (e nella tenda all’Everest), quindi, come volevamo, siamo assolutamente indipendenti; loro spesso si volatilizzano e li rivediamo l’indomani, mentre a volte capita di cenare insieme e di scambiare in inglese due piacevoli chiacchere. Jigme, la guida, ci racconta che suo nonno in passato è stato guardia del corpo del Dalai Lama, mentre l’autista sembra uscito da un cartone animato cinese, ride e beve birra tibetana. Due bei soggetti. Comunque, una volta vista Ronghpu, ripartiamo dando un passaggio ad una signora tibetana: Mi tengo Gra in braccio. La strada sterrata che da qui ci porta a Tashi Dzong ci regala degli scorci bellissimi della vallata che attraversiamo. Ogni tanto incrociamo qualche famiglia nomade che risale a piedi o a dorso di mulo, c’è un bimbo piccolissimo stupendo legato a pancia in giù su un mulo! In un’ora di strada siamo a Tashi Dzong, il piccolo paese dove ci eravamo fermati per il pranzo un paio di giorni fa. Qualche casa tibetana sparsa qua e là, attorno alla sterrata e polverosa strada principale. Qui di altri stranieri neanche l’ombra, al massimo qualcuno si ferma per un pasto veloce, noi invece no! Ho voglia di passare una giornata nel vero Tibet, quello ancora rurale, non contaminato né dai cinesi né dai turisti. Pernottiamo nell’unica guesthouse (Qomolangma Benber) dall’ampio salone ristorante in stile tibetano, pieno di colori e oggetti appesi alle pareti, comode panche rivestite di tessuti colorati , e bassi e lunghi tavolini dove mangiare. Al piano sopra piccole camerette con assurde carte da pareti come soffitto (paperelle e hello kitty!) e mura bianche con disegni e strisce con i colori della bandiera tibetana. Fuori dalle stanze il catino per lavarsi, col bidone pieno d’acqua, e poi il bagno, semplici ma efficaci buche nel terreno sabbioso. Insomma una piccola casetta tibetana, mi piace tantissimo! E poi stanotte non si gelerà, e avrò anche modo di darmi una sciacquata.. Usciamo per fare una passeggiata, da veder non c’è nulla, se non il lento scorrere della vita locale. Davanti alla guesthouse sta lavorando quasi l’intero paese per asfaltare giusto quei 100 metri di strada che lo attraversano, sembra più un’opera di prestigio che di utilità! Veniamo affiancati da due curiose bambine che ci seguono senza mollarci un attimo: sono timide e povere, regaliamo loro degli elastici per capelli e delle caramelle, Michele dà loro una coperta e un paio di pantaloncini, sono contente, ma non ci mollano più. Lungo la strada altri bambini curiosi, e in breve siamo letteralmente circondati, forse saranno una trentina, appena usciti da scuola. E’ bello ma allo stesso tempo difficile liberarsene; alcuni di loro ci chiedono, facendocelo capire, di scrivergli il nostro nome su un pezzo di carta. Siamo proprio gli unici ospiti del paese! Ceniamo (bene) nella guesthouse, stavolta in compagnia di Jigme e dell’autista, il quale prova a convincere Michele a bere della tsampa, ovvero la birra tibetana, ma lui ha ancora lo stomaco sottosopra, e così tocca a me fare da cavia! Mah si, la provo! È poco alcolica, leggermente frizzante, strano sapore. La prova anche Gra e l’autista se la ride come un pazzo! Ah, ormai in questo viaggio ho pure imparato ad usare le bacchette per mangiare, non lo avrei mai detto.

31 maggio, Tashi Dzong – Tingri: La notte a Tashi Dzong è stata davvero riposante, poi io di questa guesthouse mi sono proprio innamorato, ed anche una sosta in questo piccolo e genuino paese tibetano ci voleva. Devo riconoscere che l’idea di fare tappa qui mi è venuta leggendo il bellissimo racconto di viaggio di due amici viaggiatori, Carlo ed Emanuela (www.Orizzontintorno.Com), la cui esperienza ci è stata utilissima per la progettazione del nostro itinerario. Partiamo, destinazione Tingri. La strada è tutta sterrata. Abbiamo ancora 10 polaroid da regalare, Gra mi suggerisce di fermarci in uno degli sparuti raggruppamenti di casette che incontriamo lungo il percorso, ottima idea! Sostiamo così con la jeep in un anonimo paesino di quattro case tibetane, che non è nemmeno riportato sulla nostra mappa; destiamo subito la curiosità dei pochi presenti, in particolare tre bambini che stanno portando un asino. Alla vista della mia macchina fotografica si spaventano, provo a spiegargli a gesti, ma è provvidenziale l’aiuto di Jigme che lo fa nella loro lingua: scatto la prima foto e Gra fa lo stesso con la polaroid, ma sia loro che i pochi adulti accorsi sono ancora perplessi; all’apparire però della foto, improvvisamente la loro perplessità si trasforma in entusiasmo e gioia! E’ bellissimo vedere la loro reazione. Accorrono ora tutti i bambini del villaggio e in un attimo anche gli adulti, in tutto saranno una trentina di persone, tutti che vogliono farsi immortalare. Una signora mi prende per un braccio per farsi fare una foto davanti alla sua casa, poi ci fa anche entrare orgogliosa: tra le mille cose buttate lì in qualche modo, c’è anche un bellissimo neonato nella culla. Scattiamo altre foto a gruppi, per accontentare un po’ tutti; molti, soprattutto i bambini, si divertono un mondo anche solo a rivedersi nello schermo della mia Canon. Siamo per almeno una quarantina di minuti, l’attrazione di questo anonimo villaggio tibetano di povera gente. E’ sempre bello far felice persone così con poco, a volte con matite, magliette od altro, ma credo che donare loro una foto abbia un significato ancora diverso, proprio perché per loro è una cosa unica. Sono contento, lo sguardo felice di donne, bambini, anziani, insomma di tutto questo paesino che si raggruppa attorno alla jeep mentre risaliamo per salutarci, è uno dei ricordi più belli che mi porterò dentro. Proseguiamo, la strada è sempre più tosta, sterrato e pietraie, e ad un certo punto pure dei torrenti da guadare. Spesso per terra non c’è neanche il tracciato, tanto che un paio di volte ci perdiamo e dobbiamo chiedere a qualche pastore incrociato per caso. Mi ricorda molto il viaggio di qualche anno fa in Mongolia. L’uso delle ridotte è d’obbligo, il nostro autista se la spassa, questa è vera avventura, non certo per la mia schiena, ma mi diverte un mondo scavalcare fossi e attraversare fiumi, vorrei esserci io al volante! Come se non bastasse, anche il panorama è da brividi. Avvistiamo (anzi, Gra avvista per prima, sennò mi censura!) due grosse marmotte, che subito si rintanano tra le pietraie. Dopo quasi tre ore e mezzo di duro sterrato (e senza avere incrociato nessuna auto o persona fatta eccezione per un paio di pastorelli) arriviamo sulla Friendship Highway, e Tingri è proprio lì. Come Lhatse, anche Tingri è un piccolo gruppo di case lungo la strada, ma rispetto a Lhatse è molto più bella: tutte basse casette tibetane, nessuna “cineasta” in giro, qualche piccolo ristorante, tante mucche e cani che placidamente passeggiano lungo la Friendship Highway, e soprattutto una spettacolare vista della catena himalayana. Da qui si vede molto bene la cima innevata del Cho Oyu, e si intravede in lontananza anche l’Everest; l’ampia vallata circostante dà un’incredibile sensazione di spazio. Si, Tingri è molto carina e tranquilla, e merita senz’altro una sosta. Pernottiamo all’ Himalaya Guesthouse, una sorta di ampia corte fatta da piccole camere (i muri all’interno sono ricoperti con le nostre classiche tovaglie di plastica colorata), al centro un ampio cortile dove vagano mucche, e, finalmente, un locale docce con acqua calda! Dopo quasi una settimana tra bagni all’aria aperta e gelida, o tinelli, questo sembra un miraggio! Pranzo all’Everest Restaurant, in tipico ambiente tibetano; nel sedersi, Michele sta per spostare un ammasso di coperte posto su una panca, meno male che si accorge in tempo che sotto c’è un bimbo che dorme! Dopo pranzo la tanto agonista lunga doccia calda, che mi fa sentire decisamente più leggero e riposato, ci voleva! Oziare poi nell’ampio cortile sul quale si affacciano le camere, dà una bella sensazione di calma. Facciamo una passeggiata per il paese, ovvero lungo la Friendship Highway, tra mucche (ce ne è una che rovista mezza dentro ad un cassonetto di rifiuti), cani e perfino un maiale nero che bizzarro se la dorme quasi abbracciato ad un cane. C’è un po’ di gente in giro, tutti tibetani, e tanti bambini, qui un po’ più insistenti che altrove nel chiedere l’elemosina. In fondo al paese c’è una salita dalla quale si gode di un ottimo panorama della vallata e del Cho Oyu; in lontananza vedo anche la cima dell’Everest, per l’ultima volta…Faccio fatica a voltarmi e a salutarlo forse per l’ultima volta; sono al limite della commozione, dentro di me lo saluto velocemente come si fa con un amico caro che parte, e scendo con gli occhi lucidi nascosti dagli occhiali da sole. E’ vero, è solo una montagna, ma ha rappresentato per me un traguardo, uno di quei sogni che ti accompagnano per anni, che a volte sembrano irraggiungibili, e che poi, all’improvviso, te li ritrovi davanti. Forse, per me, non è solo una montagna…A cena, ci prepara da mangiare la ragazzina sempre gentile e sorridente della guesthouse: non è un ristorante, è proprio la loro casa, lo sta facendo solo per noi; così ceniamo con riso alle verdure (piccantissimo) e delle squisite patatine fritte oltre al solito immancabile thè che ci viene versato in continuazione. Mentre ceniamo alla tv danno una telenovela cinese con protagonisti dei bambini, e, incollati e ipnotizzati dal video, i piccoli abitanti della guesthouse (credo i fratellini della ragazza). Stanotte c’è una luna piena che sembra un faro, sarà questa l’ultima notte sopra i 4000m.

1 giugno, Tingri – Zhangmu: Colazione a base di thè e omelette, lasciamo qualche bustina di aulin ad un bambino (spiegandolo alla ragazza della guesthouse) che non ne può più del mal di denti, poi si parte: la ragazza e i tutti i bambini ci salutano come se ci conoscessero da mesi, è bello questo calore. Anche oggi ci accompagna il sole e il solito cielo blu intenso. Pochi km oltre Tingri la strada diventa sterrata, e a poco a poco sale, offrendo panorami mozzafiato, anzi, forse questo è il tratto più spettacolare della Friendship Highway, in particolare il passo di Tong-la (5120m.) offre una vista spettacolare della catena Himalayana. Fa freddo quassù, ci fermiamo pochi minuti, e il viaggio riprende. Dopo il passo la strada scende vertiginosamente, e il panorama cambia del tutto: entriamo in una strettissima vallata verdeggiante fino ad arrivare alla grigia cittadina di Nyalam. Capisco che di Tibet qui ne è rimasto ben poco, case, insegne e abbigliamento sembrano quelli di un’ anonima cittadina cinese. Si va oltre, ma da qui a Zhangmu, dove siamo diretti, la strada è un lungo cantiere a cielo aperto: compiamo i 33km. Che separano le due cittadine in ben 1h e 40m. La strada infatti è piena di buche, fango e massi, a malapena ci passa un auto, e ci sono ruspe e operai ad ogni km! Pare che il progetto sia quello di asfaltare l’intero tratto che rimane della Friendship Highway. Il panorama merita, anche se non c’entra nulla con quanto ammirato fino ad ora in Tibet: già, il Tibet, qui invece sembra di essere in un altro mondo completamente differente! Montagne ricoperte di di fitta vegetazione, fiumi e alte cascate, con la strada che scende fra mille tornanti. Arriviamo a Zhangmu alle 14.30, facciamo un po’ fatica a trovare un hotel che abbia posto, ma alla fine ci fermiamo proprio a due passi dalla frontiera, allo Jin Xin, anonimo e un po’ squallido, l’unica cosa decente è il super bollitore dell’acqua. Rispetto alla descrizione che ne dà la Loonely, Zhangmu deve essere cambiata parecchio, oggi è un vero inferno. E’ sviluppata in modo disordinato lungo una serie di stretti tornanti, senza marciapiedi, con una infinità di camion parcheggiati lungo un lato della strada e carichi di ogni merce, pronti ad attraversare il confine, e in mezzo un traffico disordinato di auto che spesso faticano a passare in entrambi i sensi. Trovare un parcheggio in questo delirio è più difficile che in centro a Milano, il che è tutto dire! Sono cotto, il brusco cambio di altitudine e di clima (qui fa un caldo umido), il lungo e tormentato tragitto in auto mi lasciano un po’ il segno. Siamo a due passi dal Nepal, domani attraverseremo la frontiera e torneremo a Kathmandu. Zhangmu proprio non mi piace, è il tipico postaccio di confine che continua a svilupparsi senza regole, ci sono rifiuti ovunque. Non si capisce bene in che luogo ci si trovi, è una mescolanza di razze, tra cinesi, nepalesi e indiani; mancano giusto i tibetani, ma è anche logico, qui di tibetano non è rimasto proprio nulla. La diversità con Tingri è abissale! L’unica cosa da salvare sono gli ottimi cheese momo (fagottini fritti ripieni di formaggio) mangiati a cena. Oggi è la mia ultima notte in Tibet… 2 giugno, Zhangmu – Kathmandu: Notte strana qui a Zhangmu, pensavo fosse un sogno, invece anche Gra e Michele mi confermano che per tutta notte una voce di donna ha continuato a gridare a lungo per le scale dell’ hotel, mah…Ho cambiato gli Yuan avanzati in Rupie nepalesi per strada, a due passi dalla frontiera, cambio buono, da una dei tanti cambiavalute presenti. Ormai sono pronto per lasciare definitivamente il Tibet, anzi, visto dove sono, direi la Cina. Sono le 10, e insieme a Jigme ci mettiamo in coda alla dogana per il controllo passaporti, mentre tutti gli zaini rimangono sul Land Cruiser, che ci aspetta oltre la strada. Dopo un’ora di coda (temevo di più, c’è un gruppo di indiani numeroso) tocca a noi; il rigido militare cinese rimane perplesso vedendo me e la mia foto sul passaporto, abbozza quasi ad una risata di stupore! Eh si, in effetti sono abbastanza irriconoscibile in quella foto. Prima tappa andata. Lungo le pareti della montagna c’è parcheggiata una fila interminabile di camion, ci facciamo così un lungo tratto a piedi prima di raggiungere la nostra auto; intorno tutto verde, sotto di noi cascate e fiumi, peccato che stiano diventando una discarica a cielo aperto. Zhangmu sta davvero crescendo troppo rapidamente, vista dal basso mentre scendiamo lungo la strada, fa davvero impressione, non so quanto potrà reggere. Ritrovata l’auto c’è ancora un bel pezzo da fare, circa 20 minuti di tornanti su sterrato, fino ad arrivare al ponte di Kodari: è giunto il momento di salutare Jigme e l’autista: sono stati davvero carini con noi, mai invadenti, facendoci fare questo viaggio in assoluta indipendenza, e utili all’occorrenza, grazie anche a loro con i permessi e i controlli è sempre filato via tutto liscio. Ci carichiamo gli zaini in spalla, e a piedi attraversiamo il ponte; ultimo veloce controllo dei passaporti dal versante cinese, e siamo in Nepal! Anche qua nessuno ci controlla i bagagli, strano, mentre il controllo passaporti e la compilazione del visto (con fototessera, e per noi gratis in quanto come all’andata ci fermeremo non più di tre notti), viene fatto in una baracca, dove la fila non esiste e regna una confusione totale. Un impiegato in jeans e camicia (se penso agli impettiti funzionari cinesi di qualche metro fa…) mette il timbro, sono in Nepal, ora ufficialmente. Sposto la lancetta indietro di 2h e 15m. Usciamo dalla baracca, facciamo qualche decina di metri nella confusione tipica da frontiera, poi chiedo al primo che staziona lì davanti ad un bar, come fare per andare a Kathmandu visto che taxi non ce ne sono: subito veniamo circondati da gente che si offre di portarci, contratto un po’, poi partiamo caricando tutto su una vecchia auto anni 70, per la cifra di 2800 rupie totali, ci vorranno circa 4h. Il primo tratto di strada è sterrato, e inevitabilmente si va piano; ai lati le montagne, a tratti fitte di vegetazione, a tratti terrazzate a coltivazioni, il colore predominante però qui è sempre il verde. Appena ritrovato l’asfalto, l’autista comincia sui tornanti vero e proprio rally, correndo come un dannato, sorpassando in curva, in salita, ovunque, spesso compiendo bruschi rientri corsia per evitare frontali. E’ un pazzo, mai visto guidare peggio che qui in Nepal. Ad un certo panico: la vecchia auto si ferma in salita per un problema al carburatore, per fortuna dopo qualche tentativo vano, riesce a farla ripartire. Dopo ore da brivido siamo nel caos di Kathmandu, fra auto e pulmini che si sorpassano sfiorandosi come in un videogame, mucche in mezzo alla strada, piccole palazzine di ogni forma e colore, mille rifiuti e odore di spezie nell’aria; Kathmandu è anche questa, e si fa amare così. Il passaggio dal Tibet silenzioso e dove ti sembra di poter toccare il cielo blu con dito, è brusco e scioccante; qui il cielo ha un colore indefinito, e nell’aria si mescolano suoni e rumori, tanta gente, insegne colorate e i vicoli stretti che sembrano inghiottirti. Ci facciamo portare fino all’Hotel Horizon, dove ci eravamo trovati bene al nostro arrivo. Siamo tutti e tre provati dalla lunga giornata iniziata presto, io e Gra decidiamo di mangiare qualcosa prima di riposare un po’, quindi ci rifugiamo al solito Curry Kitchen, in zona Thamel, che useremo sempre come base culinaria, anche per la colazione, il menu vario, i prezzi bassissimi e la qualità del cibo. Un po’ di risposo e poi in giro senza meta per le botteghe di Thamel, che vendono di ogni: d’obbligo i primi acquisti. Ho deciso, come già fatto nel mio precedente viaggio in Indovina, che mi farò un po’ di scorta di vestiti, data l’enorme convenienza rispetto all’ Italia (in alcuni casi anche 10 volte meno), ci sono cose molto carine e particolari, e anche di discreta qualità. Qui a Kathmandu in questi 3 giorni, verrà fuori anche il lato “vacanziero” di questo viaggio, che già sento indimenticabile.

3 giugno, Kathmandu: E‘ sempre strano tornare da dove si è cominciato un viaggio. Avevo un po’ di nostalgia delle colazioni sulla terrazza del Curry Kitchen: thè a volontà, e i miei enormi bomboloni ricoperti di glassa al cioccolato e ripieni di crema, il tutto a meno di 1 euro! Per il resto decidiamo di vagare senza meta o cartina per gli stretti vicoli di Thamel, pieni di merce e di commercianti affabili che nel loro incerto inglese ti invitano ad ammirare i loro prodotti. Alla fine decidiamo di comprarci un enorme borsone da spedire per riporre i nostri tanti acquisti. Michele ha ancora qualche residuo problema di stomaco, preferisce riposarsi, mentre io e Gra, nel pomeriggio, decidiamo di prendere un taxi e farci riportare al Bhoudanath (100 rupie per entrare, poco più di un euro): è il luogo qui in Nepal che più ci aveva affascinato, e anche questa sera non tradisce le nostre aspettative. Infatti, intorno alle 17, si ritrovano qui tanti monaci e fedeli che compiono il loro kora intorno all’enorme stupa. E’ uno spettacolo affascinante, qui la devozione è totale e sincera. Compiamo anche noi, tra la gente, il percorso circolare più volte, salendo anche all’interno delle mura che lo delimitano. Siamo fortunati, perché di lì a poco un poliziotto ci invita a scendere perché alle 18 si chiude, bisogna uscire all’esterno dello stupa, non lo sapevamo ma abbiamo fatto giusto in tempo ad entrare e a riprovare la tranquillità e l’emozione provate settimane fa. Il poliziotto, prima di uscire per ultimo, si gira, si inchina, e rivolge anche lui devoto la sua preghiera. Ci rifugiamo in uno dei piccoli bar lungo il kora a bere qualcosa, anche qui giusto in tempo perché si alza un forte vento, il cielo diventa buio e comincia a piovere forte. Scappiamo contrattando al volo con un tassista perché ci riporti al Thamel: c’è un traffico bestiale, tutti i vicoli sono intasati, e come se non bastasse è pure saltata la luce in tutta la città; fa impressione vedere dal finestrino del taxi la pioggia che cade e le botteghe illuminate solo da candele o da piccole lampade al neon…Eh si, stanotte anche in hotel la passerò a lume di candela.

4 giugno, Kathmandu: L’ attività preferita di questi ultimi giorni qui a Kathmandu è senz’altro quella di girare a piedi per la città curiosando e comprando. In fondo Durbar Square e le altre interessanti parti della città da visitare, le abbiamo già viste al nostro arrivo, Gra si sta rifacendo il guardaroba, ma anche io non scherzo. Oggi ho fatto anche scorta di cd, non solo di musica tibetana e nepalese, ma anche di cd nostrani a sole 150 rupie l’uno; ho trovato anche delle belle e particolari camice, non classiche ovviamente. Fa molto caldo, non sembra ma girare per shopping è stancante. Quando ci si ferma ad osservare magari dall’alto di una terrazza di un bar, il confuso e frenetico via vai per le strade, si vedono cose strane: per esempio c’era un tale che trasportava un frigorifero tenendolo legato a se tramite una fascia legata in fronte (!), oppure due vigili in mezzo ad una piazzetta che controllavano il traffico tenendosi per mano. A sera mentre stavamo bevendo insieme una terribile lemonsoda, si è unita a noi una giovane viaggiatrice olandese, appena arrivata a Kathmandu: ci ha raccontato del suo lungo viaggio in India, è simpatica, ceniamo in sua compagnia, con Michele che mi fa morire dal ridere col suo inglese fai da te. Prima di rientrare in hotel, abbiamo incontrato e passato un po’ di tempo insieme ad un gruppetto di bambini poveri che vagavano per le strade col loro sacco di liuta. Siamo stati un po’ con loro, gli abbiamo regalato dei vestiti e si sono divertiti un mondo a farsi fotografare. Sono contento di avere regalato loro almeno un sorriso per questa notte, che è l’ultima di questo viaggio: rimpiangerò tutto, compreso quell’angolino sulla terrazza del Curry Kitchen, a pochi centimetri di distanza dagli ingarbugliatissimi fili della luce che avvolgono Kathmandu… 5 giugno, Kathmandu – Milano: Come ormai tradizione, scrivo quest’ ultima pagina di appunti dall’aereo della Quasar Airways che mi sta riportando a Milano, via Doha. Il viaggio è finito, sono triste, cerco di pensare al grande sogno che ho vissuto, guardo Gra qui accanto a me e ci intendiamo con lo sguardo; fuori è buio, Kathmandu ci saluta sotto una fitta pioggia, un po’ come ci aveva accolto, con quella passeggiata mattutina sotto l’acqua alla scoperta dei suoi vicoli. Il resto, che da lì in poi sarebbe accaduto, allora era ancora un sogno, un’ incognita. Oggi è realtà, è una scorta incredibile di emozioni, di sensazioni, di momenti unici vissuti. Di oggi c’è poco da raccontare: stamattina abbiamo fatto colazione tutti insieme, poi ci siamo separati per spendere le ultime rupie avanzate; Gra ha finalmente trovato le giacche che cercava (molto belle, sono contento), e siamo passati a ritirare anche le magliette che ci siamo fatti cucire apposta in una piccola bottega di Thamel, in ricordo del nostro viaggio. Le ultime caramelle e biscotti regalati in giro, e poi la lunga attesa prima della partenza…Ora sono qui che cerco una posizione comoda per dormire, anche se so che non ci riuscirò mai. Intanto ripenso alle tante cose viste e vissute, penso al caos e agli odori di Kathmandu, ai sorrisi e allo stupore di adulti e bambini quando abbiamo regalato loro qualcosa da mangiare, alle stanze tristemente vuote del Potala, al continuo pellegrinaggio attorno allo Jokang, e ancora ai silenziosi e straordinari paesaggi lungo la Friendship Highway, ai paesini dove il tempo sembra essersi fermato, ai sorrisi e ai volti di un popolo, quello tibetano, che ancora sogna la propria indipendenza, ai folli viaggi in taxi qui in Nepal, ai tanti templi visitati, alla maestosità dell’ Everest, alla sua magia e al freddo patito, alle luci, ai colori, alle atmosfere di queste terre, alle tante persone incontrate lungo la strada…Ho il cuore che batte, forte, molto forte…Ma stavolta l’altitudine non c’entra… Per le foto e i racconti degli altri viaggi, vai sul sito www.Vagamondi.It



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