I Colori della terra, della pelle e del mare 2
La preparazione del viaggio ha avuto un significato particolare visto che i nomi dei parchi e degli animali li ho sognati fin da piccolo incollato alla tv, affascinato dalle vecchia serie di trasmissioni pomeridiane de “Il Mondo di Quark”.
Nei mesi di studio ho avuto modo di avvicinarmi ad una cultura di popoli tanto distanti dal nostro, scoprendo anche che fuori dai circuiti del turismo di massa, la Tanzania pulsa, si anima e combatte per la sopravvivenza servendosi di metodi forse ancestrali, ma forti di una vitalità tipica di questo lontano angolo nero di mondo.
L’arrivo ad Arusha in una giornata uggiosa ci ha caricato della cupezza che purtroppo accompagna la stragrande maggioranza delle metropoli del cosiddetto terzo mondo (in questo viaggio anche Dar es Saalam e Addis Abeba ci hanno lasciato la medesima impressione), involucri di individui che migrano dalle campagne in cerca di un’agognata e vana sensazione di benessere.
In effetti è difficile scindere la bellezza dei parchi dalla povertà della popolazione che non riesce a trarre vantaggio dall’enorme flusso di denaro che anche il turismo porta in queste zone.
Questa velata tristezza è però sollevata dal sorriso che accompagna la giornata di tantissime persone incontrate sul nostro percorso, tanto che ricordiamo ancora con affetto le centinaia di Jambo e Karibu durante l’escursione tra i minuscoli villaggi nei dintorni di Lushoto negli Usambara.
La più grande attrazione del paese sono senz’altro i parchi: Serengeti, Ngorongoro, Tarangire, Natron sono solo alcuni tra gli ultimi eden per animali in libertà.
Per questo la scelta dell’agenzia è basilare, in quanto da ciò dipende la soddisfazione del safari.
La nostra ricerca è stata assolutamente indipendente e si è basata soprattutto su esperienze di precedenti viaggiatori, anche se comunque le tappe e il tour le ho realizzate secondo mie precise (ma non sempre azzeccate) indicazioni. Tra queste l’intenzione di allontanarsi dai tragitti classici per ammirare Lobo e la parte nord del Serengeti, diverso e meno battuto della zona del Seronera, oppure la scelta di alloggiare anche in paesini fuori dai parchi.
Possiamo ritenerci molto fortunati in quanto la B. T. S. Si è dimostrata professionale e con T., la nostra guida, abbiamo raggiunto un ottimo grado di fiducia.
Nonostante tutto quello che avevo letto o immaginato, devo confermare che la realtà è stata migliore delle aspettative, iniziando dai colori, per primi quelli della terra, rossa, base e contorno di tutta la vita, tanto che è comune scorgere i mattoni di questa argilla lasciati seccare al sole prima di diventare fondamenta di tutte le case dell’intera Tanzania.
Non solo i colori, ma anche gli odori e le voci dei coloratissimi mercati di Karatu o Mto Wa Mbu ci hanno accompagnato fino al primo ingresso della Ngorongoro Conservation Area, preludio della magnifica vista che avremmo avuto di lì a poco sul cratere forse più famoso al mondo.
E’ difficile classificare le fortissime emozioni di quei giorni passati in piedi con la capotta della jeep aperta a godere dello sconfinato orizzonte scrutando, tra il mare dorato dell’erba arsa dal sole, la sagoma di qualche animale.
Non posso dimenticare le interminabili attese per la foto perfetta alla leonessa che si stiracchiava a pancia all’aria proprio come fa il mio cane a pochi centimetri da noi, oppure lo zampettio di uno sciacallo curioso che ci ha dato il benvenuto nel cratere del Ngorongoro.
Anche gli occhi fieri e penetranti di due maschi di leone dalle regali criniere e soprattutto un cucciolo di ghepardo che si nascondeva tra le amorevoli cure della figura aggraziata della mamma sono tra le tante immagini indelebili nella nostra memoria.
In effetti credo che sia riduttivo porsi l’obiettivo di fotografare “solo” i Big Five.
Scorgere il fugace serval mimetizzato tra la vegetazione, assistere al combattimento, accompagnato dal secco infrangere delle corna, tra due esemplari di gazzelle di Grant, oppure sorridere al fragoroso e gutturale spettacolo degli ippopotami, piuttosto che la corsa impacciata di una famigliola di facoceri sia altrettanto appagante.
La pace che trasmette la vista degli sterminati spazi ci ha accompagnato durante i nostri game drive, tanto che i nostri pensieri hanno abbandonato la ricerca degli animali attratti verso l’orizzonte, facendoci ricordare quei giorni come molto intensi.
Le scene di caccia ci hanno lasciato senza fiato, sia quella di un branco di leonesse, che quelle di due ghepardi lanciati a folle velocità su un gruppo di gazzelle. Entrambe le occasioni sono state favorevoli ai più “deboli”.
Inquietante è stata la scena di una coppia di iene che pattugliava la pianura, probabilmente con fortuna, visto che credo che siano state le stesse che poco più tardi si accanivano su una carcassa di zebra.
Pensare alla iena ci fa affiorare forse la sensazione più agghiacciante dell’intero safari.
Durante la mia meticolosa preparazione al viaggio avevo condiviso con Cristina l’intenzione di passare almeno una notte in tenda in un campeggio speciale del Serengeti, con il fine di respirare a piani polmoni le voci notturne della savana, non immaginando però che poi queste si sarebbero materializzate con tutta la loro impressionante forza.
Il benvenuto al campo ci è stato dato da una famigliola di manguste per nulla intimorite e intente a rovistare tra gli avanzi, e dal sibillino cartello che raccomandava di non allontanarsi dal campo, comunque non recintato, per non essere attaccati dagli animali.
A queste latitudini e in questo periodo dell’anno il tramonto arriva presto e così anche il momento di chiuderci in tenda, non prima però di renderci conto del luccichio di occhi famelici al limitare del bush preludio di ciò che sarebbe accaduto poco più tardi.
E’ al calar delle tenebre infatti che la savana si popola e i cacciatori entrano in azione.
L’inconfondibile latrato accompagnato dal fruscio dell’erba mossa dai loro passi intorno al nostro poco difeso giaciglio, ci ha fatto intendere di essere circondati da un branco di iene, avvicinatesi attratte dai profumi delle cucine.
Il loro ansimare ci ghiacciato il sangue nelle vene, tanto che in quella mezzora credo di non essere riuscito a muovere nemmeno un muscolo.
I nostri cervelli erano impegnati solo ad ordinare al resto del corpo di rimanere immobile nella speranza che la nostra presenza passasse inosservata ai quei formidabili predatori.
In una parola crediamo di aver proprio vissuto un’esperienza sensazionale, unica e irripetibile, nel senso che non so se mai vorremo ripeterla … insomma un vero e reale documentario.
Le uniche nota stonate dell’intero safari sono state l’inaspettato incontro con le mosche tze tze sulle sponde del Grumeti, teatro delle famose migrazioni annuali di gnu e l’incontro con i masai Questo popolo simbolo dell’Africa orientale vive ancora fiero delle proprie tradizioni, tanto che i loro inconfondibili costumi li rendono riconoscibili in tutto il paese.
Fa un certo effetto incontrarli nei boma artificiali, costretti dagli eventi a vendere la propria secolare cultura, ormai confinati ad una strenua resistenza dall’avanzare impetuoso del progresso. La nostra speranza è che il pedaggio per visitare il loro villaggio vada a vantaggio di tutti i suoi componenti.
La Tanzania, e l’Africa in genere, non sono solo safari e spiagge.
Per questo motivo ho coinvolto Cristina nelle attività di turismo culturale offerto dalle comunità locali.
Oltre all’interessante e non programmata visita alle piantagioni di banane di Mto Wa Mbu, siamo partiti dall’Italia con l’intenzione di visitare gli Usambara.
Arrivare a Lushoto non è particolarmente difficile, se si ha un buon grado di spirito di adattamento.
Appena si scende dall’autobus al parcheggio del New Liverpool Breeze, poco fuori Mombo, si intuisce che la Tanzania turistica non passa di qua.
Se si supera l’impatto dell’assalto dei conduttori di dalladalla, si viene ripagati da un angolo di paese ancora relativamente incontaminato.
La salita verso Lushoto è, oltre che scomoda tanto si è pigiati nel sovraffollato pulmino, veramente spettacolare e la breve sosta a Soni permette di gustare il panorama verde e lussureggiante della zona.
Noi abbiamo alloggiato in una missione di suore, immersi in una splendida cornice offerta dai loro giardini curatissimi, speranzosi che i nostri soldi siano in qualche modo serviti alla gente del luogo.
Da questo punto di vista è da encomiare l’attività svolta dalla “pro-loco” coordinata da ONG tedesche e olandesi.
In effetti si ha la consapevolezza che il ricavato del nostro trekking (a proposito la vallata sottostante l’Irente viewpoint lascia senza parole, come del resto il formaggio quark e il vino di banane dei frati luterani), sarà servito per realizzare piccoli ma significativi progetti di infrastrutture.
Ricordiamo con tanto affetto i Jambo di saluto delle decine di bambini di una scolaresca che ci hanno accompagnato sul passaggio, come la messa cattolica celebrata davanti a tutti gli abitanti di un minuscolo villaggio, islamici compresi.
Si ha anche occasione di scambiare opinioni con le guide locali, tutti studenti delle scuole secondarie che parlano un inglese oxfordiano, sulla condizione di vita del luogo: i problemi legati all’acqua, le disparità sociali, l’esperimento dell’Ujamaa e l’apprezzamento che Nyere, l’uomo politico che ha creato questa nazione, ha sul suo popolo.
Questo vagabondare ci ha permesso di apprezzare l’agognato riposo sulle spiagge di Zanzibar, non prima però di aver camminato tra le bellezze decadenti di Stone Town.
La città è veramente affascinante, ricca di nobile, ma a volte sanguinosa storia, tanto che questo sito designato patrimonio dell’umanità dell’Unesco per il miscuglio di razze che l’hanno nel corso dei secoli popolata, viene da più parti definita come la città africana più bella a sud del Sahara.
Più che nei musei, la storia si respira per strada, nei vicoli tortuosi della parte vecchia dove gli scorci di un passato lussureggiante sono infiniti; l’alloggiare a Baghani House, una casa patrizia restaurata ad arte ha dato un tocco in più al nostro soggiorno sull’isola.
L’emblema che abbiamo assunto a simbolo di Stone Town è stata la Tippu Tip’s House.
Trovare l’edificio non è semplice, visto che non è affatto segnalato, ma basta chiedere in giro per far materializzare un sedicente discendente della famiglia di questo ricchissimo mercante schiavi.
Le sue foto ingiallite dal tempo in compagnia di turisti appese nella living room, dimostrano in parte la genealogia di questa guida, che per una prestabilita mancia si è offerta di accompagnarci all’interno dell’abitazione spiegandone i segreti.
Tra questi la botola che collegava l’atrio al mare, utilizzata per il passaggio degli schiavi, ma soprattutto il significato del nome della dimora, cioè abitata dai corvi, in quanto pare che allora ce ne fossero molti di più di quelli che già vi vivono tuttora. Questi miei piccoli ricordi, mi riportano indietro nel tempo, a quando mesi fa ho cominciato a studiare questo viaggio, nato in parte dai documentari giovanili e confezionato con le innumerevoli letture di questi mesi; credevamo che il mal d’Africa fosse solo un’inventata licenza letteraria, ma ora ci siamo dovuti ricredere.
Asante Sana Tanzania, Kwaheri.