In viaggio verso Arusha ed i Parchi Nazionali
Tra le strade di Dar es Salaam e le sue spiagge.
La mattina è fresca, nuvole bianche e soffici si susseguono alte lasciando filtrare il sole a tratti. Il mio tassista è puntuale e dopo avergli fatto capire che voglio essere portato solo in centro e non in giro per tutta la città a bordo del suo taxi mi lascia in Samora Avenue con la promessa di tornarmi a prendere a metà pomeriggio. Scarto un uomo che mi propone di cambiare per strada i miei dollari in scellini e subito sono affiancato da un ragazzo che con passo tranquillo si propone di portarmi a spasso per il centro vista la mia evidente poca dimestichezza con le strade. Sulle prime cerco di fargli capire che non ho bisogno del suo aiuto e mi dirigo in una direzione qualunque cercando di orientarmi sulla strada da prendere, ma poco dopo mi rendo conto che non so dove sto andando e mi lascio guidare verso il mercato del pesce all’estremità della punta di Dar es Salaam Bay. Joseph, cosi dice di chiamarsi la mia guida improvvisata, mi scorta dentro la confusione animata del mercato. Nella parte più vicina alla spiaggia il pesce, appena scaricato dai pescherecci, è venduto all’asta tra le grida del cerimoniere circondato da donne avvolte in colorati kanga che chiacchierano mentre aspettano di poter fare la loro offerta. Dall’altra parte del mercato sotto delle pensiline in cemento sono disposti una serie di bracieri dove il pesce appena acquistato è arrostito ed è pronto per essere venduto assieme ad una varietà di frutta e verdure dai colori accesi. Scatto delle foto cercando di non farmi intimorire dagli sguardi degli ambulanti decisamente poco contenti e le grida che provengono da ogni parte. Ragazzini con in testa ceste di frutta e buste sigillate di acqua attirano l’attenzione facendo uno strano verso con la bocca, una specie di bacio senza schiocco che richiama alla mente la parola maji, acqua in swahili. Altri vendono sigarette facendo suonare a mo di nacchere le pile di monete che tengono sdraiate sul palmo della mano. L’odore del pesce mi penetra nelle narici e si scontra con quello delle immondizie ammucchiate appena fuori il perimetro del mercato facendomi indietreggiare. La confusione cresce di intensità e mi rendo conto di essere veramente l’unico bianco all’interno di quella moltitudine e sicuramente non passo inosservato visto la serie di “My friend!” che mi giungono da ogni parte. Esco dal mercato annaspando mentre Joseph mi segue con passo lento e ci dirigiamo nuovamente verso il centro dove voglio fotografare il quartiere attorno Mosque Street. Una volta li veniamo accolti da un amico della mia guida che si aggrega al nostro giro, inizio a sentirmi pressato dai due che mi seguono come ombre e nonostante la loro apparente innocuità cerco di separarmi dalla loro compagnia con delle scuse a caso. I due non mollano e dopo breve ecco che si presenta un terzo compare. Nel giro di poco mi ritrovo seduto sul sedile posteriore di una macchina lungo Ocean Road e quando quello seduto accanto a me si accende una canna capisco che la situazione è fuori controllo. Cerco di uscire dalla macchina ma la portiera è bloccata e la leva di apertura è spaccata, l’auto si ferma, mentre cerco di liberarmi dalle mani che mi afferrano i polsi la portiera si apre ed un quarto entra in macchina spingendomi al centro del sedile. Sono fottuto. I due davanti sono calmi e controllano la strada mentre i miei due angeli custodi mi bloccano le braccia e mi rovistano addosso e nello zaino. Gli dico di prendersi tutti i soldi e di lasciarmi andare cercando di non far incrinare la voce dal terrore che mi gela il sangue. Trovano solo 70$ e la reazione non è delle più felici. Ripuliscono il mio cellulare dalla scheda italiana e rovistano ancora nel mio portafogli. Continuo a ripetergli che non ho altri soldi e di prendersi la macchina fotografica, ma il sorriso del terzo mentre estrae la mia carta di credito è tutto un programma. In tono concitato cerco di spiegargli che quella carta non funziona fuori dall’Italia, sto facendo un gioco molto pericoloso ma non posso rischiare di farmi ripulire il conto questo significherebbe la fine del mio viaggio. Gioco le mie carte e riesco a bluffare facendo saltare il banco grazie anche al fatto che non usano armi per minacciarmi, cosa che mi avrebbe fatto correre in banca per tirare fuori tutti i miei soldi e rapinarla se necessario. Mi ributtano tutto nello zaino tranne le sigarette ed il coltello da caccia che inutilmente tengo a portata di mano e mi scaricano da qualche parte lungo Ocean Road. Rimango in piedi sul ciglio della strada, respiro a fondo, il cuore rallenta progressivamente i battiti, mi sento vuoto come un sacco, alzo gli occhi al cielo e sorrido. Vago sulla spiaggia di Coco Beach tutto il pomeriggio fotografando i bambini che giocano sulla spiaggia facendo capriole mentre ridono e gridano. Non penso a nulla, non mi interessa di essere in una zona poco sicura per avventurarsi con borse e macchine fotografiche, ho gia dato. Mi ci vogliono due giorni di spiaggia nella bellissima Bongoyo Island per riprendermi dall’esperienza. La spiaggia dalla fine sabbia bianca, l’acqua cristallina che vira dal blu all’indaco, il reef con i suoi coralli, che mi ricordano l’esame di zoologia all’università, ed i suoi pesci coloratissimi sono un toccasana per il mio morale e mentre mi cucino al sole progetto il mio viaggio verso Arusha ed i parchi nazionali del circuito settentrionale.
In viaggio verso Arusha ed il circuito settentrionale dei parchi nazionali.
Mi sveglio all’alba al suono del muezzin che si diffonde dalla moschea con il suo tono cantilenante e mentre il sole in un paio di minuti si alza in tutta la sua forza e si staglia basso all’orizzonte bevo un caffè forte. Nel tragitto verso la stazione degli autobus di Dar osservo l’innumerevole moltitudine di persone che ogni mattina spazza la strada e taglia l’erba ai suoi bordi. Un lavoro che potrebbe essere fatto una volta alla settimana con un mezzo meccanico qui è fatto tutti i giorni. Le donne curve sull’asfalto lo spazzano con un fascio di rami legati assieme mentre, sempre curvi sul terreno, gli uomini tagliano i ciuffi d’erba uno ad uno utilizzando i machete. È una guerra impari, la polvere si alzerà nella notte e ricadrà sull’asfalto mentre l’erba, rigogliosa nella stagione delle piogge, crescerà riportando tutto come prima. Salgo al volo sul pullman in partenza per Arusha e mi trovo in viaggio sulla costa orientale lungo una strada statale appena sufficiente per il passaggio di due macchine ad una velocità folle per le condizioni del nostro mezzo. Il verde è lussureggiante in un susseguirsi di piantagioni di palme da cocco, canna da zucchero e banani, in cui sono dispersi i villaggi dalle capanne di paglia e fango, senza porte né finestre. Ai bordi della strada persone che si spostano a piedi con in testa la qualsiasi, dalle taniche per l’acqua, alle ceste piene di ortaggi o frutta, alla zappa per coltivare i campi. L’Africa si sposta a piedi portando tutto in testa, a volte se fortunata anche in bicicletta. Non ci sono bestie da soma, i carri sono trainati a mano dai loro conducenti il cui fisico è stato scolpito dal sudore e dalla fatica giorno dopo giorno, modellandone i muscoli ed il corpo come delle statue elleniche in carne ed ossa. Durante la canicola i villaggi sono deserti, ma nelle zone d’ombra sotto gli alberi si intravedono i suoi abitanti sdraiati sulle stuoie che attendono il passare delle ore più calde del giorno lasciando che il tempo scorra senza di loro. Alle soste lungo il viaggio siamo circondati da venditori ambulanti, nella maggior parte ragazzini che tenendo in alto i loro cesti per arrivare ai nostri finestrini vendono arachidi, noccioline, frutta, pannocchie di mais arrostite e bevande, altri invece manufatti in legno e stoffe. Le signore avvolte nei loro kanga si sporgono dal finestrino e mentre il pullman rallenta senza mai fermarsi completamente valutano, contrattano e se sono soddisfatte comprano. Arrivo ad Arusha nel tardo pomeriggio e subito sono attorniato da tassisti e procacciatori d’affari che cercano di rifilarmi qualche safari o qualche fregatura. Compro delle banane a delle bambine in divisa scolastica che cercano di racimolare qualche soldo per pagarsi la scuola e mentre chiacchiero con un tassista mi dirigo verso il mio hotel da 12$ a notte. La mia camera è appena più grande del letto che la contiene, dalla strada arrivano il suono dei clacson, il rombare dei motori e lo stridore dei freni di macchine che non ce la fanno più. Il vociare delle persone è sempre allegro nonostante fuori il traffico sia una bolgia di auto, camion, autobus, biciclette e gente che tira pesanti carretti carichi delle più svariate merci. Nessuno insulta nessuno, nessuno impreca, tutti schivano tutti e proseguono lungo il loro percorso passo dopo passo. Mi addormento cullato dal rumore che proviene dalla strada provato da otto ore di viaggio e mille immagini che mi girano nella testa cercando spazio nella mia memoria per non andare perdute. Mi sveglio alle sei insieme ai primi suoni della città, la giornata inizia presto prima che il caldo sia insopportabile e rallenti il corso della vita. Esco dall’albergo e giro a caso per il mercato, sono scrutato e osservato, mentre cerco di raccapezzarmi in quella moltitudine di persone, voci e colori evito gli sguardi di chi vuole attaccare bottone per farsi dare dei soldi. La confusione è ancora maggiore del mercato del pesce di Dar, donne avvolte in stoffe multicolore vendono frutta e verdura disposte in bella evidenza sull’asfalto. Tutti vendono ma pochissimi comprano, le donne sono più impegnate a chiacchierare con le vicine che a vendere la loro mercanzia. Faccio fatica a muovermi lungo le strade fangose tra le immondizie e gli scoli delle fogne, cerco di non perdere l’orientamento e ben presto devo ripiegare in un caffè per sfuggire ad uno sciame di procacciatori di affari e venditori di hashish che mi sta pedinando da troppo tempo. Nel pomeriggio faccio il punto della situazione in albergo con la mia guida per un safari di sei giorni e cinque notti in tenda, organizzo tutto il materiale fotografico, sistemo lo zaino e sono pronto per la partenza, destinazione Lago Manyara, parco del Serengeti e la Ngorongoro Conservation Area.
La strada che unisce Arusha al Lago Manyara attraversa un morbido tappeto verde costeggiato da colline dal profilo smussato. Percorriamo i centoventi chilometri di asfalto in quasi un’ora e mezza a bordo di un Land Rover in buone condizioni che condivido con una coppia di ragazzi americani e all’imbrunire arriviamo al nostro primo campsite. Il campeggio, semideserto in questa stagione, è all’esterno del perimetro del parco; la nostra guida/autista aiutata dal nostro cuoco in pochi minuti allestisce il campo e siamo gia pronti per un breve giro all’interno del parco. Nonostante la luce del giorno vada velocemente sciamando riusciamo ad avvistare dapprima un gruppo di babbuini intento a spiluccare il terreno quindi un grande esemplare di giraffa masai che non curante della nostra presenza attraversa la strada e si perde nella boscaglia, mentre appena a qualche metro dalla riva del lago maestosi ippopotami sonnecchiano immersi nelle sue acque alcaline scortati da numerosi fenicotteri rosa. Un bellissimo impala dalle eleganti corna a forma di lira ci osserva mentre le femmine del branco continuano a brucare l’erba poco distanti da un gruppetto di zebre. Purtroppo la giornata è finita e la notte non da al giorno il tempo di accomiatarsi per prenderne velocemente il posto. Ritorniamo al campo base e ceniamo alla luce delle lampade a petrolio nell’aria calda umida tempestata di zanzare, le quali trovano nel perimetro del lago il loro habitat ideale per proliferare e costringerci a ripiegare in tenda al riparo sotto le nostre zanzariere. Sveglia all’alba in una giornata di sole, nonostante sia il periodo delle lunghe piogge il tempo è decisamente bello, le nuvole si alternano spinte dal vento disegnando con le loro ombre sul profilo del lago Manyara favolosi giochi di luce mentre all’orizzonte nuvole basse e scure scaricano il loro carico di pioggia. I primi a farsi vedere sono due branchi di babbuini, seguiti a breve distanza da alcuni esemplari di cercopitechi verdi dall’evidente scroto color blu. Costeggiamo il lago e ci imbattiamo in tre elefanti africani dalle dimensioni modeste, due sono indaffarati in una specie di balletto dove l’uno avvolge la proboscide dell’altro. Dopo qualche minuto indietreggiano sciogliendosi dal loro abbraccio, barriscono sollevando la proboscide verso l’alto e lentamente si allontanano tra gli alberi. Del tutto inaspettate ci colgono quattro leonesse appollaiate su di un grande albero pentaraggiato dove sonnecchiano lasciando oscillare lentamente le zampe penzoloni. Un regalo più grande questa giornata non poteva farcelo, non è cosi frequente avvistare delle leonesse abbarbicate sui rami di qualche albero all’interno di questo parco. Ripartiamo prima di mezzogiorno alla volta del parco del Serengeti che dista da qui circa quattro ore di strade sterrate e polverose. Una volta oltrepassato lo Ngorongoro Gate la strada asfaltata lascia il posto a quella fangosa che costeggiata da una inestricabile foresta pluviale di colore verde brillante, si inerpica sulle ripide pareti del cratere. Solamente la forza delle quattro ruote motrici ci permette di avanzare su questo terreno insidioso e soprattutto scivoloso ed una volta giunti sul margine del cratere la nebbia che avvolge la strada si dirada lasciandoci ammirare una piccola porzione del fondo del cratere. Percorriamo il perimetro del Ngorongoro e ci imbattiamo nei primi guerrieri masai avvolti nelle loro vesti colore rosso acceso ed in pugno le loro lance. La strada ora scivola verso il basso discendendo la parete esterna del cratere dove zebre solitarie pascolano indisturbate alternate a giraffe reticolate che non si curano del paesaggio strabiliante che le circonda. Ci concediamo una breve visita alla Gola di Olduvai famosa per il ritrovamento delle più antiche orme di ominidi mai rinvenute risalenti a circa tre milioni di anni fa ed alcuni fossili più recenti testimonianza della presenza dell’Homo sapiens in questi luoghi. Ripartiamo ed entriamo nel parco del Serengeti attraverso la Naabi Hill Gate, il viaggio mette a dura prova sia le nostre ossa sia il nostro mezzo di trasporto che dopo una piccola sosta per la sostituzione di una ruota forata sfreccia sulla strada sterrata che taglia la savana alzando dietro di se una coda di polvere simile ad un serpente. Le sagome scure degli gnu si stagliano all’orizzonte mentre in centinaia attraversano la strada e ci costringono a rallentare la nostra andatura fino a fermarci. Il loro numero è impressionante considerando che l’orizzonte è una tabula rasa dove ogni particolare si perde ingoiato dalla sua vastità. Al nostro passaggio gruppi di zebre scartano sul terreno polveroso per poi fermarsi qualche metro più in la mentre delle gazzelle impaurite scattano a grandi balzi correndo nella nostra stessa direzione affiancandoci per poi ripiegare verso l’esterno. Infine dopo aver avvistato delle antilopi d’acqua, alcuni tsessebe, delle giraffe reticolate e dei furtivi sciacalli in serata arriviamo a Seronera nel cuore del Serengeti sud-occidentale. Allestiamo il campo base all’interno di un’area attrezzata mentre il tramonto illumina l’orizzonte incendiando le praterie lontane e lasciando che il cielo si colori di mille sfumature dal rosso al rosa per poi spegnersi nel buio pesto della notte dove si accendono migliaia di stelle a formare la via lattea che ci sovrasta in tutta la sua bellezza.
La luce fioca delle lampade a petrolio riesce a rischiarare appena l’area attorno al nostro tavolo mentre tutto il resto è inghiottito dalle tenebre. In Europa quello che noi consideriamo buio è qualcosa che comunque ci permette di distinguere le sagome delle cose che ci circondano nell’oscurità, qui la notte invece cancella tutto, diveniamo cechi e solo l’udito ci consente di capire che siamo ancora in uno spazio fisico. Il campeggio non è delimitato da nessuna recinzione, ascoltiamo i rumori che provengono in direzione delle tende, accendo la torcia ed illumino un gigantesco elefante africano che tranquillamente pascola a non più di venti metri da noi. Direziono meglio la luce e mi sposto leggermente, ecco la sagoma di un secondo elefante e poi di un terzo accompagnato da un piccolo. Rimango imbambolato ad ammirare questi immensi pachidermi che pacatamente avanzano strappando fasci d’erba e lanciando dei barriti sommessi. Spegniamo le lampade e ci lasciamo inghiottire dalle tenebre mentre in lontananza alcuni fulmini rischiarano a intermittenza la notte ed il latrato delle iene riecheggia nella savana.
L’alba dura qualche istante e subito il sole riscalda le nostre tende, partiamo nella frescura del mattino e dopo alcuni chilometri siamo fermi all’ombra di un grande albero dove la lunga coda di un leopardo penzola dolcemente da un ramo. Rimaniamo ad osservarlo mentre oziosamente riposa sbadigliando di tanto in tanto non curante della nostra silenziosa presenza. Ci allontaniamo e continuiamo la nostra ricerca, le immense praterie dal colore verde e oro inframmezzate da acacie solitarie sono il nascondiglio perfetto per un gruppo di leonesse che acquattate nell’erba alta attendono la preda. Altre invece accompagnate da giovani leoni preferiscono l’ombra di alcuni alberi che crescono tra grandi rocce levigate dall’erosione del tempo. Poco distante nelle pozze d’acqua, abbondanti in questo periodo, numerosi ippopotami nuotano scomparendo sotto il pelo dell’acqua in lunghe apnee mentre sulla riva gli alligatori rimangono immobili per ore. Più avanti un gruppo di manguste corre a ranghi compatti precedendo la nostra jeep, improvvisamente si fermano ed in piedi sulle zampe posteriori sondano l’orizzonte sempre all’erta di eventuali predatori. Nelle ore della canicola rientriamo al campo base dove all’ombra di una piccola acacia mi lascio andare ad un lungo sonno ristoratore. Un altro tramonto dai colori pastello annuncia la fine del giorno mentre gustiamo il sapore dolce del mango ed attendiamo la notte.
Partiamo prima che il sole si alzi e alla luce della torcia preparo zaino e macchina fotografica. Edwin, la nostra guida, spera di poterci mostrare qualche scena di caccia tra le praterie della savana e noi pure. La fortuna purtroppo non è dalla nostra parte ciò nonostante ci imbattiamo in alcuni bufali africani dalle grandi corna ricurve che ci osservano incuriositi, una coppia di dik-dik appena visibili nel folto dell’erba alta ed un piccolo raficero campestre. Dopo quattro ore di ricerca ininterrotta ritorniamo al campo dove smontiamo le tende e mestamente ci rimettiamo in viaggio verso l’ultima tappa del nostro viaggio il cratere Ngorongoro. Siamo partiti da quasi un’ora e nella canicola del pomeriggio nonostante i martellanti sobbalzi della jeep mi assopisco appoggiato al finestrino. Improvvisamente Edwin lascia andare l’acceleratore e dolcemente si accosta sul ciglio della pista, mentre osserva l’orizzonte con il binocolo mi fa cenno di guardare alla mia sinistra e mentre cerco di mettere a fuoco l’inquadratura ecco comparire una criniera striata. Silenziosamente aggiriamo delle rocce basse e piatte sulle quali si sta crogiolando al sole un bellissimo leone dalla folta criniera inframmezzata da una cresta nera. Non è solo, alla sua sinistra tre leonesse sembrano sprofondate in un sonno profondo. Finalmente il Re della foresta, Simba in swahili, è in tutta la sua bellezza a meno di due metri da noi, sdraiato sulla schiena zampe all’aria si lascia solleticare da una leggera brezza mentre si gira e si rigira cercando la posizione più comoda. Contempliamo la scena per circa mezz’ora e sebbene non stia sbranando nessuna preda siamo completamente soddisfatti della nostra caccia. Ripartiamo lasciandoci alle spalle il clima caldo e secco del Serengeti mentre all’orizzonte nuvole scure avvolgono il cratere Ngorongoro.
Ci inerpichiamo sulle pareti del cratere, la strada peggiora di metro in metro e subito dietro una curva aggiriamo un pullman piantato nel centro della pista. Scorgo l’autista sdraiato sotto di esso intento a smontare una serie di pezzi disposti ordinatamente dal suo aiutante sul terreno mentre i suoi passeggeri attendono senza fretta seduti sull’erba la riparazione del mezzo.
In serata arriviamo al campsite Simba abbarbicato ad una altitudine di 2400 metri con vista panoramica direttamente sul cratere. Un gigantesco albero domina il prato in cui allestiamo il campo base e dove alcuni bufali africani dalla enorme mole pacatamente pascolano. La temperatura è scesa notevolmente e nuvole nere cariche di pioggia si addensano all’orizzonte, inizia a cadere una pioggia battente che ci accompagnerà tutta la notte. Alle prime luci dell’alba le tende e tutto ciò che le circonda sono avvolte da una fitta nebbia in cui filtrano a malapena i primi raggi di sole, il panorama della sera prima è mascherato da una impenetrabile coltre di nuvole che basse risalgono verso l’alto.
Discendiamo i 600 metri di dislivello che ci separano dal fondo del cratere e ne percorriamo il perimetro a ridosso del lago Magadi sulle cui rive pascolano numerosi gnu, gazzelle, bufali e zebre, indisturbati dalla presenza di diverse faine. A questi fanno da cornice centinaia di fenicotteri rosa che si specchiano nelle poco profonde acque del lago. Un tsessebe che cammina isolato sul bordo strada mostra sulla parte posteriore del corpo, ancora freschi, i segni di un tentativo fallito di qualche predatore dai lunghi artigli di procurarsi la cena durante la notte. Ci avviciniamo alle prime pozze d’acqua dove all’interno di un nutrito gruppo di ippopotami due grandi esemplari maschi si confrontano con le gigantesche fauci spalancate in un turbinio di spruzzi d’acqua.
Tra le nuvole basse che a tratti coprono il sole appare l’arco di un arcobaleno che incornicia questo eden, la natura esplode in mille colori che si accendono non appena il sole li sfiora. Attraversiamo il cratere per la sua intera lunghezza in un altalenarsi di colori che sfumano in tutte le tonalità. In lontananza avvistiamo tre rinoceronti neri, che qui diversamente da altri luoghi in Africa trovano un’oasi di tranquillità, riposano sdraiati nell’erba alta. Li osserviamo in silenzio, purtroppo siamo ad una distanza tale che la mia macchina fotografica non riesce a coglierne i particolari ma non importa, già poterli osservare dal vivo è uno spettacolo impareggiabile. Ormai il nostro tempo a disposizione è giunto al termine, Edwin, la nostra guida, inverte la direzione di marcia e lentamente ci riporta verso le sponde del cratere lasciandoci godere della sublime immagine dei fenicotteri rosa che planano dolcemente sulla superficie del lago Magadi.
Lungo la strada del ritorno ci fermiamo al campsite e recuperiamo tutto il nostro equipaggiamento, ripartiamo mentre velocemente il cielo si oscura e le nuvole si richiudono sopra la nostra testa, è ora di tornare verso Arusha.
Tra le baracche delle bidonville di Arusha.
Sono appena tornato da un safari di sei giorni lungo le strade sterrate del Serengeti, quelle fangose del Lago Manyara e quelle ripide e scoscese del cratere Ngorongoro. Non faccio in tempo a togliermi lo zaino dalle spalle che il mio contatto locale, Shayo, a cui mi ero rivolto per organizzare questo viaggio, si presenta nell’hall dell’albergo per portarmi a vedere il “progetto” di cui mi aveva parlato giorni fa. Al momento della mia partenza da Arusha verso il circuito settentrionale dei parchi nazionali Shayo non si era sbilanciato poi molto sull’argomento ed io ero troppo preso ad organizzare il materiale fotografico per ascoltarlo. Stanco e contro voglia mi infilo in una macchina che per gli standard africani è accettabile, per i nostri è da demolire e partiamo. Alla guida un ragazzino dal sorriso marcio si agita sul sedile come sugli autoscontri intento a girare vorticosamente il volante per schivare auto, pedoni, carretti e buche. Ci inoltriamo verso la periferia della città, lasciamo la strada asfaltata e le case di mattoni per entrare in mezzo a delle baracche con il tetto in lamiera l’una addossata all’altra. La spazzatura regna ovunque, la gente per strada vende le cose più disparate esposte su bancarelle improvvisate. Non so dove mi stanno portando ne conosco cosi bene queste persone da potermi fidare di loro. La Tanzania è un paese tranquillo se paragonato ai suoi stati confinanti dove da anni si consumano tragedie enormi, la gente è amichevole pronta ad accogliere i forestieri con il sorriso, purtroppo però come in tutto il mondo esistono sempre le eccezioni e fidarsi completamente del prossimo a volte può essere un grosso sbaglio. Inizio a sentirmi a disagio, sono teso, la situazione mi sta sfuggendo di mano. Ci fermiamo ed entriamo in un bar, una baracca più grande delle altre con all’esterno un’insegna dipinta a mano. L’unico cliente presente sta dormendo di fronte ad un quiz televisivo. Oltrepassiamo il bancone ed entriamo in una sala da biliardo, quattro persone stanno giocando mentre bevono birra. Mi salutano e continuano a giocare. Sono molto teso, parlano in swahili e ridono guardandomi di sbieco. La situazione non è a mio favore. Bevo una birra ghiacciata mentre cerco possibili vie di fuga per un’eventuale ritirata strategica, ossia una corsa a rotta di collo. Devo uscire da questa situazione, scolo la birra e dico a Shayo che ho fretta, sono molto stanco e vorrei tornare al più presto in albergo. Lui fa un cenno con la testa, saluta i compari e siamo di nuovo in macchina. La strada è un enorme buca che separa le baracche come il greto di un torrente. Procediamo ancora verso l’estremità della città. Ovunque baracche fatte con tutto quello che può essere appiccicato, inchiodato, unito in un patchwork confuso. Gente che rovista nella spazzatura sparsa ovunque, agli angoli della strada uomini seduti nell’ombra che attendono il trascorrere delle ore. La strada diventa di metro in metro un terreno inaffrontabile, eppure arranchiamo buca dopo buca. Sono in un bagno di sudore, mi aggrappo alla macchina fotografica come unico appiglio che mi rimane. Siamo nel puro centro di una immensa bidonville. Finalmente ci fermiamo in uno spiazzo e Shayo mi indica un cartello, c’e’ scritto Longidong Nursery School. Ricomincio a respirare, i muscoli si allentano i nervi pure. Finalmente capisco cos’è il suo progetto, sta costruendo un ambulatorio pediatrico per la gente che vive in questa baraccopoli di 15000 persone. È uno stabile su un piano fatto in muratura, senza porte né finestre composto di quattro locali. Per adesso ci sopravvive dentro una famiglia, naturalmente senza acqua ne luce, come poi tutte le baracche di questa immenso agglomerato. Shayo mi chiede se posso scattare delle foto da utilizzare sul sito internet che sta costruendo per cercare fondi e personale disposto a lavorare insieme con lui e alla moglie. Mentre comincio a scattare le prime foto dal nulla spuntano bambini ovunque. Sono una piccola tribù, dai tre ai dieci anni d’età. Vestono magliette strappate e sporche, ai piedi ciabatte più grandi di loro. Mentre i più piccoli mi osservano impauriti, i grandi si passano parola l’un l’altro, li sento ridere e ripetere “nzungo-nzungo”, uomo bianco. Mi girano attorno, mi scartano e si riuniscono di nuovo. Inizio a scattargli delle foto e mi ricordo le matite colorate che tengo nello zaino, quando le tiro fuori le mani sono tantissime. Decido di darle ai più grandi, quelli che vanno a scuola. I più piccoli restano con la mano aperta e gli occhi grandi nella attesa di altre matite. Sono sorrisi, grida, occhi curiosi che si nascondono e mi osservano. I piccoli mi guardano come se fossi il personaggio di chissà quale favola, d’altronde quando fanno i discoli sono minacciati che verrà l’uomo bianco a portarli via. Finisco il rullino, risalgo in macchina, ripartiamo mentre la piccola tribù ci corre dietro saltando e ridendo, facendomi ampi segni di saluto. Mi sporgo dal finestrino e li saluto mentre ci allontaniamo arrancando buca dopo buca risalendo dal fondo di questo abisso.