Uomini, Dei et Natura

Mercoledì 23 marzo 2005. Si parte ! Dopo 10h di viaggio giungiamo nella capitale da dove riprendiamo un volo per la città di Mérida (Yucatan). Usciti dall'aeroporto il caldo è soffocante e l'umidità insopportabile. Affittiamo una macchina e filiamo dritti a cercare refrigerio e riposo nell'Hotel prenotato su Internet. Giovedì 24...
uomini, dei et natura
Partenza il: 23/03/2005
Ritorno il: 31/03/2005
Viaggiatori: in coppia
Spesa: 2000 €
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Mercoledì 23 marzo 2005.

Si parte ! Dopo 10h di viaggio giungiamo nella capitale da dove riprendiamo un volo per la città di Mérida (Yucatan). Usciti dall’aeroporto il caldo è soffocante e l’umidità insopportabile. Affittiamo una macchina e filiamo dritti a cercare refrigerio e riposo nell’Hotel prenotato su Internet.

Giovedì 24 marzo.

Giretto per il centro di Mérida e qualche acquisto in vista del lungo viaggio che ci aspetta. Sono solo le 10h del mattino e la temperatura è già di 35°C ! Prendiamo la macchina e con l’aria condizionata a stecca ci dirigiamo a sud verso i siti archeologici di Uxmal e Kaba, che raggiungiamo a mezzogiorno sotto un sole a piombo e 42°C all’ombra !!! Purtroppo non abbiamo molto tempo a disposizione, quindi decidiamo di visitare immediatamente Uxmal.

Le temperature proibitive e le iguane a spasso fra le rovine avrebbero dovuto insospettirci, invece proseguiamo tranquilli la nostra visita col fiato sempre più corto e la testa che gira.

Da dementi l’aver dimenticato la bussola sulla sommità di una piramide.

Da clinica psichiatrica l’aver corso sino in vetta per recuperarla… Il sito, costituito da una piramide colossale ed un insieme architettonico di edifici sacri veramente originale, ha un’orientazione di 9°Est – Chi mi conosce bene sa cosa fare di questa cifra…

I gradini sono ripidissimi. Facili e faticosi da salire. Meno, molto meno, facili da scendere… Terminata la visita, ci si lascia prendere da una voglia di granita fresca, acqua ghiacciata e magari un’insalata, visto che sono già le 13h30 e non abbiamo ancora mangiato. Tutti i locali sono equipaggiati di aria condizionata e in meno che non si dica finiamo col beccarci entrambi una bella bronchite ! Fortuna che la mazzata arriva in serata ed abbiamo ancora il tempo di visitare Kaba. Meno famoso della vicina Uxmal, questo sito è molto interessante per la presenza di una sorta di “arco di trionfo” in stile maya (sezione trapezoidale).

In serata giungiamo a Campeche, nello stato omonimo, giusto in tempo per coricarsi con la febbre a 40… Venerdì 25 marzo.

Dopo una notte quasi insonne, il risveglio è brutale e la febbre ancora ben alta (38°C) ! La temperatura esterna, dello stesso tenore, non è certo d’aiuto… Il dottore, giunto in urgenza all’hotel, ci prescrive una decina di medicine ciascuno e ci consiglia di riposare.

Riposeremo sì e no un’oretta.

Poi usciamo, prendiamo la macchina e filiamo verso sud. Abbiamo già perso mezza giornata che finirà coll’incidere sul nostro itinerario originale, quindi meglio non perdere altro tempo prezioso.

La strada è lunga e costeggia l’Atlantico. Fa un caldo infernale ed è meglio non fermarsi mai, pena l’arrostimento immediato ! Facciamo uno sgarro alla regola quando l’attrazione del mare diventa troppo forte. Ancora febbricitanti e con testa che gira, ci incamminiamo sulla sabbia rovente e posiamo le nostre membra nelle acque… tiepide ! Facciamo come i messicani : entriamo vestiti.

Due delfini si avvicinano a riva saltellando qua e là, poi si allontanano e noi facciamo altrettanto in direzione opposta.

Qualche chilometro e siamo nello Stato del Tabasco. Alla frontiera i militari sono dotati di mitraglia e gabbiotti con sacchi di sabbia: è un’immagine d’altri tempi che ci fa sorridere.

Ma il sorriso era già tornato poco prima quando alla vegetazione brulla e secca dove le iguane la fanno da padrone, si era via via sostituita una vegetazione rigogliosa ed un suolo argilloso ricco di acquitrini chiazzati dei colori degli aironi e d’altri uccelli mai visti prima.

Il passaggio è netto, tanto nel panorama che nella situazione climatica: si passa da un’umidità di 30-35% ad una di 60-70% !!! Unita al caldo che non accenna a scendere, è come un abbraccio mortale… Siamo quasi arrivati a Villahermosa, capitale del Tabasco, dove si mangia veramente bene : su tutto l’insalata di pesce-alligatore ed il robalo alla piastra (altro pesce, meno truce, della regione).

L’albergo che ci viene consigliato è enorme. Un 5 stelle che non potremmo mai permetterci qui in Europa. Sinceramente ci sentiamo molto a disagio: serviti, riveriti e con situazioni che sfiorano il ridicolo… Sabato 26 marzo.

La mattinata la dedichiamo alla visita del Parco di La Venta, dove enigmatiche sculture Olmeche si alternano ad animali selvatici rinchiusi in ampie gabbie di uno zoo. E’ la prima e l’ultima volta che incontreremo leopardi, gattopardi, ocelotti e felini oramai in via d’estinzione. Il perché è presto detto. Infatti, il circuito si chiude in un passaggio obbligato, dove il visitatore è costretto a passare davanti ad un muro. Qui la propria immagine si riflette su uno specchio nascosto che la rimanda all’interno di una gabbia.

Una targhetta commenta: “Il predatore più feroce del pianeta”… Ripartiamo verso sud, verso lo stato del Chiapas del Subcommandante Marcos. E’ lo stato più povero del Messico, ma pure quello più integro dal punto di vista ecologico. Via via che ci allontaniamo dal Tabasco la vegetazione prende il sopravvento e le strade diventano dei sentieri a mala pena carrozzabili.

Dopo qualche ora di “rally” eccoci a Salto de Agua, un villaggio perso nelle verdi colline del Chiapas. Qui, a un centinaio di chilometri dal mare, mangiamo un insalata di polpo e gamberetti che non ho mai mangiato neppure nella mia amatissima Genova. Dopo la pausa pranzo si riparte sbagliando strada, ma con l’aiuto di amabilissimi indios ci rimettiamo sulla buona pista: per di là che è “todo pavimientato hasta el fondo !”.

Pavimientato (asfaltato) è pavimientato, anzi, è perfino meglio del tratto precedente. Tuttavia, la strada s’inerpica sulle pendici di monti perduti nella nebbia dove gli unici villaggi incrociati sono popolati di sparute persone che la calura del pomeriggio traveste da fantasmi. E’ un panorama triste in cui non si distinguono più i contorni delle cose, vuoi per il caldo, vuoi per il vento che solleva polvere ovunque.

Raggiunta la statale principale ci aspetta ancora una quarantina di chilometri prima di arrivare alla nostra meta: Agua Azul.

Sono i chilometri più lunghi che ci sia stato dato di fare. Ogni 500m un topes – dossi artificiali costruiti per ridurre la velocità delle auto. In Messico ne sono piene le città ed anche qualche strada provinciale. In realtà, ce ne sarebbero molti di meno, solo che gli indios ne hanno costruiti un gran numero con l’argilla. Lo scopo è semplice: obbligare le vetture a rallentare e assalirle per vendere frutta, succhi di frutta, bibite, arachidi, ecc.

Siamo ancor più a disagio che al Grand Hotel. Vorremmo poter soddisfare tutti, ma si finisce col non soddisfare nessuno: né loro, né noi… E’ una situazione difficile da vivere: la gente sbuca dalla foresta ed i bambini ti assalgono non appena vedono un pacchetto di biscotti. Ne dai 4 ai primi, 4 ai secondi, e così via sino a che finisci il pacchetto. Ma non hai finito i bambini… Ancora due curve, ancora due jeep cariche di polizia, ancora una coda di 10minuti ed eccoci ad Agua Azul. Persa nel Chiapas, questa cascata di acque azzurre come il cielo è meta di turisti provenienti da tutte le parti del mondo. Se ne sta lì, a pochissimi metri da un popolo indios che ne richiede il possesso, eppure i soli indios che vi siano ammessi, sono quelli che vendono ammennicoli vari per turisti distratti.

Un vero peccato, perché il posto è bellissimo e le acque veramente rinfrescanti.

Facciamo marcia indietro dato che stasera bisogna essere a Palenque e viaggiare di notte nel Chiapas è sconsigliato. La cosa divertente è che, siccome è già tardi, gli indios sono rientrati, e con loro sono scomparsi anche i topes d’argilla, come se li avessero ripiegati e portati via coi loro miseri bagagli.

In serata arriviamo a Palenque: una città enorme, con un caos indescrivibile, traffico, musica, luci e… turisti.

Troviamo un motel, un ristorante e a nanna.

Domenica 27 marzo (PASQUA).

In mattinata ci dirigiamo rapidamente al famosissimo sito archeologico.

Situata sul fianco di una collina, questa vera e propria città maya è circondata da una rigogliosa foresta pluviale che pare in agguato per riprendersi pietra su pietra, in paziente attesa che l’uomo si distragga un attimo… La visita è lunga, ma si è liberi di girare ovunque, quindi non ci sono mai file da fare.

Sarà che non abbiamo fatto colazione, saranno il caldo e l’umidità, oppure la bellezza del luogo, ma dopo essere saliti e discesi da tutte quelle piramidi io mi sento malissimo e devo sdraiarmi per non svenire.

Fa dannatamente caldo ed il sole che ci segue nel nostro periplo per raggiungere la costa est non ce lo fa dimenticare. Oggi dovremo percorrere quasi 500km in mezzo al nulla.

Ritorniamo un istante nel Tabasco dove le grandi proprietà latifondiste si sono appropriate di ogni cm² di queste terre un tempo fertili. Oggi, dopo averle disboscate per l’allevamento, si stanno desertificando e necessitano di ingenti quantità di acqua per poter far crescere l’erba. In effetti questa parte del Messico era costituita in larga parte da acquitrini in cui i maya traevano acqua e sostentamento, ma in cui la civiltà occidentale non ha saputo cavare un ragno dal buco… Sulla strada ci fermiamo a mangiare in un ristorante. Dopo pochi minuti salta l’elettricità ed il solo rumore che si sente distintamente è il cigolare di un’insegna. Carine, mia moglie, ed io ci guardiamo ed entrambi pensiamo alla stessa cosa: sembra di essere nel capolavoro western di “C’era una volta il west”! Ripartiamo sempre verso est e ci inoltriamo nella densa foresta di Rio Bec. Speriamo di poter arrivare in tempo per visitare Balanku, un sito maya scoperto solo nel 1990.

Si alza un vento fortissimo. La strada serpeggia fra altissimi alberi che si piegano fin quasi a toccarne il suolo. E’ impressionante ! Arriviamo a Balanku e… siamo soli ! Il sito è meravigliosamente conservato e poco conosciuto. Il tesoro di questo luogo è uno stucco preservato in ottime condizioni con ancora i suoi colori originali. Il ragazzo che ci segue per aprire il “forziere” sorride di fronte alle nostre facce con le bocche aperte ed i menti a penzoloni. Così, forse per rincuorarci, ci racconta che l’anno scorso hanno scoperto un altro sito in cui gli stucchi sono conservati ancor meglio. Tuttavia, quel sito non è ancora aperto al pubblico. Più che rincuorarci, ci lascia frustrati ! Ma chissà, un giorno… Riprendiamo la macchina. Avevamo udito dei tuoni in lontananza ed una minacciosissima nuvola nera all’orizzonte ci dice che non ci eravamo sbagliati.

Mentre avanziamo verso un orizzonte nero come la pece, alle nostre spalle il cielo è ancora azzurro ed il sole si intrufola fra i rami della densa foresta pluviale dando all’aria un colore giallo-verde ed una luminosità mai vista. Dal bosco esce all’improvviso un tucano che svolazza un istante sulle nostre teste per poi tuffarsi nuovamente nel bosco.

E’ un attimo: la pioggia comincia a cadere come la versassero a secchi. I tergicristalli non servono a nulla, si avanza a passo d’uomo. E meno male, perché gli alberi che prima sfioravano il suolo, adesso vi si sono coricati, sdraiati sulle corsie come giganti addormentati. Per poter avanzare occorre spostarsi sulla corsia opposta o incrociare altri mezzi sulla propria.

Davanti a noi uno dei soliti pick-up in cui viaggiano intere famiglie messicane. Di solito quelli più fortunati si trovano nel cassone esterno dove la velocità dell’auto convoglia tutta l’aria disponibile. Adesso, invece, quegli stessi “fortunati” cercano invano di ripararsi dai fulmini e dalla pioggia incessante sotto un misero telone di plastica.

Arriviamo a Chetumal, sulla costa dei Caraibi, in tarda serata. Decidiamo di evitare questa grande città portuale al confine col Belize, dove si dice che la delinquenza sia ancora molto attiva. Non sappiamo se sia vero o meno, ma preferiamo evitare l’esperienza: siamo stanchi, il viaggio è stato lungo e ricco di emozioni. Meglio appropinquarsi verso la laguna di Bacalar, non prima però di scoprire un topes in mezzo all’autostrada !!! Come la macchina sia rimasta intera ai 110km/h per noi è ancora un mistero… Giunti a Bacalar non c’è verso di trovare un hotel, né la gente sembra sapere dove poterne trovare uno. Ora, dovete immaginare che questo paese è la Portofino del Messico !!! Belin, ci tocca fare mezza riviera prima di trovare un benedetto hotel ! Lunedì 28 marzo (PASQUETTA).

La mattina seguente ci risvegliamo sotto un cielo ancora annuvolato, ma con un’arietta più fresca. La laguna si apre davanti al nostro poggiolo e qualche raggio di sole ci lascia indovinare i 7 colori di cui si fregia.

Colazione e via: un tuffo nelle limpidissime acque dolci del bacino. E’ una meraviglia, pesciolini ovunque, peccato non avere più tempo… Si riparte verso il nord, verso Tulum, l’unica città maya situata sul bordo del mare.

E’ un viaggio noioso, dove non si attraversa alcun villaggio o città, solo foresta, foresta, foresta… All’inizio è bellissimo, poi, via via che si accumulano i chilometri comincia a stufare.

Di Tulum ricorderemo certamente la sua posizione strategica e fiabesca arroccato in cima ad una scogliera. Per il resto, il sito archeologico è pietoso e gestito peggio. Se proprio devo ricordarmi qualcosa di bello, è la mezz’ora passata sulla spiaggia con un bel tuffo nel mar dei Caraibi e la sabbia finissima che ancora, dopo mesi, ritroviamo nelle tasche dei vestiti… Ripartiamo in direzione Coba, altro sito archeologico, ma è tardi ed arriviamo solo per vedere il tramonto sul lago omonimo.

In serata arriviamo a Villadolid la capitale dello stato del Quintana Roo.

E’ una città di passaggio, quindi con pochissimi spiccioli ci becchiamo un hotel di lusso sulla piazza principale di cui ci vergogniamo parecchio, ma che consigliamo sia per le riserve d’acqua gratuite (semmu de Zena) che per l’ottima cucina.

Martedì 29 marzo.

La mattina la passiamo al mercato dove acquistiamo parecchi capi d’abbigliamento indios. Consigliamo anche questo mercato: molto ben rifornito e con prezzi modici.

Ripartiamo verso Chichen-Itza la più grande e meglio conservata città maya, ma non prima di esserci fermati a visitare il Cenote X’keken. I cenotes sono delle voragini circolari formatesi nella piattaforma calcarea di cui è costituita la penisola dello Yucatan. Questi strutture geologiche conservano al fondo delle grandi quantità d’acqua che permettevano ai maya di sopravvivere in queste regioni molto aride. Normalmente il soffitto dei cenotes crolla durante la formazione, tuttavia ne esistono alcuni in cui il soffitto è ancora presente: è il caso del cenote X’keken, per cui vi si penetra all’interno come se si entrasse in una grotta. All’interno, da un foro nel soffitto entra un raggio di sole che illumina le acque chiare del bacino in cui si può nuotare insieme ai pesci gatto.

Visto il tempo passato al mercato, non avremo tempo per farci un bagnetto, quindi usciamo frustrati e ci incamminiamo verso Chichen-Itza.

Le rovine di questa città sono uno spettacolo indescrivibile, vuoi per l’eccellente stato di conservazione in cui sono mantenute, vuoi per l’onirica atmosfera con cui vi abbraccia.

A differenza di Palenque, dove l’antichità degli edifici impregna la pietra e ne esalta la sacralità, qui sembra che la città sia stata abbandonata il giorno prima. I numerosi turisti che vagano in ogni direzione verticale ed orizzontale possono facilmente essere scambiati per abitanti del luogo e dare la strana sensazione di ritrovarsi paracadutati in un’imprecisata piega del tempo.

A Chichen-Itza il sole cade a picco come in tutti gli altri siti che abbiamo visitato. Sarà perché vi abbiamo fatto l’abitudine, sarà perché la nostra attenzione è attratta da qualsiasi rilievo architettonico, ma ci sembra primavera. Anzi è proprio primavera, ma per la prima volta ! In serata ci aspetta l’aereo che ci porterà a Città del Messico, ma non prima d’aver restituito una macchina marchiata in ogni sua parte dai tipici segni dei topes: fortuna che avevamo preso l’assicurazione totale ! L’avventura nello Yucatan è già finita e molte cose restano da vedere, chissà, un giorno… Adesso ci aspettano due giorni nella capitale.

Posta a 2.230m sul livello del mare, la città più grande del mondo si perde all’orizzonte, non se ne distinguono i contorni, non fosse che in lontananza vulcani alti dai 3.000 a 4.000m ne segnano il confine. A queste altezze l’aria è rarefatta ed i venti diventano impetuosi al contatto col suolo. Di conseguenza, l’atterraggio a Città del Messico è sempre un’avventura: stomaci sensibili astenersi !!! Mercoledì 30 marzo.

Saremo fissati, ma anche questa mattina si parte per un sito archeologico. Si tratta di Teotihuacan e per rispetto ai suoi fans non dovrei aggiungere altro… Ma dirò ugualmente qualcosa.

Quando gli spagnoli scoprirono le rovine di Teotihuacan, gli aztechi ne avevano già dimenticato l’esistenza. Per questa ragione, agli spagnoli che ne chiesero il nome risposero: “Teotihuacan” – ovvero “La città dove gli uomini diventano Dei”.

In effetti, il sito, con le sue due gigantesche piramidi, è già visibile a 5km di distanza e ai tempi in cui fu abitata, con i suoi 52km² di superficie dovette ospitare non meno di 200.000 abitanti, insomma è sicuramente stata la più grande città del mondo antico ! Ma è una volta messo piede sulla cosiddetta ‘Via dei morti’ che se ne subisce tutto il fascino.

La via percorre l’intero sito su 6km tagliandolo in due come la lama di un coltello sino ai piedi della Piramide della Luna – L’asse stradale ha un’inclinazione di 12°E (scusate il messaggio in codice). La visita ha inizio solo sugli ultimi 2km, all’altezza di una vecchissima piramide dedicata al dio Quetzalcoatl (il serpente piumato, la stella Venere). Ancora avvolta dai soppalchi degli archeologi, le pareti esterne della piramide sono semplicemente sbalorditive, mettendo in mostra un’eccellente conservazione dei manufatti e dei colori originali ancora in posto.

Ripreso il percorso della ‘Via dei morti’, non si prosegue come lo si aspetterebbe. Infatti, dopo i primi 500m, la strada è sbarrata da un muro di 3m d’altezza ed occorre utilizzare l’apposita scalinata per poterlo superare. Una volta in piedi sul muro, si può notare che dall’altra parte la strada prosegue la sua linea retta per altri 150m per essere nuovamente sbarrata da un secondo muro. Questa situazione di ripete altre due volte prima di giungere ai piedi della Piramide del Sole. In parole povere ci troviamo di fronte a “3 vaste piscine senz’acqua” in cui si deve alternativamente salire e scendere per poter continuare il cammino – Ciascuna “piscina” è munita di un foro situato sempre nell’angolo sud-est del muro sud, il che mi fa pensare che fossero veramente delle piscine…

Giunti ai piedi della Piramide del Sole, ovvero la piramide più alta, ma stranamente situata a lato della ‘Via dei morti’, si coglie immediatamente l’immensità di quest’opera sovrumana che ha probabilmente suggerito il nome della città. Alta 63m e con una di 222×225m, il suo volume è esattamente uguale a quello della ben più famosa Piramide di “Cheope” in Egitto. Se non vi dicessero che è una piramide a 5 piani pensereste ad una montagna, e salire tutti i suoi 242 scalini sino alla vetta è una fatica identica !!! Tornati al suolo si prosegue il cammino sino alla ‘Piazza della Luna’ dove termina la ‘Via dei morti – Inutile dire che tutti questi nomi furono affibbiati dagli spagnoli e che il vero nome di tutte queste vie ed edifici è completamente sconosciuto…

L’edificio più imponente della piazza è senz’altro la Piramide della Luna. Costruita su 4 livelli, ha un’altezza di 50m, tuttavia, poiché il dislivello del terreno fra le due piramidi è di 13m, alla fine entrambe le piramidi culminano alla stessa altezza. Da lassù il panorama contempla la totalità del sito è lascia a bocca aperta (anche per il fiatone accumulato nell’ascesa !!!).

Sempre sulla piazza, altri 3 edifici meritano una visita per i numerosi bassorilievi ed affreschi meravigliosamente ben conservati: il Palazzo di Quetzalcoatl, il Palazzo delle Conchiglie piumate ed il Palazzo dei Giaguari.

Al pomeriggio visita al centro storico della capitale: Cattedrale, Sacrario e Palazzo Nazionale.

Sarà che siamo un po’ cotti, sarà che ci interessa meno il periodo post-coloniale, ma la visita si riduce ad un passaggio fugace arricchito da qualche fotografia, una cena nella via principale della zona alberghiera (Calle Genova !!!) e poi… a nanna ! Giovedì 31 marzo.

In mattinata visita al Museo Antropologico dove si può ammirare il famosissimo calendario azteco, la tomba del Re Pacal (interamente ricostituita nel Museo, poiché a Palenque non si può più visitare), ecc. Ecc.

Nel pomeriggio trasferimento nella città di Toluca, la città più alta del Messico (2.700m), un po’ come dormire in un rifugio sulle alpi ! Venerdì 1 aprile.

Se siamo a Toluca ci sono 2 ragioni.

1) mia moglie dovrà lavorarvi per 2 settimane una volta che io sarò partito ; 2) la città si sviluppa su di un’ampia pianura ai piedi del Nevado de Toluca (4.600m).

La seconda ragione è veramente irresistibile… Così, verso le 9h.30 partiamo con la macchina per raggiungere un rifugio situato a 4.050m. Se fossimo sulle Alpi saremmo in cima al Gran Paradiso eppure lo sterrato è in condizioni eccezionali, persino migliore di alcune strade percorse nello Yucatan !!! La strada prosegue sino ai due laghi che riempiono il cratere di questo grande vulcano. Indovinate i nomi ? Ma certo, il Lago del Sole e quello della Luna ! Noi ci fermiamo prima e, zaino in spalla, incominciamo la nostra scalata. Raggiungiamo il primo colle a 4.200m in condizioni pietose: fiato corto, mal di testa, equilibrio instabile. Ma dopo una sosta riparatrice riprendiamo la salita. Tutto procede bene sino al secondo colle dove comincia una ripida salita su ceneri vulcaniche. Due passi avanti e tre indietro: scalare su una montagna di farina dev’essere più semplice !!! Terminata quest’infausta collina siamo solo a 4.350m d’altitudine con un equilibrio sempre più instabile ed il fiato sempre più corto: sarà l’altezza ? Fortuna che comincia un sentiero che s’inerpica ripido fra numerose guglie di roccia nera da cui rimaniamo ammaliati sino a perdere la cognizione del tempo.

Saliamo lenti, quattro passi ed una sosta. Guardiamo in alto verso una punta che si nasconde ed in silenzio ci diciamo che non ce la faremo mai.

Ma proseguiamo, lenti, un passo dopo l’altro, guglia dopo guglia. La testa gira, il vento è finalmente freddo ed avvolti nei nostri pile ci avviciniamo inesorabilmente alla vetta.

Un tornante ed ecco la croce. Ecco il cratere ed i due laghi blu, scuri come l’oceano, le cui rive sono chiare come il cielo.

E’ un momento magico, unico, indimenticabile, in cui ci abbracciamo e piangiamo come bambini. Ma siamo bambini, lo sono i nostri occhi che, ancora velati dalle lacrime, non smettono di saettare in ogni direzione golosi di immagini che temono di non vedere mai più.

Visto da lassù, il mondo è diverso, non si distinguono più le opere brillanti ma effimere dell’uomo, bensì quelle più modeste ma eterne della natura.

Mangiamo in un silenzio interrotto qua e là da un fuggevole singhiozzo.

Rivestiamo gli zaini e cominciamo la discesa: uno sguardo alla croce, uno sguardo al sentiero.

La discesa è ancora più lunga di quel che ci ricordavamo ed arriviamo alla macchina stremati. Stremati ma felici.

L’omino del rifugio ci accoglie per un saluto e nei nostri occhi velati dalle lacrime può leggere l’emozione che ancora ci pervade. Gli chiedo cosa faccia lassù tutti i giorni da solo: “Sono una guardia del parco del Nevado” – mi risponde.

“Mi raccomando proteggete questo sito per sempre. Nulla è più prezioso”.



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