Copenhagen fiabesca
Il volo è tranquillo, buchiamo subito lo strato di nuvole e arriviamo a vedere il sole. Inaspettatamente scopro un colore nuovo! Laggiù in fondo ci sono delle nuvole di un azzurro chiarissimo, con una lieve puntina di verde. E’ una sorta di acquamarina poco distante dal bianco. Un colore mai visto prima.
Peccato però che sotto di noi la distesa di nuvole sia ininterrotta da Bologna sino in Danimarca. Anzi, quando ci apprestiamo a scendere di quota mi aspetto prima o poi di ribucare il grigiore e vedere finalmente un po’ di suolo danese.
Invece niente! In mezzo al grigio sento l’aereo che inaspettatamente sobbalza. Atterriamo circondati da una nebbia degna della pianura padana. Non è che il pilota abbia sbagliato rotta e ci abbia riportati a casa?!? Sono appena le 15:45, ma anche nella nebbia s’intuisce il tramonto. Le brume che circondano Copenhagen sono rosate.
Entriamo in aeroporto e camminiamo un bel po’ prima di arrivare ai nastri di consegna delle valigie. La sala d’aspetto è disseminata di funghetti per fumatori, una specie di strutture a tettoia sotto alle quali si può fumare. Altrove, invece, è proibito (la nostra guida dice che i danesi fumano parecchio).
Le valigie arrivano in fretta e dunque ci dirigiamo al bancone denominato DSB, dove facciamo i biglietti del treno che ci porterà in città. Non avendo capito che la fermata della città è esattamente la stazione centrale dei treni, chiedo alla tipa dello sportello se lì mi potranno fare i biglietti di ritorno, e lei mi risponde “Certo, e se non te lo vogliono fare c’è anche la polizia. Puoi chiamare loro”. L’ho capita solo dopo, la battuta. Eh certo, come se uno andasse allo stadio a chiedere se lì vendono i biglietti per le partite di calcio! Comunque, fatti i biglietti, scendiamo con la scala mobile al piano inferiore e ci mettiamo sulla pensilina del binario. Il treno è puntualissimo, e passa ogni 12 minuti. Siamo in città quando scoccano le quattro e mezza. La stazione centrale profuma dei classici odori della cucina tedesca (qualcosa del tipo wűrstel e crauti). Non sapendo bene su che lato della stazione siamo e avendo una striminzitissima cartina di Copenhagen che riporta sì e no quattro strade, mi armo del mio miglior inglese e di un bel sorrisone, infilo la porta d’uscita, trovo subito un carretto degli hot-dog e chiedo alla padrona se posso chiederle un’informazione. Mi risponde semplicemente “no”. Superato lo schiaffo morale chiedo comunque se ha idea di dove sia l’hotel First Vesterbro. Il suo mutismo è per fortuna compensato da un cliente che si sta mangiando un panino, il quale mi dice di proseguire per quella strada e poi di girare a sinistra. Così ci mettiamo a trainare le nostre valigie sul marciapiede. Al primo grande incrocio (quello con la Steno Apoteke) giriamo a sinistra e in effetti in 5 minuti raggiungiamo l’insegna “First”. Tra l’altro, sul lato opposto della strada c’è un negozio d’abbigliamento. Mi aspettavo prezzi esorbitanti, invece vedo un bel paio di guanti di lana a 29 corone, poco più che 4 euro, e mi fiondo subito a comprarli.
L’hotel è carino, moderno, ben tenuto. Dentro c’è un caldo veramente asfissiante, soprattutto in camera, tanto che si sta bene in maglietta.
Quando entriamo, in stanza, sul televisore c’è scritto “Welcome Mrs Mainardi”. Wow, che accoglienza! Le camere sono belle, dotate di tutto quello che serve. Ci sono anche il ferro da stiro, il phon, una tastiera interattiva per scegliere dei servizi dal televisore e cose del genere. Ci troviamo in camera di Furo e della Cri per fare il punto della situazione. Essendo le 5 di pomeriggio sarà di certo tutto chiuso, per cui decidiamo di darci una lavata e una sistematina e di trovarci verso le 6:30 per uscire e dare un’occhiata nelle vicinanze.
E così facciamo. Per le 6:45 siamo pronti e anche affamati, a dir la verità, dal momento che non abbiamo pranzato.
Per fortuna l’albergo è proprio in una zona di ristorantini alla buona, e dopo aver fatto un po’ di avanti e indietro decidiamo, come prima sera, di farci una sana pizza. Il locale è molto semplice, su tutti i tavoli c’è una candelina (questo l’avevamo notato anche negli altri ristoranti vicini, sbirciando dalle vetrine). L’atmosfera è tutto sommato accogliente. Ci serve una discreta e silenziosa signora dai tratti neri-orientali. Le pizze sono buone e alla fine non spendiamo neanche tanto: 69 corone a testa (circa 9 euro). Mi ero fatta l’idea che la Danimarca fosse costosissima, invece, andando in posti come questo, devo proprio dire che i prezzi sono abbordabilissimi. Dopo cena facciamo quattro passi per digerire. Ci accorgiamo che l’hotel è veramente in una posizione ottima. A parte la vicinanza con la stazione, a parte che a due passi ci sono almeno sette ristoranti, a parte che proprio sotto di noi c’è un supermercato, ma poi siamo anche a cinque minuti a piedi da Tivoli e a dieci dalla Radhuspladsen, la piazza del municipio.
Tivoli è tutto illuminato anche se è chiuso. Sembra una fiaba anche solo a guardarlo dall’esterno.
Dopo aver ficcato il naso tra le sbarre dei suoi cancelli torniamo ad incamminarci verso la Radhuspladsen, che ad uno degli angoli ha un edificio con un termometro gigante illuminato (come fosse proprio uno di quelli a mercurio, con la scala graduata che si arrampica su per i piani) con in cima pure un segnatempo: con il sole esce la statua di una ragazza in bicicletta, con il brutto esce un omino con l’ombrello. Ora però non c’è bene in mostra n’è l’uno nè l’altro. Balza agli occhi, invece, un altro palazzone dalla parte opposta della strada, rispetto al segnatempo, zeppo d’insegne pubblicitarie luminose e colorate. E come non notare i chioschetti di hot-dog? (come quello della stazione). E i mini supermercati “Seven Eleven” ad ogni angolo della strada? Sono piccoli ma ci vendono di tutto, roba da mangiare, giornali, dolci, hot dog cotti sulla piastra, cancelleria, persino francobolli. Un buon posto per le “emergenze” di ogni ora.
Facciamo il giro della piazza. La torre del municipio è sovrastata da una bellissima luna limpida che fa capolino tra le nuvole. Davanti all’ingresso ci sono tre draghetti verdi, su un lato c’è la statua di Andersen, fermo a pensare sul marciapiede in mezzo alla gente che passa, mentre sul lato opposto c’è un’alta colonna con sopra una sorta di coppia di vichinghi ubriachi. Cosa curiosa è che tutti i tombini incontrati per strada dall’albergo sin qui fumano! (come nei film!) Infine decidiamo di tornare in stanza. Notiamo che, sulla via del ritorno, quasi tutti i proprietari dei mini-chioschi di hot dog stanno levando le tende e conducono a mano i loro carrettini motorizzati. In sostanza il chiosco è dotato di un motore che fa muovere le ruote, e di una barra, sul davanti, tramite la quale il proprietario li conduce camminando. E’ una scena inconsueta, per noi.
Intanto la notte di Copenaghen è segnata, ogni tanto, da scoppi e schiocchi improvvisi. Che saranno mai? Giovedì 30: ci troviamo nella sala grande della colazione alle 8:30. Il buffet è fantasmagorico, c’è tanta di quella roba! Brioches di vario tipo, cereali, jogurt, fette di pane con cui fare i toast, zuppiere piene di marmellate, salumi, formaggi, verdure, frutta, uova, omelettes, salsicce, bacon, e poi the, caffè, succhi di frutta e via dicendo. Ma il massimo è il piatto di aringhe marinate. Per colazione non dev’essere male. Preferiamo comunque non avventurarci nell’esperienza del pesce di prima mattina, e ci rifocilliamo abbondantemente con una classica colazione dolce, tranne Marco che, come al solito, quando può, non disdegna uova, wűrstel e fagioli anche alle 8 del mattino. Che abbia sconosciuti antenati nordici? Mentre mangiamo la sala si riempie. Ci sono molti italiani. Quasi sempre riconoscerli è un giochetto: chi viene da Roma e dintorni, di solito, fa un casino impressionante (chiedo scusa per ciò che potrebbe sembrare un pregiudizio, ma nella mia esperienza personale è sempre stato così), poi ci sono i tamarri con la camicia aperta sui catenoni d’oro, e quelli schifati che guardano il contenuto dei piatti di mezza sala (sarà una deformazione professionale per la cura e la cultura che abbiamo noi nei confronti del cibo). In ogni caso quasi sempre li si distingue dall’abbigliamento. Finita la colazione ci tuffiamo tra le strade di Copenhagen. Torniamo sulla piazza del municipio ed entriamo nel palazzo. Dentro c’è un grande salone coperto che sembra una piazzetta esterna contornata da edifici. In pratica sembra uno spaccato di esterni, però dentro al palazzo del municipio. Non so perchè ma mi fa venire in mente i tornei medievali. Eppure c’è scritto che il municipio fu completato nel 1905! Ci sarebbe la possibilità, pagando, di salire sulla torre, ma poichè il cielo è tutto grigio desistiamo. Non si godrebbe un bel panorama, da lassù.
Così decidiamo di andare al National Museet. L’entrata costa appena 25 corone (circa 3 euro e mezzo), essendo periodo di festa (altrimenti ne costerebbe 40). Una cosa molto intelligente sono gli armadietti. Poichè siamo tutti imbacuccati e dentro c’è caldo, lasciamo cappotti, berretti e zaini negli armadietti, e cominciamo la visita più agili.
Si può anche fotografare! Il piano terra è molto interessante, mostra reperti dalla preistoria fino circa al 1000 dc. Affascinante è la sala delle rune, che riporta diversi sassoni con sopra incise le rune, appunto. Si prosegue poi con armi, monili, imbarcazioni, spaccati e ricostruzioni di villaggi e via dicendo. Al primo piano, invece, c’è la sezione dedicata al medioevo-rinascimento. E’ un po’ meno suggestiva, anche perché si vede decisamente il processo di cristianizzazione e quindi la “normalizzazione” di molte forme d’arte a canoni piuttosto comuni. Rune e divinità particolari sono ormai scomparse, mentre spadroneggiano pale di altare, statue di santi e cose del genere.
Dopo aver visitato anche questa sezione (siamo già dentro al museo almeno da un paio d’ore) ci dedichiamo al pranzo. Al caffè del museo prendiamo dei panini. Anche qui, sul tavolino, c’è la candela accesa. Infine saliamo al secondo piano per l’ultima visita, quella relativa alla sezione che copre il periodo dal 1600 al 2000. E’ molto ben fatta, un percorso che fa vedere ricostruzioni di stanze e case tipiche di ogni epoca, gli oggetti della vita quotidiana della gente comune, la storia dei grandi personaggi, passando attraverso i vari sovrani, l’occupazione nazista della seconda guerra mondiale, il boom tecnologico e via dicendo. Insomma, un bel modo per gustarsi un concentrato di 400 anni di storia, pure interattivo, perché ci sono juke-box dai quali scegliere canzoni dell’epoca, televisioni che mostrano vecchi telegiornali e cose del genere.
Terminata la visita sono le 3 del pomeriggio. Vicinissimo a noi c’è Christiansborg, la cui storia parte dal lontano 1167, quando fu eretta la prima fortezza del vescovo guerriero Absalon (in pratica il fondatore di Cobnhavn, ovvero il “porto dei mercanti”) poi distrutta, a cui seguì un castello demolito nel 1732, un altro maniero distrutto da un incendio nel 1794 e infine l’attuale costruzione, del 1803. Sarà che ormai sta diventando buio (e sono appena le 15:30…) ma la pietra grigia di Christiansborg mi mette un po’ di tristezza e di tetraggine. Un tocco di allegria, in questo contesto, è fornito dalle cabine delle guardie, minuscole guardiole rosse di legno con la porticina ad arco e i forellini a forma di cuore sui lati. Gli stessi cuoricini compaiono anche sulle monete danesi. La foto è quasi d’obbligo.
Proseguiamo per il palazzo della Borsa, col suo pinnacolone fatto di quattro code di drago che s’intrecciano salendo verso il cielo. Tutti questi posti mi solleticano il dito allo scatto fotografico, ma c’è talmente poca luce e uno strano cielo rosa scuro che desisto in molte occasioni.
E’ quasi buio pesto (e sono le quattro del pomeriggio) quando approdiamo al giardino della biblioteca reale, e, poco più in là, al cosiddetto Diamante Nero, una costruzione tutta di vetro che si congiunge con un ponte vetrato all’antica biblioteca, posta dall’altra parte della strada.
Il connubio antico -moderno non stona, per i miei gusti. Entriamo nel diamante, mettiamo le nostre cose nei soliti armadietti e andiamo a visitare la biblioteca.
Le sale dei libri antichi, ovviamente, non sono accessibili, ma anche solo la parte riservata a funzioni vere e proprie di biblioteca moderna è carina, soprattutto la sala di legno con le abat-joure verdi a campanella. Sembra quasi di essere nel castello di Hogwart di Herry Potter! Dopo un breve giretto torniamo al piano terra, dove c’è una libreria. Guardando un libro in inglese che parla dell’Italia trovo la traduzione di “penne all’arrabbiata: “angry pasta”! Infine usciamo. C’è un bello spettacolo notturno (notturno si fa per dire, sono le 5 ma è buio pesto) offerto dal lungo fiume fatto di palazzi di vetro illuminati sull’altra sponda, opposta a noi, e da un grosso ponte sullo sfondo. Andiamo a piedi fino al grosso viale che ci conduce, alla fine, di nuovo, al municipio (però stavolta ci arriviamo da dietro).
Note di colore: oggi, camminando, ho guardato molto le persone che incontravo per strada. Togliendo l’indubbia percentuale di turisti, direi che comunque il classico stereotipo della danese alta e bionda non ha avuto molto riscontro. Ok, di alte e bionde ce ne sono più che in Italia, ma non mi sembra affatto che siano la maggioranza, anzi. Sarà linvidia? Periodicamente, mentre camminiamo, si sentono boati e ciocchi. Questi danesi devono proprio essere amanti dei petardi! Dal municipio prendiamo Vesterbrogade per tornare all’hotel. Ci fermiamo al supermercato vicino. Da fuori sembra piccoletto, tipo minimarket, invece si rivela piuttosto grandicello. Furo cerca una bottiglietta d’acqua, ma ci perdiamo in mezzo a corsie e corsie di alcolici. Ma quanto bevono, questi danesi??? Ci sono anche molti prodotti di pesce, sia freschi, al bancone, che inscatolati. Troviamo due misere scaffalature di acqua proprio alla fine del giro, in realtà vicino alle casse. Vorrei proprio sapere il tasso di alcolismo di questo paese! Infine verso le 6:15 p.M. Siamo in camera. Torniamo fuori verso le 7:40 per la cena.
Ci avventuriamo un po’ più in là lungo Vesterbrogade, in direzione opposta a Tivoli, e approdiamo al Vagabondo’s, non trovando ristoranti tipici di cucina danese.
Ordino un piatto di pasta ma mi arriva una terrina intera (proprio una terrina, di quelle di terracotta o ceramica dove noi mettiamo l’insalata, una cosa abnorme!) di una sottospecie di tagliatelle cotte sfatte. Non è proprio il massimo, diciamocelo, e le dimensioni sono proibitive, per il mio stomaco. Io un piatto così, se mi piacesse, lo mangerei in quattro pasti! Gli altri, invece, sono soddisfatti. Marco ha ordinato delle lasagne, la Cri un’insalata di pollo, Furo anche lui la pasta, ma diversa dalla mia. Però il posto è molto carino, tutto arredato in legno scuro, con l’immancabile candelina accesa su ogni tavolo. Di fianco a noi ci sono due strani soggetti, un uomo e una donna entrambi zoppi (lei non ha un’espressione particolarmente intelligente), che non fanno altro che bere, fumare e tossire come due tisici per tutto il tempo. Al ritorno ci coglie una leggera pioggerellina. Siamo in hotel per le 11:30, piuttosto stanchini.
Venerdì 31: dopo la consueta, pantagruelica colazione, chiediamo alla reception informazioni per raggiungere la Sirenetta, ovvero la “Lille Havfrue”, detta anche Marmaid. La signorina, molto gentilmente, ci dà una mappa della città, e ci dice che bisogna prendere l’autobus 26. Arrivati alla Radhuspladsen sotto un cielo grigio uniforme attendiamo l’autobus e chiediamo conferma sulla destinazione. L’autista è molto gentile e parla un inglese impeccabile, come tutti i danesi, del resto. Dice che ci indicherà lui la fermata. Anche l’autobus è molto carino. C’è musica, a bordo, e pure opuscoli con informazioni sulla città che i viaggiatori possono prendere gratuitamente. I biglietti si fanno a bordo, e costano 17 corone a testa. Scendiamo sotto indicazione, appunto, dell’autista, ritrovandoci nella zona del porto industriale. Costeggiamo il canalone stando sul lato che ospita un piccolo porto turistico di barche e la passeggiata che porta alla Sirenetta. Sull’altro lato, invece, ci sono ciminiere, capannoni e quattro impianti eolici, di cui uno fermo. Recita la guida “…Copenaghen è celebre in tutto i mondo per un misero pesce innamorato che siede accasciato su uno scoglio di fronte al porto industriale. Una delle sculture più sopravvalutate al mondo”. In effetti questa Sirenetta non è un granchè, soprattutto per il contesto in cui si trova, con le ciminiere a farle da sfondo. Però c’è la coda di turisti per fotografarla, e per farsi fotografare vicino a lei.
Superata la Sirenetta la passeggiata continua fino alla fontana senz’acqua del Gefion, imponente e bella pure a secco, prospiciente la chiesa di Sant Alban, che fa un bellissimo riflesso sull’acqua. Da qui si entra poi nel Kastellet, zona militare aperta al pubblico con ordinate casette rosse dai tetti spioventi. Mentre la visitiamo un paio di soldati bardati di fucile fa la ronda davanti ad un edificio con uno strano passo marziale.
Tutta questa zona è attorniata da mura a forma di stella, una sorta di terrapieno erboso con alla sommità alberi e un sentierino disseminato di panchine. Incontriamo diverse persone che fanno jogging. Dopo aver fatto quasi tutto il giro delle mura, che sono pure contornate da un ampio fossato, lasciamo il Kastellet e c’incamminiamo verso la Marmor Kirke, che ha un cupolone tondo molto simile a quello di San Pietro a Roma. All’esterno, poi, ci sono molte statue di personaggi famosi della storia danese. Proprio di fronte all’ingresso principale della chiesa c’è invece Amalienborg, un insieme di quattro edifici barocchi disposti a formare una bella piazzetta. In uno dei quattro palazzi vive l’attuale regina. Soldati col cappellone nero, stile guardie inglesi della regina, stanno facendo un complesso cerimoniere (forse il cambio della guardia) che si compone di un misto di marce tra un palazzo e l’altro, giravolte varie coi fucili, intermezzi musicali della banda e ordini urlati ovviamente in danese. Per un po’ è anche pittoresco, da vedere, però dopo 10 minuti diventa decisamente ripetitivo. Lasciamo Amalienborg e ci avventuriamo verso Rosenborg slot. Ci riposiamo un attimino presso il parco vicino, a due passi da una fontana asciutta con tanto di statua centrale caduta per terra, poi andiamo all’ingresso del castello, che però è chiuso. Il cartello dice che riaprirà il 2 Gennaio, per cui ci riserviamo di tornare dopodomani. La guida dice che Rosenborg è imperdibile, e noi, appunto, non ce lo vogliamo perdere.
Così ci incamminiamo in Ostervolgade, svoltiamo in Gothersgade e poi a destra in Landemarket. Ci appare in breve la Rundetarn, ovvero la torre rotonda, alta 35 metri, costruita nel 1642 e originariamente usata come osservatorio astronomico. L’interno è spoglio ma originale, come struttura: un unico camminamento a spirale volteggia infatti fino alla sommità. Sbucando all’esterno, in cima, si ha una bella veduta di Copenhagen e dei suoi tanti pinnacoli: si vedono la torre del municipio, la guglia con le code di drago della Borsa, la Vor Frelsers Kirke e molto altro.
Ridiscesi ci incamminiamo sulla Kobmagergade, una via molto carina, ma ci fermiamo quasi subito perchè io muoio dalla voglia di assaggiare uno degli hot-dog dei baracchini motorizzati. Ne compro uno praticamente proprio sotto la Rundetran. Me lo serve un signore silenzioso e un po’ spiccio, che lo farcisce con ketchup, senape e una manciata di quelle che credo essere briciole di patatine fritte e scopro invece essere pezzetti di cipolla fritta e impanata. Al primo gustoso morso sento un’ondata salirmi su per il naso e farmi lacrimare gli occhi. La senape è un tantinello forte! Però l’hotdog è molto buono. Percorrendo la Kobmagergade c’imbattiamo anche in Erotica, il museo sulla pornografia. Io sarei curiosa di vedere anche quello (a quanto pare i danesi sono un popolo molto disinibito), ma evidentemente sono l’unica, e così mi tengo la mia curiosità. Infine arriviamo all’Amagertorv, la piazza con la bella fontana delle cicogne dove la Kobmagergade incontra lo Strǿget, un insieme di 5 vie consecutive, tutte zona pedonale, piene di negozi. In pratica la zona più “in” dello shopping copenaghesco.
In cielo c’è un po’ d’azzurro, e la luce che illumina i palazzi è bellissima, anche se dura poco. L’atmosfera che si respira è piacevole: via vai di turisti e persone del posto, chiacchiericcio, negozi aperti. Svoltiamo per Nygade e io e Marco ci fermiamo a prendere un bicchiere di glǿgg, bevanda tipica danese. Ce lo servono nel seguente modo: mettono prima nel bicchiere una manciata di uvetta, pinoli e trito di mandorle, poi scoperchiano un calderone fumante e versano una mestolata del suo contenuto nel bicchiere. E’ un vino dolce, speziato, sicuramente con la cannella. Assomiglia al vin brulè. Proseguendo ancora oltre troviamo un negozio che vende moltissimi Lego (che del resto è danese) e infine il primo negozio di souvenir trovato in 3 giorni, gestito da orientali.
Note di colore: mentre stavo bevendo il glǿgg, per strada, si fermano due tizi un po’ strani a chiedere dei soldi. Do loro qualche decina di corone e uno tira fuori dalla tasca una moneta e mi dice “Russian souvenir” Mi ha dato un rublo! Erano due russi. Ancora non ho visto un solo mendicante, per le vie di Copenhagen, però ho notato alcune persone, soprattutto anziane donne dai tratti orientali, che rovistano nei cestini portandosi dietro delle borse.
Infine ci ritroviamo per l’ennesima volta nella piazza del municipio (ogni città ha il classico posto nel quale il turista va sempre a capitare) e da lì torniamo in albergo. Alle 8 siamo di nuovo fuori. I ristoranti sotto l’albergo sono tutti pieni. C’è posto solo al Vagabondo’s, per cui torniamo lì. Il pub è quasi deserto, ma ci sono i nostri due amici tisici della sera precedente. Stavolta, col mangiare, non mi fregano: prendo le lasagne, che sono decisamente buone (anche se non sono certo le nostre lasagne emiliane, ma una sorta di gradevole pasticcio con carne, pomodoro e formaggio). Ridendo e scherzando (e mangiando) arrivano le 11:20. Questa è la sera di Capodanno. Fin dalle 10 si sono cominciati a sentire dei gran botti, veramente forti, che rimbombavano per tutto il quartiere (del resto nelle vetrine di alcuni negozi si vedono in vendita di quei razzi!). Poi per la strada sono già passate diverse ambulanze e due camion dei vigili del fuoco, oltre alle macchine delle guardie private e al solito via vai di taxi. In effetti a Copenaghen, per quello che abbiamo visto noi, non c’è molto traffico, ma almeno una macchina su due è un taxi. Verso le 11:30 decidiamo di muoverci. Fuori il susseguirsi dei botti comincia a diventare impressionante, tanto che la Cri e Furo tornano subito in albergo. Io e Marco, invece, da bravi spavaldi raggiungiamo il limitare della Radhuspladsen. Sembra di essere a Beirut. La piazza è piena di gente, e continuano ad arrivare persone da tutte le direzioni. Ci sono dei ciocchi impressionanti. Piccoli fuochi d’artificio partono da due o tre punti; il problema è che alcuni vengono sparati e scoppiano ad altezza d’uomo. E’ un susseguirsi continuo e ininterrotto di scoppi di ogni entità, dai botti, alle girandole, ai razzetti e chi più ne ha più ne metta. Qualche deficiente, dal marciapiede opposto, lancia dei petardi anche in mezzo alla strada, tra le macchine in coda al semaforo. Un paio vengono colpite. Nonostante il clima di festa non ci sentiamo per niente sicuri. Tutti quei botti mi lasciano un po’ perplessa, e tengo d’occhio quelli che sparano i razzi dall’altra parte della strada. Ho soprattutto paura che qualcosa mi scoppi vicino. Così appena scocca la mezzanotte ci diamo un bacio beneaugurante, guardiamo ancora per qualche secondo i fuochi e poi filiamo di corsa in albergo. Se mi avessero bendato gli occhi mi sarebbe sembrato di essere in mezzo ad un bombardamento. Continuo a scattare ad ogni boato che si sente. Passiamo davanti ad un pub dove in quattro sono appena usciti per una sana e allegra scazzottata del primo dell’anno (due buttafuori e due ragazzi chiaramente ubriachi), mentre più avanti vediamo un tipo disteso per terra, evidentemente ubriaco fradicio, che viene aiutato a mettersi in piedi da un amico. Appena guadagna la posizione verticale, il suo stomaco guadagna lo stato di svuotatezza, nel senso che il tipo si appoggia al muro e fa una sana vomitata. Classico. Noi intanto camminiamo veloci tra botti di ogni tipo, anche innocui, di papà che piazzano le cassettine di razzetti sul marciapiedi e danno loro fuoco per la gioia dei figli.
Appena varchiamo la soglia dell’albergo mi sento finalmente al sicuro. Dopo esserci cambiati andiamo dalla Cri e Furo, ci facciamo gli auguri e giochiamo a carte fino alle 3. Non passa minuto in cui non si sentano botti. Mai vista una cosa del genere (più che altro mai sentita!). Note di colore: mi sembra di aver capito che nella piazza del municipio fosse stata organizzata la serata dei fuochi dal comune, ma sia stata annullata per via del lutto per lo tsunami. Ci ha pensato la gente comune a portare i botti (anche troppo!) Sabato 1 Gennaio: essendo andati a letto tardi, ieri, ci concediamo di fare colazione verso le 10. Fuori, incredibilmente, c’è il cielo azzurro (prima volta che lo vediamo, eccezion fatta per quello squarcetto momentaneo di ieri). Erroneamente penso che, essendoci il sole, sarà più caldo, così, invece del pastrano lungo, mi metto la giacca a vento che arriva alla vita.
Fuori si vedono i resti del capodanno, pezzi di botti qua e là, qualche pozza di vomito, qualche bottiglia rotta. Vicino al nostro albergo c’è una vetrina del negozio di orologi con una bella ragnatela di crepe attorno al punto in cui l’hanno colpita, presumibilmente col grosso cubetto di porfido che sta per terra proprio lì davanti, con aria per nulla innocente. Vicino alla Radhuspladsen un ragazzo ubriaco dorme per terra, accanto ad un negozio chiuso.
Anche lo Strǿget reca i segni del Capodanno, ma gli spazzini sono già all’opera. Tutto sommato, almeno per quel che si vede adesso, sembra stata una notte di San Silvestro abbastanza civile.
Comunque lo Strǿget è piuttosto deserto, a parte qualche caffè e qualche chiosco aperti.
I negozi sono tutti chiusi, e non c’è la gente che c’era ieri. Più avanti, mentre camminiamo lungo la via per i fatti nostri, un tipo che ci viene incontro ci squadra, ci riconosce per italiani e tira fuori una sequela di insulti. Comincia con un classico “Italiani str…Beep, vaff…Beep”, per terminare con un gentilissimo “Siete tutti dei pezzi di m…Beep”. Non ha sbagliato una virgola nè nel lessico nè nella sintassi! Ovviamente lasciamo perdere e proseguiamo per la nostra strada, anche perchè è chiaro che il tipo sia quantomeno un po’ brillo.
Ritroviamo la piazza con la fontana delle cicogne. Il cielo si è già coperto, e addirittura c’è un po’ di nebbia a coprire i campanili più alti delle chiese.
Comincia a fare freschetto (siamo qualche grado sotto lo zero).
Proseguiamo lungo lo Strǿget fino alla piazza Kogen Nytorv, e da lì raggiungiamo Nyhavn. E’ davvero un bel posto! Casette tipiche colorate fiancheggiano il canale lungo cui sono ancorate barche per turisti, barche private e pescherecci. Il canale è tagliato a metà da un ponte che si alza per lasciar passare le imbarcazioni. Soprattutto il lato sinistro di Nyhavn è carino. Me lo immagino in estate, colmo di gente, con i caffè coi tavolini all’aperto. Il lato destro, invece, rimane più in ombra.
Fa decisamente freddo! Percorriamo tutto il lato sinistro fino alla banchina, in fondo, poi torniamo indietro e passiamo sul ponte. Proseguiamo quindi sul lato destro e alla fine del canale giriamo a destra in Havnegade. Comincia a salire anche un vento gelido. Ci dirigiamo verso Christiania, dunque superiamo il ponte sull’Inderhavnen e percorriamo Torvegade fino all’incrocio con Prinsessegade. Ormai freddissimo, e c’è ancora quel vento gelido e tagliente. Superiamo la Vor Frelsers Kirke. Il quartiere comincia a sembrare un po’ cadente, o per lo meno trascurato rispetto al resto della città. Infine raggiungiamo Christiania, uno spazio di 41 ettari, ex terreno di caserme ed edifici dell’esercito, dagli anni ’70 sede di una comunità di hyppie e altre persone “alternative”. E’ anche un porto franco per le droghe leggere, che comunque sarebbero proibite, in Danimarca, ma un grosso cartello ammonisce invece di non usare quelle pesanti. Entrando a Christiania non mi sento molto a mio agio. La guida dice che è prassi comune che i turisti vengano avvicinati da persone del posto che spacciano hashish e mariuana, e la cosa non è che mi farebbe molto piacere, anche se immagino che sarebbe del tutto innocua. Non è certo la tana del diavolo, ma un posto colorato con un sacco di murales, baracche adibite a caffè, gente che si scalda le mani su fuochi accesi dentro a bidoni. E’ abbastanza pittoresco ma anche un po’ trasandato. Nel complesso non mi dice un granchè. C’è anche, all’ingresso, una lavagna approssimativa che dice che non si possono fare foto. La guida suggerisce di attenersi strettamente al suggerimento, e così facciamo, anche se un paio di murales avrebbero meritato.
Usciti da Christiania torniamo indietro. Ripercorriamo Prinsessegade e già qui, col freddo, come di solito mi capita, mostro i primi segni di squilibrio mentale. In Torvegade prendiamo l’autobus 2A che ci riporta in Radhuspladsen e qui esco completamente di testa. Sono così infreddolita e stanca che mi sembra di essere ubriaca. Comincio a ridere per delle assurdità, faccio cose senza senso, come imitare un uski che vedo per strada e via dicendo. Si decide così, visto lo stato pietoso in cui verso, di scaldarci e rifocillarci un po’ al Burger King. In effetti col caldo rinsavisco. Ero proprio uscita di testa! Altroché le droghe di Christiania! Note di colore: a Nyhavn c’era un ragazzo che, evidentemente per proteggersi la testa dal freddo o forse i capelli dall’umidità, girava con una cuffia da doccia, di quelle trasparenti, con l’elastico.
Al Burger King, nel tavolo vicino a noi sono arrivate due ragazze che sembravano veramente fatte di droga. Una delle due aveva delle paurose sbandate sui tacchi, mentre camminava. Ogni volta che la vedevo inforcare le scale me la immaginavo a rotoli! Mi hanno fatto una bruttissima impressione, e più che altro anche molta tristezza.
Dopo esserci scaldati e aver mangiato un po’ usciamo di nuovo. Sono circa le 3 del pomeriggio. Decidiamo di fare un giretto nelle strade della parte opposta al municipio, visto che in quella direzione non ci siamo ancora avventurati. Raggiungiamo così Ǿrsted Park, un bel parco con tanto di laghetto. Mentre percorriamo i sentierini del parco si sente un botto stile bomba, tanto forte che facciamo un salto per lo spavento. Tutte le anatre del lago si alzano in volo starnazzando. Qualche secondo dopo del fumo si alza dalla strada. Oh, ma questi danesi ce l’hanno proprio coi botti, eh?! Porca miseria! E che botti! Infine torniamo all’albergo. Sono le 4. Non so quanti chilometri a piedi abbiamo fatto, oggi! Ci riposiamo un bel po’ e verso le otto usciamo per la cena. Questa volta ci dirigiamo verso la Radhuspladsen, per mangiare, e approdiamo in un locale il cui motto è “Eat all you can” (mangia tutto quello che riesci). In pratica con 69 corone ( circa 9 euro) puoi servirti al buffet di pizza e insalate fin quanto vuoi. Finalmente un po’ di verdura! Inoltre il condimento è una squisita salsina bianca. Non ho idea di cosa sia, però è proprio buona! Nonostante sia un posto alla buona anche qui c’è la candelina su ogni tavolo, e, anzi, abbiamo anche una stella di Natale. Attorno a noi ci sono molti italiani. Una coppia, alla fine della cena, chiede al cameriere, un ragazzo giovane, dove si può trovare hashish, e dalle sue indicazioni deduco che li abbia indirizzati a Christiania.
Noi, invece, ce ne torniamo in albergo, fermandoci un attimo al Seven Eleven a comprare qualche bibita.
Domenica 2 Gennaio: questa volta, a colazione, decido di adeguarmi agli usi e costumi del luogo e mi faccio un sostanzioso panino con salame e formaggio all’aglio, molto buono, in verità.
Fuori il cielo è sempre brutto, e comunque oggi non mi fregano: mi rimetto il pastrano lungo, che tiene decisamente più caldo della giacca a vento.
Verso le 10 usciamo, e ovviamente raggiungiamo l’ormai arcinota Radhuspladsen. Prendiamo l’autobus 6A e scendiamo a Norreport Station, quasi davanti ad un negozio che si chiama “Mama shop”. Da lì raggiungiamo Rosenborg, che oggi è aperto dalle 11 alle 15. Alla biglietteria facciamo due tickets separati, uno per la visita al castello e uno (20 corone) per poter scattare foto. Intanto fuori c’è ancora quel simpatico vento gelido di ieri. Le sale di Rosenborg sono interessanti (dai ritratti appesi alle pareti si direbbe che i sovrani danesi siano stati un tantinello bruttini, a giudicare da Cristiano IV e V, Federico VII e compagnia bella). Ma veramente stupefacenti sono le sale dei gioielli della corona, con abbacinanti armi, collane, ornamenti, pendagli, corone d’oro e di pietre preziose. Uno scintillio da lustrarsi gli occhi. La nostra visita termina dopo circa un’ora e mezzo. Fuori c’è sempre vento, le nuvole si rincorrono in cielo a velocità pazzesca. Ripercorriamo la stessa strada di due giorni fa, ovvero da Ostervolgade giriamo in Gothersgade e da lì in Landemarket, raggiungiamo la Rundetarn e svoltiamo a sinistra in Kobmagergade. Lì è aperto il museo della Posta, al cui shop compriamo finalmente i francobolli. Marco mi regala anche una bella penna da scrivere, proprio una piuma col pennino, come si usava una volta.
Infine raggiungiamo ancora lo Strǿget. Oggi sono aperti anche due negozi chiamati “Danish Souvenirs” (questi sono gestiti da danesi). Hanno dei prezzi decisamente esosi, ma in effetti vendono anche delle cose molto carine. Io e Marco prendiamo due stampe identiche di Nyhavn, senza accorgerci che sono le ultime. Poco dopo arriva un ragazzo milanese che chiama la commessa e puntando il dito sulla stampa esposta di Nyhavn esclama “I want this stamp!”. Ora, a parte il fatto che dire “I want” è un po’ da villani, “the stamp” in ogni caso è il francobollo, e non la stampa. La commessa lo guarda un po’ perplessa chiedendogli “The stamp?”, poi evidentemente capisce e va a cercarla, dicendogli che purtroppo le ha finite. Io e Marco, coi due rotoli in mano, dietro di lui sogghignamo un po’. E’ incredibile, qua anche il più becero individuo sa parlare perfettamente l’inglese, mentre di norma il classico turista italiano non sa mettere in piedi mezza frase con un attimo di cortesia. Passiamo un bel po’ di tempo nel negozietto, mentre Furo e la Cri decidono di proseguire da soli. Marco compra un bel po’ di cose, poi c’incamminiamo di nuovo, facendo altre soste. Mi fermo in un paio di Seven Eleven (ce n’è più o meno uno ogni duecento metri) per vedere se riesco a trovare un vino tipico per il papà, ma non trovo niente, così io e Marco decidiamo di tornare allo shop del National Museet, che è poco distante. Lì avevamo visto in vendita una bevanda tipica in una bella bottiglia rivestita di ceramica.
Infatti la ritroviamo. Poiché il foglietto illustrativo è scritto solo in danese vado al bancone a chiedere informazioni. La commessa, gentilissima, tira fuori una bottiglia sfusa e due bicchieri di plastica e ce la fa assaggiare. Ci chiede se siamo francesi (e daie, anche in Portogallo ci scambiavano sempre per francesi) e ci dice che assomiglia all’idromele, pur essendo questa una bevanda tipica vichinga.
Siccome ci piace ne prendiamo una bottiglia a testa.
Usciti dal National Museet passiamo dietro al Tivoli (dalle cancellate si vedono le montagne russe e altre giostre). C’è tanto di quel vento che mi vola via il cappello! Infine raggiungiamo l’albergo.
Dopo un riposino, le cartoline, un po’ di sana tv internazionale e una partitina a carte, per le 8 siamo fuori. Decidiamo di andare ancora al Vagabondo’s, e questa volta prendo le pennette ai quattro formaggi, che l’altro ieri avevo assaggiato dalla Cri. I nostri due amici tisici non ci sono, ma arrivano più tardi piazzandosi al solito posto. Tossiscono di meno, però, oggi. Vicino a noi, invece, è seduto un signore tutto solo che ha ordinato una bottiglia di vino rosso e sorseggia il suo calice guardando fuori dalla vetrata. Dà un’idea di tristezza. Chissà che gli è successo? La Cri non sta tanto bene, per cui torna in albergo prima, da sola. Io, invece, mi addormento sulla spalla di Marco. Verso le 11 usciamo. Ogni tanto si sentono ancora i botti. Furo si ferma a cercare francobolli al Seven Eleven, poi torniamo in albergo. Finito di preparare la valigia è ormai passata la mezzanotte, per cui si va a nanna.
Note di colore: mentre eravamo a Rosenborg è entrata la prima comitiva di turisti russi che io abbia mai visto! Lunedì 3 Gennaio: oggi dobbiamo essere abbastanza mattinieri, considerando che l’aereo parte alle 10:40 e che quindi bisogna essere al check-in all’aeroporto almeno per le 9.
Questa volta faccio una colazione leggera, poi finiamo le valigie e andiamo a piedi fino alla stazione centrale. Il cielo è azzurro.
Il treno come al solito è puntualissimo, e raggiungiamo l’aeroporto in una decina di minuti.
Dopo check-in e metal detector raggiungiamo la zona dei negozi e del duty free. Compro un paio di ricordini e poi c’imbarchiamo. Il volo è tranquillo fino a Bologna, dove ci aspettano i genitori di Marco per portarci a casa.
___________ E’ stato, come sempre, un gran bel viaggio. Copenhagen è molto bella, e immagino che in estate lo possa essere ancora di più. Mentre passeggiavo per le vie, o mentre eravamo nei parchi, o a Nyhavn, me la figuravo con la luce calda del sole di luglio, con molta più gente a passeggio, i caffè coi tavolini gremiti all’aperto. Di certo i colori delle case, l’acqua dei canali, il cielo risalteranno molto di più, ma anche in inverno la città si fa comunque apprezzare molto. Peccato solo per gli orari dei musei e dei monumenti, abbastanza ristretti. Chiude pressochè tutto attorno alle 15-15:30 (almeno in inverno) e questo restringe di molto le possibilità del turista. In ogni caso ovviamente 4 giorni non sono bastati per vedere tutto. Ci teniamo di scorta, per la prossima visita alla capitale danese, alcuni musei, Tivoli (che in inverno è chiuso), il giro in battello dei canali e la gita a Malmo, in Svezia, attraverso il ponte sull’Oresund. Credevo anche che fosse molto più fredda e molto più cara. Invece non siamo mai andati molto sotto lo zero, e quando non c’era il vento si stava quasi meglio che in Italia (maglietta, camicia e maglione di lana, oltre alla giacca a vento, sono più che sufficienti). Nemmeno col mangiare ci hanno pelato: con una decina di euro, accontentandosi di posti alla buona, si mangiava dignitosamente. Peccato solo che non siamo riusciti a trovare dei ristorantini tipici. Mi sarebbe piaciuto assaggiare la cucina locale.