Meraviglie segrete di Messico e Belize

Marzo 2006 Tornare a Città del Messico è un po’ come tornare a casa. Quest’anno festeggio i vent’anni dal mio primo arrivo in Messico e non conto più le volte che sono atterrata in questo aeroporto. Come vent’anni fa siamo in due, Piero ed io, Patrizia, nel frattempo diventata “guida per caso”. Come altre volte ci fermiamo solo una...
Scritto da: JefaPat
meraviglie segrete di messico e belize
Partenza il: 29/03/2006
Ritorno il: 23/04/2006
Viaggiatori: in coppia
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Marzo 2006 Tornare a Città del Messico è un po’ come tornare a casa. Quest’anno festeggio i vent’anni dal mio primo arrivo in Messico e non conto più le volte che sono atterrata in questo aeroporto. Come vent’anni fa siamo in due, Piero ed io, Patrizia, nel frattempo diventata “guida per caso”. Come altre volte ci fermiamo solo una notte nella capitale, e l’albergo Fiesta Inn ci è comodo per dormire a due passi dall’aeroporto e poter di nuovo ripartire la mattina presto. Come sempre prima di crollare nel sonno non può mancare il brindisi con margarita per festeggiare l’inizio di un nuovo viaggio.

Il volo che ci porta a Chetumal dura 1 ora e 20 minuti. Arriviamo nella capitale dello stato di Quintana Roo, uno di quelli che fanno parte della penisola dello Yucatàn. Appena atterrati andiamo subito a cercare un’auto da noleggiare e non ci fermiamo in città: Chetumal la conosciamo già bene ed abbiamo fretta di raggiungere la nostra meta, che è Mahahual, una spiaggia verso il confine del Belize della quale ho sentito parlare da Michele, un viaggiatore conosciuto in rete che ultimamente mi ha dato varie buone dritte. La strada costeggia le acque turchesi della Laguna Bacalar su cui si affacciano alcune belle ville e prosegue con un’ottima e deserta carrettera che ha sostituito da circa un anno la pessima strada preesistente. Da Chetumal a Mahahual ci sono 160 km che una volta richiedevano 4 ore ed ora si percorrono in due godendosi il paesaggio.

Mahahual è un piccolo agglomerato di costruzioni colorate che orlano una spiaggia bianca con palme e mare turchese da cartolina e vari chilometri di strada costiera punteggiata da gruppetti di cabañas, qualche alberghetto, abitazioni dall’aspetto originale… Da queste parti è facile farsi prendere dal ritmo lento del Caribe come hanno fatto parecchi stranieri arrivati per caso, che qui sono fermati. Ci sono i soliti italiani che hanno aperto un ristorante e americani che hanno investito in bungalow per turisti. Come Janet, un’atletica cinquantenne senza nessun rimpianto per il suo Massachusset. Da sette anni vive sulla costa affittando tre romantiche cabañas, insieme a 8 gatti, 5 cani, una scimmietta, un procione e a Guillermo, il suo compagno scuro come un indio e cerimonioso come un hidalgo.

Atri invece hanno comprato lotti di terreno. C’è chi si è costruito la villetta di stile indefinibile, chi ci ha piazzato la roulotte e chi si è inventato la soluzione bricolage. Come un vecchio bus, una “guagua” colorata poggiata su mattoni che aspetta qualcuno che appena può ci viene a passare le vacanze. In un altro lotto, con un’abitazione artigianale fantasiosa, c’è una targa che dice “Mi Casa”, e sotto un cartello con freccia indica “N.Y. 5640.9 km.” Alle spalle palme, mangrovie e flamboyant a profusione e davanti chilometri di spiaggia non molto larga, ma così tranquilla che si può camminare dieci minuti senza incrociare una persona. Il centro del paese è un tantino più animato: c’è l’unico vero albergo della zona, manco a dirlo gestito da tre ragazzi italiani, una gelateria e qualche ristorantino. Lontano, sulla linea dell’orizzonte si intravede la sagoma di un molo di cemento, una grande e moderna struttura che per molti rappresenta la speranza e per altri l’incognita di Mahahual. Ad alcuni chilometri dal paesino infatti nel 2002 è stato inaugurato un punto di attracco per navi da crociera che per i primi tempi ha funzionato in maniera piuttosto sporadica. Dallo scorso anno invece, dopo che gli uragani hanno danneggiato altre strutture più a nord nello Yucatàn, gli arrivi si sono fatti più frequenti. Oggi le navi attraccano tre o quattro volte durante la settimana e generalmente si tratta dei grandi palazzi sul mare di una nota linea di navigazione americana. Arrivano alle sette di mattina e in pochi minuti riversano sul molo il loro carico di croceristi in bermuda e cappellino a visiera, ansiosi di fare tutto il fattibile e comprare tutto il comprabile. Le navi da crociera ripartono dopo meno di una giornata di sosta, alle quattro del pomeriggio nel paese cala la calma tropicale sonnolenta, come per l’incantesimo di una fiaba. Piero ed io ci sistemiamo in una delle cabañas Cohun Beach della già citata Janet, e per quattro giorni esploriamo questa parte dello Yucatàn che hanno deciso di chiamare Costa Maya tanto per confondere un po’ le idee, dal momento che già esiste una Riviera Maya nella zona di Playa del Carmen… Oltre a Mahahual la spaiggia continua fino all’estremo confine con il Belize, 60 km più a sud, dove c’è Xcalak, che forse non si può nemmeno definire un paese. Anche là ci sono cabañas e un paio di posadas, ma è addirittura troppo tranquillo per i nostri gusti… Nella zona c’è anche la possibilità di soddisfare la mia passione per l’archeologia: scopriamo che ci sono dei siti maya che non sono segnalati neanche dalla Lonely Planet, sono stati infatti aperti al pubblico da pochi mesi. Si tratta di Limones e Chacchoben, che si trovano ad alcune decine di chilometri dalla costa, vicino alla strada per Chetumal. Chacchoben soprattutto è un sito di proporzioni notevoli, con tre grandi piramidi e varie più piccole costruzioni che emergono dal verde mare della selva tropicale, una visone che si coglie bene dalla plaza sopraelevata dell’edificio principale. La mattina in cui lasciamo Mahahual mi rendo conto che questo posto mi mancherà, ma il Belize ci aspetta e spero di trovare altre spiagge e altre atmosfere di cui innamorarmi. Intanto lascio qui un altro pezzetto di cuore… Torniamo a Chetumal dove riconsegniamo la macchina al noleggiatore, ma quando andiamo alla central camionera per prendere il bus per il Belize scopriamo che oggi è impossibile partire, a causa di una festa nazionale tutte le corse sono state prese d’assalto dai beliziani che rientrano in patria per festeggiare e per oggi non c’è un buco libero! Non ci rimane che passare un pigro pomeriggio nella piscina dell’albergo Los Cocos e a passeggio per la città, ma la mattina dopo prendiamo posto nella prima corsa per Belize City senza problemi. Sono tre ore e mezzo di viaggio, compresa la sosta al confine e il controllo dei bagagli, mirato soprattutto ad evitare l’introduzione di frutta messicana in Belize: chi ne è trovato in possesso è condannato al sequestro o a mangiarsela immediatamente davanti al funzionario doganale… Appena passato il confine la differenza si avverte: c’è più tropico, più colore, più Caribe. La vegetazione è ricca di palme e le rare casette sono di legno e non di muratura, colorate e graziose, e anche quando sono poverissime non sembrano mai squallide. Il bus fa sosta a Orange Walk e a Belmopan, la capitale che è grande come un nostro paese, e alle due e mezzo entriamo a Belize City, la metropoli da 50.000 abitanti. La prima impressione che ho avuto ritrovandola dopo 4 anni è stata di un posto più ordinato e pulito di quanto ricordassi. In ogni caso non è una bella città, a parte la zona di Fort George, il bel quartiere di case coloniali caraibiche, ariose e leggere nei loro colori pastello, con le verande piene di felci e poltroncine di vimini. Proprio in una di queste belle case di legno trasformata in albergo, lo Chateau Carribean, troviamo una splendida camera affacciata sull’oceano che ci fa passare il dispiacere di non aver trovato posto nella vicina Great House, dove avevamo alloggiato l’altra volta. In compenso riusciamo a tornare a cena alla Smoky Mermaid, ed è sempre all’altezza dei bei ricordi. La mattina successiva siamo di nuovo in bus per raggiungere Cayo San Ignacio, che non è un’isola, ma anzi è lontano dalle rive dell’oceano. Al contrario si trova in una vallata, a circa 1000 m. Di altitudine, ma è delimitato da due fiumi che lo rendono un po’ un isolotto in un mare di selva tropicale. Si trova al centro di una delle zone più densamente abitate dai Maya, e nel raggio di qualche decina di chilometri ci sono una gran quantità di rovine, grotte, luoghi di culto. Dopo due ore e mezzo arriviamo al paese, e dopo qualche difficoltà troviamo posto al Cahal Pech Village, a qualche chilometro di distanza. L’albergo è formato da un corpo centrale e da una dozzina di capanne maya molto suggestive, ed è un buon compromesso tra i ricchissimi resort sparsi nei dintorni (che però vengono venduti in pacchetto con tutti i pasti e le escursioni) e le pensioncine spartane del centro del paese. Ci fermiamo a San Ignacio per tre giorni, durante i quali facciamo una vera overdose di archeologia maya. Il primo sito visitato è Cahal Pech, che occupa la stessa collina su cui si trova il nostro albergo, l’ingressso è a non più di 50 metri dalla cabaña. Poi c’è Xanantunich, a una mezz’ora di viaggio prendendo un bus al volo sulla strada principale. Quando si arriva bisogna attraversare il fiume con una chiatta manovrata a manovella e camminare poi per due chilomeri in salita. Ma la bellezza del paesaggio e l’imponenza degli edifici terrazzati ripaga ampiamente delle fatiche. Per fortuna il clima non è troppo caldo e di notte nella capanna c’è perfino bisogno di una coperta leggera. Infine c’è il sito più spettacolare, Caracol, che richiede un’escursione di un’intera giornata. Secondo la Lonely Planet ci sarebbero volute due ore di strada terribile e piena di buche, e questo ci ha indotto a rivolgerci all’albergo per un’ecursione con una guida e un fuori strada. In realtà il pezzo veramente pesante dura solo tre quarti d’ora, ma una buona guida è importante perché il sito è veramente enorme e senza nessuna organizzazione per i visitatori, a parte i bagni. Bisogna portarsi cibo e bevande perché attualmente non esiste un posto di ristoro. Secondo alcuni archeologi questo era il più grande tra tutti i centri maya, con migliaia di edifici e centinaia di migliaia di abitanti; le costruzioni principali non sono alte come a Tikal – che fra l’altro dista solo 47 km. In linea d’aria – ma forse sono più voluminosi e imponenti. La strada da Caracol a San Ignacio attraversa tratti di selva meravigliosi, ma quando sale a Pine Ridge finisce l’incanto: quella che doveva essere una splendida pineta alcuni anni fa è stata attaccata da un parassita ed ora è ridotta ad uno steccato di tronchi spogli e intristiti. Dopo molti chilometri attraverso questo fantasma di ciò che fu un bosco si torna finalmente alla selva tropicale opulenta, ed è là che si trova il famoso Blancaneaux Lodge, la stupenda residenza di Francis Ford Coppola da qualche tempo trasformata in rifugio d’elite. A noi basta un caffè sotto le grandi pale che si sussurra portate qui dal set di Apocalyps Now e torniamo nel nostro stle di viaggio, meno esclusivo ma forse più rilassante… Finita la parentesi archeologica e culturale è tempo di ritornare a godere del sole del Caribe. Alle 9 del mattino il bus lascia San Ignacio, la vecchia corriera colorata va a tutta birra al ritmo di musica reggae e in 1 ora e 40 siamo a Dangriga, in tempo per la coincidenza per Placencia, dove arriviamo alle due del pomeriggio. La strada finisce a un passo dal mare, a destra e a sinistra c’è solo spiaggia, non esistono più vie asfaltate ma solo bungalow e capanne di legno disseminate fra le palme da cocco. Dopo breve ricerca troviamo i bungalow South Water, in muratura, bianchi dentro e fuori, con il ventilatore sul letto e il mare a cinque metri dalla porta. Abbiamo preso uno dei tre bungalow dalla señora Maria e abbaimo cominciato a non fare nulla. Per cinque giorni non facciamo altro che stare sulla spiaggia, prendere il sole che per fortuna è sempre stemperato da una deliziosa brezza, fare il bagno nelle tiepide acque del Caribe. La spiaggia è tranquilla e quasi deserta, e anche se i lodge sono quasi tutti pieni, soprattutto di americani, la gente si diluisce, si stempera nell’ambiente e Placencia rimane immersa in un’atmosfera ovattata. Anche qui naturalmente non può mancare la mini colonia di italiani, e così conosciamo i proprietari della gelateria Tutti frutti, e Cris che cucina magnifiche fettuccine ai gamberi, e infine Alessandra, che lavora in un piccolo hotel e dal Belize ha avuto in regalo sua figlia Frida. In un impeto di sportività un giorno noleggiamo due biciclette per vedere le spiagge in fondo alla baia e così arriviamo di nuovo sulle tracce di F. F. Coppola, che da queste parti ha il suo secondo albergo. Il Turtle Inn è un posto magnifico, ancora più bello del Blancaneaux, con i suoi legni intagliati e le ariose palapas, il parco rigoglioso ma preciso, l’atmosfera lussuosa senza essere pacchiana. Un unico difetto: lo stile tropical-asettico non ben individuato, tanto che non si sa bene se ci si trova a Lombok o ad Anguilla… Ancora una volta mi sento più a mio agio nei piccoli chioschi di Placencia a bere cocco e mangiare nacho chips.

Da Placencia ripartiamo con la promessa di ritornare in questa angolo di delizia tropicale e ripercorriamo all’indietro un tratto di costa fino a tornare a Dangriga, una cittadina un po’ più grande di Placencia, meno turistica e più cadente. Gli abitanti sono prevalentemente neri Garifuna, la città è piuttosto povera e circola molto crak. L’atmosfera non è quella rilassante di Placencia, ma c’è un albergo che da solo vale la sosta. Il Pelican Beach è un po’ fuori dall’abitato, affacciato su una spiaggia quasi tutto ombreggiato da bellissime palme da cocco. E’ una suggestiva costruzione di legno a due piani, con grandi stanze affacciate su verande accarezzate dalle brezze dell’oceano. A Dangriga oltre a Pelican Beach ci sono due altre “attrazioni”, e in tutti e due i casi si tratta di persone più che di luoghi. Una è Maria Sharp, l’inventrice della salsa piccante che non manca mai su nessuna tavola di ristorante o casa privata del paese, e l’altro Benjamin Nicholas, il più celebre pittore del Belize. Andiamo in pellegrinaggio da tutte e due queste celebrità nazionali, ma mentre torniamo dalla piccola fabbrica di Maria pieni di salsine e conserve acquistate per gli amici, l’incontro con il pittore termina senza un quadro da riportare in Italia come ricordo. Tutte le tele che ho visto nella sua casetta erano già prenotate o non invendita, ed è un vero peccato perché erano davvero notevoli.

Da Dangriga ritorniamo verso il Messico, ma questa volta in volo. Una piccola avioneta a elica ci porta a Corazal, sorvolando prima la grande distesa della selva poi le acque cristallline del Caribe. Sorvoliamo anche Ambergris Caye e Caye Caulker dove siamo stati in passato e speriamo un giorno di ritornare.

Da Corazal arriaviamo per via terrestre, in colectivo, a Chetumal, e là di nuovo si decolla per Città del Messico.

Sembra incredibile ma tutti i tempi si incastrano a perfezione, e senza nessuna prenotazione riusciamo ad arrivare alla capitale in tempo per andare al Terminal Oriente dei bus TAPO. Da là prendiamo una delle frequenti corse di prima classe che in due ore ci porta a Tlaxcala. La periferia non è delle più invitanti, ma man mano che ci avviciniamo al centro storico di questa piccola capitale del più piccolo stato del Messico mi accorgo del suo fascino. Lo Zocalo, la piazza principale, è uno dei più belli del paese, che pure ne conta a centinaia, con il quadrilatero di antichi palazzi con i portici, la cattedrale, i giardini e i bar da cui guardare il passeggio. Proprio qui sulla piazza c’è l’albergo che abbiamo scelto, la Posada de San Francisco, un piccolo gioiello coloniale che ci accoglie con una bella stanza affacciata sul patio con la piscina. Il posto ci piace tanto che decidiamo di fermarci qui qualche giorno e di usare la città come base per vedere vari posti nel raggio di qualche decina di chilometri. Per cominciare che Cacaxtla, un sito archeologico che si raggiunge con una corsa in bus di 40 km. La campagna qui è completamente diversa dallo Yucatàn, un altipiano arido con piccoli paesi in cui abbondano ancora asini e cavalli e gli uomini usano stivali e cappello charro. Sullo sfondo enormi vulcani e montagne di 5000 metri e più, tra cui il Popocatepetl, su cui spicca il bianco dei ghiacciai. Cacaxtla è quanto resta di una città abitata da una misteriosa popolazione, una tribù contemporanea e nemica degli Aztechi che ha sorprendenti affinità culturali con i Maya. Il sito archeologico è dominato da un’imponente costruzione che da lontano ha un impatto piuttosto negativo. Infatti le rovine sono state protette da una struttura moderna che somiglia ad un brutto stadio coperto, ma man mano che ci si avvicina e si sale sulle rampe e le scale di legno che formano un percorso obbligato per visitare le rovine si viene presi dalla bellezza dei resti. Si scopre una grandissima cittadella fatta di scalinate che portano a plazas su cui si aprono abitazioni, vari livelli di edifici e piattaforme. Ma a parte l’interesse per la grandezza dell’insieme c’è la sorpresa dei meravigliosi affreschi che compaiono qua e là; alcuni solo in frammenti ma altrove scene quasi complete, dipinte con colori vivi e luninosi in cui il turchese abbaglia., immagini di uomini giaguaro, uccelli, scene di battaglia. Un altro sito archeologico sull’altipiano, a pochi chilometri da Cacaxtla, è Xochitecatl, con le strutture piramidali più rozze ma imponenti.

Poi ci dedichiamo ai mercati, il sabato è il giorno di quello di Tlaxcala, bello e colorato come tutti i mercati messicani, e la domenica invece andiamo a Puebla. Questa famosa città coloniale dista solo 32 km. E si raggiunge velocemente con una delle tante corse di bus. Piero ed io la conosciamo già e quindi non andiamo a visitare le sue innumerevoli chiese e i tanti edifici coloniali che ne hanno fatto una delle location preferite per tanti film (anche molte scene di “Frida” sono state girate qui), ma questa volta ci dedichiamo ad uno dei miei sport preferiti: la caccia alle curiosità nel mercatino dell’antiquariato. E anche questa volta riesco a non tornare a mani vuote perché fra i banchi della deliziosa Plazuela de Los Sapos scovo qualche milagro per la mia collezione, vecchi manifesti cinematografici, un bel paio di orecchini d’oro basso e perline, i più bei ricordi di viaggio che si possano acquistare.

Infine dopo quattro piacevoli giornate lasciamo Tlaxcala per ritornare a Città del Messico. Prima di rientrare in Italia ci restano un paio di giorni per incontrare amici e scoprire cosa c’è di nuovo nella città più grande del mondo. Questa volta decidiamo di provare l’Hotel de Cortes, dato che l’ho sempre visto passandoci vicino e mi era sembrato interessante. La struttura è molto bella, un antico edificio con due piani di camere affacciate su un delizioso patio dove c’è il ristorante, ma questo è anche il suo svantaggio perché le stanze sono piccole e bisogna stare con le finestre chiuse se non si vuole dare spettacolo… La posizione comunque è perfetta, vicina a tutti i punti più interessanti del centro città. Tra l’altro senza saperlo ci ritroviamo nel cuore dei festeggiamenti per il bicentenario della nascita di Benito Juarez, che partono dall’Alameda, proprio davanti all’albergo, così veniamo coinvolti in una serie di manifestazioni colorate e vivacissime con balli popolari, sfilata in costume e incontro con un perfetto sosia del presidente indio a cui stringere la mano. Lucero e Tatiana, le mie amiche messicane, ci portano a scoprire locali di ogni genere nei quartieri più “trendy”; dalle cantinas a librerie bellissime dove si mangia e si fa cultura a Condesa e Polanco c’è di tutto. Ci portano anche a scoprire Santa Fe, un quartiere nuovissimo con un’architettura audace ed grandi originalissimi edifici che ricordano la Defance di Parigi. Sono sempre più convinta che Città del Messico sia una capitale affascinante e piena di posti interessanti e belli che fanno passare in secondo piano le brutture inevitabili in una megalopoli. Siamo così arrivati alla fine del viaggio: quasi quattro settimane volate via come sempre troppo in fretta. E in aereo, sfogliando giornali e riviste di bordo comincio già a fantasticare sul prossimo itinerario…



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