Luna di Ceylon: honeymoon nella terra di Simbad
Dopo le presentazioni, Siri ci lascia per andare a prendere l’automobile. Nei pochi minuti di at-tesa abbiamo il tempo di fuggire atterriti agli assalti di mille questuanti che si offrono per qual-siasi servizio. Il resto delle (poche) energie rimaste dopo un viaggio che, tra voli e scali è durato quasi 16 ore, lo dissipiamo nel tentativo di rimanere svegli e di tenerci attaccati alle valigie nel poco nobile timore che dietro ogni viso straniero si nasconda come minimo un borseggiatore. Una volta al sicuro nella confortevole Toyota di Siri, ci concediamo finalmente un po’ di riposo mentre il nostro autista si sforza di intrattenerci in un’improbabile conversazione multi-lingue.
È solo dopo un bel po’ che ci rendiamo conto che quello strano idioma altro non è che un ten-tativo di italiano. Ci ricordiamo, in effetti, che il tour era previsto nella nostra lingua e non in inglese (in effetti, trattandosi – letteralmente – di “guida parlante italiano”, non era forse lecito aspettarsi di più).
Ad ogni modo, dopo 16 ore seduti, con la gambe che sono tronchi e i piedi gonfi come caciotte, non c’è niente di meglio che una sana passeggiata tra le rovine di ANURADHAPURA, antica ca-pitale dello Sri Lanka e prima meta del nostro viaggio. L’unico problema è che da Anuradhapu-ra ci separano 250 Km: un tragitto che su una normale autostrada verrebbe coperto in un paio d’ore ma che qui in Sri Lanka richiede almeno 6 ore di automobile.
E qui è necessario aprire una prima parentesi su cosa significhi girare in macchina in Sri Lanka.
La buona notizia è che è impossibile sbagliare strada perché, praticamente, la strada è una so-la che procede un po’ a casaccio toccando più o meno le principali zone del paese. La cattiva notizia è che anche gli automobilisti più indisciplinati del mondo si troverebbero in serio imba-razzo di fronte ai ben più smaliziati guidatori cingalesi. Quello che colpisce è anzitutto l’incredibile varietà di veicoli che si affastellano su questa minuscola lingua semi-asfaltata che taglia delicatamente la fitta foresta cingalese: camion, macchine, ciclisti, pedoni, ma anche vacche, scimmie, elefanti. L’approccio è identico per ciascuno di questi sfortunati avventori e potenziali ostacoli lungo il cammino: robuste clacsonate, slalom lungo la corsia (?) di sorpasso, attimi di brivido, rientro in carreggiata. Questo ciclo di operazioni si ripete senza sosta lungo l’intero percorso. Vi assicuro però che dopo la trentesima o quarantesima volta che hai dato la tua vita per spacciata si comincia ad acquisire una progressiva noncuranza che ti consente an-che, a tratti, di goderti il panorama dal finestrino interrompendo la recita del rosario.
Siri, in ogni caso, deve aver capito dalle nostre facce che l’idea di chiuderci per 6 ore in auto-mobile non era di quelle che ci entusiasmasse particolarmente. Ci ha quindi concesso una tap-pa intermedia dove potersi fermare e gustare (comodamente seduti, tanto per cambiare) un ottimo pranzo locale.
E qui è d’obbligo un’altra parentesi di natura culinaria. Ah, il cibo! Croce (e delizia?) tutti i viaggiatori nostrani, riconoscibili in ogni ristorante del mondo per quell’espressione di chi sem-bra sempre alla ricerca della tagliatella perduta. Noi però, non cadremo nella trappola, ci siamo detti convinti all’inizio del viaggio: se immer-sione in una cultura nuova deve essere, che immersione sia, magari cominciando proprio dalla cucina. Se si escludono, quindi, alcune raccomandazioni di base (niente cibo che non sia stato preventivamente cucinato in acqua bollente), altre ricavate dalle guide tascabili (niente latte e derivati), qualche doverosa limitazione per motivi di gusto (niente troppo piccante, che vengo-no le emorroidi), ambientale (niente pesce) o congiunturale (niente polli o volatili per via dell’influenza aviaria). Tutto il resto, pensiamo compiaciuti, sarà nostro.
Riso, acqua (in bottiglia) papaia: il “resto” praticamente è tutto qui, salvo sporadiche e timide incursioni (prontamente redarguite dai nostri stomaci fin troppo permalosi) verso orizzonti cu-linari appena meno limitati. Una dieta che Gandhi avrebbe forse giudicato un po’ severa.
Ad ogni modo, dopo un numero imprecisato di ore e a stomaco semi-vuoto, arriviamo final-mente ad Anuradhapura. Cosa abbiamo visto di quel luogo francamente proprio non saprei dir-lo. Resta il ricordo di una visita fugace, condotta in stato di semi-trance per la stanchezza e il caldo opprimente.
Per fortuna uno splendido resort (il primo di una lunga serie) ci attendeva per la sera con tutti i confort e i servizi che solo l’ospitalità orientale sa offrire, per garantirci finalmente il meritato riposo.
Non abbastanza meritato, evidentemente, per il nostro Siri che, con ineffabile sorriso (ma ci prenderà per il culo?) ci annuncia per l’indomani un’agghiacciante sveglia alle ore sei.
Con la certezza che, toccato il fondo, non si possa che risalire, ci chiudiamo mestamente nella nuova dorata fortezza del resort per una bella doccia ristoratrice e un ricco sonno riparatore. L’unico conforto ci viene però dalla constatazione che al peggio non c’è mai fine: l’acqua della doccia esce infatti in quantità miserrime e ad intervalli sconfortanti.
Rassegnati, dopo una cena frugale a base di riso al cartone e papaia, ci resta solo da affrontare l’ultima battaglia con un insetto non identificabile dal ronzio minaccioso (subito classificato da Simona come creatura pericolosa e molesta, potenzialmente mortale). Una battaglia, inutile dirlo, destinata alla sconfitta ma che ci tiene impegnati a lungo. È notte inoltrata quando crol-liamo, sfiniti.
1 ottobre Ci svegliamo comprensibilmente rintronati e con un vago senso di spaesaento. Fuori, la vista del piccolo parco del resort è sufficiente a farci sentire in un romanzo di Salgari. L’aria è calda e pesante e ovunque si sentono suoni e rumori di foresta mai sentiti prima: cinguettii frenetici, passi di scimmia sui tetti e sugli alberi, noci di cocco che cadono. Dopo una parca colazione (tè e cose strane tipo frittelle), troviamo il nostro Siri già pronto, sorridente e fresco come una rosa.
Oggi ci attende la famosa rocca di SIGIRIYA, la “fortezza nel cielo”. Si tratta di un imponente monolito naturale alto quasi 400 metri sulla cui estremità un antico re dello Sri Lanka (ma non chiedetemi il nome perché sarà lungo almeno 24 sillabe) fece co-struire una città fortificata, che poi fu rasa al suolo in una delle tante guerre con l’India.
La Lonely Planet (fedelissima compagna di viaggio) la butta giù pesante: un’ascesa ardua e impervia, sconsigliata ai meno coraggiosi e a chi soffre di vertigini.
È quindi con un certo sollievo che, una volta arrivati sul posto, scopriamo che il terrorismo psi-cologico della guida (e non sarà la prima volta) si rivela fortunatamente infondato.
La rocca è alta e battuta da forti venti ma, sarà quel pizzico di Indiana Jones che alberga in ognuno di noi, sarà la scala in ferro di origini coloniale, fatto sta che ci avventuriamo senza troppi timori verso la vetta.
Ci accompagna una seconda guida, con ogni probabilità un parente o amico di Siri che non perde occasione per contribuire con le nostre mance (ma cosa volete che sia qualche cento-ventesimo di euro) a sfamare amici, parenti, conoscenti: in pratica un cingalese su due (l’altro sarà appannaggio dei Viaggi del Ventaglio).
La salita, lungo gli incerti scalini a strapiombo sul nulla, è accompagnata da incoraggianti esor-tazioni di altre guide locali che, al motto di «chi piano, sano lontano» ci spingono senz’altro a non demordere (e si ripropone l’antico dilemma: perché a noi italiani ci riconoscono lontano un miglio anche se stiamo zitti e non abbiamo l’Invicta a tracolla? Boh?).
Sulla sommità, i resti dell’antico palazzo sono talmente miseri che neanche la fantasia della nostra guida (che, scopriamo con rammarico, parla italiano molto meglio di Siri!) riesce ad ammantarli di particolare interesse. La vista da lassù, però, è davvero mozzafiato. La rossa roccia di Sigiriya si staglia compatta e grandiosa su un orizzonte rivestito da una foresta tropicale verde e lussureggiante. L’impressione da qui (e non solo da qui) è che lo Sri Lanka non sia altro che un grande polmo-ne verde, appena intaccato dalla presenza discreta e nel complesso piuttosto insignificante dell’uomo. Un uomo che, evidentemente, ancora considera il rispetto e l’integrazione con l’ambiente un’esigenza naturale e non un vezzo da ecologista di maniera come in Occidente (obiezione fin troppo facile: è solo che qui non è ancora arrivato il famigerato progresso, sennò altro che natura selvaggia. Sarà, ma a noi piace comunque pensarla in modo più romantico).
Nonostante il caldo e la fatica, quindi, Sigiriya viene promossa a pieni voti come una di quelle diapositive mentali che sai di non poterti permettere di dimenticare.
È con animo sollevato, quindi, che ci prepariamo all’incontro con uno dei personaggi più impor-tanti del Paese: Buddha.
Nel pomeriggio siamo infatti a POLONNARUWA, seconda antica capitale dello Sri Lanka e terzo punto del cosiddetto “triangolo culturale”, un percorso che attraversa il cuore dell’isola tra le vestigia del passato. Durante il viaggio, abbiamo modo di osservare degli imperdibili gruppi di bambini che si recano a scuola con le loro bianche divise coloniali. Ci sarà forse un po’ di stupi-do retaggio del mito del buon selvaggio in questo nostro curiosare indiscreti, ma lo spettacolo che offrono questi bambini e davvero straordinario. Si muovono con estrema grazia e compo-stezza, hanno visi dolcissimi, occhi grandi e capelli nerissimi; si riconoscono lontano un miglio per quelle divise impeccabili che brillano come oro nei villaggi dove la stragrande maggioranza delle persone è scalza e seminuda, un po’ per il caldo, un po’ per la miseria. Sotto il braccio hanno al massimo un vecchio libro o un quadernetto stropicciato, unico strumento di cono-scenza che la povertà concede loro. Lo avevamo letto e ne troviamo conferma: i cingalesi han-no uno sguardo che, a dispetto delle loro condizioni di vita, trasuda armonia, serenità e soprat-tutto una grandissima dignità.
Non saprei dire quanto di questo atteggiamento sia ascrivibile al buddismo, religione maggiori-taria in Sri Lanka (dove però convivono, finora, in armonia anche tutte le altre grandi religioni monoteiste). Certamente, però, gli insegnamenti buddisti (pur se variamente interpretati nel mondo e nello stesso Sri Lanka) hanno un peso non indifferente sulla cultura di questo popolo.
Abbiamo modo di sperimentarlo di persona proprio a Polonnaruwa dove, dopo la solita visita ai soliti resti del solito palazzo reale (ragazzi ma noi veniamo da Roma, siamo ormai immuni al fascino dei reperti archeologici) ci siamo trovati di fronte un’imponente parete di granito, larga non meno di 30 metri e alta almeno 10. Scolpiti nella roccia, a far bella mostra di sé da centi-naia di anni, stanno tre buddha che dominano la vasta pianura circostante creando un’atmosfera mistica ed elettrizzante. Si tratta del famoso Gal Vihara, il “Tempio di roccia” Ci avviciniamo piano, timorosi di turbare anche solo con i gesti la quiete e l’armonia che regnano sovrani. Scalzi (segno doveroso di devozione, necessario in tutti i templi), con i piedi che strofinano incerti la terra rossissima, e circondati da decine di scimmie che ci guardano incuriosite tutto intorno. Di fronte alla roccia si rimane inevitabilmente colpiti dall’immobilità delle pose, rafforzata dalla possanza del granito.
Siri ne approfitta per tentare di avvicinarci ai precetti del buddismo che, chiarisce subito, non è una religione ma una filosofia e quindi chiunque può seguirne le indicazioni a prescindere dalla propria religione di appartenenza. A parte questo concetto base e una generica indicazione a vivere calmi e tranquilli e non maltrattare gli animali perché potrebbero essere nostri parenti o amici reincarnati, dei meravigliosi insegnamenti del nostro Siri-Siddartha (che pure ci sforzia-mo di seguire con la massima attenzione) ci rimane purtroppo ben poco. La consueta difficoltà comunicativa infatti, nonostante i reiterati e commuoventi tentativi di ulteriore approfondimen-to che ci accompagneranno per il resto del viaggio, continua a frapporsi insormontabile tra di noi. Dopo goffi e inutili tentativi, in effetti, i nostri dialoghi si riducono presto a miserevoli scambi di battute tipo “Caldo, eh?”, oppure “Bello, eh?”, cui rispondiamo rassegnati con un amaro “Caldo, molto caldo” e “Bello, molto bello” (presente anche nella variante più complessa di “Interessante, molto interessante”). A rendere se possibili ancora più surreale i dialoghi ci pensa il buon Siri con incursioni inintelligibili su quella che definisce “Doctrina Budda pilosopia” che noi seguiamo con espressioni ebeti e lo sguardo perso nel vuoto.
In serata, siamo di nuovo in macchina per raggiungere KANDY, terza (ed ultima) antica capita-le e tappa finale del nostro triangolo culturale.
Ci aspetta l’Ayala Lake, un resort di una bellezza davvero sconfinata dove ci attende una villa più grande del nostro appartamento romano con vasca, doccia angolare in cristallo temperato, doppio lavabo in stile orientale, frutta tropicale e fiori freschi a comporre vezzosamente la scritta Happy wedded life. Insomma, ce n’è abbastanza per gonfiare i nostri meno nobili istinti e calarci per un momento nella parte dei ricchi colonizzatori occidentali.
2 ottobre Le attrazioni principali di Kandy (una città che per il resto ci è apparsa rovinata da confusione e turismo decisamente non in tono con il resto dell’isola) sono, anche stavolta, legate al culto di Buddha.
La prima è il famoso Tempio del dente – il Dalada Maligawa – una splendida chiesa sulle rive del lago che conserva il canino superiore più famoso del mondo. Qui ogni anno in agosto si compie la processione del Perahera, una delle più sfarzose, solenni e colorate al mondo, dico-no. Il dente di Budda viene portato sul dorso di un elefante meravigliosamente decorato, se-guito da altri elefanti, fra ali di folla stupefatta. Naturalmente sulla possibilità che lo scrigno tempestato di pietre preziose (che a sua volta rac-chiude 7 contenitori d’oro uno nell’altro) conservi effettivamente la preziosa reliquia è lecito nutrire più di un dubbio. Ma, si sa, tutto il mondo è paese, e allora ecco che anche qui, come un Divino amore qualsiasi, si affollano fedeli in adorazione. Con la (non trascurabile) differenza che non c’è nessuno a chiederti offerte per il sostentamento dei monaci e gli unici doni che i fedeli portano con sé sono fiori di loto da donare al Budda e le proprie mani da unire in medi-tazione davanti alle sue statue. Registriamo il commento di Siri che bolla come puro esibizioni-smo gli inchini e le preghiere in pubblico da parte dei fedeli, atteggiamenti che ritiene in insa-nabile contraddizione con la “Doctrina Budda pilosopia” che richiede invece di meditare nel più assoluto silenzio e solitudine. Tant’è. A noi però, abituati a ben peggiori esibizioni di sedicenti fedeli, lo scenario non disturba più di tanto e ci colpisce il grande rispetto e la dignità nei modi e nei gesti da parte di tutti gli avventori del sacro tempio.
Ancora più affascinante, però, si rivela la seconda meraviglia di Kandy. Si tratta del Tempio di Dambulla, situato nelle immediate vicinanze della città. Una sequenza di cinque grotte scavate nella roccia dove sono custodite oltre 150 statue del Budda, la più grande di oltre 15 metri. Ci aiuta in questo caso la scarsissima presenza di turisti e la veduta spettacolare dall’altopiano che domina una vallata lussureggiante che si perde oltre l’orizzonte. Lungo la scalinata si in-contrano solo scimmie dispettose, monaci nei loro tradizionali sahri arancioni e, soprattutto, mendicanti di ogni tipo. Dopo aver lasciato, come di consueto, le nostre scarpe al guardiano di turno ci godiamo, scalzi, una visita terribilmente suggestiva in cui ci si potrebbe facilmente immaginare di essere tra le alture del Nepal (per come uno normalmente si può immaginare il Nepal, naturalmente), tanto è suggestiva e mistica l’atmosfera tutto intorno.
Scesi dalle vette geografiche e spirituali, il panorama a terra ben si adatta alla differenza di al-titudine. Domina infatti la piazza sottostante un agghiacciante museo del buddismo, decorato con i peggiori ritrovati del buddismo kitsch stile ristorante cinese: zanne, elefanti e, a sormon-tare il tutto, un enorme Budda di oltre 30 metri completamente dorato. Compensa (parzialmente) il terribile spettacolo una deliziosa scolaresca di un centinaio di stu-denti in uniforme che, guidati dai loro maestri, si dedicano alle esercitazioni spirituali.
Il resto della visita di Kandy se ne va nel peggiore dei modi, tra pacchiani negozi di gioielli, fin-te botteghe di falegnami e acquisto forzato di batik. Insomma, tutto il kit del perfetto turista-pollo cui evidentemente non ci si può esimere anche a migliaia di chilometri da casa. Il risulta-to, come era prevedibile è una noia mortale e un portafoglio assai più leggero.
Il fondo lo tocchiamo nel tardo pomeriggio quando, praticamente senza accorgercene, veniamo catapultati sul dorso di una povera elefantessa (Katy, 23 anni e una faccia dolcissima) che vie-ne costretta a portarci a spasso in una palude mentre uno degli accompagnatori ci scatta foto a ripetizione. Davvero, uno dei momenti più tristi dell’intero viaggio.
Per fortuna la sera ci aspetta il solito sfolgorante resort che continua a cozzare terribilmente con la povertà della regione ma di cui ormai quasi non possiamo più fare a meno per la squisi-ta ospitalità e la grazia cortese e discreta di posti e persone. Stavolta, poi, facciamo la cono-scenza di uno stravagante personaggio, in servizio a tempo pieno presso il resort come lettore della mano e chiromante. La sua previsione di uno sfolgorante futuro per entrambi (ma non c’era verso di convincerlo che Simona non aveva nessun male alla gamba o alla testa o al braccio) ci accompagna con irrazionale sollievo verso la notte cingalese.
3 ottobre Oggi si cambia aria, in tutti i sensi.
Lasciamo alle nostre spalle le rossi pianure meridionali per addentrarci nell’entroterra dello Sri Lanka, sugli altipiani di NUWARA ELIYA (il cui nome significa “Sopra le nuvole”), una delle più vaste e prestigiose piantagioni di tè del pianeta. Dove poteva trovarsi del resto, se non in Sri Lanka, l’antica Ceylon? Dopo le prime due ore di macchina (saranno 5 per la sola andata quindi, inutile dirlo, sveglia alle sei) si avvertono già i primi cambiamenti: l’aria si fa meno torrida, la vegetazione tropicale lascia il posto a quella d’altura, il panorama cambia rapidamente man mano che lasciamo i tor-nanti alle nostre spalle. Finché cominciano a scorgersi all’orizzonte le caratteristiche colline verdeggianti di freschi arbusti di tè. Sono migliaia e migliaia di ettari che ricoprono lo sguardo fino all’orizzonte. Lungo i declivi coltivati si affacciano decine e decine di piccole donne intente nella raccolta delle foglioline più verdi (quelle che verranno utilizzate per l’essiccazione) armate solo del tradizionale cestone che portano sulla schiena e legano alla testa.
Siri ci garantisce che, benché la raccolta sia effettuata esclusivamente da donne, gli uomini hanno la loro parte nel lavoro (la parte più dura, dice lui, ma non sarei pronto a giurarci).
Le piantagioni furono un’invenzione degli inglesi (l’unica positiva, a detta di molti cingalesi) che ben individuarono in queste dolci colline baciate dal sole le condizioni migliori per la coltivazio-ne di questa spezia così importante.
Qui, nelle numerosissime fabbriche di raffinazione che ogni giorno lavorano tonnellate di pian-te, si riforniscono le principali marche di tè che siamo abituati ad acquistare nei nostri super-mercati. La nota dolente la si scopre presto: i tè destinati all’esportazione non sono sempre di prima scelta e, in ogni caso, da uno stesso stabilimento si riforniscono più compagnie di tè. Ri-sultato, ci spiega in breve la guida locale: “One tea, more brands” (e che ci serva di lezione quando stiamo lì a scervellarci tra lipton e twinings).
Finita la visita (e riempitigli zaini di tè profumati soprattutto nel prezzo) si torna verso le pianu-re sottostanti.
Destinazione PINNAWELA, per uno di quegli spettacoli che decisamente solo lo Sri Lanka può offrire: l’orfanotrofi odegli elefanti.
Pinnawela è un angolo di savana nel cuore della foresta, a metà tra uno spettacolo del National Geographic e un’attrazione per i turisti. I protagonisti, naturalmente, sono loro: una trentina di giovani e giovanissimi elefanti (Grinza, il più piccolo, ha solo 12 giorni e uno sguardo spaventa-to che ti strappa il cuore) orfani, smarriti o in difficoltà che qui vengono svezzati, cresciuti e poi (ahinoi, non c’è scelta) avviati al “lavoro”.
Il bagno degli elefanti sulle rive del fiume, al netto degli eccessi di spettacolarizzazione ad uso e consumo dei (pochi) turisti, è uno spettacolo incantevole, destinato a rimanere impresso nel-la memoria per lungo tempo. Verrebbe voglia di non cedere alla messinscena turistica, ma davvero guardare muoversi e giocare questi enormi pachidermi non può lasciare indifferenti.
La sera si cambia di nuovo scenario. Sulle alture di Nuwara Eliya ci attende infatti un cottage in perfetto stile coloniale inglese che ci riporta prepotentemente indietro nel tempo e nello spazio tanto che sembra uscito da una cartolina della Scozia di due secoli fa. La stanza a due piani è completamente in legno, con tanto di angolo arredato per il tè e torta “Happy w’ding” (imman-giabile) con vista sul cielo improvvisamente grigio e freddo. Un enorme letto vittoriano ci acco-glie per una notte ristoratrice delle mille fatiche ed emozioni della giornata.
4 ottobre Dopo l’ormai consueta levataccia mattutina ci attende l’ultimo giorno di tour, che accogliamo con quel pizzico di rammarico che accompagna la consapevolezza che ogni cosa bella è desti-nata a finire. Non poteva finire in modo peggiore, però. La meta finale, infatti è Colombo, la capitale dello Sri Lanka che neanche le guide turistiche più entusiastiche riescono a descrivere come interessante. Le classiche 5-6 ore di macchina sono accompagnate stavolta da traffico, code e smog che neanche Roma all’ora di punta. Siri si ostina a definire Colombo come una cit-tà “moderna” non nascondendo una punta di soddisfazione come a dire “Vedete? Anche noi abbiamo la nostra Las Vegas”. In realtà, la città assomiglia più a una megalopoli da terzo mondo, con meno abitanti che fanno però lo stesso casino.
La visita “en route” (cioè, tanto per cambiare, in macchina) della città è una violenza a cui sta-volta non ci sentiamo di accondiscendere. Ci facciamo quindi lasciare nell’ultimo Hotel (il Trans Asia, un terribile albergone per congressi con vista sulla zona industriale) e lì attendiamo in ri-poso le ultime ore che ci separano dalla partenza. La sveglia stavolta è ad un ora talmente im-probabile che dobbiamo farcela ripetere in più lingue: le 3 e trenta del mattino, che dopo un po’ di contrattazione diventano le 3.45. Oltre, Siri non è disposto a concedere.
5 ottobre E forse stavolta, il povero Siri non aveva tutti i torti. Due ore e mezza sono in effetti il tempo minimo da mettere in conto per sperare di superare indenni l’aeroporto. Aeroporto che sembra piuttosto un incrocio tra una stazione metropolitana (del Cairo, però, ammesso che ne abbia una) e un suk tunisino. Una folla enorme di viandanti, mendicanti, immigrati, spedizionieri, trafficanti e affini si aggira frenetica nonostante l’ora. A ciò si aggiunga che bisogna oltrepassa-re una serie imprecisata e non prevedibile di controlli da parte di individui vari, molti dei quali possono anche costringerti ad aprire la valigia e svuotarne il contenuto su dei banconi proprio all’ingresso. Per fortuna, l’abbigliamento occidentale e un’espressione rassicurante tra il “Che ci faccio qui?” e il “Comunque non farei mai del male a una mosca”, sembrano funzionare come salvacondotto.
Salutiamo finalmente il fedele Siri che si ricambia sorridente (non sappiamo se per la promessa di tornare o per la lauta mancia che gli abbiamo lasciato).
È il suo sguardo calmo, suadente (mentre un poliziotto alle sue spalle è appena entrato nella sua macchina e sembra intenzionato a multarlo per divieto di sosta) l’ultima, emblematica im-magine di questo popolo e questa terra che vediamo allontanarsi dietro di noi, mentre negli occhi affiora già la nostalgia e dagli oblò si intravedono i primi atolli delle Maldive.
Ma questa, naturalmente, è un’altra storia…