Tanzania: oltre lo sguardo del turista

Finalmente in Tanzania. Dopo un lunghissimo volo, Via Parigi, atterriamo a Dar Es Salaam, la più grande città portuale dello Stato, più grande della capitale Dodoma. Scesi dall'aereo, già respiriamo la tipica aria africana, ricca di ossigeno e pregna di tutti quegli odori che in Europa non esistono più, ma che già avevamo respirato nel...
Scritto da: traveller
tanzania: oltre lo sguardo del turista
Viaggiatori: in coppia
Spesa: 3500 €
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Finalmente in Tanzania. Dopo un lunghissimo volo, Via Parigi, atterriamo a Dar Es Salaam, la più grande città portuale dello Stato, più grande della capitale Dodoma. Scesi dall’aereo, già respiriamo la tipica aria africana, ricca di ossigeno e pregna di tutti quegli odori che in Europa non esistono più, ma che già avevamo respirato nel nostro lungo itinerare africano. Siamo stanchi e per niente galvanizzati dall’idea di sottoporci ai lunghi e minuziosi controlli doganali. Bagagli, passaporti, documenti sanitari, tutto viene vagliato con la classica lentezza africana, che in questo paese rasenta quasi l’indolenza. Qui il motto più comune è “lHaraka haraka, haina baraka”l, che significa, più hai fretta, più lento vai, il secondo motto è “lPole, pole msuri”, calma. Comunque dotati di tutta la nostra pazienza, riusciamo finalmente ad imbarcarci sull’altro aereo che ci attende, un monomotore, con quattro posti. Il pilota ha avuto meno fortuna di noi, perché si é bloccato il portello e ha dovuto infilarsi all’interno, passando per il finestrino. Su quella specie di giocattolo sorvoliamo la savana africana a nord dell’antica strada degli schiavi che dal Lago Nyasa si snodava fino a Kilwa prima, e Bagamoyo poi. La nostra destinazione é in un punto imprecisato della regione di Shinyanga sita a Nord verso il Lago Vittoria, (il nome locale è Nyanza, acqua) e ai confini con il Burundi. Una regione non molto ricca di storia, ma proprio nel suo passato trovano origine i conflitti tribali che ancora oggi sfociano in massacri nei vicini Rwanda e Burundi. In questa parte della Tanzania, infatti, viveva in passato l’etnia Hutu di ceppo Bantu, (come tutte le etnie oggi presenti nel Paese), popolo d’agricoltori e quindi non organizzati militarmente. I nomadi provenienti dal Nord, Wahuma e Watutsi li assoggettarono instaurando un regime di tipo feudale che durò a lungo. Da questo stralcio di storia ha origine l’antagonismo da Hutu e Watutsi. Una precisazione: i giornali li chiamano Tutsi, al singolare, il plurale è Watutsi, come citati in una canzonetta degli anni 70, “Il Watussi”. Il nostro viaggio ci porta in questa direzione: dalle bianche coste sabbiose bagnate dall’acqua limpida dell’Oceano, dove il sole riflette i mille colori dei coralli, alle verdi distese della savana, ricche di mangrovie, baobab, mopane, interrotte dalle macchie gialle e azzurre dei fiori; sorvolando la linea ferroviaria, che collega Dar Es Salaam con Tabora e Mwanza, e controllando il corso dei fiumi dall’alto. Questi sono, infatti, i riferimenti per il pilota, assieme ad una vecchia mappa. Il primo viaggio ha esito felice, arriviamo, infatti, all’aeroporto di Shynianga, una pista in terra battuta, tracciata in mezzo ad una rigogliosa vegetazione. Dico esito felice, perché in futuro, ci capiterà anche di perderci nei cieli della Tanzania e di dover atterrare in luoghi lontanissimi dalla nostra destinazione. Da qui continuiamo verso nord, alternandoci alla guida di una Jeep, su piste scavate dalle piogge, e piene di buche. Per quattro ore, viaggiamo in mezzo alla savana, o come la chiamano qui al “bush”. Non vediamo molti animali: gruppi di faraone, qualche facocero, ma niente antilopi, né i numerosi branchi di animali ai quali ci eravamo abituati in Botswana. Del resto la calura è ancora opprimente e siamo lontani dalle piste dell’acqua, dove gli animali vanno ad abbeverarsi. Gli insetti invece non tardano a manifestare la loro fastidiosa presenza, e già le prime mosche tse¬tse entrano dal finestrino e iniziano a lasciare sulla nostra pelle dolorosi fori, con le loro punture. Dopo qualche ora, incrociamo i primi villaggi, siamo ancora lontani dalla missione, lo dimostra il fatto che le donne indossano solo un Kanga, un coloratissimo telo awolto intorno ai fianchi, e stanno a seno scoperto. Ben diverso è l’abbigliamento nella zona delle missioni e nelle città, dove si preferiscono abiti di foggia Europea. Le colonizzazioni tedesca prima e inglese poi, ma anche l’opera dei missionari, non sono comunque riuscite a trasformare lo stile di vita locale, la vita del “pole, pole” del villaggio, del “pombe” (birra locale) e delle “ngoma” (le danze tradizionali) vere e proprie celebrazioni al suono della musica pulsante di fischietti, miramas (una specie di xilofono in legno) e tamburi di tutte le forme e dimensioni. Anche se un quarto della popolazione in seguito all’opera dei missionari, è cattolica, resta comunque profondamente animista. La felicità va trovata nell’armonia della natura. La magia è praticata e temuta e lo stregone è ancora lo sciamano del villaggio, oltre che indovino. Tutte le cerimonie legate a nascite, matrimoni, morte sono celebrate con pratiche tribali e non cattoliche. Finalmente il viaggio ha termine, siamo in vista della missione cattolica di Ushirombo. Donne, uomini e bambini ci attorniano vocianti, urlando festosi “Karibu Musungu”, benvenuti bianchi, dietro loro Padre John, il vecchio missionario, ormai cieco, ci invita all’interno della missione, costruita in mattoni, e con il pavimento in terra battuta. Dopo esserci rifocillati, ci accampiamo poco lontano dalla missione. Di notte accendiamo fuochi per tenere lontani i leoni. Non abbiamo molte comodità, e nemmeno molto cibo. Non ci sono fiumi vicini per pescare, ma si può cacciare la selvaggina e la missione ci vende patate, fagioli e cipolle. In natura c’è abbondanza di frutta. Non ci sono alberi di mango in questa zona, come lungo la costa e nelle isole, ma abbiamo papaye in abbondanza, qualche ananas e occasionalmente i frutti della passione, piccoli frutti dalla scorza rigida e arancione, che contengono una sostanza trasparenze e gelatinosa dolcissima, a volte abbiamo anche qualche “cuore di bue”, così chiamato perché ha la forma di un grosso cuore, con la scorza verde e l’interno costituito da una polpa bianca di consistenza burrosa. Il Paese è molto povero, visitiamo spesso i mercati dei villaggi vicini, ma non troviamo molto. Per i più ricchi c’è la macelleria, un banchetto di legno, ma spesso solo un telo per terra, con riposti sopra in bella vista, pezzi di carne marcescenti (qui non esistono i frigoriferi, ma non c’è nemmeno l’elettricità) ricoperti da un manto brulicante di mosche, che sotto i raggi del sole cocente, assumono un colore iridescente. Gli altri banchetti offrono ceste ricolme della leccornia locale: termiti e caterpillar, grossi bruchi dalla corazza nera, dura e lucida. A volte se si ha fortuna, è possibile acquistare qualche uovo, o dei mazzetti di “ncicia” un’erba selvatica che ha un vago sapore di spinaci. (ma chi si ricorda più ormai qual è il vero sapore degli spinaci!) Viene venduto anche il pesce secco, che arriva dal lago e riso, il cibo più diffuso. Il riso è contenuto in sacchi di iuta e brulica di vita. E’ pieno di vermi e insetti. Non viene venduto a peso, ma a misura. La misura è una vecchia lattina arrugginita e spesso fangosa. A volte si trovano secchi di latte, ma se non è cagliato significa che ci è stata aggiunta urina di capra per conservarlo. Un giorno abbiamo un inaspettato colpo di fortuna. AI mercato di Kahama, un piccolo centro a tre ore di macchina dalla missione, vendono un grosso sacco di farina. Ha un prezzo proibitivo e sui due lati è stampato in rosso acceso il simbolo della Croce Rossa, con la dicitura, aiuti per il terzo mondo. Non sappiamo se si tratti di un sacco riciclato come contenitore, o se si tratti veramente di aiuti umanitari , ponderiamo l’acquisto sentendoci un po’ in colpa, ma abbandoniamo i nostri dubbi etici e acquistiamo quel piccolo tesoro, che poi dividiamo con gli africani della missione. Non tutti sono disposti a consumare generi di provenienza americana. Molti sanno leggere, e i giornali locali interamente in lingua Swahili, la lingua nazionale, quasi giornalmente mettono in guardia la popolazione contro i paesi industrializzati. In un giornale leggiamo che “E’ scientificamente provato che la farina mandata dagli U.S.A., provoca gravi menomazioni e deformazioni, come il mongolismo e la poliomielite “. Gli Africani ci credono, sono alfabetizzati, perché la scuola è obbligatoria, ma le loro conoscenze si limitano ad una stentata lettura dello swahili. Questa propaganda trova grande riscontro tra la popolazione, che è profondamente razzista nei nostri confronti. Un razzismo che non è dovuto tanto alla deportazione di schiavi o al colonialismo, quanto al bisogno di questa nazione di essere autonoma. Dopo anni di lotte tribali tra Kamba, Nyamwezy e Yao, guerrieri e commercianti di schiavi, tra Zulu Hehe e Nyamwezi, Masai e le molte altre etnie di ceppo Bantu, i focolai di rivolta contro i Tedeschi, lo spirito del Paese si è unito sotto la fiaccola del “Uhuru na Umoja”(libertà e unità). Nel 1961 sotto la guida politica di Julius Kambarage Nyerere, e con l’appoggio deIl’ONU, il Tanganika diventa stato indipendente assumendo il nome di Tanzania. Nyerere è fautore della politica di auto governo. La sua è la linea dell’Ujamaa, la famiglia allargata al villaggio, dove la terra viene lavorata da tutti e i suoi frutti condivisi. Industrie, banche commerci vengono nazionalizzati e gli investimenti stranieri vengono rifiutati, soprattutto quelli americani ed europei. Nyerere cerca di meccanizzare l’agricoltura per invitare i contadini a restare nelle Ujamaa, fornendo ai contadini trattori che vanno a soppiantare gli animali da giogo. Non dura molto. Non esistono tecnici per la manutenzione, non esistono nemmeno i pezzi di ricambio. La benzina non arriva. Mancano le strade e i trasporti sono difficoltosi e costosissimi. C’è solo la linea ferroviaria che risale all’epoca coloniale e collega Dar Es Salaam a Tabora, quando funziona. La produzione principale è il caffè, ma mancano le fabbriche per la torrefazione, e anche se ci fossero, mancano completamente lavoratori con specializzazioni tecniche e amministrative. La Tanzania esporta così caffè, cotone, tabacco e noccioline a basso costo, e importa a prezzi altissimi la tecnologia di cui ha bisogno, ma anche i generi di prima necessità. Da allora molte cose sono cambiate. Grazie agli investimenti stranieri, soprattutto italiani, è iniziata la costruzione di strade e aeroporti, le tasse di importazione sono meno gravose, gli scambi commerciali favoriti, si sfruttano le ricchissime miniere di ferro e carbone in sostituzione di quelle di oro e diamanti da tempo esaurite. Sono, tuttavia, ancora fiorenti il mercato nero, le lungaggini burocratiche mirate all’ottenimento di bustarelle, la corruzione dilaga; restano la miseria, la fame, la violenza. Nelle città scippi e rapine sono all’ordine del giorno, soprattutto ai danni dei bianchi. Ad una turista europea hanno tagliato un dito di netto per rubarle l’anello. Nell’entroterra la situazione è più tranquilla, forse perché tutti hanno il loro “shamba”, un pezzetto di terra da coltivare e a volte anche qualche capra. Qui, dove siamo noi il vero problema è l’igiene. Manca l’elettricità, non esiste un acquedotto, né una rete fognaria. L’acqua viene raccolta dalle pozze, ma è contaminata. Molto presto, infatti, assistiamo alla prima epidemia di colera. Non ci sono vaccini per gli africani. Vaccini e farmaci sono costosissimi, e anche se esistono delle strutture ospedaliere, non sono gratuite. Muoiono a decine, vengono accatastati nei villaggi e poi bruciati. A volte i morti vengono trasportati altrove con i camion. Sembra che non ci sia fine a questa epidemia, ma poi finalmente i casi di contagio iniziano a diminuire e la situazione si normalizza. Resta comunque il flagello della malaria, che causa tantissime morti, il tripanosoma, la malattia del sonno causata dalla mosca tse-tse, le febbri tifoidi, la cecità dei bambini causata dalle mosche che si affollano sui loro occhi, depositandovi le uova. Non ci sono protezioni per loro, non se le possono permettere. Anche il morbillo è pericoloso qui. Colpisce in modo virulento e trova facile preda nei bambini che hanno un’alimentazione povera e non equilibrata, causandone la morte. Il nostro lungo itinerare nella ragione è giunto al termine e facciamo rotta verso Dar Es Salaam. E’ una città caotica, sviluppata sulla costa. Qui convivono razze diverse, africani, europei, indiani, cinesi, arabi, e religioni diverse, cristianesimo, induismo, buddismo e islamismo. Le strade sono a più corsie, si snodano dall’aeroporto, attraverso il centro, verso la costa. Gli alberghi testimoniano l’avvio del turismo, ma ci sono scuole, anche l’università, ospedali, uffici, industrie e tutto ciò che può ricordare una città europea. Visitando il grandissimo mercato cittadino Kariakoo, ci rendiamo conto che l’industrializzazione è solo apparente. I venditori contrattano la vendita di frutta, verdura e tutti i prodotti locali, le donne Maasai accovacciate a terra, vendono i loro medicamenti, e qui si vendono anche utensili fatti localmente, tessuti, oggetti d’artigianato. Si trovano lampade fatte con lattine vuote, ciabatte infradito realizzate con i pneumatici delle ruote delle auto, persino carta da regalo se per carta da regalo intendiamo carta carbone usata. Anche il porto esalta i contrasti di questa città. Alle maestose navi delle compagnie europee si affiancano i dhao, tipiche imbarcazioni in legno con un’unica grande vela, destinate al trasporto dei passeggeri dalla costa alle vicine isole di Pemba, Mafia e Zanzibar. I dhao partono carichi di passeggeri e non è infrequente che si ribaltino o affondino nelle acque dell’Oceano Indiano. Poco distante, si attendono i pescatori che portano sulle loro aggraziate “ngalawas” (pescherecci), pesci di tutti i tipi, tonni, squali, aragoste, pesce azzurro. Le trattative durano a lungo, il pesce si acquista ancora vivo e guizzante. Spesso non è facile caricare in macchina un pescato di aragoste o granchi giganti che corrono da tutte le parti facendo scattare minacciosamente le grosse chele. Lo spirito africano si fa sentire più che altrove, a circa cinque miglia dalla città sulla strada per Bagamoyo, ex punto d’imbarco degli schiavi. Qui vivono i Makonde, interamente dediti all’intaglio del legno. Realizzano sculture molto particolari, che impiegano molti mesi a terminare. Il tronco viene svuotato all’interno e quindi intagliato in una serie di figure umane intrecciate fra loro. La scultura viene avviata senza un progetto o un disegno, e più persone lavorano insieme alla stessa scultura secondo l’antica tradizione. La leggenda della genesi Makonde, vuole, infatti, che ogni opera rappresenti l’agonia della creazione. Queste sculture difatti servono per le cerimonie religiose e hanno lo scopo di quietare gli dei o spaventare gli spiriti cattivi per secoli. Questa è la Tanzania che ricordiamo noi, ma per chi la vuole guardare con lo sguardo del turista, c’è anche un’altra Tanzania. E’ la terra fertile, ricca di laghi pittoreschi come il Tanganika, il più grande d’Africa, il Vittoria, serbatoio del Nilo, il Manyara popolato da una gran varietà di specie di uccelli esotici. E’ la terra dei parchi naturali il Serengeti, dove si possono ammirare mandrie di bufali, elefanti, rinoceronti, zebre, eleganti giraffe, colonie di scimmie, coccodrilli e la valle dei leoni, o Il Selous Game Reserve, chiamato “Shamba la bibi”, la terra della donna. E ancora nel Masai Mara oltre il Serengeti, si possono conoscere i fieri Masai, che il turismo ha cominciato ad allontanare dal rifiuto per tutto ciò che era estraneo alla loro cultura. E’ la terra dei contrasti, dalle spiagge assolate, ai parchi, allo spettacolo del Kilimanjaro, con la sua vetta perennemente innevata, al paesaggio brullo del cratere di Ngorongoro. Ma è anche una terra di scoperte archeologiche. Qui vicino al vulcano Sadiman furono trovate le prime tracce di ominidi e i resti di un australopiteco e poco lontano, nella gola Olduva, i resti di un Homo abilis. Oltre la costa i paradisi turistici delle isole. Zanzibar, la più popolata, di architettura araba, antico centro di smistamento degli schiavi, è anche la più pittoresca e la più ricca di storia. Pemba, poco abitata e difficilmente raggiungibile, (il più comune mezzo di trasporto resta il daho) è il maggior produttore di chiodi di garofano. Mafia, nota per la produzione di noci di cocco, ma ancor più perché nel 1915 fu la prima postazione africana dalla quale partivano aerei da ricognizione. E’ da qui che venne localizzato !’incrociatore tedesco Konigsberg, nel delta del Rufiji, e quindi bombardato dagli Inglesi.


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